STEFANIA CARVISIGLIA | Il festival Interazioni diretto da Salvo Lombardo e organizzato da Chiasma in collaborazione con ATCL (Associazione Teatrale fra i Comuni del Lazio), giunge quest’anno alla quinta edizione. Si svolge a Roma est dal 30 settembre al 5 ottobre tra gli spazi di Centrale Preneste e Spazio Diamante. Il titolo scelto per questa edizione è Piene, con riferimento a un’abbondanza che ha urgenza di esondare ma anche a un superamento dei limiti esercitati dai poteri mondiali verso i quali l’arte non può rimanere a guardare.
Data la piena di folla che ha inondato le strade di Roma negli stessi giorni per la Palestina e l’urgenza di essere tra i milioni di gocce d’acqua, riusciamo a partecipare al festival solo nell’ultima serata. Il primo lavoro a cui assistiamo è Storia di un ruscello, prima opera di Erica Meucci, coreografa, danzatrice e curatrice della rassegna Rami d’oro ai margini del Parco delle Orobie valtellinesi. Ispirata dal lavoro del geografo anarchico francese Élisée Reclus (1840-1905), che contribuisce allo sviluppo del pensiero ecologico-sociale tentando di ricollocare l’umanità nel giusto posto in seno alla natura – quindi tra le cose e non sulle cose – Meucci scrive una danza per un’interprete e una pietra.
Quando entriamo in sala, al centro della scena troviamo una pietra di una forma imperfettamente rettangolare. Una volta sedutƏ un suono sintetico si immette nell’immagine, cominciando a darle la forma di paesaggio. Entra Meucci dalla quinta destra, indossa un top dai colori autunnali e pantaloni neri, una lunga treccia le raccoglie i capelli. Sale sulla pietra, la cui superficie è poco più larga dei suoi piedi.
La danza che prende forma è una danza minima, epidermica. Il corpo è in dialogo tra soffi interni e soffi esterni, articolandosi in movimenti sensibili e fluidi fino a posarsi in forme levigate dall’azione della gravità.

Il limite della pietra, dalla quale la danzatrice non scenderà per tutto il tempo, è un argine di esplorazione ma anche di apertura a possibilità di pieghe e concavità corporee inedite.
Il corpo, fissato in uno spazio, si espone allo scorrere del tempo e quindi al rapporto con la caduta e la vulnerabilità, trasportando l’occhio di chi osserva in uno stato di quiete e di connessione con un tempo ciclico.
Emerge la sensazione di non trovarsi su una poltrona in via Prenestina a Roma ma in un bosco fuori dal caos della città. A farci uscire da questo stato illusorio è il fumo che, verso la fine della danza, circonda Meucci – sdraiata con il bacino sulla pietra e il resto del corpo fluttuante, si lascia trasportare e si affida a questo movimento. L’artificio teatrale, tuttavia, non elimina la sensazione di trovarsi in un altro luogo e che questo luogo non umano abbia informato la creazione della danza, divenendone in qualche misura coautore.
A seguire, assistiamo a You Have to Be Deaf to Understand di Diana Anselmo, performer e artista visivo queer e sordo.
Se nel lavoro precedente abbiamo trovato una riflessione critica circa il rapporto di predominio dell’essere umano sulle cose non umane – avallato dal sistema cartesiano – in questo lavoro a essere indagato e portato alla luce è il predominio del mondo udente su quello sordo, spesso reso invisibile dal primo.
You have to be Deaf to Understand prende ispirazione dall’omonima poesia di W.J.Madsen, professore sordo di letteratura inglese presso la Gallaudet University.
Nella traduzione in italiano di questa poesia, spiegherà lo stesso Anselmo – operata da un traduttore udente e non segnante – non si è mantenuta fede al significato originario, in quanto non è stato portato lo sguardo proprio sulla comunità sorda che è soggetto e soggettività della poesia.
È a partire da questo tradimento che prende vita il lavoro di Anselmo che propone una nuova traduzione dell’opera attraverso la Visual Sign, componente artistica poetica della lingua dei segni. Si tratta dunque di una traduzione accessibile anche a un pubblico udente e non segnante in quanto propone un’espressione visuale e corporea che si fa veicolo di significato.

Nella scena vuota entra Anselmo dalla sinistra, indossa una maglietta, pantaloni e scarpe nere. Sembra estrarre un libro da uno scaffale, cammina in cerchio nella scena e poi esce da dove era entrato. Dalla platea entra DKM, anche lui vestito di nero: arriva al centro della scena, guarda il pubblico, sorride, sembra prendere qualcosa e poi sembra caricarla e lanciarla verso di noi.
Dallo stesso punto entra Daniel Bongioanni, che si posiziona in avanti sulla sinistra; guarda DKM, si avvicinano sulla stessa linea.
Da questo momento ha inizio un dialogo corporeo tra i due in cui sembra continuamente che lo spazio si ridefinisca cambiando livelli, proporzioni e misure.

Lo spazio della scena viene continuamente costruito, modellato e spostato altrove. I due sembrano degli operai dell’immagine, che manipolano una materia invisibile rendendola viva e luminosa.
La percezione (da udente) è quella che sia in corso una conversazione fitta, fatta di continui spostamenti di pesi, in cui il ritmo è sostenuto e si ha la possibilità di perdersi altrove.
Verso la fine torna Anselmo da dove era entrato e uscito inizialmente: sembra che vada a spazzare qualcosa – forse i resti di ciò che è stato decostruito – e si unisce agli altri due in un gesto collettivo che suggella la poesia.
In tre si comincia a essere collettività , parte del mondo intero.
What is it like to comprehend
Some nimble fingers that paint the scene,
And make you smile and feel serene
With the “spoken word” of the moving hand
That makes you part of the world at large?
You have to be deaf to understand.
What is it like to “hear” a hand?
Yes, you have to be deaf to understand!
DKM e Bongioanni escono dalla scena, si fa buio, si accende un cono di luce. Anselmo ci entra dentro e segna la genesi di questo lavoro, gesto che con la giusta dose di rabbia tenta di rimettere in luce chi ne rimane ai margini a causa della fissità dei processi di produzione – e traduzione – dei saperi.
Un ulteriore gesto di traduzione, questo finale, in cui si aggiunge qualcosa e al contempo si perde qualcosa: di nuovo vengono spostati i pesi.
È interessante, in questo lavoro, come la traduzione venga incarnata nella traslazione dei pesi, che diventa una forma di ospitalità linguistica. Perchè è nel movimento e non nella fissità, nell’ammorbidimento delle giunture che è possibile la comprensione di sé e dell’altro. E se la comprensione è traduzione (Steiner), allora non si può eliminare l’esperienza corporea da questo processo. You Have to be deaf to Understand propone riflessioni radicali sul modo in cui è necessario ridefinire l’approccio ai saperi, riorganizzando le geografie sensoriali, che tra l’altro hanno questa gerarchia sempre e solo in una parte di mondo.
STORIA DI UN RUSCELLO
di e con Erica Meucci
coreografia Erica Meucci
musiche Glauco Salvo
luci Andrea Sanson
training Luca Carnevale
abito PHASME archive – Chiara Corradini e Marianna Turano
restauro della pietra Alex Bombardieri
produzione Laagam
YOU HAVE TO DEAF TO UNDERSTAND
di Diana Anselmo
con Diana Anselmo, Daniel Bongioanni, DMK
sguardo esterno Juli Klintberg, Ramesh Meyyappan
produzione Fattoria Vittadini con il sostegno di Fondazione Rana
Spazio Diamante, Roma | 5 ottobre 2025




