ENRICO PASTORE | Dopo aver debuttato al Romaeuropa Festival giunge al Teatro Astra di Torino, per il Festival delle Colline Torinesi, Igirl di Marina Carr per la regia e interpretazione di Federica Rosellini.
Igirl è un testo nato durante la pandemia di Covid 19 su commissione dell’Abbey Theatre di Dublino e unisce stralci poetici di diversa ispirazione legati da un respiro comune, quasi piastrelle di mosaico. Ventuno scene, presentate in Italia con la splendida traduzione di Monica Capuano e Valentina Rapetti, in cui si rincorrono come un’eco le voci di diversi personaggi: una ragazza, una neanderthal, Giocasta, Giovanna D’Arco, Antigone, Edipo. Il tema è la connaturata violenza dell’homo sapiens rivolta non solo verso le altre specie ma anche al proprio interno, verso la femmina sempre minacciata, sempre in pericolo, ma il cui tempo per essere padrona di sé e del mondo, dice il testo, non è ancora giunto e forse non giungerà mai.
Le singole scene sono serrate, violente, riuscendo a essere commoventi per la poesia cruda delle parole dirette e crudeli, anche se forse, proprio per la natura eterogenea della loro germinazione, i testi risultano spesso esorbitanti, prolissi, divaganti e, a lungo andare, ripetitivi per quanto scritti con rabbiosa maestria.
Qui interviene la regia e l’interpretazione di Federica Rosellini, un’artista difficilmente inquadrabile per la sua grande versatilità. Spesso si usa per i suoi lavori l’aggettivo ‘performativo’, il quale nella sua ambiguità non inquadra veramente la specificità dell’azione attorale di Rosellini.
In italiano manca una parola per definire una modalità di stare in scena in cui la rappresentazione di un personaggio o di una storia, per non dire la mimesi in generale, non entrano in gioco. Nel 2018 alla Biennale di Venezia diretta da Antonio Latella si svolse un convegno sul tema: attore o performer? Gli autorevoli ospiti stranieri intervenuti, affermarono pressoché all’unanimità che la questione riguardasse esclusivamente il panorama italiano, mentre a livello internazionale la controversia era risolta da tempo, ossia: non vi era alcuna differenza e questo dal tempo dei primi esperimenti multidisciplinari di John Cage.
Questo, nell’opinione di chi scrive, è vero solo in parte: le modalità di esecuzione nella Performance Art differiscono in alcuni punti salienti anche quando vi sono forti somiglianze con il teatro non rappresentativo. La performance è un’azione nel ‘qui e ora’ e, se pur possiede e prevede una sorta di piano di massima, la sua esecuzione non viene provata né preparata al fine di raffinarne l’esecuzione vòlta al pubblico. Lo scopo non è il risultato ma la prassi.

Federica Rosellini in Igirl di Marina Carr | ph. Andrea Macchia

Pensiamo alla famosa Rhythm 0 di Marina Abramovich in cui si sdraiò per 6 ore su un tavolo mentre il pubblico aveva a disposizione 72 oggetti da usare sul suo corpo come voleva e senza limiti perché nessuno li avrebbe fermati. Non c’erano regole né protezioni. Presto la performance si trasformò in una esplorazione degli angoli oscuri del comportamento umano. Sadismo e violenza presero il sopravvento tanto che Abramovich riconobbe di essersi sentita violata e oggettificata oltre il sopportabile. Questo valse anche per Empty Words di John Cage nell’esecuzione milanese del 1977 dove nulla si poté contro le intemperanze del pubblico che giunsero fino a sviluppare una sorta di rito catartico collettivo.
Nessuna prova avrebbe preparato a quanto avvenne, e proprio l’esecuzione senza alcuna preparazione ne costituiva e ne costituisce il valore, perché il corpo qui non suggerisce come a teatro, non fa apparire alcun doppio. Nella Performance art il corpo è letterale e tautologico, rinvia a solo a se stesso, non ad analogie, metafore o allegorie.
Il performer, e qui veniamo alla differenza, molto spesso mette il proprio corpo in pericolo senza paracadute: le conseguenze del suo agire potrebbero essere catastrofiche.
Faccio ancora un esempio: Stelarc, il grande performer australiano di origine cipriota, in Ear on an arm si è impiantato un terzo orecchio in un braccio. Durante un’intervista mi confessò che rischiò più volte l’amputazione dell’arto per le crisi di rigetto e le ripetute infezioni post-operatorie. Questa noncuranza delle conseguenze sul proprio corpo è inaccettabile per l’attore che lo considera invece come uno strumento musicale da curare e proteggere; anche quando accetta il rischio fisico, le prove e la preparazione tendono proprio a ridurre i pericoli. Le prove sono, se possiamo usare una metafora, “studi di fattibilità e di riproducibilità” che per il performer sarebbero inaccettabili, una sorta di “imbroglio”.
Un esempio ancora per chiarire definitivamente: quando Reneé Falconetti accettò la parte di Giovanna D’Arco nel film di Dreyer, accettò di sottoporsi a una serie di supplizi per rendere più toccante ed efficace la sua interpretazione. Le catene ai piedi, la rasatura della testa, i salassi e mille altre piccole torture furono effettivamente prodotte sul suo corpo, generando quella recitazione quasi estatica che la resero celebre.
Artaud, nell’osservare il processo, fu così illuminato, forse, da chiarirsi le idee a proposito di Teatro della crudeltà. Falconetti, al di là delle leggende sul sadismo di Dreyer, in tutto questo non fu mai in pericolo né mise se stessa in pericolo (la scena del salasso non fu effettuata sul suo corpo per esempio), mentre Stelarc quando si appese con ganci fissati direttamente nella sua pelle fuori dal tetto del Centre Pompidou a Parigi, mi confessò che sentì la sua pelle scricchiolare per le spinte del forte vento, tanto da aver paura di cadere. L’attore, per concludere, è sempre in controllo durante l’esecuzione anche quando improvvisa. Al contrario, il performer si lascia trasportare dall’accadere che lui stesso ha provocato, e lo fa anche se ciò lo portasse alle estreme conseguenze.

Federica Rosellini in Igirl di Marina Carr phAndrea Macchia

In estrema sintesi, tra Federica Rosellini e il visual artist Franko B vi è una certa distanza concettuale, ed è la stessa distanza che c’era tra Carmelo Bene e Kantor da Joseph Beuys e Nam June Paik, non solo perché erano e sono artisti diversissimi ma perché agiscono in ambiti artistici affini ma dissimili, e questa distanza resta anche se Rosellini mutua alcuni stilemi dalla performance art. Accosterei Federica Rosellini più volentieri a Reneé Falconetti e non solo perché entrambe hanno messo in opera una Giovanna D’Arco ma per la capacità di produrre una recitazione estatica, usando il corpo come strumento principe per la rappresentazione dell’agire/patire nel mondo e a causa del mondo.
Federica Rosellini è una grande attrice, con grandi margini di crescita, la cui caratteristica principale e più affascinante è l’agire e il parlare (o cantare) sulla scena con tutto il suo corpo. L’azione è il motore della parola, la fatica muscolare di scalare quelle macerie che invadono la gradinata sono la materia della parola stessa e tutto questo ricorda Artaud quando spaccava legna mentre recitava i suoi testi. La voce, per Federica Rosellini, è qualcosa che nasce nel corpo a partire dalla terra, dal sudore e dal sangue. Non è espressione solo del logos o della tecnica ma sorge della natura stessa delle cose. Questa modalità del dire attraverso il fare, che è quasi un unicum del panorama italiano, è peculiarità propria del migliore teatro.
In Igirl questa sua singolare partecipazione totale all’agire/patire sulla scena viene continuamente messa in campo a partire dai tatuaggi disegnati da Simona D’Amico, che non sono solo la storia incisa sul corpo ma l’espressione viscerale del senso delle singole figure, fino alla voce che diventa canto, grido, verso animale, suono carezzevole e infine soprattutto dalla e nella sua presenza fisica tra il pubblico.
Nei suoi lavori si può essere o meno coinvolti, si può esteticamente essere a favore o contro ma non si può – a mio avviso – affermare che la creatura attorica creata da Federica Rosellini generi indifferenza: colpisce sempre alle viscere anche quando, come in questo caso, l’opera è rivolta più all’intelletto che al corpo. È proprio Federica Rosellini che fa la differenza, si va a vedere lei più che l’opera o il testo che mette in scena.

In conclusione qualche nota sulla regia e sulla composizione. Rosellini utilizza svariati media per generare la sua azione scenica: i video di Ra di Martino (alcuni molto belli e suggestivi) in cui le forze elementari del pianeta vengono evocate: la terra, il vento, l’acqua, il fuoco, la vita animale e primordiale, potremmo dire rettilaria; la voce che appositi strumenti amplificano, sovrappongono, sovraincidono e modificano generando onde di suono dalle canzoni pop appena accennate dal suo canto; i tatuaggi che iscrivono sul corpo le singole storie. Tutti questi, oltre all’azione fisica, raramente vengono utilizzati in contrappunto in una rifrazione armonica, essi compongono piuttosto una melodia per accostamento o semplice sovrapposizione. In questo depotenziando la forza espressiva dell’insieme.

IGIRL
di Marina Carr

traduzione di Monica Capuano e Valentina Rapetti
video Ra di Martino
musica originale Daniela Pes
sound designer GUP Alcaro
costumi e tatuaggi Simona D’Amico
scenografia Paola Villani
light designer Simona Gallo
dramaturg Monica Capuani
aiuto regia Elvira Berarducci
assistente alla regia Barbara Mazzi
performer e regia Federica Rosellini
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro Stabile Bolzano, Elsinor – Centro di Produzione Teatrale
sostegno e debutto nazionale Romaeuropa Festival
diritti di rappresentazione a cura di THE AGENCY (London) LTD

Torino 11 ottobre 2025 | Teatro Astra – Festival delle Colline Torinesi