CRISTINA SQUARTECCHIA l In questo racconto sulla nona edizione della NID Platform quest’anno a cura di  AMAT Associazione Marchigiana Attività Teatrali,  vogliamo cogliere una parte delle ventiquattro proposte, quella che in particolare ruota intorno ad alcune parole chiave come ‘femminile’, ‘incontro’, ‘caduta’ e ‘fragilità’, raccordo tra gli spettacoli visti.

Venere vs Adone di Enzo Cosimi al Teatro Annibal Caro di Civitanova Alta, luogo dove la coreografia ha visto la luce al festival estivo di un anno fa, è un lavoro che esplora il mito del maschile e del femminile in chiave contemporanea. Una coreografia che attraverso il mito scava sugli archetipi di genere della cultura occidentale, smontando poco a poco idoli e feticci del nostro immaginario collettivo. Cosimi utilizza quasi tutti i suoi mezzi espressivi, quelli che da sempre puntellano la sua scrittura drammaturgica come uccelli e volatili, abiti succinti, lentezza e una gestualità centellinata che dilata e rallenta l’azione nello spazio-tempo del suo farsi.
Dal testo scespiriano al mito classico fino a Marlene Dumas con richiami alla pop art, Venere vs Adone è una viaggio poetico di riscrittura  di un amore non corrisposto il cui plot narrativo viene scandito da Cosimi in quattro capitoli: dolore, seduzione, eccesso e congedo. Adone è una figura statuaria, posto a un lato della scena con indosso uno slip glitterato. Venere è una prostituta, che con fare dimesso, entra da una porta di servizio laterale della platea, barcollando, sfiancata, è in preda a una crisi psicotica che si contrappone all’immobilismo di Adone.
La regia di Cosimi, pur partendo dai classici, destabilizza la narrazione attualizzandone alcune elementi chiave, come la sostituzione della caccia di Adone con il culto di un corpo muscoloso, di un uomo dedito all’estetismo di sé e completamente svuotato di ogni desiderio. Al suo cospetto una Venere innamorata e servile, che pur di conquistarlo e accendere in lui una scintilla affettiva, asseconda e alimenta questo machismo esorbitante vestendolo con imbracature che vanno sulle braccia con guanti simili a zampe di uccello e poi calze a rete, ali da struzzo per costruire un figura ‘macho’ eccentrica e disturbante.
Ma proprio su questa stessa costruzione si insinua la fragilità di un Adone, quasi inetto, privo di forza vitale nei confronti delle spinte trasformative che la vita richiede: un uomo perennemente imprigionato dentro l’aura vuota del suo essere. Di questa imponenza Adone viene progressivamente depauperato, è ridicolizzato, svuotato al cospetto di Venere sempre volitiva, che invece, poco a poco, tira fuori la sua forza indomita in un duello di corpi in cui quest’ultima ha la meglio.

I movimenti aerei di Venere circoscrivono Adone dentro un cerchio di luci per condurre l’azione negli abissi del mito che trova il suo epilogo nell’uccisione di Adone. Venere, da vittima sacrificale diventa, in un finto candore da sposa, la carnefice moderna, un’aguzzina infernale che ribalta dogmi e modelli, come atto ribelle e necessario per la caduta del sesso forte sotto il sound implacabile di Whola lotta love dei Led Zeppelin.

Di incontro possibile e rigenerativo si parla invece in Se domani di Elisa Sbaragli  andato in scena al Teatro Cecchetti. Un concept coreografico che parte dalla lentezza per esplorare possibili unioni, nuove identità corporee oltre le crisi e i conflitti. Come farlo se non partendo dal corpo? In uno spazio asettico dal quale si stagliano nitide due figure, un uomo e una donna (Lorenzo De Simone e Alice Raffaeli) avanzano  dando vita a una progressiva gestualità inizialmente parcellizzata, che poi si estende e si amplifica. Si leggono connessioni con lo spazio, una relazione con il pubblico sottesa nelle ripetute camminate in varie figurazioni verso la platea su tracce di movimento che i due performer polarizzano nei propri corpi in una dimensione solitaria che ignora, in questa prima fase, un ipotetico incontro con l’altra/o. Possono alludere a un maschile e a un femminile recisi in una scrittura di danza sempre più espansa e caricaturale che solo verso il finale tende all’incontro di un ideale, di una forma di alleanza non svelata all’inizio ma che li ha tesi insieme fino alla sua fase conclusiva. Un esito che si raggiunge solamente dopo una ricerca continua, tendendo verso una scrittura di movimento che si organizza in maniera più fluida superando le conflittualità e azzerando gli opposti.

L’affanno e la tensione reciproca tra due entità opposte, come lo Yin e lo Yang, un anione e un catione, sembrano neutralizzarsi in un abbraccio dalle figurazioni inedite che modella un’entità nuova, depurata e rigenerata, dalla quale si schiudono visioni mistiche, possibilità unificanti verso radure inesplorate. Il tutto su una musica che dall’elettronica stridente tende verso sonorità più fluide e rassicuranti per lasciare all’orecchio dello spettatore la poetica di un immaginario migliore.

Sista di Simona Bertozzi con Marta Ciappina e Viola Scaglione al Teatro Rossini è il terzo lavoro che si inscrive in questa narrazione coreografica sul femminile e le sue fragilità. Uno duetto di armoniosa sorellanza intessuto su un dialogo che nella danza si libera di sovrastrutture verso una relazione di complicità e prossimità, di vicinanza e contiguità, tanto che Sista è l’abbreviazione di ‘sister’.

Marta Ciappina e Viola Scaglione, diverse per stile e intensità, attendono a scena aperta che il pubblico si sistemi in sala su una canzone da jazz club. Con un avvio di apparente tensione i due corpi iniziano a muoversi cercando nella danza il riflesso dell’altro nello sviluppo delle transizioni in scena; come se l’eco danzata dell’una riverberasse sull’altra in una soluzione di empatia corporea dove la danza si dispiega per effetto di una fisiologica condivisione di intenti. Il fraseggio coreografico, seppur apparentemente diverso tra le due, tende verso il finale a unificarsi senza cancellare le qualità di ognuna, lasciando aperto lo scambio danzato con prestiti reciproci e restituzioni.

Si riconoscono i saliti in diagonale che Marta Ciappina fa propri ripetendoli più volte nei grandi attraversamenti in diagonale agili e giocosi, perché giocosa è alla fine questa coreografia, fatta di silenzi e sonorità leggere. Si stagliano nitidi i movimenti  delle braccia di Viola Scaglione, poderosi e circolari, motori di lunghi fraseggi che si innestano sui disequilibri disarticolati di Marta Ciappina, in un sincero e delicato donarsi.

Swan con Rita Di Leo ma a cura di Gaetano Palermo è la performance site specific che ha ospitato il pubblico nel parco dietro il Teatro Cecchetti. Un uccello morto in un punto della scena è la spia luminosa di questo lavoro. Lo guardano sorpresi alcuni passanti, pattinatori, bambini, anche un po’ disgustati evitano di calpestarlo, incuranti dell’ingresso della performer, continuano a svolgere le proprie azioni sportive mescolandosi a quelle della ragazzina performer. Una bionda con indosso i pattini, entra in scena divertita con il telefono in mano, intenta a fare selfie e ascoltare musica in cuffia mentre esegue giri vorticosi in pose plastiche nella pratica sportiva. Pattina prendendo tutto lo spazio circostante reiterando ostinatamente giri e salti mentre improvvisamente il sonoro degli spari la colpisce.

Ci sentiamo tirati dentro la performance, il sussulto è evidente da parte di tutti e in qualche modo destabilizzante rispetto al gioco iniziale. La danzatrice cade a terra ma, come nulla fosse, si ricompone e riprende il suo viaggio coreografico. Resiste di fronte ai colpi che aumentano, che la buttano a terra, perdendo ogni volta un pezzo di sé, come le piume del cigno del celebre pezzo di Mikail Fokine del 1905 che ha ispirato la pièce. Il senso del dramma incalza nella performance creando una distonia tra gli atteggiamenti ancora provocatoriamente vanitosi della performer, che con ostinazione ripete con il crescere detonante degli spari. Un ritmo, come una partitura sonora in una cacofonia tra fuochi d’artificio e colpi da caccia. Un atto di resistenza alla morte, alla caduta, che trova solo sul finale una resa: la maschera, il telefono, le cuffie, i pattini, ormai rotti, spogliano il corpo di significato e spinta vitale, come il cigno di Fokine, che ansima fino all’ultimo battito d’ali, lasciando nell’aria quell’insopprimibile desiderio di vita.

Di ritorno al Teatro Rossini la lunga maratona della NID si chiude con il lavoro di Adriano BologninoRosaria Di Maro con La Duse – Nessuna Opera. Un omaggio a un’artista simbolo di tanto teatro femminile e di rivoluzionaria vitalità espressiva che la danza celebra con una coreografia corale, cucita sui giovani corpi dell’Opus Ballet. Dell’attrice, Adriano Bolognino racconta la potenza drammatica che ha impresso nei suoi personaggi: da Francesca da Rimini a Pupa di Borgogna e altre eroine teatrali che vediamo scorrere sui corpi vibranti e acerbi delle giovanissime dell’Opus Ballet,  in un discorso coreografico che si dipana su due parti, una più oscura e l’altra più luminosa. Un grande lampadario un po’ d’antan posto a un lato della scena viene fatto salire in graticcia mentre sul fondo, sono allineate le danzatrici eroine, in pose diverse attendono stagliate sul fondo.
Duse (Rosaria Di Maro) si muove lentamente intorno al grande lampadario con un incedere regale e pensoso. Lo spazio e l’allestimento, dai colori tenui e dal sapore decadente, accolgono coreografie d’unisono e di una certa effettistica che esprimo il trasporto emotivo della Duse, il suo interiorizzare il dramma del personaggio in gesti misurati e complessi insieme, negli intrecci che simulano innesti e prestiti di cui l’attrice probabilmente faceva uso nei suoi pattern recitativi.

La danza, in questo lavoro, che non entra in nessuna opera interpretata da Eleonora Duse, si inoltra invece nelle pieghe di un’arte recitativa che l’attrice utilizzava per esprimere gli abissi dell’umano, per farsi inno danzante alla sua arte, al suo singolare senso empatico per essere tutte le donne del mondo, viverle con quella vena spiritata e sovrumana che solo le ‘Divine’ possiedono.
Corpi in continua evoluzione, quadri di movimento, esteticamente d’impatto nell’organizzazione spaziale ma ridondanti in certe soluzioni, si articolano armoniosamente nella musica di Giuseppe Villarossa. Un flusso di storie, amori e abbandoni escono dalla memoria dell’attrice come fantasmi, echi di una vita che scorre davanti. Da spettatrice di sé al centro scena si lascia onorare, una alla volta con in dono una rosa, dalle tante eroine teatrali, che passano intrecciandosi insieme. Ripetizione e lentezza regolano questo quadro, tra i più coinvolgenti di tutta la pièce, dove l’eccesso e il successo di una vita d’arte si incontrano e si neutralizzano nella postura austera di una donna che ha chiuso i conti con la vita e avanza verso un altrove avvolta dalla sua stessa aura artistica.

Civitanova Marche | 2 e 4 ottobre 2025

 

VENERE VS ADONE

coreografia Enzo Cosimi
con Alice Raffaelli, Leonardo Rosadini

SE DOMANI

coreografia Elisa Sbaragli
interpreti Lorenzo De SimoneAlice Raffaelli
dramaturg Eliana Rotella
suono Edoardo Sansonne
voce Elena Griggio
luci Fabio Brusadin
costumi Chiara Corradini
cura Marco Burchini
produzione TIR Danza
co-produzione ArtGarage

SISTA

coreografia Simona Bertozzi
con Marta CiappinaViola Scaglione
musica The SlitsFrancesco GiomiJason Sharp
light design Simona Gallo
editing voce Roberto Passuti
costumi Born to be Reborn Lab
parole Marta Ciappina e Viola Scaglione
con il supporto di Lavanderia a Vapore
progetto realizzato in prima fase con MILANoLTRE Festival

LA DUSE – NESSUNA OPERA

coreografia Adriano Bolognino
con Giuliana BonaffiniRosaria Di MaroGinevra Gioli, Ines GiorgiuttiGaia MondiniGiulia OrlandoMargherita Petrosino, Cristina Roggerini, Sara Schiavo, Rebecca Zucchegni