RENZO FRANCABANDERA | L’edizione 2025 della NID Platform, la piattaforma italiana della nuova danza che da tempo fa convogliare artisti e operatori una volta all’anno in una città per conoscere artisti e nuove proposte della scena coreografica nazionale, si è svolta quest’anno a Civitanova Marche e in alcune cittadine limitrofe. Sotto l’ottima direzione di Amat Marche, il team – coordinato da Gilberto Santini per diverse settimane nel cuore dell’estate – ha curato una organizzazione impeccabile.
L’evento negli anni ha, per certi versi, cambiato pelle: il successo e la progressiva affermazione come luogo di incontro, conoscenza e scambio di vedute e opportunità fra gli operatori nazionali e internazionali, su un modello già presente in altre nazioni europee, ha contribuito a catalizzare importanti risorse – anche ministeriali – sull’evento e in conseguenza ha contribuito a ‘istituzionalizzarlo’, facendogli perdere un po’ le caratteristiche iniziali di ruspantezza e tensione all’incontro con lo sconosciuto.
Adesso la selezione è diventata un processo che, vista la grande visibilità e la presenza di moltissimi operatori da ogni parte del mondo, non fatichiamo a immaginare riceva pressioni affinché questo o quel lavoro siano in vetrina.
Addirittura si possono candidare lavori di anni precedenti, come è successo anche in questa edizione. Giusto per dare qualche numero, si sono accreditati per le 4 giornate di programmazione 500 operatori del mondo della danza di cui 55 internazionali, oltre a 20 giornalisti. Ventiquattro le proposte artistiche nelle due sezioni: “Programmazione” – con 16 produzioni selezionate di cui 3 spettacoli “Fuori Formato” più 2 compagnie ospiti – e “Open Studios”, 6 progetti “in attesa di debutto” mostrati in versione work in progress, forse la parte più interessante della NID, e che speriamo resti il cuore anche delle prossime edizioni.
Gli Open studios sono abbozzi di lavoro, che permettono agli artisti di ragionare su nuovi formati e idee per il futuro. Speriamo che la nouvelle vague gestionale nazionale consenta di preservare questo angolo così prezioso per chi fa arte, che permette di raccogliere i primi sguardi su possibili creazioni future.
Spesso chi decide ma sta fuori dai processi creativi non comprende la rilevanza di alcune pratiche cruciali, soprattutto alla luce dei nuovi sistemi produttivi che spesso impediscono prove e durate di sperimentazione sufficientemente ampie. È questo il motivo per cui la presenza di questi ambiti di confronto, di questi scampoli di interazione fra artisti, critici e operatori, diventa essenziale. Era il cuore di questa piattaforma alla sua nascita, speriamo che il successo nazionale di questo evento, che l’anno prossimo si terrà a Torino a inizio settembre, non faccia progressivamente cambiare troppo radicalmente pelle alla NID, trasformandola solo in una grande vetrina, facendole perdere la sua originaria funzione.
Abbiamo visto qui diversi spettacoli in programmazione serale ospitati fra teatri e auditorium nei comuni di Civitanova, città alta e città bassa, Fermo e Porto Sant’Elpidio. La macchina organizzativa ha permesso ai folti gruppi di partecipanti di spostarsi fra queste destinazioni, consentendo una fruizione diluita ma continua lungo tutto l’arco della giornata.
Di alcuni lavori avevo personalmente parlato o raccontato in occasione di altre rassegne dove erano stati ospitati in anteprima tempo addietro, e mi concentro qui su quattro altre creazioni.
Iniziamo dal suggestivo Op.22 n.2 di Alessandro Sciarroni e interpretato da Marta Ciappina, per la quale la coreografia è stata pensata su commissione del Festival Bolzano Danza, nell’ambito della rete ‘Swans never die’ che comprende diverse realtà della danza. La creazione è ispirata al poema sinfonico di Sibelius: Il cigno di Tuonela, basato sul poema epico Kalevala della mitologia finlandese e qui si costruisce intorno a una figura femminile che con incedere deciso arriva in scena nella spoglia chiesa di San Francesco ora adibita a spazio per eventi. Lei e i suoi passi, le sue pose quasi marziali, gli sguardi. Solo questi i suoni che per diversi minuti riecheggiano nello spazio della chiesa fino a quando non ci viene svelato un gioco sottostante, che riguarda anche la privazione del suono che alternativamente coinvolge la performer e il pubblico; l’incedere da bambina dispettosa, da cigno con gli artigli che, minuscolo, finisce poi per sembrare seduto come su una gigantesca altalena ferma, sull’altare della chiesa.
Sciarroni crea sempre dispositivi in cui la musica emerge dal poco, valorizzato fino al minimo sentimento. Brava anche Ciappina in una resa senza resa, in cui il sensibile femminile ci viene raccontato nelle mille sfumature che stanno dentro la corazza, spesso schermate allo sguardo indagatore esterno.

Andiamo allo Stabat Mater di Monica Casadei, una figura storica della coreografia italiana che sceglie le musiche del marchigiano Rossini per un lavoro scenicamente importante dal punto di vista delle forze produttive e per il numero di performer coinvolti, che in questo caso non si limita ai soli danzatori ma include anche l’artista e pittore Giuliano Del Sorbo, che apre lo spettacolo realizzando dal vivo e con segno deciso un’opera su tela che rimanda all’esperienza materna di Maria, con l’icona della visitazione alla madre Anna in figure arancioni su fondo nero, realizzate con tratto rapido dal maestro, insieme a una dominante Pietà che nei colori seppia prende la parte centrale della grande tela.
È ai bordi della stessa che inizierà l’azione danzata. Di lì in avanti lo spettacolo si muove con evidenti rimandi a numerose citazioni pittoriche, le cui posture vengono richiamate come tableaux vivants e che rimandano a una iconografia molto leggibile di passione, morte e resurrezione cristiana. Il riferimento all’iconografia pittorica, alle pose fisiche che riguarderanno tanto la Madonna che il Cristo, saranno poi di ispirazione per la coreografa nel seguito del lavoro, dove alle pose cristologiche quasi michelangiolesche si affiancano composizioni di gruppo con i lai delle pie donne.
Questo è un grande pregio compositivo che tesse un filo molto nitido e scenicamente curato, sia nei movimenti che nelle luci; per altro verso, fa muovere lo spettacolo dentro un ambito già conosciuto di immagini e gesti, senza che arrivi un segno, è il caso di dirlo, dissacrante. Un impianto compositivo tradizionale, collegato alla ricerca sul femminile resiliente al sopruso e al dolore, insieme agli stimoli che, con il progetto Patrimoni Umani, ha ricavato per valorizzare i protagonisti della cultura italiana. Tutti questi elementi sono divenuti ispirazione per le ultime creazioni della compagnia Artemis, dedicate principalmente a un pubblico internazionale, come anche questo lavoro ambisce a essere, per la coerenza formale che rende il prodotto sicuramente esportabile.
Torniamo dopo pochi giorni dalle date milanesi di Tendenza clown di cui abbiamo recentemente parlato a incontrare Silvia Gribaudi, anche in quest’occasione con un solo, sebbene sostenuto da intenzioni produttive più robuste di quelle che avevano spinto a realizzare il suo A corpo libero dieci anni fa.
La coreografa, in residenza presso lo Stabile di Torino, crea un prodotto con l’intenzione di proporsi sia sul mercato nazionale che su quello internazionale. Lo si comprende fin dall’esordio, dove c’è un’introduzione in inglese. Il pubblico è chiamato a interrogarsi sulle domande che da sempre accompagnano la creazione della artista: il corpo nel suo mutare, il passare del tempo, il gesto artistico nel suo dialogo con lo spettatore. Il ricorso al dialogo con il pubblico rimane una cifra costante, tanto della poetica della coreografa quanto dei suoi spettacoli: il suo codice, riconoscibile e personale, spinge l’arte della danza a ibridarsi con una caustica comicità sugli stereotipi del corpo nell’arte e nella società tutta, chiedendo legittimità di presenza per ogni tipo di identità umana.
In questo caso, anche il finale è affidato al pubblico che passandosi mano in mano il microfono continua a sussurrare il nome dei presenti, mentre le luci si abbassano in un poetico continuo corale sospeso, come effettivamente il titolo evoca, mentre Gribaudi, dopo una serie di azioni sul palco guidate dalle indicazioni degli spettatori, si lascia trasportare come una rockstar in surfing nella platea.
Commentiamo da ultimo i due lavori proposti nel pomeriggio di sabato 4 novembre al Teatro delle Api di Porto Sant’Elpidio. Parliamo di Pre-giudizio, una coreografia di Ilenja Rossi, produzione sostenuta da GDO- Gruppo Danza Oggi e da Scenario Pubblico e di Pupo, di Sofia Nappi, prodotto da Komoco e Sosta Palmizi.
Il primo lavoro vede quattro performer, in abito nero, gettare la maschera (neutra, quella sociale, dobbiamo immaginare) a inizio spettacolo per poi muoversi intorno al tavolo in un rimando di gesti di accusa e di rivelazione di malcelate intenzioni.
UDA Company prod. GDO nasce nel 2022 dall’incontro tra GruppoDanzaOggi di Patrizia Salvadori (GDO) e UrbanDanceAcademy di Ilenja Rossi (UDA), con l’obiettivo di affermare l’urban dance come linguaggio coreografico contemporaneo riconosciuto nei contesti teatrali e performativi; e così è anche in questo spettacolo il cui codice di movimento ha a che fare con la danza urbana, la break, e tutto l’alfabeto del movimento della urban dance anti-accademica, che però in questi ultimi 30 anni ha comunque trovato una ampia codificazione e che negli ultimi anni è diventato parte integrante di numerose produzioni per la scena.
La creazione inizia in modo curioso e con un gesto accurato e misterioso che suscita attenzione. L’evolvere dello spettacolo però, dopo un curioso movimento di mani quasi caravaggesco da parte dei giovani che si spostano intorno a un tavolo come fossero una famiglia o una comunità di individui fra loro in relazione, introduce una presenza di tessuto narrativo e relazionale più ordinario. Il binario di eccessiva leggibilità drammaturgica che ne segue, la relazione a due raccontata fra abbracci e distanze e le figure di gruppo più didascaliche che vanno a seguire, privano la coreografia di un elemento centrale, ovvero il ruolo dello spettatore: completare, con la sua visione personale, l’equilibrio delle riflessioni emotive che lo spettacolo vuole indagare. È tutto spiegato, leggibile, e così, pur nell’evidente maiuscolo impegno fisico dei giovanissimi performer coinvolti, si rimane in una struttura creativa di figurazione esile.
Concludiamo con Pupo, ideazione e coreografia di Sofia Nappi su musiche di Chopin, Dead Combo ed Engler. La scena è vuota ma qui lo spazio viene scolpito dal disegno luci intrigante e a tratti mistico di Alessandro Caso, che crea di sequenza in sequenza le atmosfere narrative dello spettacolo, evocando un legame poetico con Pinocchio e con la crescita, l’emancipazione, il diventare adulti. Come il burattino di Collodi, i giovani protagonisti di questa danza, nel loro percorso di crescita affrontano spazi oscuri, tentazioni e manipolazioni esterne ma imparando ad accettare e perdonare anche i propri errori diventano adulti.






