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giovedì, Aprile 25, 2024
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Cantieri di Lavoro Teatrale XXI: ciò che resta dei sogni al risveglio

Ma sei proprio sicura che noi siam desti? Mi pare di dormire ancora, di sognare.
(W. Shakespeare)

GIAN LUCA ATZORI | Quando Oberon, Re degli Elfi, ingaggia il folletto Puck per stregare la moglie Titania in modo da concedergli un suo servitore, non si aspettava certo di farla innamorare di un artigiano con la testa d’asino, disperdendo il confine tra realtà e immaginazione e catapultando i personaggi Shakespeariani della Grecia antica in un sogno di una notte di mezza estate. Cosa rimane dei sogni al risveglio? E’ proprio intorno a questa domanda che si sviluppa la XXI edizione dei Cantieri di Lavoro Teatrale. Quello che in psicoanalisi prende il nome di residuo onirico diviene tema, e per lo più pretesto, per radunare decine di artisti nei boschi di ossidiana altrettanto onirici del Monte Arci in Sardegna.

Il festival promosso da Carpe Diem e Casa delle Storie negli anni si è mosso tra Montevecchio e Soleminis coinvolgendo artisti di altissimo calibro. Quest’anno col cambio di location ha dovuto forzatamente ridimensionarsi ma senza scemare in qualità. L’offerta culturale ha previsto 18 performance partendo da Soleminis (23, 24, 26/09), facendo tappa a Cagliari (25/09) e approdando per l’intera settimana successiva a Pau, nell’Alta Marmilla, territorio originario di Antonio Gramsci.

La Residenza Artistica ha costituito il cuore pulsante del Cantiere di Lavoro. La compagnia di danza e fotografia Prendashanseaux, la regista Mila Vanzini, il drammaturgo Carlo Guasconi, il poeta Andrea Peracchi, le cantanti liriche Natalia Bocco e Nila Masala, le attrici Giusi Merli, Susanna Brusa e tanti altri, hanno creato un percorso itinerante nel bosco, trasformandolo in uno sconfinato teatro all’aperto e dando vita ad una performance dove non è stata solo l’opposizione tra sogno e veglia a far da padrone, ma anche quella tra natura e comunità, terra e aria, arcaico e contemporaneo. Un legame intergenerazionale tessuto nei giorni dall’arte e dalla convivialità tra gli artisti.

Nel corso della settimana infatti, il musicista Andrea Mazzacavallo si è rivolto ai più giovani, affiancando l’arte nelle scuole all’insegnamento della matematica, per poi condurci in “un viaggio comico-economico”, interiore ed esteriore senza età, che prende il nome di “Ticket”. E’ nel dialogo tragicomico con il baratro all’interno di ognuno di noi che si sviluppa anche lo spettacolo dei Principio Attivo, in cui la leggerezza affronta i filoni più oscuri dell’animo umano senza mai proferir parola o scadere in superficialità. Tema ripreso anche dall’attore Felice Montervino che nel suo Trittico sulle Idiosincrasie estremizza le fobie recondite del maschilismo moderno.

Un viaggio nella profondità dell’anima dunque, che nei giardini del Caffe Letterario, il Nautilus del compositore Francesco Morittu, è riuscito ad insinuare sotto le nostre pelli nel tentativo di riconnetterci con le nostre origini. Rossella Faa e Anna Paola Marturano hanno invece traslato l’itinerario onirico ed esistenzialista dall’uomo alla macchina, portando in scena la storia vera di Geordie, un intelligenza artificiale che sogna la terra e scopre la poesia.

A chiudere il ciclo di performance, le note grevi del cantautore Folco Orselli che tra sacro e profano hanno echeggiato tra le pareti della storica ed intima chiesa di Santa Prisca. Una location provocatoria anche per l’opera di Verga reinterpretata da Rosy Bonfiglio ed incentrata sul tema della libertà, di noi capinere un po’ narcise e un po bocchedoro, incapaci di nutrirci di solo miglio ma assuefatte dalla cattività che ci porta a considerare il volo come una malattia.

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La forza di questa esperienza sta però nel non limitarsi solo ad un forte impatto culturale. Si è affacciata infatti in un territorio critico, quello di Pau, di appena 316 abitanti, definito in “via d’estinzione”. A detta degli organizzatori Aurora Aru e Franco Marzocchi, il grande potere sociale di questa iniziativa sta proprio nel trasformare la “diffidenza in confidenza” e i “problemi in opportunità” attraverso la rivalorizzazione di spazi e tempi in disuso.

La brina del mattino; l’odore di leccio e sughero; il riflesso dell’ossidiana al tramonto che scivola tra le dita; le facce stanche di chi è pieno di vita e mai è sazio di nutrirsi della propria arte; una comunità che quell’arte l’ha appena assaggiata e pare già non poterne più fare a meno. In questo scenario dionisiaco per tutta la settimana si è riflettuto su una domanda ben precisa: Cosa rimane dei sogni al risveglio? Dopo questa esperienza non ho certo la presunzione di aver trovato la risposta, ma più volte ho percepito la sensazione di trovarmi al fianco di Titania, Oberon e Puck, nel chiedermi l’esatto opposto: Cosa rimane della realtà per chi al risveglio è ancora in grado di sognare? Perché esistono esperienze capaci di farci scorgere anche solo per un istante il mondo che vorremo. Un mondo capace di farci vivere i nostri sogni e non solo di farci sognare la nostra vita.

Che fine farà il teatro italiano…#1: quando spariranno le rassegne di teatro omosessuale

jc.jpgRENZO FRANCABANDERA |“Preferirei essere negro piuttosto che gay. Perché se sei negro non lo devi dire a tua madre”, sosteneva Charles Pierce. E’ stato uno dei più importanti imitatori e drag del secolo scorso, un pioniere per le drag queen, divenuto celebre per le sue imitazioni di Bette Davis. Dicevano di lui che somigliasse a Joan Collins più di Joan Collins stessa.
Sicuramente, fosse nato in Italia e avesse avuto la stessa disgraziata idea di fare l’attore, sarebbe finito, ai giorni nostri, per passare in qualche rassegna pre-stagionale dedicata al teatro omosessuale o a tematica gender, per essere politically correct, cosa che non vogliamo.

Nel tempo, infatti, da rassegne di teatro omosessuale sono divenute rassegne LGBT. Prima ancora che il grande pubblico con fatica e non senza qualche approssimazione tassonomica familiarizzasse con queste quattro lettere fatidiche per la cultura di genere, e che stanno per Lesbian, Gay, Bisexual, Transsexual, ecco che già se ne aggiungono altre, trasformando l’acronimo in LGBTQIA (Lesbian, Gay, Bisexual, Transsexual, Queer, Intersex, Asexual).
La chiesa cattolica condanna tutto questo alfabeto senza distinzioni, sia chiaro.

Il mondo dell’arte ha sempre avuto nella sensibilità di genere un polmone naturale per consentire la libera espressione, anche in anni in cui l’accettazione della cultura del gender, una tragedia di portata analoga a quella di “una guerra mondiale” per il matrimonio, per dirla con Papa Francesco, era utopica.
A teatro, ancora con fatica, si accetta che si parli di e attraverso il corpo, specie se con manifestazioni più cariche e simbolicamente (oltre che fattualmente) “estreme”, che potremmo sinteticamente ascrivere alla voce “esibizioni di ricchionismo“.

Come non ricordare infatti questa mirabile definizione, regalataci da Domenico Modugno in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti pubblicata sulla rivista Sette il 10 settembre 1991, allorquando ebbe a sostenere, anziano ma ancora pugnace: “Non è che io sia razzista nei confronti dei pederasti. Però questa esibizione di ricchionismo dappertutto mi rompe cordialmente le palle. Mi disturba questo buttare in faccia a tutti i costi che io e te siamo uguali. No, non siamo uguali. Io non sono uguale al frociaccio che esibisce il suo ricchionismo. La tua checchieria io la sopporto e la rispetto. Ma non devi esibirla ad oltranza e mettermi in imbarazzo. Non siamo uguali. A me piacciono le donne e a te gli uomini. E le lesbiche poi? Dio come mi stanno… lo scriva, lo scriva”.

Avremo deluso coloro che lo ricordavano più romanticamente, proprio lui che con Cosa sono le nuvole aveva regalato le note e le parole per il finale di uno dei film più belli di Pasolini, mentre nella parte del netturbino portava via i burattini di Otello e Iago, impersonati da Ninetto Davoli e Totò.

Ecco, in Italia, a teatro, queste “esibizioni” trovano spazio, e anzi, negli ultimi anni sono diventate persino oggetto di rassegne assai popolate dal pubblico, con incontri, drammaturgie tematiche, curatori. Insomma una cultura che (pur facendo spavento ad alcuni, come si è capito) si muove, vive, resiste e moltiplica le occasioni di incontro. Da Garofano Verde a Roma a Gender Bender a Bologna, passando per Illecite//Visioni o Liberi Amori a Milano, dove peraltro presso l’Atir Ringhiera esiste un centro attivo di promozione e studio del linguaggio scenico legato alle tematiche di genere, l’Italia del teatro pullula di rassegne gay, tanto che ci si chiede cosa ne sarebbe se non ci fossero più. Illecite//Visioni (a Milano dal 12 al 16 ottobre) ha toccato in questi 5 anni i 10.000 spettatori, un numero incredibile per un teatro. Promossa dal Teatro Filodrammatici di Milano con l’intento di diffondere, attraverso lo strumento teatrale, conoscenza ed inclusione, vede la Direzione Artistica affidata a Mario Cervio Gualersi, che la gestisce in totale autonomia rispetto alla direzione del Teatro stesso.

Unknown.jpegAbbiamo, tuttavia, chiesto ad uno dei due Direttori Artistici del Teatro Filodrammatici, Bruno Fornasari (che governa in diarchia con Tommaso Amadio), che ospita nella sua struttura l’evento, cosa ritiene dell’opportunità di promuoverne e sostenerne uno. “È infatti importante sapere che Illecite visioni non è solo un’ospitalità – ci dice – perché l’iniziativa di un festival, professionale, a tematica LGBTQIA, qui a Milano è nata dal Filodrammatici e col Filodrammatici”.

E che fine farà il teatro italiano quando spariranno le rassegne di teatro gay, gli chiediamo.
“Il teatro, già di per sé entità fragile, senza un festival LGBTQIA sarebbe uno specchio rotto. Come Shakespeare gridava ai suoi attori, “siate specchio della realtà”, così crediamo che dar spazio a creazioni sceniche legate a temi poco trattati, perché scomodi o di non immediata comprensione, sia necessario per ricomporre tutti i cocci di uno specchio fondamentale come quello del teatro, luogo in cui le persone da sempre si riuniscono per “riflettere” su gioie e dolori della complessità del vivere. Sarebbe un peccato perdere prospettive così preziose e poi, chi lo vorrebbe uno specchio rotto e tutti quegli anni di sfortuna?”

Specchio, specchio delle mie brame, ma chi è il curatore di rassegne omo più tenace del reame? Beh, non sappiamo se è IL più, ma Rodolfo di Giammarco a Roma con Garofano Verde, giunto alla 23esima edizione quest’anno a Settembre, è sicuramente un navigatore di lungo corso. Allora lui deve saperlo per forza come si fa a fare a meno di tutto questo.

Come si fa Rodolfo, diccelo, e non solo teoricamente, ma anche praticamente. Si può?

“Allora, Teoricamente: se non ci fossero più le rassegne di teatro gay, e l’abolizione rispondesse a una pacifica condizione sociale-etica, il teatro italiano ne guadagnerebbe in dignità e in testimonianza di raggiunta libertà di costumi, e questo venir meno di una tematica scenica sarebbe finalmente il netto segnale d’una scomparsa delle discriminazioni, degli steccati, dei pregiudizi. Una pura ipotesi.

copia-di-locandina-2016Praticamente: le cronache di tutti i giorni, le divisioni politico-istituzionali in merito ai diritti degli omosessuali, le inculture sui gay ancora diffusissime in una parte consistente della popolazione, legittimano tutt’ora una sezione di spettacoli che riflessivamente tratti le emozioni, le incomprensioni, le fenomenologie di chi ha una sensibilità non (chiedo scusa per il brutto termine) normo-orientata.

Teatralmente: il Garofano Verde è riuscito a dare senso a testi storici del ‘900 fondati su una drammaturgia omosessuale, ha stimolato una scrittura inedita motivata da nuovi aspetti dell’appartenenza gay, ha convinto vari artisti a fare una sorta di outing scenico (e, ad esempio, un teatrante come Pippo Delbono ha portato ovunque all’estero un lavoro su di sé nato nella rassegna, in quattro lingue), e ora sta favorendo imprese che vengono recepite in tutte le sale italiane.

Civilmente: visto che da tre anni il teatro pubblico degli enti locali ha decretato la fine di ogni sostegno (dopo venti edizioni assistite) al Garofano Verde, si è creato un sistema più umano, più indipendente e più solidale perché la manifestazione esista, e il teatro italiano non ne faccia a meno: c’è chi offre uno spazio dove agire (il Teatro di Roma), ci sono artisti che contribuiscono con idee, allestimenti e recite a spese proprie (vari bei nomi), e c’è chi si  adopera affinché l’appuntamento resista, ci sia.”

Ce ne libereremo mai? E quand’anche fosse, saremmo liberati, e quindi più liberi, o meno?

Gl’innamorati: piccoli crimini con armi a salve

RENZO FRANCABANDERA | Trama solita, ovvero l’amore della coppia contrastato dagli uomini e dal caso, con lieto fine. Un secolo e mezzo dopo la tragedia di Romeo e Giulietta, nel 1759 Goldoni scrive con finale più allegro Gl’innamorati, protagonisti Eugenia e Fulgenzio.
Teatro Libero di Milano, di ritorno dopo un buon successo di pubblico nella primavera scorsa, fruiamo una messa in scena della riscrittura del classico, firmata dal giovane Fabrizio Sinisi, classe 1987, negli ultimi anni in auge a teatro per le collaborazioni con Tiezzi; barlettano come il regista di questa messa in scena, Giampiero Borgia.
Riscrittura abbastanza lineare, senza fuoripista: di fatto una semplificazione della trama, con l’aggiunta di qualche sottotesto recitato e un pizzico di pepe qui e lì nella chiara direzione della commedia di coppia. Interpreti Borgia stesso e la aggraziata Elena Cotugno, da anni nella compagnia di Borgia con ruoli minori e che qui tiene bene la comprimarietà. La tesi drammaturgica, esposta chiaramente in apertura di pièce, è che le difficoltà spesso non sono esterne alla coppia, ma si originano dentro, quasi a dare alimento al sentimento, perché scopo del gioco delle parti, nell’amore, sarebbe quello di imprigionare l’altro e averlo solo per sè. Insomma l’amore litigherello e dispettoso.

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Ne segue un allestimento per lo più ironico, dove la vibrazione attorale si attesta all’interno di una banda di oscillazione emotiva che non provoca particolari sussulti, giocata su un testo che potrebbe, di tanto in tanto, virare sull’equivoco psicologico, ma che la regia porta piuttosto sul binario della commedia macroregionale, probabilmente guardando al verosimile bacino di circuitazione del lavoro. Questo sapore viene enfatizzato dall’inflessione pugliese senza correzioni di dizione per Borgia. Ortoepica invece la Cotugno. Non chiaro il motivo di questa differenza.
Lei altera con un sorriso dolce nel portato comportamentale, lui più gigione e incline alla sollecitazione della risposta da parte del pubblico sugli accenti ironici, anche per via delle diverse parti di cui è interprete.

Con più impegno, l’idea drammaturgica avrebbe potuto portare a qualcosa di vicino, nel sapore, a Piccoli crimini coniugali, invece così semplificata e poco “nuova”, l’operazione fa piuttosto balenare l’idea del piccolissimo reato di accidia: ci riferiamo un po’ alla riscrittura, scevra da significativi slanci poetici e di questioni letterarie coerenti con una riscrittura vera, ma ancor più alla lettura registica che, fosse stata esterna, avrebbe probabilmente depurato l’esito da una serie di circostanze su cui l’auto-sguardo è stato indulgente.

Dal novero degli indiziati al piccolissimo reato occorre comunque escludere Papaceccio MMC, cui si devono pregevoli e giuste riscritture alla moda di Vivaldi di alcuni classici del pop contemporaneo, che ben si intonano a questa rivisitazione dell’ambiente pseudo-settecentesco, rinforzata dai costumi di Giuseppe Avallone.

Notevole la scenografia studiata della Cotugno, che chiude la coppia in una stanza-prigione, per una recusione che ha però anche le caratteristiche del rifugio, con i sacchi di sabbia: basterebbe dunque l’installazione scenica di suo a far sintesi dell’operazione e del concetto, su cui lo spettacolo si dilunga poi per un’ora, precipuamente alla ricerca del divertissement, senza altre sfumature significative di cui necessiti qui far menzione.
Acide le luci di Pasquale Doronzo, che illuminano lo sfondo quasi in controluce e che giocano sui ‘complementari’ verde/rosso con cenni d’azzurro, mentre nello spazio agito in primo piano, all’interno delle grate/finestre, il piazzato di luce diffusa resta tale praticamente per quasi tutto lo spettacolo, con qualche rinforzo spot.
Nel complesso una visione leggera, per un pubblico largo, ma con marginali questioni di interesse per la critica del linguaggio.

 

GL’INNAMORATI
da Carlo Goldoni

drammaturgia di Fabrizio Sinisi
con Elena Cotugno e Gianpiero Borgia ( regia)

costumi di Giuseppe Avallone
musiche di Papaceccio mmc
luci di Pasquale Doronzo
scene di Elena Cotugno
foto di scena Raffaella Distaso
Coproduzione Teatro dei Borgia e Teatri di Bari

Mario Perrotta e i suoi migranti venuti dal mare

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LAURA NOVELLI | Sbucano furtivi dal mare come lupi affamati di terra. Corrono a decine sulla spiaggia ghiaiosa in cerca di un riparo da quella distesa di acqua che li ha strappati alle loro famiglie, alle loro case, alla loro vita, ai loro sogni. Li vediamo affiorare dalla semioscurità di un’alba ancora fioca, mentre la musica stordisce questo approdo incurante del buio e dell’umidità conferendogli quello spessore poetico che gli approdi veri, quelli di centinaia  di migranti che ogni giorno sbarcano sulle nostre coste, non hanno. Siamo a San Foca, sulla riva adriatica del Salento, e sono le 5.30 del mattino. Qualche striatura aranciata illumina timidamente uno spicchio di mare, un angolo di scogliera. A breve sarà giorno ma fa ancora freddo.

Siamo qui perché qui sorge, alle nostre spalle, quello che un tempo era il Centro di Permanenza Temporanea “Regina Pacis”, chiuso 2006 a seguito dell’inchiesta giudiziaria avviata contro il suo direttore, don Cesare Lodeserto, condannato per violenza privata, truffa, istigazione a delinquere e chi più ne ha più ne metta. Oggi l’ex CPA è un caseggiato bianco, imbrattato di scritte, fatiscente, silenzioso, abbandonato. Un obbrobrio edilizio assurto a luogo della memoria. A luogo dell’orrore. A museo involontario dell’impietoso accanimento contro i più deboli.

E siamo qui perché proprio da qui parte il nostro viaggio di spettatori migranti nel Salento sulla rotta di un coraggioso progetto firmato da Mario Perrotta: Verso Terra. A chi viene dal mare, attraverso cui il drammaturgo/regista/attore leccese torna al tema caro della migrazione (e basti citare la straordinaria forza espressiva del dittico realizzato in Italiani cincali! del 2003 e 2005 o la serie di storie tessute insieme in Emigranti Esprèss) per rileggerlo alla luce della storia recente. Si tratta dunque di un progetto di largo respiro che, dopo il successo degli eventi performativi dedicati alla figura del pittore Ligabue, spinge ancora una volta Perrotta (qui autore e regista ma non in scena) ad una creazione intimamente legata ai luoghi. Verso Terra si articola infatti in due performance site specific (uniche repliche – per ora – nel primo week-end di ottobre) studiate rispettivamente per San Foca e per Porto Selvaggio (località del versante ionico) e in uno spettacolo vero e proprio, Lireta, ispirato ai diari di un’immigrata albanese oggi cittadina italiana, Lireta Katiaj, che, interpretato da Paola Roscioli, ha visto il suo debutto sul mare, con palcoscenico costruito sull’acqua, in altro splendido angolo della penisola salentina, Acquaviva, ma che sarà poi replicato anche al chiuso in diverse piazze della nostra Penisola.

Si tratta dunque di tre appuntamenti intimamente connessi, complementari: un unico – struggente – bagno di umanità che racconta l’abbandono di qualcosa, la ricerca di qualcos’altro, la paura di non essere più nessuno, per ridisegnare una geografia dei confini e della Storia in cui la Puglia, da terra di emigrazione, diventa l’America per tante persone arrivate da “altrove”. Nella sua complessità, la manifestazione (si veda il sito www.versoterra.it) stratifica sensazioni ed emozioni diverse. Sempre forti. Vigorose. Dolorose. La fatica dei vari trasbordi, ci pone progressivamente dentro il tema specifico del progetto, e anche noi spettatori percorriamo un viaggio di mistero e di (nuova) conoscenza.

 Mentre il sole ancora dorme

 Il capitolo dell’alba, Partenze, è quello più documentaristico, più vicino alla vero (tanto vero che dopo l’evento è arrivata la Guardia di Finanza, allertata da uno sbarco che sembrava appunto autentico): sono molti gli attori/danzatori/musicisti, tra artisti professionisti e immigrati selezionati dopo mesi di laboratorio, chiamati a confidarci i loro sogni. Stanno in piedi davanti a microfoni che sembrano confessionali di preghiera. Arrivano da luoghi diversi per lavorare, rubare, prostituirsi. Hanno bisogno di un abbraccio. Saltano. Mimano mosse da arti marziali. Corrono spaventati ma sembrano pronti a tutto. E Perrotta, non a caso, li ha messi in una condizione di speranza, di luce. Proprio quando l’alba illumina di rosso i loro volti e i loro corpi, la finzione cede il passo alla vita e due di loro raccontano la loro storia, davanti a quell’ex CPT che è stato per anni il loro lager italiano. Un olocausto passato in sordina, taciuto, nascosto, che ora ci invita a rovesciare la visuale: da testimoni di racconto diventiamo noi stessi immigrati e ci mettiamo in fila per bere una tazzina di caffè caldo, mentre il sole sale alto nel cielo e il mare si riscalda di rosso.

 Mentre il giorno abbraccia la sera

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 E’ invece quasi il tramonto quando da Lecce riprendiamo un pullman che ci condurrà a Porto Selvaggio. Ci attende un lungo viale di pini, un bosco, un pellegrinaggio verso il mare.  Mano a mano che ci addentriamo nella macchia mediterranea, quei giovani corpi venuti all’alba dall’Adriatico li ritroviamo disseminati lungo il percorso, raggelati come fossero statue nel loro destino di raccoglitori di pomodoro, puttane, operai. Ma c’è anche chi non ce l’ha fatta; chi attende ancora di ottenere l’asilo politico (“ma cos’è l’asilo politico?”, si chiedono). Per loro Perrotta immagina un luogo-non-luogo, un girone dantesco dove essi ci appaiono appesi a degli alberi, chiusi dentro lenzuola/culle nere da cui ci gridano la loro condizione, la loro sospensione nel vuoto, anticipando l’afflato commosso e lirico della performance corale prevista sulla spiaggia. Laddove questo secondo movimento del progetto, Approdi, diventa un tremore, una danza della paura del mare, una rievocazione simbolica di corpi affogati, di onde sfidate a nuoto, di salvataggi impossibili. Anche qui però il richiamo alla speranza è forte, chiaro: una bambina maneggia con elegante cautela una grande palla raffigurante il planisfero terrestre e poi la getta tra i flutti. Il suo domani dovrà essere diverso dall’oggi. Il suo domani dovrà trasformare quel mare in un ponte di pietosa accoglienza.

 Mentre il cielo si puntella di stelle

 Ormai si è fatto buio, il sole è calato. Riprendiamo il cammino nella semioscurità. Di nuovo sul pullman per andare incontro alla sera, al monologo che Perrotta ha scritto adattando il diario autobiografico Lireta non cede, finalista del Premio Pieve Saverio Tutino nel 2012 ed edito quest’anno da Terre di mezzo in sinergia con l’Archivio Diaristico Nazionale. Perrotta lo ha scritto attraversando tutti i punti nevralgici di questa vicenda personale colma di coraggio, di pulsioni materne, di sofferenze indicibili. E lo ha scritto – soprattutto – per tradurlo in una sorta di melologo cucito addosso all’eclettica personalità artistica di Paola Roscioli, mettendo insieme teatro di narrazione, afflato simbolico e lirico, richiami brechtiani, teatro-canzone. Galleggia sull’acqua trasparente di Acquaviva il palcoscenico a cielo aperto che, illuminato da un faro puntato sulla vetta di una scogliera, si popola di tutti i ricordi della protagonista. Ed è un ricordo natio a segnare l’incipit del lavoro: le note straordinarie del duo composto da Laura Francaviglia (chitarra) e Samuele Riva (violoncello) ci sospingono a guardare all’orizzonte, immaginando quell’Albania stagliata in lontanaza  da cui Lireta fugge giovanissima. Una. Due. Tre volte. L’attrice è di spalle e guarda la sua terra, le dedica uno straziante canto popolare. Le chiede di venire qui, al di la del mare, in Puglia. Munita di una voce molto intensa e calda, la Roscioli tesse la tela di un’intera vita: la fame, le violenze subite dal padre, la dittatura, il sogno di emancipazione, gli uomini sbagliati, il viaggio della speranza con una bimba di appena un anno sopravvissuta tra le onde maligne, il rimpatrio, la seconda partenza, una nuova casa/patria in Sicilia, la delusione sentimentale e poi, finalmente, la costruzione concreta di un’esistenza decorosa da condividere con un uomo innamorato e quella figlia quasi naufraga che Lireta ha difeso con tutta la sua ancestrale forza di madre. L’attrice alterna pathos e distacco, dà voce a tanti personaggi diversi, isola alcuni passaggi per interpretarli cantando, quasi fossero materia di una canzone alla Kurt Weill: interni alla vicenda eppure emblematici di tante altre vicende simili. Lo scenario d’intorno è talmente bello da togliere il fiato. Ogni tanto distrae dalla visione/ascolto ma Lireta ci accompagna sempre. Sta lì, sopra al mare, a smuoverci pensieri e interrogativi. Questa donna albanese dagli occhi chiari e il corpo minuto (anche lei a Lecce per la presentazione del suo Diario alla Fondazione Palmieri) ha avuto il coraggio di raccontarsi e di rivivere il suo terrore. La nostalgia è in agguato, anche nei suoi occhi. E lo spettacolo – forse solo leggermente lungo – non potrebbe che chiudersi come si è aperto: con quell’invocazione alla propria terra che è poi un’invocazione a noi. A tutti. A chiunque.

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Ora, mentre scrivo, ripenso a questo importante “incontro” con un progetto colmo di tante voci, emozioni, odori, colori, paesaggi. E sempre più mi convinco, complice la notizia recentissima degli otto gommoni di migranti salvati nel canale di Sicilia il 3 ottobre ( proprio cioè nella giornata che ricorda il naufragio di tre anni fa a largo della costa di Lampedusa), che Verso Terra sia un grande lavoro sulla fratellanza, sulla pietas, sull’umanità. Un lavoro sull’erranza che è destino comune dei popoli e della loro storia. E, in definitiva, un lavoro sulla terraferma. Che è riparo. Riposo dall’angoscia del mare. Quando il mare è un tuffo nell’ignoto.

Danza in “prime time” tv: ma davvero ci Bolle il sangue?

RENZO FRANCABANDERA | Finalmente ieri, dopo tempo immemore e con qualche eccezione, legata più a grandi eventi internazionali, magari di matrice sportiva, si è rivisto in tv su quella che un tempo si chiamava “rete ammiraglia”, qualche passo di danza. “La mia danza libera“, il titolo del programma, a fare un po’ eco a Battisti con il suo canto libero, e il primo ballerino della Scala Roberto Bolle, ormai star multimediale, a fare da protagonista assoluto. Parliamo di un talento cristallino, notato giovanissimo da Nureyev e che ha avuto, ed ha, una carriera di valore assoluto su cui non abbiamo nulla da dire ovviamente, se non che vorremmo avere un decimo di quella grazia.

Torniamo invece a noi in panciolle davanti alla tv e spendiamo piuttosto due parole su quanto visto. Qui chiaramente indossiamo il truce cappello dell’osservatore critico e diciamo: nulla di che. Siamo nella scia del format Pavarotti and friends, con la star da botteghino di turno, che viene accompagnata nelle sue performance da figure per la gran parte di minor impatto mediatico, per garantire ovviamente l’assenza di comprimari; tutt’al più qualche “amico”.

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Curioso, però, che mentre la stampa generalista, più o meno vicina alla classe media e alla grande divulgazione in rete, celebri il trionfo di questa serata televisiva all’insegna dell’accessibile e del ritorno di Tersicore sul piccolo schermo, gli addetti ai lavori e gli appassionati della danza contemporanea sui social storcevano il naso, dicendo che la serata televisiva non aveva alcunché di particolare, per usare un eufemismo.

Effettivamente pennellate di brutto, televisivamente parlando e dunque corpi e coreografie a parte, non mancavano in una tela di dimensioni assai ampie dove a passi di danza si alternavano intermezzi e piccoli sketch, in un ambiente privo di scenografia tradizionale (e questo bisogna dire non è un dettaglio banale, visto che finora la gran parte del teatro e della danza passati in tv avevano fondali e scenografie degni del miglior barocco napoletano). Brutto anche il finale, con il ballerino che dallo studio passa, complice una scenografia ad hoc, in una fantomatica piscina dove lo perdiamo allontanarsi sott’acqua a nuoto  (in un pre registrato), a metà quindi fra finzione scenica e potenziale del medium televisivo, che sicuramente Bolle non domina come Carmelo Bene. Anzi. Essendo tutto montato ad arte, in un paio di occasioni l’artista fissa la telecamera con la naturalezza che avrebbe un calciatore sul proscenio della Scala nel turbine di una scena corale.

Insomma un perfettibilissimo spettacolo di intrattenimento, una rete a maglia stretta buttata a mare, non senza il necessario dispendio tecnico e di conseguenza finanziario, per cercare di acchiappare più pesci possibile. E d’altronde la danza è il linguaggio cui in Italia anche con il finanziamento pubblico viene riservata la minor attenzione, quindi, a parte qualche talent show, pensare ad un pubblico sensibile a questo linguaggio è veramente assurdo.
Basti buttare un occhio alla ripartizione di quello che era il Fondo Unico per lo Spettacolo nell’ultimo decennio per capire (la danza è in fondo, in basso, vicino allo zero, poco prima del circo…). E non deve trarre in inganno questa voce, perché alla “danza libera” sono arrivati  proprio quei soldi lì, visto che sicuramente gli enti lirici come il Teatro alla Scala non rientrano in questo tipo di finanziamenti ma in quelli in cima a tutto il grafico, con una progressiva e sostanziale riduzione dei costi nell’ultimo periodo, come si nota.

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A questo punto la lamentela degli addetti alle arti in senso stretto e al piccolo mondo, spesso autoreferenziale, di dediti al teatro e alla danza, è abbastanza scontato. Nè potremmo teorizzare diversamente noi, osservatori dell’evolvere di questi linguaggi, essendo “La mia danza libera” un programma pensato per un pubblico molto ampio, che negli anni ha perso qualsiasi abitudine ad una proposta che non comprendesse almeno uno scambio di pacchi, un montepremi, una qualche domanda con musica agghiacciante per sottofondo e repentini cambi di luce in studio per inquadrare il pubblico col telecomando in mano per aiutare il concorrente, nella migliore delle ipotesi.

Ecco quindi la considerazione che, se questo rimanesse un una tantum tipo Pavarotti and friends, allora sì, confermiamo: la cosa era modesta, a tratti brutta, divertente forse per pochi minuti (il duetto esilarante con Virginia Raffaele che interpretava la Fracci – come aveva fatto anche a Sanremo dove pure aveva dettato con Bolle- un momento notevolissimo, più per lei che per lui, a dire il vero).

Se invece venisse seguito da un progressivo ritorno dello spettacolo dal vivo in prima serata, senza che questa proposta venga relegata al canale specializzato della Rai, questo sicuramente sarebbe un ritorno interessante, che non potremmo che guardare con ovvio favore, sempre avendo ben presente il ruolo e quindi il gusto che può proporre nella fascia di maggiore ascolto la più vista fra le reti della tv pubblica italiana.
Devo dire, non a difesa della proposta mediocre a qualsiasi costo ma per onor di verità, di aver spesso visto anche su canali nazionali esteri in prima serata spessissimo con maggior facilità danze popolari tirolesi o assimilabili che ardite coreografie di Platel. Per quelle c’è sempre il canale Arte, ad uso dei fighetti.
Certo pensare di vedere Virgilio Sieni o Zappalà danza (prossimamente quest’ultimo a MilanOltre) in prima serata su Raiuno mi pare un sogno che non penso verrà coronato da traduzione pratica nel mio tempo mortale.

Ma se, per esempio, fosse un blob di 10 minuti con frammenti di quello che sta andando in scena sui palcoscenici dei teatri italiani in una certa settimana o mese, da mandare in onda subito dopo il Tg, con un montaggio divertente contenente, fra l’altro, 20-30 secondi di interviste qui e lì, con i soliti Servillo and friends, vabbè, ma anche con qualche voce off, sarebbe proprio una bestemmia?
Potrebbe portare sotto lo sguardo di qualche milione di spettatori l’idea di una serata diversa, da passare magari in un teatro o in un altrove che non sia il salotto di casa o la sedia davanti allo schermo del computer, mettendo like a dritta e a manca, quand’anche questo non avvenga invece in posizione orizzontale con il portatile o il tablet spaparanzati sul divano o meglio ancora nel letto, alla faccia di quegli sfigati che sono usciti di casa per andare a teatro con questo freddo. Bolle l’acqua per la borsa dell’acqua calda, tutt’al più.

Non è un teatro per registi (di cinema): da Sokurov agli italiani, le difficoltà da pellicola a palcoscenico

ELENA SCOLARI | Attraversare le arti può essere un safari avventuroso e favoloso. Veleggiare dalla pittura alla scultura, dal canto alla danza, dalla musica alla fotografia, dal cinema al teatro. Per chi, come noi, osserva e gode di tutte queste forme d’espressione, visitatori di musei e gallerie, frequentatori di teatri e sale da concerto, è un’alimentazione ricchissima, delle scorpacciate trasversali non potremmo fare a meno.
Così, quando un artista amato compie la scelta di varcare il confine della propria consueta disciplina, si è fatalmente attratti alla visione: come non voler vedere uno spettacolo di Aleksandr Sokurov? Che ci aveva assai colpito con L’arca russa nel 2002, lunghissimo e ipnotico piano sequenza vagante nel Museo Hermitage di San Pietroburgo, o l’oscuro Faust (2011), quarta puntata della tetralogia sul potere (la completano Moloch su Hitler, Taurus su Lenin e Il sole su Hiroito).

Fedeli alla linea russa, quindi, ci rechiamo a Vicenza, anche perché vedere il Teatro Olimpico del Palladio è sempre un’esperienza (una emotional experience, dovrei dire) per le prime repliche di Go.Go.Go, regia di Sokurov, ispirato al testo “Marmi” del premio Nobel Iosif Brodskij. (In scena dal 7 al 3o ottobre al CRT Teatro dell’Arte).
Marmi sono 100 pagine di galera: Tullio e Publio, romano il primo, orgoglioso della sua cultura classica, e barbaro il secondo, grossolano e poco incline allo studio, sono in una prigione iper tecnologizzata ma nella loro cella sono circondati dai busti dei grandi poeti latini, testimoni marmorei della Storia; sono prigionieri non perché colpevoli (cosa ahinoi realistica) ma perché in questo futuro i galeotti si estraggono a sorte. Già. Anche designarli perché “adatti” ad aver compiuto un certo crimine non è tanto meglio.

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Ad ogni modo ritroviamo i due detenuti del libro in scena, trasandati, di aspetto sgradevole, entrambi con una maschera di lattice che li raddoppia fissata sulla nuca. La scena – prima di tutto – è quella dello Scamozzi, e dobbiamo ribadire che non è facile non restarne inghiottiti, la grandissima Margherita Palli sceglie qui una via a metà tra la copertura e lo sfruttamento: riveste le architetture palladiane con una gigantesca proiezione di glicini appena agitati dal vento, ricostruisce una piazza italiana, tavoli e sedie da osteria, gente del popolo che si ritrova per seguire il cinema all’aperto proiettato in fondo alle strade prospettiche dell’Olimpico, abiti anni ’50, inserisce uno schermo/macchia sul pavimento nel quale si vede “Roma” di Fellini, lo chiamano il cinema pozzanghera. Perché un regista di cinema non riesce a liberarsi completamente delle origini, nemmeno se di severa scuola russa, pertanto trova un modo per inserire la propria essenza anche in un linguaggio che gli appartiene meno, forse per sentirsi più a casa.

La mano cinematografica di Sokurov è fortemente presente in Go.Go.Go (per inciso confessiamo di non aver capito questo titolo): i 52 attori, sì sì, proprio 52, sempre sul palco, formano con le loro figure l’immagine di una lunga sequenza, una folla proletaria rapita non dal teatro ma dal cinema. Una folla che tende a distrarre l’attenzione dalle concettose conversazioni di Tullio e Publio (i bravi Max Malatesta e Michelangelo Dalisi), due ratti, due uomini che assumono il ruolo dell’animale dall’uomo più disprezzato, che disquisiscono senza sosta alimentandosi della dialettica prodotta dalla loro opposizione. La loro è un’ininterrotta discussione “agonistica” a colpi di tetre dichiarazioni apodittiche sull’umanità e sulla Storia, che si concluderà in una trappola: un altare che emette suoni di videogioco, che contiene formaggio (grana), dove tutti si cibano, e che sarà la truculenta tomba di Publio e Tullio.
Il testo dello spettacolo è quasi completamente in mano loro, se non per due incursioni: Anna Magnani, riconoscibile dall’abito e da un fasullo accento romano, a Vicenza interpretata da Karina Arutyunyan, attrice di talento qui sacrificata in un ruolo che la rende poco credibile, almeno per noi italiani; e il poeta Brodskij, con immancabile sciarpetta, che in un bel finale consegna il futuro all’unico ragazzo rimasto solo in scena.

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Questa ambientazione italianesca sa però di oleografia, lo stesso difetto che Magda Poli (non sola) riscontrò nell’allestimento delle Fiabe italiane di Calvino per la regia di John Turturro “…è la cifra stilistica che difetta, il semplice diventa semplicismo, il folklore folklorismo“. Di semplice Go.Go.Go ha proprio poco, manca semmai di pulizia e incisività, ma quanto a folklore, tra trattorie, formaggio grana, altarini illuminati di meridione anche Sokurov non scherza.
Il dispiego di attori, poi, lo abbiamo visto recentemente anche in Morte di Danton, diretto da Mario Martone, esempio nazionale di regista in bilico tra cinema e teatro, e che è sempre risultato più vivo e originale dietro la cinepresa.
Dirigere è un mestiere, in scena come al cinema, ma il luogo teatrale ha bisogno di cura attimo per attimo, di attenzione per gli attori, di un ordine rigoroso che faccia emergere i significati, se un film ti porta dove vuole e guida così il fuoco del tema, in uno spettacolo lo spettatore può invece spostare lo sguardo sulla scena ma deve poter sentire il richiamo del senso senza doverlo inseguire.

 

Go. Go. Go | Liberamente ispirato a Marmi ed altri testi di Iosif Brodskij
Progetto e regia: Aleksandr Sokurov
Testi originali e adattamento scenico di Aleksandr Sokurov e Alena Shumakova
Spazio scenico & art direction: Margherita Palli
Assistenti alla regia: Simone Derai e Marco Menegoni
Traduzioni dei testi di Iosif Brodskij: Gianni Buttafava, Fausto Malcovati, Serena Vitale
per gentile concessione di Adelphi Editori

Interpreti principali
Max Malatesta (Tullio) e Michelangelo Dalisi (Publio)
con la partecipazione di Elia Schilton (Iosif Brodskij) e con Paolo Bertoncello, Alessandro Bressanello, Giulio Canestrelli e Olivia Magnani/Karina Arutyunyan e gli interventi di Piero Ramella, Schola Poliphonica del Santuario di Monte Berico, Spazio Voll e NextArea Parkour

Prodotto da CRT Teatro dell’Arte/Milano
Commissionato da Teatro Olimpico di Vicenza/Conversazioni 2016
Con la collaborazione del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone
Con il patrocinio di Fondazione Brodskij/Joseph Brodskij Memorial Fellowship Fund

MilanOltre: la fantastica trentenne che riporta ogni anno la grande danza in città 

RENZO FRANCABANDERA | Ragionare di un’arte attraverso un medium che non le corrisponde è sempre esercizio complesso. Criticare per iscritto della forma scritta già di suo non è attività banale, più complicato scrivere di questioni che riguardano l’arte visuale e lo sguardo. Parlare poi di un linguaggio che abbraccia la tridimensionalità e potenzialmente tutti i sensi umani è davvero un’operazione affascinante, un esercizio quasi folle. Forse per questo ci piace così tanto. 

Per la 30ª edizione, una soglia numericamente ma anche concettualmente simbolica che attesta una presenza sul territorio duratura e non intermittente, la rassegna di nuova danza MilanOltre, ospitata negli spazi del teatro Elfo Puccini di Milano, regala un programma straordinario che mette in dialogo le più alte declinazioni di questo linguaggio a livello nazionale ed internazionale. Oltre a due stelle assolute, Anne Teresa De Keersmaeker con il collettivo Rosas e Marie Chouinard, fresca di nomina a direttrice della Biennale Danza per il prossimo triennio, in rassegna nell’edizione 2016 ci sono anche coreografi diversissimi fra loro per matrice e segno, da Roberto Zappalà ad Adriana Borriello, e poi Susanna Beltrami, Michele Merola, Antonio Montanile, Manfredi Perego, Stefania Ballone, fino ai giovani della Vetrina Italia Domani: Diego Tortelli e Matteo Bittante, Choreographic Collision, Fattoria Vittadini, DanceHaus Più. Pensare per tutti o anche solo alcuni di costoro di dover raccontare la poetica del loro linguaggio muto che si esprime attraverso il gesto del corpo in uno spazio delimitato da pochi oggetti quando presenti, e poi musica e luce, ha sempre il sapore della sfida alla ragione, come quando si ascoltano i programmi sul cinema alla radio e va in onda qualche minuto di pellicola che occorre immaginare.


Cerchiamo allora di testimoniare con le parole sensazioni difficilissime da esprimere. Ci aiuta sicuramente di più il Notte Trasfigurata della De Keersmaeker, artista di cui abbiamo il piacere di rivedere lavori che hanno segnato l’evoluzione di quest’arte dal punto di vista concettuale oltre che coreografico. Il suo storico Fase è seguito da Notte Trasfigurata dove la celebre partitura musicale fa da sfondo ad una storia d’amore di cui sono protagonisti una donna e due uomini. Tutto lo spettacolo è giocato fra assenze e presenze, vicinanze e allontanamenti, “tangimento” come si direbbe benissimo in portoghese, e distanza. Un lavoro compiuto, maturo, intellegibile e finanche classico in un passo a due che quasi si approssima al balletto, cercando rincorse centrifughe e inseguimenti con prese al cinto, sollevamenti ed estasi emotive, gesti di sintesi dell’amore, del femminile, del procreare.

Distante senz’altro, questo mondo di segni, ci sembra essere rispetto alla visione a tratti disumana contenuta nella proposta del paradigma estetico della coreografa canadese Chouinard, altra figura di spicco del panorama internazionale dell’arte coreutica. E’ il secondo anno consecutivo che la neo guida della Biennale Danza di Venezia per il triennio 2017/2020, approda alla rassegna milanese, lei che ha alle spalle più di 50 opere personali e collettive che dal 1978 indagano il corpo e l’estetica del movimento. Sono cinque le creazioni ospitate nella rassegna MilanOltre dall’ Elfo Puccini: Le Cri du monde e Le Sacre du Printemps (4/5 ott); il nuovo Hieronymus Bosch: The Garden Of Earthly Delights (7/8 ott) e Gymnopédies insieme a Henry Michaux: Mouvements (9 ott).

Innanzitutto, descriviamo i movimenti a cui questa artista sembra interessata: il corpo come articolazione, nel suo essere entità animale ma anche macchina. In scena quindi osserveremo figure ibride, quasi post punk se potessimo fare un paragone letterario, ma tuffate in contesti umani.

Paradigmatico da questo punto di vista Le Cri du monde, riallestito appositamente per MilanOltre, uno studio sulla divisione morfologica che nasce, nell’idea coreografica, da osservazioni architettoniche sul corpo, per un’indagine affidata ad una decina di ballerini, che compongono brevi ma decisamente impattanti assoli, duetti e coreografie di gruppo, in cui la rappresentazione di un’energia vitale fortissima si contrappone ad un’angoscia  di urla soffocate, grida stridule, ossessività ripetute, luci e controluci improvvise, utili a mettere a fuoco questo o quell’angoscia che si muove senza mai fermarsi. Un inferno dantesco e che ricorda quasi gli umanoidi di Dirk, le pecore elettriche e Blade Runner: gli ultimi spasimi disumani di replicanti feriti a morte.

Fra pose ora tenui ora frenetiche, grida e movimenti ora armonici ora sincopati, termodinamicamente destinati al caos (se non fosse che persino le dinamiche caotiche, come conosciuto dalle scienze, hanno delle regole osservabili), il sentimento delle creazioni della Chouinard esprime la sua forza nel disturbante indagare, nell’ossessivo comunicare senza ascoltare dei “personaggi” protagonisti in scena, tanto che se l’occhio li osserva ed è magneticamente attratto, la testa cerca di fuggire, di pensare altro. Ed è proprio nell’arte della fuga, come direbbe Bach, che sta in questo caso la scia che dobbiamo seguire. Capire dove stiamo fuggendo, da cosa e perché.

È un sentimento che pur con attenuazioni significative, si ripresenta con Le Sacre du Printemps altro inno all’energia vorremmo dire biologica dell’esistere in questa prima coreografia della Chouinard basata su uno spartito musicale, una partitura che ha fatto la storia di questa arte: la Sagra della primavera di Stravinskij.

A differenza di quanto a lungo fatto da moltissimi coreografi nella storia della danza dell’ultimo secolo, qui l’artista canadese indaga il musicale attraverso assoli potenti, identitari di ciascun danzatore, in una dimensione a-storica, quasi vichiana del rito della Primavera, del ritorno alla vita. Tutto nasce, esiste e muore in un roteante ed appuntito farsi largo. Aculei di piante grasse, speroni, corna di toro. Roteazioni e ritrazioni. Corse. Ingressi e uscite. Potente e ordinatamente caotico, in dialogo strettissimo con il musicale. 

Grandissima è ora l’attesa, il 7 e 8 ottobre per la sua nuova opera dedicata a Hieronymus Bosch: The Garden Of Earthly Delights, ispirata alle visioni surreali del grandissimo pittore fiammingo a 500 anni dalla sua morte, e che proprio nella sua città natale ha debuttato ad agosto per poi spostarsi a Vienna. In Italia è stata ospitata da Bassano Opera Estate.

Una coreografia tripartita come il trittico de Il giardino delle delizie, visibile al Museo del Prado di Madrid e costituito da una tavola centrale e da due pannelli laterali. Il mondo prima della creazione degli animali, la nascita di Eva, ovvero il primo peccato; la raffigurazione del giardino delle delizie, cioè dei peccati carnali e, il castigo dell’Inferno, raffigurato come un incubo mostruoso. 

Un’opera pittorica dalla forte carica semantica ed emotiva, in cui l’occhio via via si perde in mille dettagli bizzarri, che Chouinard sceglie per far vivere attraverso i movimenti dei suoi danzatori l’umanità e descrivere la storia dell’umanità che è simbolicamente raffigurata nel dipinto fra alchimia, religione, astrologia ma anche folclore e subconscio: «proprio come un coreografo può scegliere di rimanere aderente alla musica (o no), io ho scelto di rimanere vicina al quadro di Bosch e al suo spirito. La gioia di inchinarsi davanti a un capolavoro!».

Ultimo appuntamento il 9 ottobre alle 18.00 con la poetica e giocosa Gymnopédies, dedicata alle musiche di Erik Satie, le tre celeberrime “Gymnopédies” per pianoforte, con gli stessi ballerini che si esibiscono anche alla tastiera immersi in un’ambientazione fatta di vaporosi tendaggi. La seconda parte della serata ripropone uno degli spettacoli più acclamati di MilanOltre 2015, Henry Michaux: Mouvements. La coreografia è ispirata a Henry Michaux, scrittore, poeta e disegnatore belga naturalizzato francese, vicino al movimento surrealista e dalla vita avventurosa e irrequieta. Punto di partenza è il libro Mouvements, 64 pagine di disegni a inchiostro e 15 di poesie. Tanto i disegni quanto le liriche sono un continuo riferimento per i danzatori, che arrivano a trasformarsi in segni grafici in movimento. I disegni vengono proiettati sullo sfondo, offrendo agli spettatori la possibilità di dare una propria lettura dei lavori di Michaux.  Un ritorno alla complessità polisemica di cui facevamo menzione ad inizio pezzo, la folle complessità dell’ispirazione dell’arte e il provare, con lettere nere su fondo bianco a raccontarne.

E-simia Roma: niente macachi per Castellucci e all’Argentina si interrompe l’Orestea. In scena meglio l’uovo che la gallina!

RENZO FRANCABANDERA | Doveva essere la prima italiana di un lavoro storico della Societas, l’Orestea. Uno dei punti di forza di questa edizione di RomaEuropa Festival. Ma…fare teatro può essere una fatica “bestiale”, a volte.

Societas e animali in scena: sicuramente trattati bene, meglio dell’astice in Accidens di Rodrigo Garcìa, spettacolo che da metà del primo decennio del 2000 segna una chiave di volta del rapporto fra teatro e animalisti; quello fra Romeo Castellucci e gli animali non è nuovo, come rapporto, anzi fondante di alcuni elementi estetici della compagnia: il cavallo nel Giulio Cesare, i cani nel Purgatorio, e sarebbero tornate dopo 25 anni anche le scimmie del progetto Orestea, riproposizione di  uno dei primi, mitici, allestimenti della compagnia. Rimandiamo a questo dettagliato articolo di Oliviero Ponte di Pino per una panoramica storica sull’uso degli animali da parte della Societas.

Schermata 2016-10-05 alle 00.09.13.pngIl foglio di sala recitava: “Gli animali presenti in scena sono forniti da Parco Faunistico “Zoo delle star” di Daniel Berquiny, Cirque de Rome di Solovich Dumas”. Qualcosa però deve essere andato storto.
Ore 23 circa: in un post pubblico su Instagram, Simone Nebbia di Teatro e Critica testimonia praticamente in diretta, con un pizzico di ironia, del pubblico costretto ad abbandonare la sala dell’Argentina di Roma, perché le autorità competenti hanno bloccato l’utilizzo degli animali per la replica.

Gilda Biasini, curatrice storica della compagnia e di questo riallestimento, era stata quasi Cassandra. In un’intervista recentissima pubblicata sull’edizione romagnola del Corriere.it, a domanda della giornalista Claudia Rocchi, ha risposto non più di due giorni fa:

Gli animali per anni sono stati una caratteristica del teatro della Socìetas Raffaello Sanzio.
«È vero, ma oggi andare in scena con un somaro, due cavalli, e sei scimmie macachi diventa un’impresa. E se per somaro e cavalli i problemi si sono superati, per i sei macachi ogni volta abbiamo rischiato di dover annullare tutto».

Zac! Manco a dirlo. Replica interrotta ed ultimo atto saltato. Stupisce solo una cosa: possibile che un Festival come RomaEuropa, un teatro come l’Argentina, un’organizzazione mossasi immaginiamo con il dovuto anticipo, non siano riusciti ad evitare il problema?

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Foto Guido Mencari

Certo il rapporto fra momento scenico e presenza animale è sempre stato non facile. Ricordiamo però le più domestiche ed amichevoli oche del Teatro delle Ariette, il cane Lina del TeatrodiLina, i pulcini prima (Biennale 2011 se non ricordo male) e i galli di recente (che hanno fatto dannare il CRT questa estate) per Garcìa, e ovviamente i tanti animali con cui la Societas ha inteso portare sul palcoscenico elementi simbolici di verità più forti di qualsiasi presenza scenica attorale.

Non entriamo nello specifico della legislazione sugli animali in scena. Norme e proposte di legge hanno negli anni ridotto, in alcuni casi con giusta ragione, l’uso degli animali per lo spettacolo pubblico, soprattutto quello di derivazione circense. Sugli animali esotici, poi, la legislazione è ancora più restrittiva.

Il problema, in questo caso, è che non si tratta di scimmie qualsiasi. Sempre nella stessa intervista cui si faceva cenno, la Biasini, a proposito di questo riallestimento pensato da Castellucci dopo le pressioni francesi che hanno portato a riproporre il lavoro al Festival d’Autunno nell’edizione 2015, precisa che si, sarebbe stato più facile con altri animali, ma che “I macachi, che in scena gridano, hanno un significato preciso; rappresentano le Erinni che tormentano Oreste fino a quando non diventano Eumenidi. Ecco perché Romeo ha voluto quella specie”.

In ragione di questo, molte possibili repliche dello spettacolo sono saltate, rifiutate dai teatri stessi per evitare i problemi di natura organizzativa, sanitaria, regolamentare. Lo spettacolo, con i suoi odori e rumori animali, proietta, nell’intenzione del regista, lo spettatore in una dimensione tragica, violenta, che evidentemente la delicata Roma di questi tempi ha preferito non vedere… Roma e(simia): nella Capitale il rispetto della legge è tutto, come noto. Dura lex, sed lex.

E finì così: Castellucci sul palco, che arriva e annuncia che l’ultimo atto non va in scena, che un’ora prima è arrivato il veto dalla Questura. Forse la Forestale, impegnata in strenue lotte per la salvaguardia della fauna a rischio: monkey business e tana pe’ Romeo!

Società e sesso: arte e mass media ostaggi delle interrogazioni parlamentari e della poetica del “friariello”

RENZO FRANCABANDERA | Con il solo scopo di guadagnare una manciata di clic e soprattutto i miei 15 minuti di visibilità (di questi tempi unica grazia concessa a noi mediocri), e non potendo fare interrogazioni parlamentari su questo o quell’artista che decide di indagare per il tramite del corpo le aree più nascoste e fragili delle nostre personalità, scrivo qualche riga su un tema che sta appassionando (tristemente, dal mio punto di vista) i social e rinfocolando qualche parlamentare in vena di mantenere il giusto presidio alla pubblica morale.

Parliamo del caso Holzinger-Riebeek (nelle foto immagini di alcune loro creazioni) al Festival Terni, ma potremmo anche parlare del caso di Tino Seghal e della famosa pipì a Santarcangelo, o delle feci sul volto del figlio di Dio di Castellucci, e ancora indietro potremmo andare agli aghi della Liddell, alla Abramovic. Insomma alle pruderie tutte mediterranee legate al non riuscire a vedere il corpo e la sua dimensione biologica e sessuale come possibili strumenti di libera espressione del pensiero.

E’ questa una caratteristica delle civiltà che hanno un profondo legame con un approccio etico di emanazione religiosa secolare, approccio che ammette sempre il doppio linguaggio, quello pubblico e quello privato, con la relativa doppia morale. La stessa, per capirci, per cui in TV è legittimo offendere, ma si badi bene a microfoni staccati, una donna per una relazione, e far vanto ad un uomo per la stessa azione; oppure chiamare, dando con il gomito, “friariello” il gay del gruppo di concorrenti del reality, tirando fuori il peggio dai peggiori, così poi da infestare edizioni online dei giornali con segmenti video del momento in cui tizio dà del “ricchiuncello” a caio, per raggiungere il picco dell’audience nel momento in cui tizio chiede scusa agli italiani, dicendo di avere centinaia di amici gay e di amarli tutti, correndo poi subito dopo a fare una bella doccia con l’amico di confessioni, pronto dopo poco a dare della “zoccola” ad un’altra donna, giusto per tenersi in allenamento. Ecceziunale veramente!

E i social nauseanti, a seguire, a tirar fuori la pancia della società media (mediocre, Umberto Eco sosteneva a giusta ragione, come è abbastanza evidente di suo), a soffiare sul fuoco dei commenti. È proprio vero, come diceva Castellucci, che volgere lo sguardo non è più un atto innocente.

Perché scandalizzarsi dell’integralismo dell’altrui cultura, che nega alla donna la possibilità di affermare la libertà del suo corpo, elemento intrinseco dell’identità umana, e poi accettare in casa ogni genere di turpiloquio o concetto discriminatorio, sghignazzando del “friariello”, o additando il segno dell’artista quando al centro dell’atto creativo pone il rapporto tra corpo e dimensione erotica, magari invertendo il ruolo biologico, per un pensiero altro, più forte?

Siamo ancora alle beghe morali che fanno tornare alla mente qualche azione pubblica in bianco e nero del Living Theatre, in attesa di una nuova Woodstock che faccia parlare ancora di libera espressione del corpo, nelle stesse ore in cui nella capitale due donne subiscono violenza per il solo essere uscite di casa pronte per andare a ballare. Torniamo indietro a discorsi e vicende che il mondo occidentale pareva aver risolto 30 anni fa.
Torniamo al triste quotidiano della mancata accettazione dell’alterita’.

Siamo ancora qui a verificare le misure del dildo, se le feci sono feci, se il piscio è piscio e se l’arte è arte. A misurare arte e morale col righello.
Da curioso delle forme sceniche e dell’arte dal vivo, dell’effetto dei neuroni-specchio sulle nostre visioni oculari, viene da chiedermi, ad esempio, davanti ad una sorprendente e quindi inaspettata copulazione anale a parti invertite rispetto al dato biologico, quali sinapsi in questo lavoro (che non ho visto, che son sicuro diceva anche tanto altro e che come Voltaire farei di tutto per vedere liberamente rappresentato anche se fosse espressione del brutto), quali collegamenti mentali – dicevamo  – abbia inconsciamente vissuto chi era in sala: se lo spettatore abbia potuto ragionare su quell’atto come segno di desiderio o di dominazione, se abbia vissuto la sua dimensione attiva o passiva, se abbia trovato riscontro in quel narrarsi di una parte di sé magari repressa o non vissuta, o di pura libidine e quindi come tale censurabile per la morale corrente. O se l’abbia vissuto senza implicazioni morali o sociali di sorta, come atto coreutico libero, di movimenti ottenuti per il tramite di un oggetto. E mi chiedo se tutti questi non siano temi con cui l’arte abbia legittimamente il diritto di potersi interrogare o se ancora occorra subire la recrudescenza dello sguardo censorio, del rettangolo nero, apposto magari (come per bizzarria di tanto in tanto può perfino accadere, ma non è questo il caso) da chi con l’altra mano si sta collegando dal cellulare a Youporn.

Il solo pensarci, il solo dover riflettere ancora su queste questioni, fa capire come i burqua invisibili siano, come sempre, molto più pericolosi di quelli visibili, e di come l’identità e la libertà affermata attraverso il corpo siano ancora una conquista che il genere umano è di là dal compiere. E chissà se compirà mai. Forse saranno le ibridazioni uomo-macchina, prossime a venire, a superare il tema. Quando esibiremo orgogliosi i nostri chip sottopelle. E chissà, poi, che non siano questi ultimi da considerare assai più pornografici e concettualmente disumani rispetto ad un rapporto anale, disgustoso o sogno proibito prima ancora che atto artistico inguardabile. Vengono in mente le parole di De Andrè in Bocca di rosa e quelle lucide di Silvia Bottiroli a proposito del caso Seghal, che qui voglio riportare, come atto civile di resistenza alla barbarie.

“Si tratta quindi non già di una facile provocazione, che sarebbe peraltro puerile e poco efficace, ma di una dichiarazione rispetto al rapporto tra danza e storia, tra dimensione dell’arte e dimensione della vita individuale e politica. E si tratta di un gesto fortemente coreografato, inserito all’interno di un contesto artistico specifico e dichiarato come tale, da uno dei maggiori protagonisti della scena artistica contemporanea.”

Tramedautore: fra Brexit e pellegrinaggi, l’Europa alla ricerca di se stessa

RENZO FRANCABANDERA | Il Piccolo Teatro è il palcoscenico di prestigio su cui da alcuni anni si alternano le proposte che Angela Calicchio e la direzione artistica di Outis seleziona per dare, con la rassegna settembrina Tramedautore, un quadro il più possibile completo delle dinamiche della nuova drammaturgia fuori dai confini nazionali.

Dieci gli spettacoli andati in scena in questa edizione fra mise en espace, reading e allestimenti veri e propri, diversi in prima assoluta, dei più interessanti drammaturghi (europei in questa edizione, dopo carrellate che ci hanno portato negli anni passati in giro per il mondo).

Il focus 2016 è stato sul nord Europa, partendo dal norvegese Jon Fosse con una produzione del Den Norske Teatret e del Festival Quartieri dell’arte di Viterbo, al norvegese Jon Jesper Halle rivisto in chiave italiana da Joele Anastasi, da Gian Maria Cervo con un interessante esperimento sul romanzo di Andrea Camilleri, al macedone Dejan Dukovki e il suo black humor, fino ad arrivare al tedesco Philipp Löhle nel suo rovesciamento dell’idea di Germania “felice”.

Un puntatore concettualmente simile, quest’ultimo, a quello utilizzato da VicoQuartoMazzini per la loro Little Europa, rilettura contemporanea de Il piccolo Eyolf di Henrik Ibsen. La trama pretesto è quella di un bimbo che diviene storpio per colpa della negligenza dei genitori. Qui la trasposizione che ne fa Gabriele Paolocà nel ripensamento drammaturgico è appunto che la creatura deforme (Europa) sia figlia della ricca opulenza isterica di una lei cocainomane (il Nord Europa) e della assenza meridionale e caciarona di un lui emigrato e frustrato (il Sud Europa); Interpretato da Michele Altamura, Gemma Carbone, Gabriele Paolocà, Maria Teresa Tanzarella in un interno pensato da Alessandro Ratti, la recita (che fruiamo in inglese con sovratitoli e voce narrante del mitico Tage Larsen/Odin Teatret) spinge su una rilettura caustica della dinamica dei piccoli egoismi dell’Europa contemporanea, con una Mary Poppins tedesca che diventa presto una severissima signorina Rottenmeier, e così ogni personaggio deflagra nella sua egoistica dimensione parossistica, così come paiono fare i diversi stati componenti il vecchio continente con  L’ Unione allo sfascio specie dopo la Brexit.

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Facile pronosticare quindi un ritorno alla preistorica e barbara animalità, rappresentata da un Tirannosauro che appare in scena nel finale, sulle macerie, in un caos scenico tipico degli allestimenti nord europei, di cui qui e lì si respira il gusto. Sarà dunque un Tiranno, un dittatore figlio della pancia di un continente affamato ma incapace di mangiare, quello a cui andiamo incontro? In ogni caso lo spettacolo nasce da un’idea interessante di trasposizione di uno dei testi forse meno noti di Ibsen, ma si chiude sull’idea dell’Europa-Eyolf che soccombe all’egoismo di chi dovrebbe prendersene cura, per affogare in una lettura a tratti stereotipata delle specificità nazionali dove, al di là delle generose prove d’attore dei giovani protagonisti, si avverte però la mancanza del confronto delle suggestioni creative interne con un dramaturg e una regia esterna, capaci di scelte ulteriori e di uno scarto poetico rispetto all’idea originaria, questione che a questo punto del percorso artistico appare la maggior necessità della compagnia per fare il dovuto salto nei prossimi lavori.

Meno rischioso nell’idea, ma più rodato nel linguaggio fra narrazione e specifico recitativo dell’interprete, il monologo che Andrea Cosentino, con la regia di Luca Ricci, ricava dal romanzo di esordio dell’autrice orvietana Rosa Matteucci, che racconta la storia di un pellegrinaggio nella città di Lourdes da parte di Maria Angulema che, come quelle dame della carità di un tempo, porta un gruppo di anziani a venerare la Madonna, alla ricerca di improbabili miracoli, che vanno dal superamento di una vita claudicante fisicamente (degli anziani) a quello di una vita claudicante emotivamente e sentimentalmente (come quella della protagonista). L’interprete sembra sempre in uno spogliatoio, che potrebbe essere quello delle piscine di Lourdes o quello di un teatro nel teatro, una finzione su cui il recitativo di Cosentino gioca da sempre e su cui la regia ovviamente calca, per delimitare uno spazio concettuale che vada oltre il testo. Un tentativo che si appoggia anche all’idea di un’interlocuzione fra parola, colorita e popolare,  e musica, grazie agli intermezzi sonori (molto aeriformi e zen) affidati agli strumenti non convenzionali di Danila Massimi.
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Lui, Cosentino, a sinistra della scena con la sedia e il suo casereccio e poco erotico spogliarsi e vestirsi da suorina, la musicista a destra, fuori dal palco sul palco che fa da scena allo spettacolo con luci di un freddo azzurro, a definire un contrappunto tutto est-asiatico, lontanissimo dal dialetto da centr’Italia con cui Maria Angulema racconta il suo personaggio, fra fetori senescenti e frittate alla cipolla sulla spiaggia, nel lungo flashback che è la drammaturgia, con la protagonista, Maria che, pronta ad entrare nelle piscine di Lourdes per il bagno purificatorio, snocciola un monologo fra sacro e profano come di una Molly Bloom della Tuscia. 

Al di là del tono ironico della narrazione, questo testo è molto nel tracciato e nelle corde di Andrea Cosentino, con il tipico intreccio di memoria soggettiva e affresco sociale piccolo borghese. Insomma uno di quei colpi che l’interprete non sbaglia, un gol fatto, che infatti ha vinto l’edizione passata della rassegna I teatri del sacro.

Proprio per questo, con curiosità, guardiamo l’azione svolgersi come da copione, e la palla entrare immancabilmente in rete; eppure qualcosa ci manca, sia nel dialogo fra musica e parola (anche ove il tema fosse la contrapposizione fra l’etereo e l’umano), sia nel tentativo di portare Cosentino oltre Cosentino.
Un’operazione difficile ma che forse farebbe un grande regalo al teatro, uscendo dall’area di comfort già ampiamente indagata, per cercare anche nuove strade.