RITA CIRRINCIONE | Dedicato alla creazione contemporanea multidisciplinare tra teatro, musica, danza e performing arts, dal 26 agosto al 5 ottobre ai Cantieri Culturali della Zisa di Palermo, è tornato Mercurio Festival. Ideato e curato da Giuseppe Provinzano, il festival dall’originale dinamica secondo la quale la direzione artistica è affidata ai protagonisti della precedente edizione, nato come un esperimento azzardato, giunto alla sua settima edizione, ha recentemente ricevuto il prestigioso Premio come Miglior Festival Italiano da parte dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro.

Sostenuto da Ministero della Cultura, dall’Assessorato alla Cultura – Comune di Palermo, con il patrocinio di Assessorato Turismo Sport e Spettacolo Regione Siciliana, Assessorato alle Politiche Giovanili e all’Innovazione, per il triennio 2025-2027 Mercurio è stato ammesso ai finanziamenti ministeriali del Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo (FNSV).

Il popolo di Mercurio – ph_Nayeli Salas

In tempi di fuga dalla complessità nei quali, per comprendere i grandi temi che attraversano la contemporaneità, a prevalere è il paradigma della semplificazione, Mercurio Festival ha scelto di misurarsi con il pluralismo, il confronto e lo scambio. Con la sua formula di “direzione artistica condivisa” che prevede un lungo lavoro di negoziazione tra le proposte degli artisti e la visione del curatore; con la sua multidisciplinarità pienamente compiuta (non solo teatro, danza e musica, ma anche installazioni interattive, docufilm, progetti ibridi tra diversi linguaggi, workshop teatrali, laboratori artistici per bambine e bambini, giochi teatrali con il coinvolgimento del pubblico, eventi di solidarietà); con le sue manifestazioni diffuse nei diversi spazi della Cittadella dei Cantieri Culturali e una rete di collaborazioni sempre più ramificata con le realtà che vi sono attive; con nuove partnership come quella con il SoleLuna Doc Fest e il sostegno di istituti di cultura straniera come il Goethe, l’Instituto Cervantes, l’Institut français, Mercurio ’25 ancora una volta ha confermato la centralità di quei valori fondanti.

Dopo le tre anteprime dedicate a Wonder Woman con la regia di Antonio Latella, Roberto Baggio, il monologo di Davide Enia e Paolo Sorrentino vieni devo dirti una cosa di Giuseppe Scoditti, la rassegna “ufficiale” – con gli artisti invitati dai colleghi dell’edizione precedente – ha visto in scena, tra gli altri: Danio Manfredini, la Compagnia Rodisio, Marco di Stefano – Confraternita del Chianti, Niccolò Fettarappa, Paolo Briguglia, Damiano Privitera – Teatro del Lavoro, Matilde Vigna, i Tony Clifton Circus, per il teatro; Cristina Kristal Rizzo, Kike Garcia, Gianmaria Borzillo, Zoé Lakhnati, Maria Colusi, per la danza; per la musica, tra concerti live set e dj set, i Quintorigo, Bluem, Generic Animal, IAKO, Key Clef, Aylin Leclaire, Alice Paltrinieri, Rumba de Bodas.

Giuseppe Provinzano, ideatore e curatore di Mercurio Festival – ph_Nayeli Salas

Incontriamo Giuseppe Provinzano, ideatore e curatore del progetto Mercurio, per fare un bilancio dell’edizione “speciale” appena conclusa durante la quale sono emerse alcune innovazioni e qualche cambio di rotta. L’intervista è stata l’occasione per fare il punto su questi sette anni di Mercurio ma anche per fare una riflessione sull’attualità geopolitica, che inevitabilmente ha pervaso il clima del festival, e sul senso di esclusione e di instabilità che l’attuale politica culturale produce nel mondo dello spettacolo dal vivo e, in particolare, in tante importanti realtà locali da anni impegnate nello ricerca in questo campo.

Si è appena conclusa la settima edizione di Mercurio, un’edizione speciale che tu stesso hai definito “di svolta”. Con tre anteprime e tre lunghi weekend tra agosto e ottobre, per durata e articolazione del programma lo è stata sicuramente. Quali gli altri elementi di novità?

Sì, la settima edizione di Mercurio è stata effettivamente una svolta, ma non nel senso spettacolare del termine. È stata una svolta di consapevolezza, di metodo, di posizione nel tempo e nello spazio che abitiamo. Dopo sette anni sentivamo l’esigenza di rimettere in discussione la forma stessa del festival, di allargarne i confini e i ritmi per renderlo più aderente ai processi reali della creazione artistica e della vita collettiva.
Abbiamo scelto di superare la formula concentrata in pochi giorni e di dilatare la programmazione in un arco temporale più ampio — tre anteprime estive e tre weekend autunnali — non per “occupare” più tempo ma per restituire tempo: alla ricerca, al confronto, al pubblico. In un’epoca di accelerazione costante, abbiamo sentito il bisogno di un tempo più umano, più permeabile, in cui le opere potessero respirare e sedimentare.
Le novità principali riguardano la centralità data ai progetti di co-creazione nati per il festival, l’ascolto di quanto avviene nel mondo, le collaborazioni con altre realtà del territorio che hanno voluto incrociare la loro programmazione con la nostra, per dare un senso di alleanza piuttosto che di concorrenza: penso al SoleLuna Doc Festival, al Kultur Ensemble, a Our Voice, moltiplicando il senso del valore del carattere distintivo del dialogo tra discipline trasversalmente inteso e non come categorie a sé stanti.
Inoltre abbiamo voluto che la presenza degli artisti nazionali e internazionali non si limitasse a “passare da Palermo e da Mercurio” per fare il proprio spettacolo/concerto ma che vivessero il festival a pieno, per confrontarsi con gli altri artisti e con il festival stesso da un punto di vista esperienziale.
È cambiato anche il nostro modo di intendere la curatela: meno come selezione e più come costruzione di senso collettivo.

Cari Spettatori di Danio Manfredini

Qual è il bilancio che ne fai nella tua qualità di ideatore e curatore?

Il bilancio è molto positivo: Mercurio oggi è un festival multidisciplinare e multispaziale che si propone come laboratorio vivo, un luogo dove artisti e pubblico si incontrano senza mediazioni e dove il rischio è ancora una scelta politica, non solo estetica. Dal punto di vista curatoriale, questa edizione ha segnato un passaggio importante: meno centrata sulla selezione di titoli e più sul disegno di un pensiero comune. Abbiamo cercato una coerenza non nei temi ma nella postura: quella del rischio, della vulnerabilità, della possibilità.
È il bilancio di un processo che resta aperto, che produce domande più che risposte. Mercurio è cresciuto, sì, ma nel suo modo di stare al mondo: come spazio fragile e resistente allo stesso tempo, dove arte, politica e vita quotidiana si incontrano senza retorica. E questo, in fondo, è il senso più profondo di una “svolta”: non chiudere un ciclo, ma imparare a cambiare pelle senza perdere la propria voce.

“Futuro stabile contemporaneo”: il titolo di questa edizione, in una situazione di particolare instabilità che stiamo vivendo, sembra un ossimoro che suona quasi beffardo. Era questo l’intento o qualcosa è cambiato in corso d’opera?

Il titolo “Futuro stabile contemporaneo” è nato volutamente come un ossimoro. Era, fin dall’inizio, una sfida lanciata a noi stessi e al tempo presente. Viviamo in un’epoca che sembra aver reso impossibile la parola “stabilità”, soprattutto se accostata alla contemporaneità e ai suoi linguaggi: tutto cambia, tutto si frammenta, tutto si consuma rapidamente. Eppure, nonostante (o forse proprio per) questa precarietà strutturale, sentivamo il bisogno di interrogarci su cosa significhi oggi costruire qualcosa che duri, che abbia radici, che non si dissolva al primo scossone.
Il titolo non era un atto di nostalgia o una ricerca di sicurezza: era un invito a immaginare la stabilità come una forma di resistenza. Non come fissità ma come continuità di visione, cura quotidiana delle relazioni e dei processi.
Nel corso del festival, il senso del titolo si è trasformato, la stabilità non è un punto di arrivo ma un esercizio costante: il tentativo di mantenere vivo un progetto anche quando tutto intorno muta. È diventato un concetto politico, oltre che poetico: costruire futuro, oggi, significa creare spazi in cui l’instabilità non sia paralizzante ma fertile.
In fondo, il titolo racconta bene ciò che Mercurio prova a essere: un luogo instabile che cerca equilibrio nel movimento. Se suona beffardo, è perché la realtà lo è ancora di più. Ma dentro quella beffa, dentro quella fragilità, si nasconde la possibilità di una nuova solidità: quella che nasce dalle persone, dalle comunità, dai gesti di cura quotidiani che tengono insieme l’arte e la vita.

Sette forse sono gli anni giusti per fare un bilancio di lungo periodo e, nello specifico, per valutare l’evoluzione del meccanismo della “direzione artistica condivisa”. Come ha retto negli anni? Ha mostrato dei limiti producendo sbilanciamenti o vuoti nel programma?

Quando abbiamo immaginato la formula della direzione artistica condivisa, composta ogni anno dagli artisti dell’edizione precedente, sapevamo che avrebbe comportato un certo grado di rischio. Lo abbiamo accettato. Non volevamo costruire una linea unica, coerente (sulla carta) ma un campo di tensione tra sguardi, linguaggi e sensibilità differenti. È stato un modo per ribaltare l’idea stessa di “direzione artistica” come esercizio di potere o di gusto individuale: a Mercurio la direzione è sempre stata un luogo di attraversamento, non di comando, uno sguardo verso qualcosa che vada oltre i propri confini della conoscenza a confronto con lo sguardo di altri.
Ci sono state edizioni in cui le differenze tra gli artisti che si sono succeduti hanno generato disfunzioni o vuoti apparenti ma li abbiamo sempre considerati parte del processo ed è lì che siamo intervenuti curatorialmente, cercando di dare gli aggiustamenti necessari, sebbene non tutto debba essere riempito, non tutto deve quadrare. In un contesto culturale che tende a misurare tutto in termini di produttività e continuità, difendere l’idea di un festival con i suoi slanci e le sue diversità, è per noi anche un gesto politico culturale impattante.
La direzione artistica così pensata regge perché non si è mai trasformata in un compromesso: è rimasta un laboratorio di confronto, spesso anche di conflitto, dove la dissonanza non è un errore ma una risorsa. E credo che proprio questo abbia evitato a Mercurio di cristallizzarsi in una formula riconoscibile o “di tendenza”. Ogni edizione ha una sua temperatura, un suo ritmo interno, che nasce dall’incontro tra chi la cura e gli artisti che la abitano. Basta guardare i numeri: in 7 edizioni si sono “passati il testimone” 20 artisti diversi, cioè 140 artisti diversi che hanno attraversato il Mercurio Festival.

Iride – Pixel Shapes – ph_ Nayeli Salas

Come si è evoluto il pubblico di Mercurio in questi anni?

È cresciuto di pari passo con questo processo. È cambiato, si è formato, ha accettato il rischio come parte dell’esperienza. Chi viene a Mercurio non cerca una programmazione rassicurante o didascalica ma un luogo dove poter mettere in discussione il proprio sguardo. E questo ci riempie di responsabilità, perché significa che il pubblico non è più un destinatario ma un interlocutore, un corpo collettivo che partecipa alla costruzione del senso del festival. Oggi posso dire che la vera evoluzione di Mercurio non sta solo nei nomi o nei progetti ospitati ma nel modo in cui è riuscito a creare una comunità temporanea, fluida, fatta di artisti, operatori, spettatori, cittadini, che ogni anno si ritrovano non per consumare ma per condividere un tempo e un pensiero.

Tornando al ruolo di curatore nella fase di “equilibratura”, sarebbe interessante capire dall’interno cosa avviene tra il momento in cui gli artisti esprimono le loro preferenze e la scelta finale. In quale direzione vanno i “correttivi” che vengono apportati?

La fase che potremmo definire di “equilibratura” è forse la più delicata e, per certi versi, la più politica del processo di costruzione di Mercurio. La direzione artistica implica che le proposte nascano da sensibilità e traiettorie differenti, a volte anche divergenti. Il mio ruolo di curatore insieme allo staff di curatori di cui gode Mercurio (Simona Argentieri per la danza, Roberto Cammarata e Sergio Beercock per la musica, Giuseppe Galante per i progetti A/V, Valentina Greco per le performance), non è quello di “decidere” in senso gerarchico ma di tenere insieme le tensioni, cercando un ritmo complessivo che permetta a ogni voce di emergere senza annullare le altre.
La prima fase è di ascolto radicale: capire quali direzioni stanno prendendo le scelte, quali immaginari stanno emergendo, quali ossessioni collettive o fragilità si stanno rivelando. Poi è necessario ricomporre — non per imporre un ordine, ma per creare una drammaturgia complessiva, un campo di senso in cui le opere possano dialogare. In questo senso, i “correttivi” non sono mai censori ma compositivi: si lavora per ritmo, intensità, contrasti, a volte anche per silenzi.
La curatela diventa allora un lavoro di montaggio, come in un film o in una partitura musicale. Capita che alcune tendenze si impongano spontaneamente: negli ultimi anni, per esempio, ho percepito un forte desiderio di tornare al corpo, alla materia, alla presenza dopo le stagioni di virtualità e astrazione. In quel caso il mio compito è stato quello di assecondare questa esigenza, ma anche spingerla a farsi linguaggio, non semplice reazione.
Altre volte, invece, ho sentito la necessità di frenare alcune derive troppo autoreferenziali o troppo legate a codici di tendenza del contemporaneo, quando rischiavano di diventare manierismi. Credo che il compito di un curatore sia anche quello di proteggere gli artisti da sé stessi, di farli uscire dal comfort del riconoscimento per rimetterli in gioco.
Ci sono poi considerazioni più “sottili”: la distribuzione degli spazi, delle durate, delle densità emotive, delle relazioni col pubblico. Un festival non è una sequenza di eventi, ma un organismo vivente e, come ogni organismo, ha bisogno di respiro. L’equilibratura serve a questo: a permettere che il festival possa essere attraversato, non solo osservato.
Negli anni ho imparato che la curatela non è un atto di selezione ma di fiducia. Fiducia nel fatto che, se si costruisce un contesto coerente e fertile, le opere si illuminano a vicenda e trovano da sole la loro collocazione. Io mi limito a regolare la luce, a spostare qualche ombra, a far sì che l’insieme non perda profondità.

“Siamo vivi ma non siamo felici”. Con questa frase hai esordito durante la presentazione di questa edizione riferendoti ai finanziamenti del Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo (FNSV) dal Ministero della Cultura ricevuti per il triennio 2025-2027 mentre tante altre realtà palermitane sono rimaste fuori. Come hai vissuto questo status di “sopravvissuto” in mezzo a tante macerie?

Quella frase è nata in modo spontaneo, quasi come un riflesso. Era una constatazione più che una dichiarazione. È vero: Mercurio e Babel (rispettivamente Festival Multidisciplinare e Impresa di Produzione nell’Innovazione) sono riusciti a entrare nel triennio del Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo, e questo garantisce una minima stabilità a un progetto che da anni lavora sul margine, spesso senza tutele. Ma non riesco a viverlo come un motivo di trionfo, perché la stessa decisione ha lasciato fuori molte altre realtà palermitane e siciliane che fanno parte del nostro stesso ecosistema. Essere “sopravvissuti” in mezzo alle macerie non è una vittoria, è una responsabilità. Significa sapere che la tua continuità si regge anche sul vuoto lasciato da altri, e che quel vuoto pesa sulla tenuta collettiva del sistema culturale della città. Non possiamo fingere che basti salvarne uno perché la cultura si salvi. Se attorno a te crollano teatri, festival, compagnie, allora anche la tua sopravvivenza è parziale, ferita. Ho vissuto questa condizione con un senso di ambivalenza profonda. Da un lato la soddisfazione per il riconoscimento, dall’altro una rabbia lucida verso un sistema che continua a produrre esclusione strutturale. Il problema non è solo chi entra e chi resta fuori ma i criteri stessi che regolano l’accesso, i meccanismi che trasformano la cultura in una competizione anziché in un campo di solidarietà e visione condivisa.
Credo che oggi chi ha avuto la fortuna di “restare dentro” abbia il dovere di usare quella posizione non per consolidare il proprio spazio ma per aprirlo. Per redistribuire, per costruire reti, per mantenere vivo il dibattito politico e culturale su cosa significhi davvero sostenere la creazione contemporanea in un territorio come la Sicilia. Quando dico “non siamo felici”, intendo che non possiamo esserlo finché il sistema è così diseguale. Non è un moralismo, è una constatazione: la felicità, nel nostro lavoro, è possibile solo se è collettiva. Se non cresce insieme agli altri, allora non è stabilità, è sopravvivenza. E la sopravvivenza, da sola, non basta. Mercurio continuerà a essere un luogo aperto, anche e soprattutto per chi oggi è rimasto escluso. Perché non esiste un futuro stabile, neppure per noi, se non siamo capaci di immaginarlo insieme.

I Quintorigo al Mercurio Festival – ph Ste Brovetto

A proposito di macerie, in questa edizione l’attualità geopolitica, più che mai, ha fatto irruzione in Mercurio. Oltre a ‘Mercurio 4 Gaza’, il concerto di solidarietà per Gaza o la partecipazione allo sciopero del 3 ottobre che ha influito sul programma del giorno, il genocidio in corso a Gaza o le sorti della Global Sumud Flottilla hanno pervaso il clima festivaliero influenzando il mood di spettatori e artisti (tantissime le performance durante le quali è comparsa la bandiera della Palestina o la scritta Free Palestine). Il popolo di Mercurio come popolo pro-Pal?

Mercurio è sempre stato uno spazio in cui le questioni del mondo entrano inevitabilmente. Non possiamo separare l’arte dalla vita e, in particolare, in una fase storica così drammatica come quella che stiamo vivendo. L’edizione di quest’anno ha visto l’attualità geopolitica farsi concreta ai Cantieri Culturali: c’era un filo rosso che attraversava tutto il festival: la responsabilità civile. Non direi che il popolo di Mercurio sia “pro-Pal” come slogan, quanto piuttosto che è un popolo consapevole, che riconosce nella cultura uno spazio di empatia e di presa di posizione. Non si tratta di etichettare gli spettatori ma di costruire un contesto in cui le questioni etiche e politiche possano essere sentite, discusse e incarnate attraverso l’arte. Gli artisti stessi hanno scelto di far entrare questi temi nelle loro opere perché sentivano che non si poteva rimanere indifferenti; il pubblico ha accolto questo invito senza forzature, partecipando a un clima di attenzione e cura collettiva.
Mercurio diventa un laboratorio di cittadinanza. Le domande su libertà e dignità sono entrate nel festival non come ideologia imposta ma come materia viva che interroga artisti e spettatori. Credo che questa capacità di coniugare arte e responsabilità politica sia una delle caratteristiche che distingue Mercurio. Non trasformiamo la piazza dei Cantieri in un manifesto, ma la rendiamo un luogo dove chi entra può sentire la tensione tra la bellezza e la tragedia del mondo e scegliere come confrontarsi con essa.

Mercurio 4 Gaza – ph_ Nayeli Salas

Mercurio è un sistema complesso: la direzione artistica condivisa, il lavoro di curatela, la multidisciplinarità, gli eventi collaterali, i diversi spazi utilizzati e la rete di collaborazioni attivate. Pensi che il festival possa raggiungere un livello di saturazione?

Mercurio è un organismo vivo, e come ogni organismo, vive di tensioni interne, di equilibrio tra crescita e respiro, tra molteplicità e coerenza. Il rischio di saturazione è inevitabile, soprattutto quando un festival si dilata nel tempo, negli spazi, nelle discipline e nelle collaborazioni che abbiamo costruito. Ma penso che Mercurio non possa saturarsi nel senso tradizionale del termine, perché la sua struttura stessa ne impedisce la cristallizzazione. La direzione artistica condivisa è fatta per generare continuamente spostamenti di prospettiva; la multidisciplinarità delle performance produce nuove micro-comunità e percorsi di fruizione che si rinnovano costantemente. Gli eventi collaterali, i diversi spazi e la rete di collaborazioni non aggiungono semplicemente contenuti, ma creano ecosistemi che si influenzano a vicenda, evitando che il festival diventi prevedibile o omogeneo.
Parlerei di qualità della relazione: è il grado di attenzione, di ascolto e di partecipazione che determina la capacità del festival di crescere senza perdere sé stesso, finché rimane laboratorio di sperimentazione, comunità temporanea e spazio di confronto critico, la crescita non produce saturazione, ma profondità. Mercurio cresce finché riesce a mantenere la tensione tra libertà e responsabilità, tra rischio e cura, tra estetica ed etica.
Credo che il rischio di saturazione non derivi tanto dalla moltiplicazione degli eventi o dei linguaggi, quanto dal contesto esterno in cui il festival deve operare: quello delle istituzioni locali. La Sicilia resta l’unica regione italiana senza una legge strutturale sui festival, e questo crea un vuoto normativo enorme, che costringe i progetti culturali a navigare a vista, tra bandi temporanei e finanziamenti incerti. Allo stesso tempo, il Comune di Palermo, pur sostenendo il festival da sempre, non permette una crescita reale: il sistema è gestito con totale discrezionalità da apparati dirigenti che spesso non hanno né competenze né visione per comprendere il lavoro culturale, mentre sanno benissimo gratificare chi è “benvoluto”. In questo contesto, ogni progetto rischia di raggiungere un punto di saturazione non per esaurimento creativo, ma per limiti strutturali esterni: la crescita del festival è continuamente compressa da chi dovrebbe sostenerla in maniera organica. Finché le istituzioni non garantiscono regole chiare, stabilità e competenza, ogni ampliamento rischia di trasformarsi in frustrazione, invece che in sviluppo.

Se dovessi individuare un motivo conduttore, un filo rosso che ha attraversato questa edizione di Mercurio, quale indicheresti?

Credo che sia la capacità di essere al tempo stesso laboratorio e specchio della contemporaneità. Ogni edizione ci ricorda che la cultura non è mai neutra: è politica, sociale, etica. Viviamo in contesti fragili, dove la mancanza di regole strutturali e la discrezionalità degli apparati istituzionali comprimono lo spazio di crescita. Eppure, proprio in questa fragilità si misura la resilienza del festival: la capacità di creare comunità, di dialogare con il pubblico, di rendere visibile ciò che spesso resta invisibile.
Poi ci sono i numeri, Mercurio ha superato anche quest’anno le 8.000 presenze: non so dire se trattasi di un trionfo compiuto, ma sicuramente sentiamo forte la consapevolezza che la sua forza sta nel processo, nel percorso collettivo, nella costruzione di un futuro che sia insieme stabile e contemporaneo.
Questa è la lezione più importante che possiamo trarre oggi: essere vivi non basta, e non sempre ci rende felici; ma continuare a costruire, a resistere, a immaginare insieme, è l’unico modo per dare senso a ciò che facciamo.

MERCURIO FESTIVAL

Cantieri Culturali della Zisa – Palermo
26 agosto– 5 ottobre 2025