RENZO FRANCABANDERA | Fino a ottobre 2027 Fabrizio Arcuri sarà il nuovo direttore artistico dello spettacolo del Comune di Verona. Un profilo che, per i progetti realizzati negli anni in città italiane come Roma, Torino, Genova e Udine, è stato ritenuto quello adatto a succedere a Carlo Mangolini, proprio per le competenze artistiche e direzionali di alto livello: Arcuri ha diretto non solo teatri, ma anche diverse strutture dedicate allo spettacolo dal vivo, partecipando anche a programmi internazionali promossi dall’UE.
Il regista e curatore ha un’esperienza di pratiche davvero molto ampia dentro i linguaggi della performatività contemporanea, anche nel loro dialogo con i diversi contesti urbani; premesse essenziali per dare corpo all’intenzione dell’amministrazione veronese di aprirsi a programmi innovativi, capaci di ampliare i pubblici delle performing art e di generare sinergie virtuose sia a livello locale, che nazionale e internazionale.
Abbiamo intervistato Fabrizio Arcuri, nel giorno in cui il Camploy ospita festa di inaugurazione della stagione (ore 18,30), ospitando Steli, la storica performance partecipativa di Stalker Teatro.

Fabrizio, il tuo incarico a Verona unisce, sotto un’unica direzione artistica, realtà molto diverse: dal Festival Shakespeariano al Teatro Romano, dalla rassegna di prosa al Teatro Nuovo a “L’Altro Teatro” al Camploy, fino al teatro di ispirazione più genuina e amatoriale. Considerando la tua esperienza in strutture dedicate alle arti in senso ampio, come i parchi archeologici di Roma, come pensi di far dialogare, fra curatela e direzione, queste anime così differenti? Intendi creare un “sistema” integrato o manterrai una distinzione netta tra le diverse proposte, e con quale obiettivo?

Il mio intento non è quello di uniformare realtà differenti entro un unico linguaggio, ma di farle dialogare attraverso una prospettiva curatoriale che riconosca e valorizzi la specificità di ciascuna. Verona custodisce una straordinaria pluralità di luoghi e tradizioni teatrali: il respiro classico e internazionale del Festival Shakespeariano al Teatro Romano, la drammaturgia contemporanea del Nuovo e del Camploy, fino all’energia spontanea del teatro amatoriale e di comunità. Ciascuna di queste dimensioni rappresenta un tassello essenziale del sistema culturale cittadino, e la sfida è quella di costruire tra loro una relazione viva e coerente.
L’esperienza maturata nei parchi archeologici di Roma mi ha insegnato che la stratificazione – storica, estetica, identitaria – non è un ostacolo, ma una risorsa di senso. Così come un sito archeologico conserva diverse epoche in un unico paesaggio, anche Verona può divenire un palinsesto teatrale in cui il classico e il contemporaneo, il professionale e l’amatoriale non si contrappongono ma si rispecchiano, generando nuovi significati.
Il mio obiettivo è dunque la costruzione di un sistema integrato di curatela, capace di offrire una visione complessiva pur mantenendo la piena autonomia dei linguaggi. Ogni ambito conserverà la propria fisionomia, ma sarà chiamato a partecipare a un disegno comune, fondato su una poetica condivisa e su una politica culturale che promuova il dialogo tra le forme, le generazioni e i pubblici.
Non si tratta di unificare, ma di armonizzare; non di sovrapporre direzioni, ma di costruire relazioni. Solo così le diverse anime del teatro veronese potranno costituire un organismo vivo, in grado di riflettere la complessità e la vitalità del nostro tempo, restituendo alla città una scena che sia insieme memoria e sperimentazione, tradizione e visione.

Come as you are è uno slogan potente che sa di inclusività. Tuttavia, l’ampliamento dei pubblici è una sfida complessa. Oltre all’invito, quali strategie concrete intendete mettere in campo per rendere il teatro di Verona un luogo accessibile e desiderabile per quelle fasce di cittadini (giovani, migranti, nuovi abitanti) che tradizionalmente non lo frequentano? Pensi a format ibridi, a politiche di prezzo, a luoghi non convenzionali o a una comunicazione radicalmente diversa?
Come as you are è, prima di tutto, un principio di poetica e di cittadinanza culturale: un invito ad abitare il teatro nella propria autenticità, senza mediazioni o barriere simboliche. Ma è vero, l’inclusività non si realizza per dichiarazione, bensì attraverso una progettualità strutturata che renda il teatro realmente permeabile alla complessità sociale del presente.
L’obiettivo è costruire una comunità dello sguardo, non un’élite dello spettacolo. Per questo, le strategie operative si muoveranno su più piani: da un lato, una rimodulazione dell’accesso, con politiche di prezzo flessibili, abbonamenti trasversali e percorsi dedicati ai giovani e ai nuovi cittadini; dall’altro, un ripensamento dei formati, attraverso pratiche ibride che possano unire performance, musica, parola e arti visive, restituendo al teatro la sua vocazione originaria di spazio collettivo e rituale, non solo rappresentativo.
Parallelamente, intendiamo riattivare luoghi non convenzionali – spazi urbani, cortili, siti archeologici, quartieri periferici – per portare l’esperienza teatrale là dove non arriva naturalmente. Non per “decentrare” la cultura, ma per riconoscerne la pluralità dei centri.
Infine, una parte decisiva del lavoro riguarderà la comunicazione, che dovrà essere non solo più accessibile ma più empatica: capace di parlare linguaggi diversi, di raccontare il teatro come un’esperienza di appartenenza, non come un codice da decifrare.
In sintesi, si tratta di spostare il teatro da un luogo di rappresentazione a un luogo di relazione. Solo in questo modo l’invito Come as you are potrà diventare un gesto politico e poetico insieme: un’apertura reale verso la città e verso coloro che, finora, non hanno percepito il teatro come un proprio spazio possibile.
La tua formazione alla scuola di Luca Ronconi, maestro nel mescolare i linguaggi e nel creare percorsi narrativi complessi, come pure la tua pratica scenica così votata al contemporaneo già traspaiono nella scelta di artisti per la stagione del Camploy. Come intendi tradurre questa tua esperienza di vita in un progetto per una città come Verona, che ha un fortissimo legame con una tradizione lirica e shakespeariana più classica? Credi che la “contaminazione” possa essere la chiave per rinnovare il rapporto del pubblico veronese con i suoi stessi teatri storici?
Fabrizio Arcuri

Non mi sono formato alla scuola del Piccolo Teatro diretta da Luca Ronconi, ma se per “alla scuola di…” intendi essergli stato vicino e aver appreso alcuni elementi cruciali del mestiere di regista, quello sì. Ho avuto il privilegio di lavorare al suo fianco per cinque anni come regista assistente, su tre produzioni importanti e per la Scuola di Santa Cristina. È stata un’esperienza fondativa: più che un apprendistato tecnico, un’immersione in un modo di pensare il teatro come sistema di relazioni tra linguaggi, tempi e spazi. Ronconi non insegnava “uno stile”, ma una postura mentale: l’idea che ogni progetto dovesse interrogare la forma, la storia e la percezione dello spettatore.
Questo patrimonio, insieme alle altre esperienze maturate in questi anni in ambito più o meno istituzionale hanno costruito un bagaglio che considero etico prima ancora che estetico e che è alla base del mio modo di concepire la direzione artistica. Portarlo a Verona significa confrontarsi con una città dalla tradizione imponente – lirica, shakespeariana, monumentale – ma anche con un tessuto sociale e culturale in profondo mutamento. Credo che la sfida non sia contrapporre il nuovo al classico, bensì mettere in circolo le energie del passato e del presente in un dialogo creativo e consapevole.
La “contaminazione”, in questo senso, non è un gesto di rottura ma di continuità: un modo per riscoprire i grandi repertori attraverso la sensibilità del nostro tempo, e per aprire il teatro a nuove drammaturgie senza smarrire le radici. Penso a un sistema teatrale veronese che non viva di compartimenti stagni, ma di osmosi: tra tradizione e ricerca, tra parola e corpo, tra scena e città. Solo così il pubblico potrà riconoscersi in un teatro che non impone modelli, ma li rilegge; che non teme la complessità, ma la assume come forma di verità. È in questo spazio di scambio – dove il classico e il contemporaneo si riflettono a vicenda —–che, credo, potrà nascere un nuovo patto tra Verona e i suoi teatri.

Verona come crocevia internazionale pone da sempre un dilemma: ospitare o produrre? L’internazionalizzazione è uno degli obiettivi strategici del bando che hai vinto. La tua programmazione per L’Altro Teatro è fortemente incentrata sulla scena nazionale contemporanea. Quale sarà la strategia per portare a Verona esperienze artistiche internazionali? Punterai principalmente ad ospitare compagnie straniere consolidate o a favorire coproduzioni e residenze che facciano di Verona un laboratorio creativo con artisti da tutto il mondo, magari coinvolgendo anche le realtà produttive locali?
Verona, per la sua storia e la sua geografia culturale, è naturalmente proiettata verso l’internazionalità. Il Teatro Romano, in particolare, rappresenta un luogo simbolico in cui la memoria del teatro antico si incontra con le forme contemporanee della scena. Tuttavia, oggi il tema non è più semplicemente scegliere se “ospitare” o “produrre”, ma ridefinire un equilibrio dinamico tra le due dimensioni, affinché l’internazionalizzazione diventi un processo, non un’etichetta.
In coerenza con gli obiettivi del bando a cui ho partecipato, dove si esplicita che il festival intende consolidare il proprio posizionamento nazionale, ponendo al centro le migliori esperienze della scena italiana contemporanea, ma al tempo stesso aprirsi a presenze internazionali significative, capaci di dialogare con la nostra identità culturale penso a un modello misto: da un lato, ospitare grandi spettacoli già realizzati, che abbiano segnato il panorama nazionale o europeo e che possano trovare nel Teatro Romano una nuova vitalità; dall’altro, avviare nuove coproduzioni e residenze con artisti e strutture nazionali e internazionali, trasformando Verona in un laboratorio di creazione e di confronto tra linguaggi. Certamente la collaborazione con gli artisti del territorio è un aspetto importante e con loro cercherò di costruire delle progettualità nel corso del tempo, partendo proprio dal costruire percorsi di collaborazioni nazionali internazionali.
L’obiettivo non è accumulare nomi o sigle, ma costruire una rete viva di scambi, in cui la tradizione classica del luogo diventi piattaforma di sperimentazione e di pensiero scenico contemporaneo. L’internazionalità, in questo senso, non è una “vetrina”, ma un modo di lavorare: una forma di dialogo che rinnova il repertorio e, insieme, il modo di guardarlo. Così il Teatro Romano potrà continuare a essere ciò che è da secoli: un ponte tra culture e tempi diversi, capace di parlare al mondo restando profondamente radicato a Verona.
Concludiamo da quello che in realtà dovrebbe essere l’inizio, ovvero il Teatro come presidio: il Comune definisce il Camploy un “presidio culturale e sociale”. Oltre alla rappresentazione sul palco, come immagini che il teatro possa attivarsi nella comunità? Pensi a progetti di coinvolgimento del territorio, a laboratori, a dibattiti che trasformino lo spettacolo in un’occasione di riflessione pubblica e di dialogo con le associazioni e le istituzioni sociali della città? Quale idea di Verona futura sta nella tua mente?
Quella di “presidio culturale e sociale” è la prima definizione che abbiamo condiviso, e rappresenta l’immaginario entro cui si iscrive la nostra visione per il futuro. Non un’etichetta, ma un orizzonte: l’idea di un teatro che non sia soltanto luogo di rappresentazione, ma spazio di presidio civile, di ascolto e di costruzione comunitaria.
Pensare il Camploy come presidio significa restituirgli una funzione attiva nel tessuto urbano: un teatro aperto, permeabile, attraversabile anche al di là delle sere di spettacolo. Un luogo capace di ospitare non solo le compagnie e gli artisti, ma anche i cittadini, le associazioni, le scuole, i gruppi informali, in un dialogo costante con le istituzioni sociali e culturali della città.
Accanto alla programmazione artistica, immagino progetti di partecipazione e di prossimità: laboratori di comunità, percorsi di formazione alla visione, momenti di confronto e di riflessione pubblica che trasformino il teatro in un dispositivo di pensiero collettivo. La cultura, in questa prospettiva, non è un servizio accessorio, ma un diritto e una forma di coesione: un linguaggio attraverso cui la città si racconta, si riconosce, si rigenera.
La mia idea di Verona futura, che ho condiviso e intendo condividere sempre più non solo con l’amministrazione ma con chiunque intenda collaborare, è quella di una città-mosaico, in cui ogni aspetto diventi parte di un sistema vitale e interconnesso; dove le diversità – di linguaggi, di pubblici, di provenienze — non siano barriere, ma punti di forza. Un teatro che custodisce e rinnova, che produce senso e comunità, che fa della relazione la sua forma più alta di arte.
In questo senso, il Camploy come presidio non è solo un luogo fisico, ma una presenza etica: un teatro che abita la città e la sua complessità, diventando, ogni giorno, un laboratorio di cittadinanza culturale.