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venerdì, Aprile 26, 2024
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Dragpenny Opera: la positiva svolta delle Nina’s, dall’icona a Brecht

dragpenny opera 3RENZO FRANCABANDERA | E torniamo a Gay. O a Brecht se preferite. Ai tre soldi o al mendicante. Ma la sostanza non cambia. Dal 1728 in avanti quella di Macheath/Mackie Messer è la saga dei reietti, che raccontano vizi privati e pubbliche virtù del mondo ricco. E testimoniano di come la bassezza umana non faccia distinzione di censo.
Ne fanno una bella rilettura in questi giorni al Teatro dell’Elfo di Milano le Nina’s Drag Queens, una compagnia sorta quasi 10 anni fa intorno all’indagine sulle tematiche di genere ma che ha poi cercato una propria cifra stilistica nello studio del travestimento come maschera teatrale.
E piano piano affiora un linguaggio che diventa sempre più interessante.
Ecco quindi DRAGPENNYOPERA liberamente ispirato a The Beggar’s Opera di John Gay per la regia di Sax Nicosia è uno spettacolo per molti versi interessante, prima di tutto per la volontà di riscrivere il testo, affidando l’operazione a Lorenzo Piccolo, e poi perché inizia a superare gli artifici scenici su cui le Nina’s hanno lavorato in questi anni, prendendone spezzoni ma senza che questo costituisse l’ossatura di un allestimento che ha un’idea registica precisa e un’intenzione attorale che rimane salda anche al netto del divertimento che aveva connotato in maniera più spiccata le operazioni precedenti.

In una scena (pensata da Nathalie Deana) che è una sorta di teatro sventrato con i camerini a vista, gli attori protagonisti della vicenda interpretano cinque personaggi femminili intorno alla figura del candidato all’impiccagione e ricalcano con sostanziale onestà di intenti i passi dell’opera originaria e il gusto della commistione fra prosa e canzone che, partendo da Gay e passando per Brecht, ha decretato il grande successo dell’Opera del mendicante nei secoli.
Quella settecentesca di John Gay miscelava musica colta e canzone da osteria, e anche le Nina’s Drag Queens attingono al repertorio della musica contemporanea, fra colto e pop, continuando ad usare i playback (ma in maniera più misurata rispetto alle creazioni passate), pregevoli interpretazioni live e le musiche eseguite al piano da Diego Mingolla fra atmosfere di piano bar di periferia e riletture jazz di celebri melodie, tra pop ed espressionismo. Ne viene fuori un tappeto sonoro pregevole, che alimenta e si alimenta del testo, in un continuo rimandare che riesce a mantenere in equilibrio il confine della tragicommedia. Alcune sono vere e proprie chicche, riscritture talmente rarefatte da giocare con l’orecchio più raffinato, segnaliamo un Trottolino amoroso piano bar jazz davvero irriconoscibile.
I costumi di Gianluca Falaschi donano a questi personaggi di dannazione un’aria dark sadomaso, e bene sulle volontà della regia si inseriscono le coreografie di Alessio Calciolari, che insieme a Gianluca Di Lauro, Stefano Orlandi, Lorenzo Piccolo, Ulisse Romanò interpreta la pièce.
In Dragpenny si leggono interessanti spunti di maturità della ricerca sui codici tradizionali della rivista e dell’happening performativo, che da anni interessano questo gruppo di attori e danzatori, e che ora fecondamente si sono spostati ammantando la rivisitazione di grandi classici, partendo da Checov con Il Giardino delle Ciliegie.

Qui, però, convince prima di tutto la regia che, pur non mondando la creazione dai barocchismi del linguaggio delle Nina’s, ha il coraggio di traslare il piano della presenza dei corpi travestiti da lettura di questioni più gender specific a maschera del teatro, tanto che ad un certo punto, sia per la forza dell’allestimento che del recitato si riesce anche a godersi le Nina’s oltre le Nina’s, e questo per quanto mi riguarda è un grandissimo risultato, perché valorizza la creazione e le individualità superando il mezzo espressivo, che per molti anni era stato il fine.

Invece con Dragpenny finalmente la “questione drag” diventa e torna ad essere, come giustamente forse deve, un mezzo. Uno dei tanti mezzi da esplorare da parte del gruppo di ricerca sul teatro. Certo, quello ancora dominante, la cifra di continuità con quello che finora è stato. Ma già la presenza dei camerini in scena smaschera il gioco e lo trasforma in occorrenza metateatrale. Sarà stata la giusta volontà di andare oltre, di non ripetersi, ma in Dragpenny si misurano agevolmente alcuni passi di maturità su diversi piani che, leggerezze e gayezze a parte, permettono di parlare di una creazione positiva e interessante. Con qualche divertissement recitativo e ammiccamento testuale in meno, per dare soprattuto al testo e  alla trama quella centralità e quel minimo di leggibilità ulteriore senza le ancora frequenti interruzioni off topic iconici in salsa pop, saremmo davvero di fronte ad una creazione inaspettata e ad un’Opera del tutto convincente, capace di superare gli stereotipi in cui a volte si finisce per chiudersi parlando di genere, per arrivare ad uno sguardo assoluto sulla società e sul testo stesso. Manca dunque pochissimo: il percorso delle Nina’s sta imboccando una direzione interessante.

Da vedere, anche per quell’alito (profumato) brechtiano che ai nostri lettori piace tanto…

Tutti in pericolo? Pasolini tra teatro, tv e hashtag

ANDREA CIOMMIENTO | “Tu non sai neanche chi adesso sta pensando di ucciderti”, così Pier Paolo Pasolini suggerisce il titolo della sua ultima intervista poche ore prima della morte: “Siamo tutti in pericolo”. A distanza di quarant’anni dal suo omicidio i mass media omaggiano l’opera e la vita del poeta friulano. Dalla narrazione che se ne fa, lo scrittore dello scandalo riesce a far parlare di sé lasciando piccoli semi del suo pensiero politico nei mezzi di “massa” tanto presenti e dannati nei suoi scritti corsari. Potremmo allora scrivere che Pasolini, oggi, non sarebbe più in pericolo?

PERICOLO TV

pasolini_pac4Le piattaforma televisive e radiofoniche omaggiano il poeta con diversi approfondimenti come “Maestro Corsaro” (Sky Arte) insieme a Ninetto Davoli e “Lucciole” (Radio TRE) con artisti del mondo teatrale (Daria De Florian, Luigi Lo Cascio, Giorgio Barberio Corsetti, Roberto Latini, Massimo Popolizio). Sulla scia dell’interazione tra i linguaggi vengono trasmesse opere di cinema e teatro come “Un delitto Italiano”, film di Marco Tullio Giordana (Rai MOVIE) e “Na specie de cadavere lunghissimo”, spettacolo teatrale di Fabrizio Gifuni e Giuseppe Bertolucci (Rai 5), a partire dalle lettere e dalle ultime interviste. Il taglio narrativo di queste visioni ci coinvolge per la qualità con cui si presentano i fatti, nulla viene nascosto, tutto si dice intravedendo anche senza prove i mandanti della sua morte. Nessuno dei principali canali nazionali dedica la prima e la seconda serata a Pasolini.

PERICOLO HASHTAG

pasolini_pac3Facebook accoglie gli hashtag #pasolini e #nottepasolini con la condivisione di eventi, immagini di repertorio, filmati youtube, articoli tratti da siti e blog, contributi retorici e antiretorici di firme conosciute e meno conosciute. L’usura dei segni genera una centrifuga di contenuti dove si vede tutto e il suo contrario. Buona parte dei giornali web dedicano all’artista uno spazio convenzionale, unico a distinguersi il FattoQuotidiano con un approfondimento webgiornalistico tra contributi scritti e video live stream con ospiti in redazione e collegamenti telefonici. Il focus fa comprendere il contesto storico e la figura di Pasolini senza frenesia dando il tempo a chi segue di ascoltare e comprendere sotto una chiave politica chiara il pensiero pasoliniano. La Redazione del Fatto ha presentato sulle stesse pagine il libro virtuale (e-book): “Quel che resta di Pasolini”.

PERICOLO TEATRO

pasolini_PAC1In Friuli abbiamo seguito i primi spettacoli del percorso “Viva Pasolini” prodotto dal CSS Udine che ha presentato in queste serate due dei sei progetti artistici curati da Giuseppe Battiston, Virgilio Sieni, Luigi Lo Cascio, Fabrizio Arcuri, Rita Maffei e ricci/forte.

Virgilio Sieni porta in scena cinquanta abitanti di Udine in uno spettacolo corale intitolato “Fuga Pasolini_Ballo 1922”, componendo frammenti di coreografie ibride sporcate da gesti di danzatori non professionisti di tutte le età. Al centro lo sguardo sui corpi densi di sacro e quotidiano da cui Pasolini era attratto.

Giuseppe Battiston, insieme al musicista Piero Sidoti, è il protagonista di “Non c’è acqua più fresca” diretto da Alfonso Santagata per la drammaturgia di Renata Molinari. L’attore racconta la giovinezza di Pieri Paoli contornata di feste, strade bianche, partite di calcio e corse alla fontana, immaginando gli abitanti del tempo e i paesaggi contadini. Visioni poetiche ancora vergini lontane dalle borgate e dalla sensualità del mondo che incontrerà a Roma negli anni successivi. Visioni dell’Italia contadina e dello spirito d’amore per la lingua friulana.

A Roma, il teatro contro la “chiacchiera” ha preso forma al Teatro Argentina con un evento/maratona di tre ore: “Testimone carnale” curato da Dacia Maraini, Antonio Calbi e Francesco Siciliano.

Una ventina di artisti – tra cui Ascanio Celestini, Piera Degli Esposti, Abel Ferrara, Roberto Herlitzka, Roberto Latini, Massimo Popolizio e Ninetto Davoli – hanno letto “Petrolio”, un romanzo complesso, controverso e indecifrabile, definito dalla stessa Dacia Maraini una “provocazione disperata”.

Distanze culturali fra Europa ed Asia viste attraverso il teatro a Vie Festival

imageRENZO FRANCABANDERA | Non c’è dubbio che esistano diversità, abissi antropologici e sociali nella storia, a separare l’Europa dall’Asia. Ma rendersene conto nell’era in cui la modernità appiattisce e omologa, in cui gli smartphone fanno uguali gli adolescenti a Shanghai e a Milano, è sempre stupefacente.Ed è ancor più stupefacente considerare come il teatro sia uno dei linguaggi in cui queste differenze appaiono più marcate, perché se si pensa alla musica pop, è facilissimo che uno PSY qualsiasi dagli occhi a mandorla possa sbancare le classifiche di tutto il mondo con la sua danza techno, facendo impazzire i totalizzatori di youtube dalla California a Berlino. O la pittura, e la letteratura, con artisti e autori di best seller ormai in giro per il mondo.Mentre sul teatro c’è qualcosa che ancora separa i due universi, che rende tangibilissima una distanza che, miliardi e social network a parte, ancora esiste.

Certo insospettisce il fatto che da anni la partnership fra il Piccolo Teatro e il polo teatrale di Shanghai, giusto per dire, funzioni sullo scambio di produzioni culturali intonate eminentemente alle storiche produzioni della commedia dell’arte, e che L’Arlecchino servitore di due padroni sia probabilmente l’esito scenico che viene visto come punto di riferimento del linguaggio teatrale italiano all’estero. Come se qualcuno mi chiedesse come sta la mia famiglia e io raccontassi del giorno del matrimonio di mia madre o giù di lì, facendo finta ch da quel momento non siano passati oltre quarant’anni.

Quello che è successo negli ultimi quarant’anni nel teatro in Europa lo abbiamo visto sintetizzato in forma perfetta nei due spettacoli andati in scena a Modena Sabato 24: Vie Modena 2015, secondo week end. Passeggiamo fra sorrisi e stati emotivi di tensione sul filo dell’indicibile. Vendere l’anima al Diavolo o abbandonare un neonato in un cassonetto, aspettare la morte mentre una banda di paese suona Mahler. Viaggiamo fra spettacoli dal paradigma estetico diversissimo.

Vediamo Go down, Moses di Castellucci e En avant, marche!, del duo Van Laecke-Platel, ciascuno a suo modo punta di un linguaggio, quello teatrale, che più di tutti gli altri è capace di innovarsi e farsi metafora del suo tempo in presa diretta. O di mantenere stilemi antichi di secoli, come vedremo.

Il primo, Moses, fra le ultime produzioni del teatro di Castellucci, a cui per molti anni è mancata la parola, ma che nelle ultime creazioni pare tornare, seppure in una dimensione straniante e quasi sintetica, è un lavoro in cui i paradigmi concettuali ed estetici legati al mito di Mosè vengono recuperati come evenienze del nostro tempo, e rilette.

Che succede in questo spettacolo? Il pubblico entra in sala e sul palcoscenico, dietro un tulle trasparente, una serie di persone paiono abitare una struttura museale senza quadri, ma agendo come se ce ne fossero, guardando, fissando, quasi misurando spazi e movimenti.

Buio, e appare una macchina, una sorta di rotore, o acceleratore di particelle, chissà, a sviluppare un caos che fa tremare le sedie del teatro. Buio. In un bagno di un locale una donna in una pozza di sangue partorisce. Buio. In un cassonetto di un vialone di periferia da un sacchetto nero arriva un gemito di bambino. Buio. La donna viene interrogata al commissariato (è l’unica parte dello spettacolo parlata) e pare tracciare nel delirio dell’abbandono del neonato, un parallelismo con Mosè abbandonato alle acque del Nilo. Risuona il gospel che dà il titolo allo spettacolo è un’invocazione alla liberazione del popolo oppresso. Buio. La donna fa una TAC. Il suo corpo passa attraverso la macchina. Buio. Torna il rotore. Buio. Dal buio, molto lentamente affiora una caverna e dalla caverna i corpi di umani primitivi. Anche in questa caverna viene seppellito un neonato. E dopo un grido d’aiuto di una donna di questo popolo, che con liquidi biologici scrive sul tulle un gigantesco SOS, arriva in questa caverna il corpo della donna che aveva attraversato la macchina della TAC. La caverna si è svuotata. Lei si guarda attorno. Legge l’sos.

Questa in sintesi e per quadri la vicenda, se vicenda è, nel senso di conseguenza logica degli eventi, quanto avviene nel lavoro di Castellucci.
In realtà è il “consueto” impasto di codici, che lascia lo spettatore atterrito, interdetto, frastornato nella creazione sonora di Scott Gibbons che fa da contraltare allo schema di immagini di Castellucci, che affida le parti recitate, sempre in bilico fra teatro e coreografia, a figure ibride del panorama attoral coreutico italiano, come Rascia Darwish, Gloria Dorliguzzo, Luca Nava, Stefano Questorio e Sergio Scarlatella.
Il teatro di Castellucci è un po’ un tormento, si crogiola in modo raffinatissimo nel buio sui dolori dell’umanità, su quello che alla luce viene difficile da dire. Magari illuminando la caverna delle nostre angosce a poco a poco, come nel finale di Go down Moses. Da vent’anni lascia che al finire dei suoi spettacoli l’applauso venga inevitabile ma doloroso. Perchè riesce sempre a mettere in scena il terribile, ma in modo terribilmente bello, anche quando racconta il turpe.
Una caratteristica, questa che lo avvicina allo spettacolo di Platel-Prengels, che invece racconta il dramma di un musicista malato, parte di un’orchestra, che dopo aver contratto una malattia all’apparato respiratorio non può più suonare la tromba. I due registi Van Laecke e Platel, in collaborazione per la parte musicale con Prengels, hanno tratto ispirazione da L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello e dalle bande di ottoni e fiati che svolgono un ruolo fondamentale nella vita sociale e culturale delle comunià e a cui era dedicata la mostra al Huis van Alijn Museum, Ghent, di Stephan Vanfleteren e altri fotografi, tenutasi nel 2012. Così gli artisti si sono avvicinati al mondo delle bande come una società in miniatura. Era già successo con Hermanis qui a Modena, nel racconto del rito funebre nell’Europa dell’Est. E davvero il gruppo di musicisti di paese, con le sue regole esclusive e non scritte, finisce, in questo come in quel caso, per rappresentare una vera e propria metafora dell’intera società, in questo caso con un ruolo ancor più forte affidato alla musica, trascinante nella direzione di Steven Prengels e che qui a Modena si è avvalsa della preziosa collaborazione in scena della Banda Cittadina di Modena “A. Ferri”. L’uomo, un omone dalla vasta cultura poliglotta, deve smettere di suonare la tromba e passare ai cimbali, scivolando così anche fisicamente in fondo della banda, con uno shock nella sua vita ma anche nel sistema di relazione nella banda, che è la sua famiglia, con sentimenti, dinamiche amicali, emotive di intensità diversa. Il malato si allontana piano piano dalla vita, rifiuta la vicinanza di chi lo ama, e la banda sembra quasi vivere la sua dipartita come un rito balcanico-felliniano di follia collettiva. Anche perchè all’orizzonte già appare il suo successore, bello, giovane, e con la stessa passione per la musica.

La banda continua a vivere, quasi in una poetica proiezione di immortalità delle comunità rispetto ai suoi singoli componenti. Uno spettacolo bellissimo e interpretato in modo magico, sia dai singoli che dai collettivi.
Una luce opposta rispetto a quella spot tutta focalizzata sull’individuo singolo alle prese con le sue tensioni morali che ha la storia di Faust e che è stata presentata al Teatro delle Passioni come esito di una ricerca attraverso il linguaggio dell’Opera di Pechino con la riscrittura di Li Meini del dramma “Faust: prima parte” di Goethe, per un progetto che porta la firma alla regia di Anna Peschke, co l’aiuto regia di Xu Mengke e con e musiche originali composte da Luigi Ceccarelli, Alessandro Cipriani e Chen Xiaoman, ottimamente interpretato, in uno spazio quasi vuoto e delimitato dalle luci di Tommaso Checcucci, da Liu Dake nel ruolo di Faust, Xu Mengke nel ruolo di Valentino, Wang Lu nel ruolo di Mefistofele e Zhang Jiachun nel ruolo di Margherita.

Lo spettacolo ha proprio i canoni della rappresentazione teatrale orientale come ce la si potrebbe immaginare. Ferma in movimenti ancestrali, con il diavolo che maneggia un ventaglio di dannazione, la donna chiusa nei suoi movimenti codificati, l’uomo che recita con gli occhi truccati e sgranati, con i bellissimi costumi tradizionali di Akuan e il trucco di Li Meng. Nel 2010, durante un convegno, lo specialista cinese in studi tedeschi Zhang Yushu dichiarò: «Goethe sente, pensa e agisce come un poeta mandarino cinese». La sfida principale risiede nel lavorare con gli attori della compagnia China National Peking Opera Company: questi performer possono raccontare un’intera storia con i movimenti, attraverso la danza e le azioni. Tra le peculiarità della dura educazione dell’Opera di Pechino, c’è infatti l’insegnamento della facoltà di comunicare tutto tramite il corpo e la mimica, senza l’uso della parola.

E questa è proprio la marcatissima differenza rispetto ad un teatro europeo che invece, ammesso ne abbia mai avute, sta volontariamente abbandonando le forme codificate dell’espressività corporea tradizionale del teatro.

Usciamo da questo week end con una densità di visioni, ma anche di considerazioni antropologiche sull’uso che nelle diverse civiltà si fa del teatro come medium di elaborazione sociale del pathos collettivo, che si amplificano via via. E ripensiamo alla Liddell e alla danza più sperimentale viste sempre qui a Vie negli anni passati. Poi ritorniamo con la mente ai gesti dell’Opera di Pechino e ci chiediamo cosa faccia queste differenze così macroscopiche. Come mai in una società di gusti commercialmente così appiattiti ed uguali, esistono su questa specifica forma d’arte differenze così eclatanti? La Cina è vicina o molto meno di quanto non appaia e si dica? Anche queste riflessioni, all’ombra dello sguardo sornione di Pietro Valenti che mai a caso sceglie cosa programmare, fuori da banali e molto provinciali polemiche su prime nazionali, mondiali e interplanetarie, a cui si aggrappano programmatori e direttori artistici che spesso non mettono il naso fuori dal confine nazionale a differenza di come fa ERT (e lo diciamo a ragion molto veduta, veduta proprio con questi occhi ad Avignone come a Berlino e in ogni altro pizzo d’Europa dove si fa arte scenica), fa si che il teatro sempre più ci affascini e ci spieghi il nostro tempo. E che Vie resti uno dei momenti più alti di confronto in Italia con questo linguaggio, nelle sue declinazioni contemporanee.

La crisi della famiglia: dal Commesso Viaggiatore a Il prezzo di Popolizio

 LAURA NOVELLI | Sono passati quasi dieci anni da quel riuscito allestimento di Morte di un commesso viaggiatore in cui Eros Pagni (diretto da Marco Sciaccaluga) interpretava un Willy Loman dalla compostezza dignitosa e insieme dalla febbrile drammaticità. Rammento che quel lavoro mi aveva colpito molto, regalandomi il desiderio di leggere più approfonditamente le opere di Arthur Miller. Nel ritornare adesso ad accostarmi ad un altro suo testo, Il prezzo (1968), il ricordo di quello spettacolo si fa ancora più vivido e nella messinscena di Massimo Popolizio vista al teatro Argentina di Roma ritrovo lo stesso stratificarsi di sensazioni ed emozioni diverse, persino contrastanti, provato allora. Anche in questa commedia si parla di padri e figli, di scontri generazionali, etici, emotivi; si allude a incomprensioni familiari, desideri frustrati, universi maschili inesorabilmente alle prese con disillusioni acri e con resoconti esistenziali deludenti. Ma vi è dell’altro a dettare un’attualità non comune a tutti i capolavori del drammaturgo statunitense: la crisi di un sistema familiare quale cartina di tornasole della crisi di un’intera società si fa qui, infatti, un tema urgente, sorretto da una critica feroce verso quel “bi-sogno” economico e quella sete di guadagno che vorrebbero assurge ad unici parametri di relazione umana e di riuscita personale.

D’altronde, è stata proprio l’estrema modernità del testo a convincere Umberto Orsini (produttore e sublime interprete nel ruolo di Gregory Solomon) della necessità di portare in scena l’opera (assai poco rappresentata qui da noi se non fosse per le diverse regie di Raf Vallone datate ’69 e ’87) affidandone la traduzione a Masolino D’Amico, promuovendone la prima edizione italiana (Einaudi) proprio quest’anno che ricorrono i dieci anni dalla morte di Miller e affidandosi ad attori/compagni di viaggio che non hanno davvero bisogno di presentazioni: lo stesso Popolizio interpreta Victor Franz, Alvia Reale è sua moglie Esther ed Elia Schilton suo fratello Walter, tutti estremamente bravi.

Da un lato del palcoscenico: una catasta di mobili coperti da pesanti tende che lasciano intravedere un ampio tavolo di legno, qualche poltrona, qualche sedia rovesciata, un comò. Dall’altro lato: una scala metallica da cui scendono i diversi personaggi e che irrompe con gelida geometria nel clima caldamente nostalgico del mobilio. Ancora più nostalgico è poi un giradischi piazzato sul proscenio dal quale risuonano note malinconiche, non a caso scelte per aprire e chiudere lo spettacolo.

Già questo impianto scenografico – a firma di Maurizio Balò – permette di intuire che la partita scenica si gioca essenzialmente sul contrasto tra passato e presente, rimorsi e rivendicazioni: due fratelli non più giovani si ritrovano dopo molti anni di separazione e di estraneità reciproca e si illudono di poter ricostruire un rapporto in occasione dell’eredità che ha lasciato loro il padre, spinti dall’urgenza di dover vendere tutti gli oggetti di famiglia per via dell’imminente demolizione del palazzo in cui il genitore aveva vissuto. Uno dei fratelli (Victor) è un poliziotto ultracinquantenne che ha sacrificato tutta la sua vita e la sua intelligenza per accudire il padre (self made man di successo caduto in disgrazia in seguito alla crisi del ’29, proprio come avvenne al padre stesso di Miller) accontentandosi di un impiego mediocre e frustrante; l’altro fratello (Walter) è invece un chirurgo di fama che ha tagliato i ponti con la famiglia e che si fa vivo proprio in occasione della vendita di quei mobili sul cui ricavato si incentra l’intera discussione. Discussione ampliamente fomentata da Esther, una donna depressa e fortemente delusa dalla non riuscita sociale del marito che tenta in ogni modo di difendere le sue ragioni. Sembrerebbe dunque una faida di famiglia come tante.

Ma, in questo quadro di fragilità umane verisimili e desolanti, il drammaturgo inserisce genialmente una quarta, straordinaria (ma vorrei dire “extra-ordinaria”), figura: il compratore ebreo Solomon, novantenne dall’aria stralunata ma arguta che sembra un ragionatore pirandelliano capace di battute sagaci e di saggezza filosofica. E’ lui che riporta l’ago della bilancia alla giusta misura; è lui che cerca di mettere poesia in una avvilente disputa tra consanguinei; è lui che guarda la situazione – e ci guarda e li guarda – da fuori, con il distacco ironico di chi ne ha passate tante. Solomon ha fatto tanti mestieri, è stato persino acrobata e qui gli riesce la sua acrobazia più vera: quella di spingere i personaggi ad una resa con se stessi e con la loro storia, ad una confessione che restituisce dignità a chi la merita, facendo una netta distinzione tra il denaro e l’uomo, il guadagno e i sentimenti. Orsini si regala un ruolo enorme e struggente e ci regala una delle sue prove più plastiche, più naturali, più commuoventi.

E fa bene la regia di Poplizio a puntare soprattutto sulla resa interpretativa degli attori – tutti in abiti d’epoca e con occhiali anni ’60, tranne il vecchio compratore – ricercando una chiara distinzione tra la recitazione espressionista, a tratti quasi “cantata”, dei tre parenti e quella più dimessa e introspettiva di Orsini/Solomon. A tratti la declamazione “ronconiana” del testo sembra stridere con il linguaggio di Miller ma si capisce che a monte vi è una scelta ben precisa: forse l’idea stessa di far confliggere anche sul piano formale le tre “maschere” di casa Franz – tra l’altro fissandole in nevrosi giocoforza sopra le righe (l’arrendevolezza di Victor, l’avidità di Walter, l’infelicità di Esther) – con l’aria lunare e pacifica dell’intruso, ragionatore sì ma anche uomo estremamente pragmatico. Pronto a non darsi per vinto e a ricominciare ancora e sempre da capo. Avvolto nello splendido disegno luci di Pasquale Mari, dimentico delle ruspe che con fragorosa violenza (dato sonoro forse didascalico ed evitabile) demoliscono il palazzo, Solomon rimane da solo in scena e – siamo ormai all’epilogo – balla con passi lenti e sereni. Sembra possedere la grottesca malinconia di un fool shakespeariano; la levità pesante di uno Charlot arresosi alla fatalità del destino.

DANAE: come indossare il 17 fra eleganza e fragilità, da Warlop a Pennini

danaefest-1.2015RENZO FRANCABANDERA | Ci siamo salvati con un crowdfounding. Sarebbe una di quelle raccolte fondi a cui partecipano gruppi di interesse per far sopravvivere le iniziative. E che adesso va di moda nel teatro un po’ impegnatello, quello che ancora crede all’arte che cambia il mondo ecc. Insomma gli illusi dell’arte che riescono incredibilmente a raccogliere fondi da persone ancora più illuse di loro per mandare avanti la baracca. Vi scrive un disperato della seconda categoria.

Contenti di esserlo e alla fatidica soglia del nr 17, quelli di Danae, mitica rassegna di arti performative basata a Milano e curata dal Teatro delle Moire che sostiene e promuove esperienze artistiche nuove della scena contemporanea, sfidano la malasorte, e senza fare come le compagnie aeree e gli alberghi, che tengono in dovuto conto la sfigologia numerica, si tuffano sull’edizione più scaramantica con piglio deciso.

E lo fanno sfidando innanzitutto il calendario teatrale, piazzando la nave da 5 a ridosso di tutte le altre che incrociano l’affollato mare di inizio stagione, in questa battaglia navale che è la caccia allo spettatore oggi. Da sempre collocato in primavera, tra marzo e aprile, il festival quest’anno si è trasferito in autunno, a cavallo tra ottobre e novembre, parallelamente all’apertura delle stagioni teatrali, occupando molteplici spazi della città: dal 27 ottobre al 14 novembre, e contro la numerologia con 17 compagnie, 17 spettacoli in 11 spazi teatrali e non,  51 artisti, e 23 repliche, di cui 5 prime nazionali e 1 anteprima; ma Danae non si ferma a “far vedere”: coproduce e mette in scena 6 spettacoli di cui 4 italiani e 2 stranieri, realizza 3 residenze artistiche, organizza 2 masterclass, 1 workshop e 1 lectio rivolti a studenti di danza, ma anche a persone interessate e curiose di teatro contemporaneo e di arti performative. Insomma un festival multidisciplinare e internazionale, unico in Lombardia riconosciuto dal Ministero e dalla Regione.

Abbiamo visto i due spettacoli in apertura: DRAGGING THE BONE  di Miet Warlop, artista belga poliedrica e DIECI MINIBALLETTI di CollettivOCineticO, compagine italiana di successo che torna a Milano grazie a Danae con un nuovo progetto coprodotto dal festival stesso.

Parliamone in breve:
DRAGGING THE BONE  è un lavoro in cui la Warlop porta in scena le sue esperienze di scultrice. La creazione di sapore performativo si anima delle sue opere in gesso, alcune fragili e altre più consistenti. Tutte, inesorabilmente finiranno praticamente in frantumi, in un’elegia della frammentazione, della rottura del canone estetico, dell’intero. Il rapporto fra canone e realtà è spesso oggetto delle parti più significative di questa creazione per immagini, in cui la Warlop con il suo corpo crea distonie, squarcia, distrugge quanto ha lei stessa realizzato in precedenza, crea installazioni per compiere gesti semplici ma agiti in modo anomalo, come quella in cui due spazzole per capelli infisse su tubi d’acciaio ad altezza d’uomo, vengono utilizzate in senso proprio con lei che ci scaglia sopra la sua lunga chioma.
Plastica e gesso si fondono in creazioni che come birilli andranno in frantumi. E lei stessa, con il corpo intrappolato in una gonna di gesso, rotolerà come una palla da bowling fino ad una schiera di birilli messi in fila sul proscenio, dopo aver faticato in ogni modo per infilare questa gonna rigida e senza alcuna proprietà elastica in un corpo cui la forza di gravità regala una taglia in più del necessario, motivo per il quale non riuscirà ad indossarla tirandola su stando in piedi, ma ci si dovrà infilare dentro sdraiandosi per terra in modo da ridurre il volume delle natiche.

Alcune idee sono divertenti, alcune proto-geniali, altre un po’ autoreferenziali. La sensazione finale è che la presenza dell’artista in scena, che si porta sotto i riflettori, finisca per prevalere un po’ sulle idee, creando un amalgama in cui però si avvertono i grumi.

Sensazione opposta è invece quella che si ricava dalla visione dello splendido DIECI MINIBALLETTI di CollettivOCineticO. Si tratta di un’opera capitale, diremmo centrale per la poetica di CollettivO, che ritorna sui temi delle sue creazioni recenti, la variazione sul tema, il senso della ripetizione, il canon per tonos, il confronto con il tempo e con la storia individuale, che diventa storia dell’arte, storia per l’arte. Il contenuto di immaterialità di quest’opera è talmente vario e si pone su piani così diversi del sentimento, che ricorre quella tipica difficoltà di raccontarlo, dovendo scegliere se perdersi nella minuziosa descrizione di ogni piccolo movimento o cercare di raccontare una sensazione più generale, sicuri però che non potrà abbracciare l’intensità piena di quanto visto.

Partiamo comunque da quanto visto: all’inizio, davanti ad un ammasso di piume posto davanti ad un ventilatore, la Pennini svolge, vestendo una tuta rossa e calzini di spugna con strisce rosse e blu, esercizi di danza e riscaldamento del corpo, su sottofondo sonoro di vento che soffia forte, esercizi ginnici sulla simmetria e l’equilibrio del corpo, sulla potenza e l’elasticità, animati dalla consueta ironia, suggestivo motore di surrealtà ludica, ma abbinato alla raffinatezza nell’esecuzione tecnica.

pennini-francesca-0487La seconda parte, dopo l’ingresso in scena, è proprio il caso di dirlo, di un drone che fa volare le piume per tutta la sala danzando un valzer, riporta in scena la Pennini in elegante body nero, alle prese con la sua storia, con
il suo sogno infantile di diventare coreografa, e con la confessione, al termine di un assolo su musiche barocche, di aver pensato e scritto per anni, nella sua infanzia, coreografie di diversa natura, alcune delle quali, per suo stesso dire, al limite del realizzabile. Il tutto raccontato distes per terra con il microfono che pende e scende inesorabile dal soffitto con lei che ci finisce sotto, e inizia a parlare come una bimba nel lettino, che si racconta.

La Pennini afferma in modo poetico il suo sogno di bambina, si rilegge per dare vita vent’anni dopo al suo desiderio, ma con le complessità e le consapevolezze del pensiero adulto. E l’adulto è un universo spesso di inibizioni, per gli esseri umani, piuttosto che di affermazioni di sé e della propria indole vera.
L’assolutizzarsi della sua storia personale prima ancora che artistica, vissuta da anatroccolo nero, forse, è attraversamento delle traversie del vissuto e delle difficoltà dell’arte, prima ancora che altissimo momento coreografico, con un finale curato con lentezza per poi esplodere in un gesto solo, assoluto.
Il fumo avvolge la scena, il suo corpo nudo dipinto di nero spicca un balzo con spaccata nel cuore degli spettatori, e in quel complicato sistema di desideri che tutti ci portiamo dentro, insieme ai fallimenti, alle cadute e alla voglia di realizzare compiutamente la nostra pura e semplice identità sensibile, cui spesso abdichiamo nel vissuto di tutti i giorni.

Romaeuropa 2015: una Operetta in tacco 12

Le scarpe dal tacco altissimo messe in fila sul palco del Teatro Vittoria che si notano appena si prende posto farebbero mortificare qualsiasi donna che per mesi, forse anni, abbia tentato di reggercisi in piedi senza inciampare o rompersi una gamba. Pietro, protagonista quarantenne di Operetta burlesca per la regia di Emma Dante non solo ci cammina, ma ci salta e ci balla divinamente. La regista siciliana ritorna al Romaeuropa festival prendendosi la sua rivincita dopo l’interruzione delle repliche durante la scorsa edizione dovuta alla chiusura del Teatro Eliseo. “Perfetto… Amma Donte perfetto!” continua a ripetere la spettatrice straniera (forse olandese) che ha sfidato la pioggia per godersi lo spettacolo. Non sono solo alcuni degli spettatori ad essere stranieri: lo è anche Pietro. Lo è per i suoi genitori padroni e patroni della sua vita che con un trasferimento da un rione siciliano ad uno napoletano hanno relegato il figlio ancor di più in una condizione di “non farcela”. La figura paterna e materna racchiusa in un unico personaggio grottesco si esprime in un dialetto differente da quello del protagonidta aumentando la distanza tra Pietro e la sua famiglia. Emma Dante scava ed interroga l’immaginario più perverso dell’uomo affrontando ancora una volta il tema dell’omosessualità: le pulsioni sessuali “diverse” ed inconfessabili rispetto all’ordinario rapporto uomo-donna che ci ricordano che siamo fatti di carne e sentimenti che non possiamo comandare. Ma il paese è piccolo e la gente mormora, rione chiama rione, marginalità chiama marginalità, condizione triste risollevata da Pietro che si costruisce un mondo fatto di colori, kitsch, burlesque, lustrini e vestiti che indossa per affermare sempre più la sua individualità. Una trama dalle note amorose e dolenti, la continua rivendicazione del sentirsi donna da parte di un uomo. Spettacolo dinamico e ricco di elementi simbolici, il nudo in scena è adoperato dalla Dante in un modo mai volgare ma anzi dimostrativo del fatto che non necessariamente c’è bisogno di una grande scenografia per ottenere uno spettacolo denso di contenuti. Abiti sfavillanti, palline colorate, tutù e coriandoli sul palco appartengono ad un mondo circense che regala alla storia un retrogusto amaro, bambole gonfiabili appese a dei fili simboleggiano una sessualità passiva lasciando il protagonista e anche noi stessi inermi di fronte alla realtà dei fatti: è impossibile comandare i propri istinti e i propri sentimenti. Sulle note de “Il terzo fuochista” di Tosca, Pietro si rassegna al ricordo e al sogno di una vita che non otterrà mai. Gli restano solo le scarpe in bella mostra, luccicanti e imponenti, simbolo della sua femminilità che non è riuscito ad affermare. Il pubblico resta per un po’ ad osservarle, cercando di captarne il significato. Ma si sa, i teatranti, generalmente, indossano solo scarpe Camper.

PREMIO RETE CRITICA – i nostri candidati per l’ediz. 2015

imageGRUPPO PAC | Cari lettori, come gruppo di studio e attività di indagine critica sulle arti sceniche, prendiamo molto sul serio il Premio Rete Critica. Perché negli anni ha dimostrato di essere in grado di segnalare con attenzione e lungimiranza realtà del panorama nazionale capaci spesso di affermarsi anche all’estero, ed è il caso fra gli altri di Sciarroni o CollettivO, ma che le istituzioni più paludate della critica tradizionale faticano a segnalare (e qualche volta anche a seguire, purtroppo!).

Per questo riteniamo che il premio sia importante e il nostro ruolo di segnalatori fondamentale. Morale addirittura.

Le nostre candidature riflettono la volonta’ di mostrare la giusta attenzione al territorio nazionale e alle diverse espressioni di questa arte. Vorremmo essere capaci pur con sole cinque candidature, di guardare ciò che è consolidato e il nuovo.

I voti di PAC per l’edizione di quest’anno del premio, con le relative motivazioni, sono quindi:

1 – Case Matte – l’originale percorso reale e metaforico del teatro nell’universo della follia, come quella di una nazione che occulta la sua storia e lascia decadere le ex strutture manicomiali dove la caparbietà di Paola Manfredi e del gruppo che con lei ha condiviso il percorso ha voluto portare questo progetto e il notevole spettacolo

2 – Festival Orizzonti di Chiusi – un progetto capace di far rinascere intorno a sé una città attraverso il teatro, un’iniziativa che ha ottenuto il riconoscimento MiBACT e co-prodotto, tra l’altro, lavori interessanti come i Giganti di Latini.

3 – Oscar de Summa – Stasera sono in vena – un lavoro sincero e semplice, che riporta alla forza dell’attore e alla narrazione, ma che ancor di più restituisce al teatro italiano un interprete di altissima qualità

4 – TeatroSocialeGualtieri – Direction Under 30 – una realtà   industriosa e vivace dal punto di vista comunicativo, che sta coinvolgendo la comunità degli under 30 e sta trasformando anche dal punto di vista della comunicazione sociale il valore del fare arte e dell’ospitare il nuovo, il futuro.

5 – Teatri di Vetro – prossimi al decennale di questo tenace e coraggiso progetto, ci piace l’idea di “altro possibile” a Roma, una rassegna ricca e diversa, che si è saputa affermare negli ultimi anni come un momento di incontro e confronto dalle caratteristiche peculiari.

Convivio Pasolini: Giovanna Marini fra lettura, musica e racconto

voix-de-femmes-sono-pasolini-c-giovanna-marini-le-choeur-arcanto-c-bono-marcelloMARTINA VULLO | 2 Novembre 1975: con le prime luci del giorno, all’idroscalo di Ostia, veniva rinvenuto il corpo di un uomo brutalmente massacrato. Di lì a poco si sarebbe diffusa la notizia: avevano ammazzato Pier Paolo Pasolini.

Sono trascorsi 40 anni da quell’avvenimento, ma la memoria di quel corpo è ancora fresca e le piaghe doloranti: a dimostrarlo è lo spettacolo SONO PASOLINI per coro a voci naturali e un lettore, andato in scena il 21 Ottobre all’Arena del sole di Bologna, per la programmazione del Festival Vie.

A Firmare la regia è Giovanna Marini che è anche la prima a fare ingresso in scena, accompagnata dalla direttrice del coro Arcanto, Giovanna Giovannini. Segue il “lettore” Antonello Pocetti e infine le 15 “voci naturali”.

La parola chiave è “semplicità”. Non ci sono elementi scenici, eccetto aste per microfoni, leggii e una chitarra. Tutti vestono in nero e Il coro è illuminato da una luce statica dai toni profondi. Un neon di volta in volta si posa sulla narratrice o sul lettore.

Giovanna Marini è una ricercatrice etnomusicale e folklorista che ha conosciuto Pasolini a Roma negli anni ’60, anni in cui costruì anche la sua notorietà come cantautrice.
Attraverso una narrazione molto autentica, sottolineata dalla cadenza dialettale del suo parlato e dalla vena di commozione che di tanto in tanto la fa incespicare, ripercorre tutta la biografia pasoliniana. Il coro, privo di accompagnamenti musicali, qualche volta la interrompe cantando le poesie in friulano de La meglio gioventù, così il racconto si arricchisce con la suggestione del dialetto che – come Pasolini amava spiegare ai suoi alunni – è molto più autentico della lingua italiana, perchè in grado di parlare attraverso il suono.

Il racconto non può che partire da Casarsa: paese legato ai ricordi dell’infanzia, delle vacanze, dei giochi e delle lunghe passeggiate. Un paese pieno di volti genuini e dove la natura resiste ancora ai processi dell’industrializzazione. Da questa Casarsa passiamo a quella degli anni ’40 in cui Pasolini inizia ad insegnare, a cui la guerra fa da sfondo e da dove parte arruolato il fratello Guido per non tornare più.

Si parla dei Turcs tal Friùl e delle contaminazioni biografiche con la tragedia, ma l’impressione è quella di un banchetto informale, dove degli amici confidenzialmente cantano canzoni dal sapore locale: come la preghiera friulana che accompagna la trama del dramma, in cui al fratello che parte in guerra si contrappone quello che resta a pregare.

Il lettore legge frammenti di Le ceneri di Gramsci. Il tema ricorrente è il confronto fra le nuove generazioni apatiche, esaminate nell’aspetto e negli atteggiamenti, e la generazione dei padri. È una lettura fredda, distaccata, che sembra quasi suggerire una distanza del Pasolini intellettuale rispetto a quello che ci viene raccontato. Ma è un’estraneità che viene meno con l’avanzare del racconto.

Mentre la biografia prosegue, condita da aneddoti ed empatia, narrazione canto e lettura si intrecciano progressivamente: cambia il tono del lettore e la narratrice inizia a confondersi col coro. Si passa dalla denuncia al trasferimento a Roma, all’ Accattone, fino alla morte, in un intrecciarsi dei tre elementi che si fa sempre più profondo.

Il lavoro della Marini nella storia del teatro pasoliniano si colloca all’interno di quegli esperimenti che da un decennio a questa parte hanno cercato la ricomposizione, collocando accanto alle classiche messinscene delle tragedie pasoliniane, una teatralizzazione dell’intera, eclettica opera pasoliniana, mettendola insieme per frammenti uniti da specifiche tematiche. Penso, per esempio, al lavoro di Punzo del 2004 in Pier Paolo Pasolini: ovvero elogio al disimpegno – diverso drammaturgicamente e tematicamente, ma basato sullo stesso tipo di assemblaggio – o per rimanere in tema di spettacoli cantati, a Eretici e Corsari con cui anche Neri Marcorè e Claudio Gioè, hanno calcato il palcoscenico dell’Arena del sole nel 2012, incrociando fra monologhi, letture e canzoni, l’opera di Gaber a quella di Pasolini.

A distinguere Giovanna Marini dall’immenso magma di questi moderni lavori è la semplicità del raccontare, l’assenza di retoriche e il messaggio cinestesico della lingua friulana dei cori: una formula in grado di provocare una forte commozione nel pubblico.

Suggestivo il momento finale, nel quale accompagnandosi alla chitarra, la voce dell’autrice, echeggia nel silenzio assorto della platea, intonando il Lamento per la morte di Pasolini.

Un silenzio rispettoso interrotto a metà del brano musicale, con l’illuminarsi delle balconate ai lati del palcoscenico, dove persone di diverso genere ed età hanno sostenuto con la propria voce il canto della donna, seguite dal coro e poi dal pubblico. Un grande momento all’insegna della comunità, andato a culminare nella standing ovation.

DNA Appunti Coreografici 2015. Visioni di giovane danza italiana

1002361_1189587784401786_4435735965100128326_nANGELA BOZZAOTRA  Lo scenario che si presenta agli occhi di chi studia e osserva la nuova coreografia italiana è alquanto complesso. Da un lato, ritroviamo l’ormai evergreen della danza concettuale, dall’altro una svolta performativa che interagisce con le esperienze della body art e della performance art. Una terza via si oppone parzialmente alle due, ed è la linea neo-rinascimentale, che vede nella figuratività il basamento della propria estetica e della composizione coreutica. Ma talvolta ritroviamo anche il teatrodanza d’antan, sotto la cui definizione si assimilano esperienze spesso non proprio ortodosse.

Tali linee divergenti e dissimili sono racchiuse in una serata dedicata alla giovane coreografia italiana, tenutasi all’Opificio Romaeuropa, nel consueto spazio/foyer dedicato a performance e incontri. Giunto alla sua terza edizione, l’appuntamento DNA Appunti Coreografici costituisce un evento favorevole alla sperimentazione, radicatosi sul territorio in misura maggiore con l’entrata in campo di Cango/Compagnia Virgilio Sieni, Gender Bender di Bologna e Uovo Festival di Milano, che vanno ad ampliare il network di riferimento che ha la funzione di trovare talenti e promuoverne uno solo, ossia il vincitore della competizione (negli anni precedenti vinta da Claudia Catarzi e Annamaria Ajmone, presente quest’anno nell’ambito della rassegna DNA con il solo Tiny).

Durante la serata, sono presenti ben sei giovani coreografi con i propri studi preliminari per una coreografia futura, da mostrare al pubblico in un quarto d’ora per ciascuno. Si parte da Paradise di Francesco Marilungo, dove il coreografo, già danzatore per Enzo Cosimi, dà vita a un incubo di estasi e martirio. Un loop video – dove scorrono alcune sequenze virate in bianco e nero e a ralenti di un film del regista austriaco Urlich Seidl Paradise:Faith (2012) – fa da sfondo alla performance live di due performer. Il primo, lo stesso Marilungo, si avvolge in un sacco nero da cui un vacuum – attrezzo utilizzato comunemente nelle pratiche SM – risucchia l’aria, asfissiandone il corpo in modo coercitivo, lasciandolo respirare a malapena, posto sul pavimento con le braccia ripiegate dietro al capo. L’altro performer, l’ “officiante” del rito, si occupa di azionare la macchina e manipolare gli altri oggetti (vediamo sul perimetro scenico una brocca e un piatto neri, che non verranno però utilizzati). Mentre l’immagine-video ci restituisce la figura sbiadita di una donna che si flagella di fronte a un crocifisso, la figura nera/Marilungo si contorce e si posiziona lentamente in verticale; iniziando un contatto fisico con l’altra presenza, di cui rappresenta l’alter-ego oscuro, la parte rimossa che riaffiora.

La seconda coreografia di Aurora Pica, The authentical perception in mutations, vede due danzatrici delle quali la Pica danzante e un’altra che l’insegue con un esile cordicella nella quale la prima si imbraca per poi liberarsi. La partitura esibisce una serie di movimenti a scatti, inframezzati da un battito di mani, e numerosi spostamenti lungo il perimetro scenico in orizzontale privi di qualsivoglia ratio, altresì dell’”autenticità di percezione” del titolo di cui sopra. Nel silenzio tombale (da danza concettuale appunto) non risalta alcun segno di vita né uno sparuto barlume di senso drammaturgico.

Cercare coraggio/Proteggere innocenza è lo studio di Lara Russo, la quale dirige tre danzatori alquanto difformi tra loro per peso e altezza, interagenti con dei tubi di rame, generalmente usati per l’impiantistica idraulica. Il tappeto sonoro che li accompagna è una registrazione effettuata dal vivo delle prove di un artista, ed è costituito da un insieme di rumori, che si mescolano a quelli provocati live dallo spostamento dei tubi da parte dei danzatori. In un gioco di acrobatismo e geometria di traiettorie nello spazio, il trio diventa un bassorilievo sullo sfondo nero della scena, ponendosi ora di profilo, ora in pose plastiche. I danzatori sembrano muoversi come rotelle di un orologio, compiendo delle rotazioni ognuno in senso differente, usando i tubi come lance. Il finale vede la comparsa di altri oggetti di legno, (un triangolo, dei piccoli pesi) che vanno a formare una composizione di richiamo pittorico, in un crescendo dove ambiente sonoro e spazializzazione dello stesso si uniscono creando un tono di attesa e abbandono.

Più minimalista l’Affleurer di Michela Paoloni; duetto tra uomo e donna sommersi da una caterva di fili colorati, groviglio che ne nasconde inizialmente i corpi. Anche qui il sound è decisamente ben curato, e contribuisce a creare una sorta di bolla temporale dove tutto scorre lento, e la figura umana lascia il posto al figurale: frammenti di corpo che affiorano lentamente fino a far emergere la figura intera, che mostra al pubblico una lingua rossa e gesti scomposti. Non rassicurante, ma nemmeno insensato.

Con Floor Robert siamo invece nell’ambito del teatrodanza, laddove la performer ci narra con una sorta di pantomima regressiva la storia di un’Influenza, di cui si ammala una non più giovane donna la quale però si muove e si abbiglia come una bambina. Aggrappata ai suoi palloncini verdi, e accompagnata da un amico con la faccia dipinta dello stesso colore (un elfo di periferia?), incontrerà poi un uomo-giornale con il quale intratterrà un dialogo fatto di libere associazioni, dove si erigono le figure improbabili di una “paperella in mezzo ai cani”, lasciando la curiosità di saperne di più, di questa follia con metodo dove risalta una certa delicatezza poetica, soprattutto nei momenti di affetto tra l’uomo in verde e la giovane non più giovane e la sua influenza.

La maratona di appunti coreografici termina con un surreale quarto d’ora di videodanza, Yaku shin in a hall di Eugenia Coscarella, introdotto da una voice off che recita una breve silloge introspettiva, maldestra nella ritmica e nel senso. A seguire una coreografia per tre danzatori, registrati proprio nello stesso spazio dell’Opificio, immersi nel nero e di tale colore abbigliati, che eseguono una partitura di movimenti ossessiva nel suo avanzare in continuazione per poi puntualmente indietreggiare, con un suono ambient ad accompagnarli. L’espediente del video rende asettico e freddo l’evento non-scenico.

Al termine della serata, la giuria di esperti decreta il vincitore, che risulta Lara Russo, il cui studio pare avere “più potenzialità” degli altri. Il Paradise di Marilungo però, nel suo spingere l’acceleratore, era forse l’“appunto” più riuscito, in quanto dotato di una struttura concettuale convincente e ben salda sul piano visivo e performativo. D’altro canto, l’impianto coreografico della Russo è oggettivamente inattaccabile e rappresenta in potenza, se ben curato nei dettagli e nell’esecuzione, una visione dall’estetica delicata, che ricorda le installazioni di Kounellis e danze di alt(r)o respiro.

Verdi e Lenz Fondazione: il teatro di voci di “Re Lear”

Rocco Caccavari in Verdi Re Lear @ Francesco Pititto
Rocco Caccavari in Verdi Re Lear @ Francesco Pititto

MATTEO BRIGHENTI | C’è un Verdi che non c’è sul pentagramma della lirica. È il Re Lear da quel William Shakespeare che permise al cigno di Roncole di Busseto di dimostrarsi grande oltre lo spirito del suo tempo, il patriottismo, i moti rivoluzionari del ‘48, l’Italia e gli italiani da fare. Esiste il libretto, mentre la musica è “il fantasma di un’opera”, come dice Mario Lavagetto, che infesta e informa di sé, come un desiderio o forse un’inquietudine, Nabucco, Luisa Miller, Rigoletto, Trovatore, La forza del destino. Qui, in questa ‘casa stregata’, dove i lenzuoli sono sipari, le catene sono note musicali, e la volontà prende sempre le misure di un qualche palcoscenico, sono entrati Francesco Pititto e Maria Federica Maestri, cioè Lenz Fondazione di Parma, e insieme al compositore di musica elettronica Robin Rimbaud aka Scanner e ai cantanti del Conservatorio “Arrigo Boito” hanno trovato, scoperto cercando, o più precisamente sono giunti alla meta del Verdi Re Lear. Dopo la Premessa nella scorsa edizione del Festival Internazionale Natura Dèi Teatri, l’ambizioso progetto di teatro musicale è stato proposto nella sua forma definitiva nell’ambito del Festival Verdi 2015. Un’impresa che poteva nascere, crescere e realizzarsi solo con Lenz, forte della propria esperienza nel liberare tutte le opportunità di bellezza chiuse nella mancanza, nell’assenza, come dimostra il lavoro con gli attori ‘sensibili’ – con disabilità psichica e intellettiva –  e la pluriennale collaborazione con il Dipartimento assistenziale integrato di salute mentale dipendenze patologiche dell’Ausl parmense.
La tragedia della paternità nell’intimo del re/padre/folle, delineata da Salvadore Cammarano, già autore del Trovatore, e portata a termine da Antonio Somma, librettista di Un ballo in maschera, si divide nelle sale dello spazio post industriale di Lenz Teatro, la Sala Majakóvskij e la Sala Est: agiscono e si ripetono, contemporaneamente, inizio, svolgimento e fine, la divisone del regno, l’esilio di Cordelia, il conte di Gloucester e i suoi figli, la pazzia e morte di Lear. Il pubblico di una sala, al termine della performance, si sposta nell’altra: la non presenza di una linearità narrativa è lo specchio dell’impossibilità di ricostruire un’opera mai composta, se non appunto interpretandola, inventandola attraverso cambi di posture mentali (e fisiche), luoghi, sguardi, gli stessi che si chiedono anche al pubblico, qui autore più che mai. Il virtuale e il reale della scena resi dalla drammaturgia, imagoturgia e regia di Francesco Pititto e dalle installazioni e dai costumi di Maria Federica Maestri, sono i molteplici frammenti linguistici ed espressivi a cui lo spettatore è chiamato a dar la forma dell’incessante ricerca creativa di Verdi. La musica è quella di Scanner, le arie e i duetti selezionati dal M° Carla Delfrate, secondo una griglia di affinità e rimandi al rapporto padre-figlio e ai temi dell’inganno, del potere, della vecchiaia, dell’incomunicabilità, sono a cappella, perché del Lear restano solo le parole, è un paesaggio di cui esiste soltanto la mappa, un territorio che non riusciremo mai a trovare, pur sapendo dove andarlo a cercare.

Barbara Voghera in Verdi Re Lear @ Francesco Pititto
Barbara Voghera in Verdi Re Lear @ Francesco Pititto

Sala Majakóvskij

Tre schermi grigi e trasparenti, uno dietro l’altro, e in fondo il trono ricoperto di mantelli neri e pelosi, sono la radura selvaggia tra sogno e realtà aumentata, tra azione e immaginazione, in cui Lear chiede alle tre figlie chi lo ama di più. Il Re è una voce (di Rocco Caccavari) che cade dall’alto e l’immagine di un corpo-mondo, nudo, che non ha più nulla, che ha perso il peso di tutto. Questa proiezione diventa porta e finestra, la siepe oltre cui guardare il canto del fato inesorabile di Cordelia “pellegrina e orfana” come ne La forza del destino. Immobili e ferme, le voci dei cantanti preparati dalla prof. Donatella Saccardi vibrano le note nell’aria fino all’ultimo, estremo addio. Assonanze magnetiche, quasi magiche, guidano una sovrapposizione di piani d’ascolto e confronto concentrici come cerchi nell’acqua. Luce e lamento, sensualità paurosa e lo sguardo verso chi non c’è, più. La solitudine è inferta a Lear e il cordone ombelicale è un cappio stretto al collo del Fool interpretato dell’attrice ‘sensibile’ Barbara Voghera: ciò che è nella testa non esce se non a costo del dolore.

Sala Est 

Una teoria di 10 lettini ospedalieri, 5 per lato, ricoperti dei soliti manti neri e pelosi, uno schermo trasparente grigio a chiudere la scena e uno più piccolo in fondo, sono il labirinto dell’infermità, il limbo, la tempesta dei sensi reduci dalla guerra interiore dell’anziano re. Si ripercorre la genesi del dramma, il processo istruito da Lear alle figlie Nerilla e Regana, e l’incontro, non presente nel libretto originario, con Gloucester nella brughiera, accomunati da cecità reale e cecità paterna. Le liriche verdiane e il live electronics di Scanner incontrano un ritmo concitato, di corsa contro il tempo, apocalittico, senza speranza. Ultimo uomo sulla Terra, Lear è assiso sul suo trono, una carrozzina. Roberto Caccavari, presidente onorario di Lenz Fondazione, ha una barba in chiaroscuro che pare scolpita nel ghiaccio e nel vento. La sua presenza si avvicina, si sovrappone e quasi entra dentro la sua immagine proiettata sullo schermo. Il volto, ripreso nel dettaglio, sembra solcato dai crateri della Luna, la bocca vera nella bocca filmata, che spalanca e spezza di luce il respiro come fa il faro con le onde nella notte. Resta lì, le figlie o i loro spettri accanto, e lancia i suoi occhi oltre la livida cortina: veniamo al mondo e piangiamo, “all fools”, tutti matti. La malattia umana è una tragedia cosmica su lidi affetti dal rimorso.

Per approfondire, leggi anche:
Laura Bevione, L’opera che non c’è: su Verdi Re Lear di Lenz, su amandaviewontheatre.
Andrea Alfieri, Verdi reloaded. Il Re Lear secondo Lenz Rifrazioni, su Krapp’s Last Post.
Rossella Menna, Verdi Lenz Re Lear, su Doppiozero.
Daniele Rizzo, L’eccedenza e il sublime, su Persinsala.

Verdi Re lear
Lenz Fondazione per il Festival Verdi 2015
da Re Lear di Somma-Verdi prima versione con le varianti e King Lear di William Shakespeare
Ricerca, drammaturgia e imagoturgia, regia | Francesco Pititto
Music + live electronics | Robin Rimbaud aka Scanner
Installazioni e costumi | Maria Federica Maestri
Consulenza musicale | M° Carla Delfrate
Consulente al canto | Prof. Donatella Saccardi
Performer | Valentina Barbarini – Cordelia/Delia | Barbara Voghera – Fool/Mica
Giuseppe Barigazzi – Lear in immagine
Cantanti | Haruka Takahashi – Regan/Regana soprano
Ekaterina Chekmareva – Goneril/Gonerilla mezzosoprano
Gaetano Vinciguerra – doppio Lear baritono
Lorenzo Bonomi – doppio Lear/Edgar/Edgardo baritono
Andrea Pellegrini – doppio Lear basso
Adriano Gramigni – Gloucester
Voce over | Rocco Caccavari
In scena | Rocco Caccavari, Paolo Maccini, Franck Berzieri, Carlo Destro, Paolo Pediri, Carlotta Spaggiari
Cura | Elena Sorbi
Organizzazione | Ilaria Stocchi
Comunicazione | Violetta Fulchiati
Ufficio stampa | Michele Pascarella
Direzione tecnica | Alice Scartapacchio
Assistente alla regia | Valeria Borelli
Équipe tecnica | Gianluca Bergamini, Gianluca Losi, Stefano Glielmi, Marco Cavellini
Produzione | Lenz Fondazione
In collaborazione con il Conservatorio di Musica “A. Boito” di Parma e Teatro Regio di Parma
Visto sabato 10 ottobre, Lenz Teatro, Parma.