IDA BARBALINARDO* | Con la prima italiana dell’Owen Wingrave di Benjamin Britten, affidata alla regia di Andrea De Rosa e alla direzione dell’Orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala di Daniel Cohen, il 51° Festival della Valle d’Itria compie una scelta artistica audace e profondamente significativa: in un contesto storico segnato dal riemergere di conflitti, violenze e derive autoritarie, proporre un’opera dichiaratamente pacifista e antimilitarista si configura come un importante gesto politico.
Tale scelta nasce dalla visione della nuova direttrice artistica, Silvia Colasanti, e si inscrive perfettamente nel tema di questa edizione del festival, intitolata Guerre e pace: un programma che, in qualche modo, riflette su questo nostro presente compromesso anche attraverso il Tancredi di Rossini, con i suoi due finali, affrontando il tema bellico attraverso strumenti e codici del tutto differenti.
La rassegna pugliese si fa così luogo di riflessione critica sull’attualità, riaffermando il ruolo dell’arte come spazio in cui coltivare anche l’impegno civile.

Composta tra il 1969 e il 1970 per la BBC, su libretto di Myfanwy Piper, Owen Wingrave è un’opera che, nelle intenzioni del compositore, nasce come risposta alla guerra in Vietnam, portando in scena il rifiuto della violenza come dimostrazione di valore personale e l’affermazione della propria natura contro le perverse convenzioni familiari, sociali e istituzionali.
Owen è un giovane di origini aristocratiche, cresciuto in una famiglia inglese da sempre votata alla carriera militare. Contrariamente alle aspettative, decide di non seguire la tradizione familiare, rimanendo fermo nella sua decisione nonostante le accuse di codardia da parte dei parenti e della fidanzata.
Sulla dimora Wingrave aleggia però un’antica maledizione: molti anni prima, un antenato di Owen che aveva abbracciato le stesse idee pacifiste, fu ucciso per errore dal padre in una delle stanze della casa. Poco dopo, anche quest’ultimo venne ritrovato morto nello stesso luogo, senza alcun segno di violenza e da allora si ritiene che i loro spiriti infestino la villa.
Quando Kate Julian, la fidanzata del protagonista (qui interpretata dal mezzosoprano Sharon Carty), insiste con tono sprezzante nel metterne in discussione il coraggio, Owen sceglie di affrontare una prova estrema pur di dimostrare la forza delle proprie convinzioni: trascorrere la notte nella stanza maledetta, rimasta chiusa da anni. All’alba, però, anche il suo corpo viene ritrovato senza vita.
Come già era accaduto con The Turn of the Screw, Britten si lascia ispirare anche qui da una ghost story di Henry James che diventa simbolo di qualcosa di più profondo, uno specchio deformante attraverso cui esplorare le zone d’ombra dell’animo umano, i suoi dissidi e le tensioni morali che lo attraversano. La vicenda individuale del protagonista assume quindi un valore emblematico e universale: è il racconto della lotta dell’individuo contro le forme di violenza invisibile ma pervasive esercitate dalle istituzioni, dalle convenzioni sociali, dai codici morali imposti dalla cultura dominante.
La destinazione originaria dell’opera per il medium televisivo è evidente: la messinscena si dipana infatti nel segno di un’essenzialità che ne influenza tutti gli elementi, rivelandosi una scelta stilistica efficace, capace di evitare derive eccessivamente drammatiche che comprometterebbero la forza del messaggio. Le scene si susseguono con ritmo sostenuto, accompagnate da interludi orchestrali perfetti nella costruzione della suspense e nella descrizione degli umori dei personaggi. Inoltre, l’azione stessa si sviluppa secondo una dinamica simile a quella del montaggio televisivo, attraverso gli spostamenti di impalcature presenti sulla scena, che sembrano in qualche modo simulare “inquadrature” più ampie, alternate a focus su un singolo personaggio.
Si tratta di dinamiche rese possibili soprattutto dal lavoro scenografico di Giuseppe Stellato, che costruisce una dimensione sospesa tra la freddezza del contesto militaresco e il peso emotivo delle storie che hanno attraversato la dimora Wingrave. Sulla scena campeggiano infatti strutture ferrose, simili a delle gabbie, che delimitano gli spazi della villa, restituendo in modo efficace il senso di claustrofobia generato da certi dettami; al contempo, al posto delle consuete immagini di famiglia, compaiono sagome da poligono di tiro che ci proiettano in un passato e in un presente disumanizzanti, in cui ogni componente della famiglia ha valore solo in relazione all’ideale bellico.
L’albero genealogico della dinastia Wingrave si riduce così a una galleria di bersagli, simulacri da colpire e insieme da temere. Un impianto scenografico che, attraverso pochi, importanti elementi, sa già dire tutto e che cambia forma a seconda del dramma che vi si consuma.
Il colore dominante è un grigio metallico, cupo, interrotto solo da tagli di luce e lampi di rosso, come ferite aperte nel tessuto della storia che alterano la monocromia, sottolineando i punti di massima tensione drammaturgica e i momenti di ribellione verso una storia che ci si rifiuta di perpetuare.

Andrea De Rosa firma una regia di grande valore simbolico in cui l’opera di Britten viene letta attraverso una lente essenziale ma non per questo superficiale. Lo spazio scenico, articolato su più livelli, pone spesso Owen in posizione inferiore, fisicamente e simbolicamente marginalizzato rispetto ai suoi interlocutori. È un linguaggio visivo potente, che restituisce la sua condizione di escluso non solo dalla famiglia, ma dallo stesso sistema di valori che essa incarna.
La regia si sviluppa per quadri netti, incisivi, in linea con la struttura frammentata dell’opera: il primo atto, composto da sette scene, racconta il processo di consapevolezza e opposizione di Owen; il secondo si apre e si chiude con una ballata narrata fuori scena dal tenore Chenghai Bao, che introduce e suggella la leggenda della maledizione di Paramore, sostenuta dal coro di voci bianche della Fondazione Paolo Grassi, guidato da Angela Lacarbonara. Questa cornice fiabesca e rituale, insieme al personaggio muto del bambino (una presenza intensa, quella di Bruna Punzi), accentua il tono metafisico dell’intero lavoro e stabilisce un parallelo tra Owen e l’antenato ucciso per la stessa “colpa”: essersi sottratto all’esercizio della violenza.
Al centro del lavoro di De Rosa c’è quindi il conflitto psicologico più che l’azione esterna, che in effetti è ridotta al minimo. Il vero campo di battaglia è la mente e il teatro diventa spazio dell’invisibile.
Daniel Cohen guida con misura e precisione l’Orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala attraverso una partitura complessa e stratificata. La scrittura di Britten, che alterna momenti cameristici a passaggi più dissonanti e stranianti, trova qui una realizzazione limpida: gli archi ipnotici e le percussioni creano una tensione costante, il pianoforte non accompagna, ma punge, sottolinea, in contrasto con il tema di Owen, l’unico veramente lirico, ma anche fragile, vulnerabile.
Completano l’allestimento i costumi di Ilaria Ariemme, sobri ed efficaci nel ritrarre il contesto aristocratico e ipocrita in cui Owen è cresciuto, strettamente legato alle apparenze. Le luci di Pasquale Mari, poi, modellano gli spazi e ne amplificano l’ambiguità, muovendosi tra chiaroscuri densi e tagli di luce netti e improvvisi.
Il cast si è dimostrato perfettamente all’altezza dell’intendimento registico e del valore artistico dell’opera: Äneas Humm, con il suo aspetto delicato e innocente, ha ritratto in modo efficace un Owen giovane, ma già segnato da profonde angosce e conflitti interiori. La sua vocalità, fresca e controllata, ha restituito con precisione la fragilità e la determinazione del personaggio. Accanto a lui, Simone Fenotti ha dato vita a un Sir Philip teso e autoritario, mentre Kristian Lindroos e Lucia Peregrino, nei panni dei coniugi Coyle, hanno rappresentato con misura un’alternativa possibile: quella di una famiglia elettiva accogliente e umana.
Tra le figure femminili spicca Charlotte-Anne Shipley, interprete di una Miss Wingrave glaciale e ossessiva, incarnazione di un potere familiare che mutila in nome della tradizione. Sharon Carty, nei panni della fidanzata Kate, ha costruito un personaggio lacerato, capace al contempo di fragilità e prepotenza, mentre Chiara Boccabella ha delineato una Mrs Julian più dimessa e intima.
Infine, il Narratore di Chenghai Bao, accompagnato dal coro di voci bianche, ha conferito al secondo atto un tono epico e sospeso, aprendo e chiudendo la vicenda come un moderno cantastorie, quasi un angelo della memoria.
In Owen Wingrave, Britten rinuncia quindi a ogni spettacolarità: niente cori patriottici, niente epiloghi redentivi, solo un ragazzo che muore per aver detto “no”. Intorno a lui, un mondo che non sa comprendere, ma solo percorrere la strada deteriore già tracciata, senza porsi domande.
Alla luce delle notizie che ogni giorno ci raggiungono e degli inquietanti equilibri che sembrano essersi ormai delineati, un plauso va al Festival della Valle d’Itria che ha saputo intercettare l’urgenza di una produzione come questa. Portare in scena un’opera che – oggi più che mai – chiede di essere ascoltata, compresa e accolta, rappresenta una scelta fondamentale, in un presente che non ha bisogno di silenzio e indifferenza, ma di rumore e azioni concrete.
OWEN WINGRAVE
Television Opera in due atti su libretto di Myfanwy Piper, da un racconto di Henry James
musica di Benjamin Britten
direttore Daniel Cohen
regia Andrea De Rosa
scene Giuseppe Stellato
costumi Ilaria Ariemme
light designer Pasquale Mari
con Äneas Humm, Kristian Lindroos, Ruairi Bowen, Charlotte-Anne Shipley, Lucía Peregrino, Chiara Boccabella, Sharon Carty, Simone Fenotti, Chenghai Bao, Vito Blasi, Daniele Nardelli, Bruna Punzi
Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala
Coro di voci bianche della Fondazione Paolo Grassi
maestro del coro Angela Lacarbonara
Prima rappresentazione italiana
Palazzo Ducale, Martina Franca | 27 luglio – 3 agosto 2025
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* PRIMAVERA PAC è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.




