ENRICO PASTORE | In questi giorni su Gli Stati Generali è apparsa una lettera di Milo Rau indirizzata ai teatranti italiani. Il regista e attivista svizzero esorta a non tacere e a resistere, diffida però dal prendere parte o scegliere una parte. Rau chiede, piuttosto, di parlare con il linguaggio ambiguo del teatro, quello che pone domande e non fornisce risposte, lasciando al pubblico la responsabilità e l’onere della riflessione e azione attiva. Milo Rau sprona a non tacere per resistere alla tentazione dell’acquiescenza e dell’ignavia lasciar correre porta solo a mali maggiori cui occorre serrare la porta in faccia prima che sia troppo tardi.
La compagnia torinese Il mulino di Amleto, le cui guide sono Marco Lorenzi e Barbara Mazzi, non ha avuto bisogno dell’invito di Milo Rau, lo sta facendo da anni. Pensiamo a Come gli uccelli dal testo di Wajidi Mouawad sulla questione israelo-palestinese che ha debuttato proprio a cavallo del 7 ottobre di due anni fa; o Kollaps di Philipp Löhle su un Occidente sull’orlo del collasso, scritto nel 2015 ma che ha debuttato nel 2020, in estate, in piena pandemia di Covid19. Il Mulino di Amleto da anni non tace e riflette apertamente con i suoi spettatori sulle questioni capitali di questo nostro tempo turbolento, non cavalcando la cronaca ma producendo immagini e parole sulla scena capaci di scatenare una riflessione profonda su questi temi, lottando contro la tentazione di rimanere indifferenti.
Al Festival delle Colline Torinesi, co-produttore nella nuova avventura, debutterà Giulio Cesare, o la notte della Repubblica, testo in gran parte debitore al Giulio Cesare shakespeariano ma con interpolazioni che rendono il testo spurio come è uso nei lavori della compagnia. La notte della Repubblica è un sottotitolo disturbante, necessario, persino più importante del titolo stesso, perché segnala che non stiamo riesumando dalla soffitta un classico ma vivremo insieme agli attori un dramma delle ore più buie, quasi un incubo, in cui, come in tutte le allucinazioni notturne, presente e passato, sonno e veglia, vengono a sovrapporsi risultando indistinguibili.

Cesare, il re assassinato, non è infatti mai presente, è voce nell’aria come Ariel o diventa immagine video che non abbandona mai chi osserva. E non è detto nemmeno che sia veramente lui, forse è solo la proiezione di nascosti desideri. Cesare è un fantasma che si aggira tra noi, e in quanto spettro è fuori dal tempo: il nostro o il suo poco importa, sempre amleticamente fuori di sesto.
La notte della Repubblica ha due fasi: logos, in cui la parola, strumento principe del pensiero razionale, dell’espressione e della comunicazione umana, gradatamente degenera nel suo contrario, e caos, anima della seconda parte di questa lunga e interminabile notte in cui non si intravede alba alcuna. Il discorso prende avvio da una sana preoccupazione per i valori repubblicani messi in pericolo dal personalismo di Cesare; Bruto, Cassio e gli altri congiurati sono animati dalle migliori intenzioni: uccidere Cesare è giusto perché per il popolo è meglio un Cesare in meno che schiavitù e asservimento. Come per l’Ulisse dantesco non vi è tempo per rallegrarsi del successo perché tosto l’esito si muta in pianto.
La parola viene scardinata dalla retorica di Marco Antonio: il pupillo di Cesare, nel discorso funebre, non fa che ripetere che Bruto e Cassio sono uomini d’onore, che se hanno ucciso Cesare, lo hanno fatto con le migliori e più nobili motivazioni, le sue parole sono quelle del serpente, affettano sibilanti la realtà ricostruendone un’immagine torbida che anziché placare la folla, la invita alla guerra civile, il cui esito non può che essere sconfitta, non di Bruto e Cassio ma di tutti i nobili intenti messi in campo da entrambe le parti. Chi vince è l’autoritarismo opportunista di Marco Antonio e Ottaviano.

Il fantasma di Cesare ride di tutto questo. E Bruto soccombe, e Cassio soccombe, triturati non dalle bocche di Satana ma dal loro stesso idealismo incapace di vedere il baratro che un solo atto di violenza genera nella società.
Il sangue chiama il sangue. Shakespeare lo sapeva bene perché scrisse questo testo negli ultimi anni del 1500 (debuttò, pare, nel 1599), durante gli ultimi anni di regno di Elisabetta, regina vergine senza eredi diretti, anni in cui si stava riaffacciando lo spettro delle lotte dinastiche e intestine. La lotta per il regno è presente in ogni sua opera, lotta che ancora oggi attira l’attenzione del pubblico, basti vedere il successo di Game of Thrones.
Quindi ribellarsi è male? Il testo shakespeariano, e di conseguenza la variante del Mulino di Amleto, sono testi filogovernativi? Per nulla. La questione è il metodo. La giusta opposizione al tiranno deve per forza passare attraverso l’atto violento? Come dice Antonio: ‘il vostro errore non è stato uccidere Cesare, ma pensare che bastasse. Se il sangue inonda le mani dei congiurati, non li condannerà essi stessi a una morte violenta?’ E ancora: la dittatura è inevitabile qualsiasi sia la prassi del nostro opporsi o, come si chiede Bruto, vi è forse, in qualche angolo della storia, una modalità perduta di risoluzione dei conflitti politici?
Per porre queste questioni al pubblico senza orientare le possibili risposte, gli attori hanno affrontato tutti i punti di vista dei vari personaggi. Nelle sessioni di prove, cui chi scrive ha assistito e partecipato, si è indagato a lungo per scoprire l’umanità celata in ogni personaggio al fine di farlo emergere, donandolo al pubblico attraverso il processo scenico di sviluppo. L’attore non finge di essere Bruto, Cassio o Marco Antonio ma si fa maschera, si fa tramite come nell’origine greca, si lascia parlare. Attraverso il suo corpo si materializzano le dinamiche interne alla vita dei personaggi ma anche le onde radianti verso il pubblico, sempre coinvolto nel processo. L’attore diventa così il centro di un nuovo umanesimo attraverso cui si mettono in questione proprio i valori su cui si fonda la nostra supposta umanità.
Non vi è mai egoticità né espressione di sé, non si parla di comunicazione di un messaggio ma quanto avviene sulla scena diventa una nuova forma oracolare, il cui responso si può ottenere solo se il pubblico tutto macina e mastica le stesse interrogazioni e ne produce un esito attivo e sempre diverso.
In questo teatro non ci sono prescrizioni, o prese di posizioni sul mondo, si riflette nell’incertezza del risultato facendo a pezzi il mondo insieme agli spettatori, i quali devono scegliere di prendere parte al processo. Non si dà la condizione di passività in questo teatro. Osservare è già agire perché durante lo sviluppo della scena si è parte, si è coinvolti in quelle scelte, si è obbligati e domandarsi cosa avremmo fatto in quella situazione: saremo popolo manipolabile? Congiurati idealisti? Politici opportunisti e senza scrupoli? Marionette sacrificabili in mano ai supposti leader? Oppure proveremmo altre strade? E oggi, nel presente, cosa potremmo fare?
Se la funzione del teatro non è porre queste domande, quale dovrebbe essere?
Giulio Cesare, o la notte della Repubblica, debutterà il prossimo 16 ottobre al Festival delle Colline, poi tornerà a Novembre nella stagione di A.M.A Factory all’ex Cimitero di San Pietro in Vincoli. Spero che andrete numerosi, che possiate vederlo e affrontare insieme al Mulino di Amleto le scottanti questioni sul nostro presente in cui la democrazia sembra affrontare una notte tempestosa. Oggi è necessario riflettere insieme, come società, su quale futuro desideriamo per la nostra vita democratica.
Concludo la mia riflessione con un auspicio: oggi le principali istituzioni teatrali torinesi, a parte il Festival delle Colline Torinesi, sono assenti come partner produttivi di questa compagnia che è, a tutti gli effetti, una delle più importanti nel panorama teatrale italiano. Non essere profeti in patria è un luogo comune che ha stancato e deve essere superato. Quando sul territorio di competenza esistono artisti di questo calibro è dovere per Nazionali e Tric sostenerli e esserne al fianco, permettere che il loro lavoro cresca e venga apprezzato. É orgoglio non solo per il teatro, ma per l’intera città. È quindi con questo spirito che chi scrive si augura che nel prossimo futuro si possa avviare un dialogo con la compagnia per immaginare percorsi condivisi e produttivi.
Visto durante le prove a settembre 2025 all’Ex Cimitero di San Pietro in Vincoli in Torino
GIULIO CESARE o LA NOTTE DELLA REPUBBLICA
da William Shakespeare
adattamento drammaturgico e riscrittura Marco Lorenzi e Lorenzo De Iacovo
progetto Il Mulino di Amleto / A.M.A. Factory
regia Marco Lorenzi
collaborazione artistica Barbara Mazzi, Rebecca Rossetti, Daniele Russo
con (in o.a.) Vittorio Camarota, Yuri D’Agostino, Raffaele Musella, Francesco Sabatino, Alice Spisa, Angelo Tronca
con la partecipazione in video di Ida Marinelli e Danilo Nigrelli
regista assistente Barbara Mazzi
assistente alla regia Federica Gisonno
training a cura di Rebecca Rossetti
disegno sonoro Massimiliano Bressan
progettazione regia video PiBold / Paolo Arlenghi
progettazione luci Umberto Camponeschi
consulenza per scena e costumi Gregorio Zurla
ufficio stampa Raffaella Ilari
Ogni epoca ama chi la domina, Bruto, non chi la interroga.
(Spettro di Cesare, atto 5)
Durata 1h40′ circa




