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giovedì, Marzo 28, 2024
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Ultimaluna, il ghigno di Paolo Hendel sull’Italietta kitsch

hendel_paolo_555VINCENZO SARDELLI | Che sia un antieroe che impersona le nostre paure più feroci, un prode con il quale identificarsi, o solo la rappresentazione dell’italica propensione a imbrogliare con orgoglio, il Carcarlo Pravettoni di Paolo Hendel è senza dubbio una maschera teatrale brillantissima. Malevolo, graffiante, canzonatore e ingombrante, Pravettoni sembra la versione appena un po’ più sofisticata e meno smargiassa del cinematografico (e televisivo) Cetto La Qualunque di Antonio Albanese. In Come truffare il prossimo e vivere felici (scritto con Francesco Borgonovo e Marco Vicari) che abbiamo visto al Monastero della Misericordia di Missaglia tra gli atti finali della rassegna brianzola Ultima luna d’estate, Hendel punta la lente sui nostri tempi, mettendone in ridicolo comportamenti e modelli.

«Castigat ridendo mores», dicevano i latini. Tuttavia la risata qui (all’interno di questo riuscitissimo festival targato Teatro Invito giunto alla XVIII edizione, e dedicato quest’anno al cibo sostenibile e ai piaceri dell’ospitalità) è strumento comico e non satirico. Perché nella satira ci sono sempre il giudizio e il moralismo. E Paolo Hendel, più che giudicare, desidera rappresentare.

Così, davanti a questo politico impomatato, imparruccato e incravattato, accompagnato (un po’ in sordina) dalla chitarra di Ranieri Sessa, sfila un’umanità casereccia che finisce per essere un agghiacciante mondo di losche figure.

Come nelle caricature di Toulouse Lautrec,  la risata a tratti si risolve in ghigno. Ne fuoriesce una pittoresca corte dei miracoli degna dell’Almodovar più deliziosamente kitsch, anche se appartenente a un milieu certamente meno suggestivo. O degna di quella tradizione toscanaccia che da Cecco Angiolieri e Pietro Aretino, passando per Dante e Boccaccio, arriva dritta ai giorni nostri.

La deformazione grottesca, quasi fumettistica, della realtà trova il contraltare nel realismo del personaggio, attualissimo, volgare imprenditore vittima della bulimia dell’avere. E si inspessisce nella recitazione di Hendel, stentorea o esile, sottile, gorgheggiante, mai urlata, mai sopra le righe, frutto di un lavoro sul personaggio ormai sedimentato da vent’anni, e di una consuetudine con il mestiere di comico ultratrentennale.

Le censure televisive che hanno ridotto al lumicino le presenze di Hendel su Rai e Mediaset sono un marchio di qualità sul lavoro di questo comico. Che in Come truffare il prossimo e vivere felici reinterpreta i classici in chiave contemporanea, stigmatizza il mondo della pubblicità e propone un originale coming out, che lo porta a una vivace riflessione sui nuovi cliché di omosessualità ed eterosessualità. In fondo, si tratta di un’ironia a tratti colta, che spazia dal Simposio di Platone agli uomini palla di Aristofane, e propone una visione piccante non soltanto della sessualità, ma anche della vita nel suo insieme, capace di esorcizzare l’oscurantismo relazionale e mediatico dei nostri giorni.

Soluzioni anti-crisi e trucchi antirecessione corredano uno spettacolo che affronta con l’arma della sapidità le sfide della società globalizzata e dà suggerimenti per guardare con ottimismo ai tanti baratri che ci si parano davanti.

Nell'”Hyperion” di Muta Imago

FRANCESCA GIULIANI | Conversazione con Claudia Sorace/Muta Imago in occasione dell’Hyperion, opera musicale che il gruppo di teatro di ricerca romano presenterà in anteprima nazionale il 26 e 27 settembre durante la Sagra Musicale Malatestiana di Rimini.

È da un po’ di anni che la Sagra Musicale Malatestiana ha scelto di proporre a dei gruppi di teatro di ricerca la messa in scena dell’opera che verrà poi presenta in anteprima al festival settembrino di Rimini. Come vi siete avvicinati all’opera commissionata, l’Hyperion di Bruno Maderna?

Quella che sta mettendo in atto Alessandro Taverna come consulente musicale per la Sagra Musicale Malatestiana è una progettualità di ampio respiro che ha già coinvolto tra gli altri Motus e Santasangre. Non abbiamo scelto noi l’opera ma la commissione è stata fatta proprio pensando nello specifico al nostro percorso artistico. Hyperion è diventato subito il nostro spettacolo, anche nelle modalità di ricerca che abbiamo messo in campo rispetto alla libertà totale che abbiamo avuto.
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All’inizio abbiamo studiato tutto questo mondo per noi sconosciuto sia rispetto all’universo musicale di Bruno Maderna, sia rispetto all’universo poetico e letterario di Friedrich Hölderlin. Durante il percorso ci siamo accorti che si trattava di pezzi. Già Maderna definiva Hyperion “una lirica in forma di spettacolo”. L’opera musicale si presenta come un insieme di parti che lui stesso ha assemblato dal 1964 al 1969 in maniera diversa e che non hanno mai trovato un’unica forma definitiva. L’opera è sempre stata vissuta dal compositore come un tentativo: ha composto vari brani e ha lasciato sempre liberi gli eventuali esecutori di montarli come ritenessero più giusto.

Abbiamo cominciato a cercare i vari pezzi e a tentare di capire che cosa cercasse Maderna, chi rappresentasse Hyperion per lui. Ci sono dei brani molto belli nei quali dice che Hyperion è l’artista, l’uomo che continua a cercare e nonostante tutto non trova pace. È come se il compositore si fosse legato a questa figura mitica di uomo che, come dice lo stesso nome, vuole andare più in alto ma che in realtà continua a cadere. È questo l’unico elemento di continuità tra il romanzo e l’opera musicale: Hölderlin narra di questo giovane greco che alla fine del Settecento va a combattere nel suo paese per ridare la libertà al suo popolo ma rimane sconvolto dalla brutalità della guerra. Hyperion è quattro grandi incontri: da piccolo, con il suo maestro; da adolescente, con un amico che in qualche modo lo tradisce; poi con l’amore, la famosa Diotima che abbandona perché rimanere con lei sarebbe rinunciare a tutto il resto; e con l’ideale, quando va in guerra. Sono tutti fallimenti.

Abbiamo scelto di non restituire cronologicamente il plot, non è nella trama che viene fuori il cuore del lavoro. Ci siamo attaccati a questa figura mitica e abbiamo messo in scena i suoi tentativi, questa sua ricerca di sé per sé: è un uomo che si mette in gioco personalmente e abbiamo cercato di restituire scenicamente questa dinamica di ricerca e fallimento che però passa sempre per il corpo.

 Per questo avete scelto un danzatore?

Esatto, anche perché trattandosi di un’opera musicale, ci sembrava che il lavoro con il danzatore e coreografo Jonathan Schatz potesse stare più profondamente in relazione con la musica. In realtà stiamo chiedendo a questo danzatore di non danzare, o di non danzare soltanto, ma di percepire lo stare in scena come un esporsi, come una ricerca che passa per continui fallimenti. E sono proprio questi continui fallimenti a rendere umano l’Hyperion sia di Hölderlin sia di Maderna. Qua c’è il punto di contatto tra le due opere e il nostro tentativo di mettere in scena la storia di quest’uomo che, come si ripete spesso nell’opera, può essere un dio quando sogna ma è uno schiavo quando fa si che il contesto scelga per lui. Per noi era la prima volta che lavoravamo con un danzatore e c’è stato un approccio diverso rispetto al lavoro che abitualmente facciamo con gli attori. È una conoscenza ed esperienza del corpo molto diversa e per questo tipo di progetto è stato davvero fondamentale aver la possibilità di lavorare sul corpo in un modo così complesso e completo.

Per quanto riguarda la parte musicale qual è stato il vostro approccio all’opera di Maderna?

Riccardo Fazi si è occupato della composizione musicale. Ha attraversato vari archivi e ha cercato, per poi ricomporlo, quello che Maderna aveva lasciato dietro di sé. È un’opera strana questa perché non è mai stata consegnata una versione definitiva. Studiando i vari approcci di Maderna all’opera di Hölderlin volevamo capire da dove fosse partito e dove fosse arrivato. Hyperion, questa grande figura, è al centro. Il compositore ha inseguito come tema la continua e spasmodica ricerca di quest’uomo. In fondo lui stesso è stato un po’ Hyperion: quest’idea di non accontentarsi, di continuare, di essere anche famelici nella ricerca ha contraddistinto sempre il lavoro artistico del Maderna compositore, direttore d’orchestra, intellettuale, una figura senza tregua. E così è stato anche per lo stesso Hölderlin, un artista che non ha mai trovato pace, morto pazzo su una torre circolare dove si ritirò per il resto della vita.

È anche per queste analogie tra Hyperion, Maderna e Hölderlin che abbiamo puntato su questa figura di performer, solo e centrale alla scena, che lavora insieme ai due musicisti che non sono attori ma sono in scena. Quello che succede ai musicisti è in qualche modo analogo a quello che succede al danzatore: mentre lui indaga e cerca, attraverso una serie di tentativi e fallimenti, di scoprire qualcosa in più di sé mettendo in gioco il suo corpo, i musicisti si mettono in relazione con la musica di Maderna. In scena abbiamo scelto di eseguire dal vivo le parti del flauto e del soprano (Karin de Fleyt e Valérie Vervoort, ensemble di Anversa) e l’orchestra non è una riduzione ma è la registrazione in cassa dell’orchestra reale di Maderna e i musicisti in scena ingaggiano quindi una sorta di lotta con quella. Musicalmente nell’Hyperion di Maderna c’è una sorta di lotta fra il flauto e l’orchestra. Il flauto è lo strumento che cerca di farsi spazio entrando in conflitto con il rumore dell’orchestra e per questo abbiamo scelto di dare una personalità, un carattere concreto a questo strumento. In scena la flautista crea come un dialogo con l’orchestra registrata che viene mandata live dal musicista elettronico. Abbiamo cercato di lavorare il più possibile su questo concetto di lotta e di superamento dei propri limiti mettendo in scena questa dinamica da tutti i punti di vista.

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Avevo visto il Cantiere per Hyperion al Teatro Sperimentale di Pesaro. La scenografia è rimasta invariata con la luna gigante sovrapposta al palco?

La nuvola, come definiamo l’oggetto scenico è stata presente fin da subito. Rappresenta lo spazio ideale a cui si rivolge in continuazione Hyperion e in scena il performer vive lo stesso tipo di rapporto con questo oggetto. Si rientra sempre nella dinamica dell’uomo che cerca di stare in alto ma che in realtà continua a cadere: è il dramma della sua esistenza. In scena il performer è sempre in relazione con la nuvola che gli chiede di arrivare a lei. È un rapporto sempre frustante. Si procede per vette e cadute improvvise, c’è sempre questo non vedere mai il reale per quello che è. È la bellezza ma anche il dramma e la follia di Hyperion.

“Quando imparerò a cadere imparerò a conoscermi e forse troverò un po’ pace” dice Hyperion verso la fine del testo. In fondo tutti i fallimenti non sono a vuoto, c’è un’apertura non si cade nella disperazione. È come se questo lungo tentare lo avesse avvicinato molto a se stesso ed è questo il tratto umano di cui parla spesso Maderna avvicinandosi a Hölderlin: non è solo la ricerca del bello e dell’ideale ma tutto è funzionale a una ricerca più interiore.

L’architettura del movimento in ~ 55 di Radouan Mriziga

foto di Vincent Tillieux

VALENTINA DE SIMONE | ~ 55 di Radouan Mriziga è un segno grafico di costruzione, una geometria di tracce prima che di movimenti, un’architettura coreografica fatta di forme e volumi. La fisionomia sola del danzatore marocchino, posizionato in un quadrato scenico definito dal pubblico disposto sui quattro lati, diventa unità di misura dello spazio, goniometro e righello per distanze da calcolare anatomicamente e da riportare sul pavimento, prima mediante gessetti e dopo con il nastro adesivo.

Registratori sistemati lungo il perimetro esterno interagiscono con l’articolazione del gesto senza mai sovrastarla, segnandone accenti, evoluzioni, dinamiche di senso. In piedi Radouan, poi disteso, e ancora in piedi, e ancora disteso, la ripetizione costruisce il linguaggio disegnando segmenti e aree sempre più precise, più ravvicinate, mentre l’avambraccio, facendo leva sul gomito, delinea circonferenze sparse da cui si originano nuove figure. E quando l’errore interviene, con le sue misurazioni non perfettamente calibrate, è dal corpo che si riparte per aggiustare il tiro, da quel corpo impiegato come strumento generatore di movimento.

Cinquantacinque minuti per un rituale della composizione che assesta la presenza viva del performer in una geografia spazialmente delimitata e corrispondente, al contempo, all’impulso danzante in atto. E allo spettatore collocato in una posizione di prossimità, questo lavoro d’esordio a Short Theatre di Mriziga, che gravita all’interno del progetto IYMA – International Young Makers in Action, chiede condivisione e allo stesso modo distacco, fornisce informazioni ed in ugual misura vaghezza, giocando continuamente con le prospettive e le aspettative del pubblico. Una narrazione ibrida che restituisce all’impronta ricavata sul suolo una coreografia in essa stessa inscritta. Un dialogo ricercato con la materialità del luogo in cui si agisce, come se dalla memoria dei passi che l’hanno abitato si potesse recuperare un’archeologia dell’esserci necessaria all’azione. Uno spettacolo tecnicamente strutturato, a dispetto della sua formale disinvoltura, concettualmente interessante per il background di cui si fa portatore, anche se non sempre immediatamente fruibile nella resa scenica, forse proprio per quella reiterata perizia dell’agire che lo anima dall’interno.

DanzEstate e altro ancora: intervista a Massimiliano Leoni

unnamedRENZO FRANCABANDERA | Domenica 13 settembre si è concluso a Cagliari il festival DanzEstate 2015 organizzato dall’ASMED: otto spettacoli di danza e teatro (tre dei quali rivolti a un pubblico di bambini, ragazzi e famiglie), nelle strade, nei parchi e nelle piazze e di Cagliari.
Quasi 5000 persone hanno assistito con interesse alle incursioni teatrali e agli spettacoli, confermando l’iniziativa come una manifestazione per la gente, per il pubblico dei più piccoli, per chi, per motivi diversi, non ha la possibilità di accedere ai luoghi canonici della cultura.

Abbiamo parlato di questa e di altre iniziative di ASMED con il direttore artistico Massimiliano Leoni, da decenni operativo in Sardegna nel campo della danza.

DanzEstate ricerca il coinvolgimento della città di Cagliari e dei suoi abitanti, senza limiti di età. Qual è il vostro obiettivo?
L’obiettivo è quello di diffondere la cultura nel territorio nel modo più capillare possibile. Per fare questo attuiamo una serie di strategie, che comprendono sia i laboratori, attraverso i quali ci rivolgiamo a tutti cercando di diffondere la passione per la danza, sia gli spettacoli per i bambini, attraverso i quali possiamo costruire il pubblico del futuro.

Massimiliano, se questi sono i punti di forza del Festival, quali sono i punti critici?
La difficoltà che abbiamo nel reperire e utilizzare gli spazi comunali. A volte sono gestiti da società appaltatrici che non sempre comprendono il valore delle iniziative e valutano solo il compenso che si può versare per l’affitto delle sale.

Gli spazi hanno un ruolo importante nel vostro festival. I luoghi della città diventano protagonisti quanto le persone. Come sono stati scelti?
Lo scopo principale di DanzEstate è quello di raggiungere la gente fuori dagli spazi esplicitamente teatrali. Portiamo gli spettacoli sotto le case dei possibili spettatori, in luoghi dove non ci sono teatri o dove si può trovare una grande concentrazione di persone.

Lei cura le attività dell’ASMED dal 1988. Com’è cresciuta l’associazione in questi anni?
Inizialmente mi sono occupato di aspetti che andavano dalla tecnica all’organizzazione, con la supervisione di Paola Leoni che ha fondato l’ASMED nel 1979. Da quando sono diventato direttore artistico nella metà degli anni duemila l’associazione ha cercato di dare centralità e valore alla danza in Sardegna. Inoltre ho sempre cercato di valorizzare giovani coreografi, come Moreno Solinas, Matteo Corso e Daniela Vitale (tutti al di sotto dei trent’anni) che hanno firmato alcune delle ultime coreografie per il Balletto di Sardegna.

Che cosa si può migliorare?

L’obiettivo principale è riuscire a dare maggiore continuità lavorativa ai nostri artisti. In organico ci sono già degli elementi che lavorano costantemente con noi, ma il sogno è avere una compagnia stabile.

Asmed affianca da sempre un triplo binario, formazione, produzione e distribuzione. Questi binari si nutrono a vicenda o uno prevale sull’altro?
Sono fondamentali l’uno per l’altro. Siamo comunque un ente di produzione e gli altri aspetti alimentano le possibilità dei nostri spettacoli.

Asmed è profondamente radicata in Sardegna a partire dall’acronimo che richiama l’isola (Associazione Sarda Musica e Danza), ma con uno sguardo e un respiro internazionale. Come si equilibrano queste due anime dell’associazione?
Lo sguardo verso il resto del mondo c’è nelle nostre rassegne, come DanzEstate. È una finestra che apriamo per capire come si muove la danza contemporanea. Le compagnie sarde sono comunque sempre presenti perché vogliamo che il pubblico possa vedere sia le realtà più vicine che quelle più lontane.
Per quanto riguarda le produzioni, spesso abbiamo chiamato coreografi sardi che hanno però fatto un percorso internazionale, come Guido Tuveri, che ha diretto per noi nove spettacoli.

Quali sono i progetti futuri?
Vogliamo dare la possibilità di realizzare nuove creazioni a giovani interpreti sardi che hanno dato vita ad esperienze all’estero. Potranno realizzare con noi una corografia con il supporto di un ente che nella sua storia ha prodotto Massimo Morricone, Mauro Bigonzetti, Mario Piazza, Gabriella Borni e Cornelia Wildisen.
Per il futuro sogniamo una sede per poter realizzare un centro di produzione danza. Uno spazio dove si possano fare prove, laboratori e soprattutto spettacoli. Potrebbe essere un capannone abbandonato o una vecchia fabbrica che riprende vita e assume una dimensione europea.

Festival d’Avignone dalla A alla Z: I parte (A/M)

VALENTINA SORTE |

A di Autre, l’Altro

Dopo gli attentati avvenuti a gennaio a Parigi, la parola d’ordine che si è imposta durante la 69° edizione del Festival d’Avignone è stata l’Altro. Rifiutando l’etichetta di supermercato della cultura che spesso gli viene affibbiata, il festival ha voluto porre i temi dell’alterità e della diversità al centro delle sue riflessioni. E’ nata così la formula Io sono l’altro” che ricalca la ben più nota “Je suis Charlie”.

Barbarians, Hofesh Shechter
Barbarians, Hofesh Shechter
B di Barbarians di Hofesh Shechter

Dopo il grande successo ottenuto nel 2010 con “Political Mother”, il coreografo israeliano – allievo di Ohad Naharin – era piuttosto atteso ad Avignone. Diversamente dalle aspettative, la sua nuova creazione “Barbarians” ha lasciato con l’amaro in bocca. Dal punto di vista dell’esecuzione non c’era nulla da rimproverare ai performer. La danza era molto energica e vigorosa, spontanea ma precisa. Millimetrica. Il disegno luci, ideato da Lawrie McLennan, era altrettanto magistrale. Pur essendo un trittico, la performance mancava però di coesione ed era poco leggibile. In ognuno dei tre capitoli (“The barbarians in love”; tHE bAD; Two completely different angles of the same fucking thing) l’artista ha interrogato in maniera radicale la dicotomia natura/cultura, senza riuscire mai veramente a superarla.

C di Chéreau Patrice, un museo immaginario

Dopo la sua scomparsa nel 2013, Avignone ha reso omaggio a Patrice Chéreau, dedicandogli una bellissima esposizione, articolata su tre assi: teatro, cinema e opera. Grazie alla Collezione Lambert, la mostra ha offerto un ritratto inusuale e toccante dell’uomo e dell’artista. Da non perdere.

D di Damnés, di Ivo van Hove

A conclusione del Festival, un annuncio inatteso. Sarà la Comédie-Française ad aprire nella Corte d’Onore la 70° edizione. Il regista belga Ivo van Hove curerà per l’occasione l’adattamento di “La caduta degli dei” di Luchino Visconti e segnerà il ritorno della Comédie al Festival dopo più di 20 anni.

E di Eveil artistique

Oltre a Riquet, Notallwhowandwrarelost e Dark circus presenti nella programmazione ufficiale dello ”IN”, Avignone ha dedicato uno spazio importante ai più piccoli, ospitando al suo interno la 33° edizione del festival “Théatr’Enfânts et tout public”, organizzata dall’associazione Eveil artistique. Nella conviviale Maison du Théâtre pour enfants il giovane pubblico ha potuto apprezzare la ricchezza della creazione contemporanea per ragazzi. 15 gli spettacoli proposti, tra cui Che sì, che no di Drammatico vegetale.

F di Festival d’Avignone

I bilanci di questa 69° edizione sono stati un po’ controversi. Sicuramente non è stato facile far fronte ai tagli del budget ed è stata sofferta la decisione di “accorciare” il festival: 50 gli spettacoli proposti, 280 repliche in tutto e 112.500 i biglietti staccati. Nonostante i comunicati stampa siano stati positivi e abbiano parlato di un alto tasso di frequentazione (93,05%) questa edizione si è rivelata un po’ sotto tono. Pochi gli spettacoli “incontournables”: A colpi d’ascia di Krystian Lupa, Riccardo III di Thomas Ostermeier, Antonio e Cleopatra di Tiago Rodrigues e Forbidden di sporgersi di Pierre Meunier e Marguerite Bordat. Hanno deluso invece Re Lear di Olivier Py e Ritorno a Berratham di Angelin Preljocaj.

G di Guillaume Bresson

Oltre al “museo immaginario” dedicato a Patrice Cheréau, un’altra mostra ha accompagnato la programmazione del festival. La suggestiva chiesa dei Celestini ha infatti ospitato le creazioni di Guillaume Bresson, sia quelle più recenti e site specific che le più conosciute. Grazie all’epicità contemporanea delle sue tele, l’artista ha immerso ancora una volta il pubblico nelle sue narrazioni urbane.

H di Homeriade

In questa estate accesa dai dibattiti sulla sorti della Grecia e dell’Europa, le parole di Dimitris Dimitriadis sono risuonate ancora più forti. Il suo canto epico ci ha riportati in una Grecia arcaica. Attraverso la voce di Omero e Ulisse, il poeta ha parlato della nostra identità e delle nostre radici. Le note di Martin Romberg hanno accompagnato questo interminabile viaggio nella nostra memoria.

I di itinerante

“Decentralizziamo!” è sicuramente la seconda parola d’ordine del festival. L’originale adattamento di Père Ubu di Alfred Jarry proposto da Olivier Martin-Salvan ha ridisegnato la topografia festivaliera, spingendo il pubblico fuori dal consueto perimetro avignonese. Sono state 15 in tutto le tappe di questo lungo e avvincente tour: Saze, Sarrians, le Pontet, Sorgues, Roquemaure…e molte altre. L’iniziativa ha avuto successo e sarà sicuramente ripresa nelle prossime edizioni.

L di « Le Bal du Cercle »

Dopo l’apprezzatissimo assolo Regarde- moi encore nel 2013, Fatou Cissé ha voluto cimentarsi per la prima volta in una coreografia corale, reinterpretando in maniera originale il Tanebeer, un’antica pratica africana in cui le donne si lanciavano in balli sfrenati ed sensuali, in una sorta di competizione liberatoria. L’artista senegalese ha trasformato per l’occasione il Chiostro dei Carmelitani in una passerella eccentrica e colorata ma il suo tentativo di decostruire quei gesti e quei movimenti, per ri-costruire un nuovo corpo femminile non è però riuscito. Peccato!

Monument 0, Eszter Salamon
Monument 0, Eszter Salamon
M di Monument 0

Nel suo spettacolo Monument 0 la coreografa ungherese Eszter Salamon, dopo un lungo lavoro di documentazione, ha riscritto la storia del XX° secolo e gli orrori del colonialismo a passi di danza. La performance ha attinto infatti alle danze di guerra di quei paesi che nell’ultimo secolo (1913-2013) sono stati coinvolti in conflitti bellici, riproponendole in una rapida successione di sequenze. Emblematica la scena finale in cui uno dei performer abbatte una ad una le targhe di un cimitero fantasma, ognuna delle quali reca le date di un conflitto. L’intento è molto chiaro e originale, ma la performance perde la sua forza e risulta a tratti didattica.

Dentro a un treno giocattolo. Kiss & Cry inaugura Torinodanza 2015

Foto di Maarten Vanden Abeele
Foto di Maarten Vanden Abeele
GIULIA RANDONE | Nel capoluogo piemontese l’autunno coincide con Torinodanza, un festival capace di attrarre i grandi nomi della danza mondiale ma anche interessato ad allungare lo sguardo laddove i linguaggi si ibridano in configurazioni inedite. A questa seconda categoria appartiene lo spettacolo che dal 9 al 13 settembre ha inaugurato la nuova stagione della rassegna. Kiss & Cry è il racconto agrodolce d’una vita di amori e solitudine, ideato per gioco da una coppia di sposi belgi incrociando i reciproci percorsi artistici: la danza per Michèle Anne De Mey, coreografa e direttrice del centro Charleroi Danses, e il cinema per Jaco Van Dormael, regista di film come L’ottavo giorno e Il nuovissimo testamento.

Da un’ispirazione domestica nasce così una grandiosa opera collettiva che coinvolge danzatori, scenografi, cameraman, light designer e operatori di scena in un processo creativo che si realizza “a vista” sul palcoscenico – ingombro di telecamere, computer, scenografie e modellini – per essere filmato e proiettato su un maxischermo. Il palco si allunga nella penombra accogliendo il traffico di uomini impegnati a manipolare una scena in corso o ad approntarne una futura, mentre più in là il mondo creato appena prima si dissolve e le coordinate temporali si annullano in una magica compresenza di presente, passato e futuro. Al contrario lo schermo rimanda un’immagine amplificata del presente in cui gli esseri umani sono scomparsi, sostituiti da una coppia di mani e da minuscoli modellini.

Una figurina di donna su una panchina della stazione osserva i treni scorrerle davanti e torna con il pensiero al suo primo innamoramento, consumatosi in pochi secondi nel contatto tra due mani, e apparentemente perduto per sempre. La memoria di quelle mani, del loro sfiorarsi sensuale, risveglia in lei il ricordo di altre mani, dei cinque amori della sua vita di cui ha smarrito ogni memoria ad eccezione di quella tattile.

Amore è essere stati, almeno per un momento, una coppia di mani. Gli arti di DeMey e Grégory Grosjean danzano una cosmogonia che ha il respiro di quella immaginata da Malick in The Tree of Life, poi si calano nel frastuono di una discoteca e, tra sensualissimi strofinamenti e intrusioni, si allacciano in un romantico passo a due, per ritrovarsi infine in una stanza in miniatura a fare i conti con la stanchezza, l’abbandono e il ripiego. Una corrispondenza d’amorosi sensi si gioca, letteralmente, in punta di dita, nel dialogo di vene in rilievo, avidi polpastrelli e polsi sinuosi. Autentica poesia erotica.

Questo collage onirico in perenne mutamento si dispiega tra l’interno di una casa per bambole, una pista di pattinaggio, la riva di una spiaggia e fantastici mondi paralleli, ma è indebolito da una drammaturgia (Thomas Gunzig e Van Dormael) non sempre all’altezza della visionaria creazione in progress. Tanto più forti sono le scene saturate dalla musica – da un’aria di Handel o da una struggente Nothing compares interpretata da Jimmy Scott – tanto più esile si rivela la struttura del racconto, viziata da alcuni manierismi in stile Amélie e zavorrata da goffe metafore verbali.

Pur con questo limite, l’articolata composizione scenica di Kiss & Cry persuade lo spettatore a partecipare creativamente all’azione, a scegliere ogni volta il luogo in cui concentrare la propria attenzione. Mentre si moltiplicano le possibilità di vedere, specularmente si moltiplica il non visto e lo spettatore si trova rimbalzato tra la curiosità di spiare l’équipe che costruisce l’artificio e il desiderio di immergersi nella finzione. Di fronte alla maestria tecnologico-artigianale che si offre al nostro sguardo, paradossalmente ci scopriamo incantati da uno spazio piccolissimo e ordinario come il vagone di un treno, emozionati all’idea di poter realizzare un sogno infantile: far coincidere il nostro occhio con quello di un omino di plastica, che guarda un mondo di plastica da un finestrino di plastica.

Una magia che rapisce più di ogni sovrastruttura linguistica.

Letter to a man: Wilson disegna la pazzia di Nijinsky

imageRENZO FRANCABANDERA | le segrete della paranoia, sculture pittoriche e di luce, e catene mentali e sonore contemporanee. E al centro un uomo solo, seduto a testa in giu’. Bob Wilson, dopo il primo fortunato tentativo di collaborazione in The Old Woman, firma regia scene e luci per il ritorno sotto la sua direzione di Mikhail Baryshnikov, la leggenda vivente della danza classica, prossimo ai settanta, ma con grazia di movimenti indicibile, raccchiusa tutta in questo vortice di esperienze.

Le scene incorniciano e imprigionano l’uomo in un universo ovattato, in cui la sua voce è registrata in playback. Nessun rumore, neanche un passo, si ode oltre quello che la macchina scenica propone; imprigionato nelle sue paranoie, quello che in Letter to a man Wilson propone al pubblico, in un testo tratto da i Diari di Vaslav Nijinsky, scritti nel 1919 dalla leggenda della danza di inizio Novecento, anima dei Ballets Russes di Sergej Diaghilev.

I diari aprono squarci lisergici su una psiche alimentata dall’arte e dal pensiero alto, e i tormenti sul sé disturbati dall’Ego, così spesso posto in paragone con la deità.

Da questa lotta con l’immateriale, che è la stessa che poi alimenta la guerra di ogni ballerino con la forza di gravità, con le leggi universali, con l’umano troppo umano, viene fuori una tessitura di parole che nel testo elaborato da Christian Dumais-Lvowski per la drammaturgia di Darryl Pinckney, finisce per proporre frasi a ripetizione ossessiva, esattamente come si generano nella testa del folle, del “lunatic”.

Wilson gioca con le luci, le sue luci fredde, chimiche, alcune studiatissime ambientazioni sceniche, paesaggi materiali e immateriali, foreste di stoffa mosse da un venticello, ombre immobili di sè che avanzano lente, interni di chiese o prigioni dalle quali l’uomo guarda verso un fuori senza forma, paesaggi quasi figli dell’lsd, con foto in movimento, personaggi marionetta e fiori giganti.

Il tutto immerso in un tappeto di musiche, scelte da Hal Willner, che sono davvero un pot pourri di sonorità, dalle minimal fino ai classici del ragtime.

In queste stanze di follia, vestito in abito elegante come gli uomini di Magritte, con il trucco wilsoniano bianco e le sopracciglia marcate del solito Jacques Reynaud, si muove Mikhail Baryshnikov, spesso con una lentezza esasperante, bloccato in fotogrammi cristallizzati da questo o quel fermo luci.

Presentato al Festival dei 2Mondi di Spoleto, con la produzione esecutiva del CRT Milano, in lingua inglese e russa con sottotitoli in italiano Letter to a man si regge su un equilibrio e una lettura della follia come universo di parole immagini fisse ed ombre che non riesce a comunicare e a comunicarsi, frammentato, assurdo e non conseguente, diviso ma indivisibile, di luci e bui, ma soprattutto di una lentezza che lo spettatore deve avvertire, un calvario di posizioni e riproposizioni, di detti e ripetuti ossessivi, con fermi immagine e passi che progrediscono verso il nulla. Ecco, se questo è il paradigma della pazzia di Nijinsky per Wilson, riletta con il corpo di Baryshnikov, lo spettacolo che consegue è lineare e fedele al postulato.

Ripetizioni ossessive seppure in un tempo breve ma che Wilson sa trasformare in interminabile, fermi immagine e passi impercettibili affidati ad Baryshnikov che riesce a teatralizzare il suo personaggio in modo esemplare essendo chiamato a fare quello che da sempre sa fare, ostensione artistica e statuaria del suo corpo, e ora che il suo corpo è cambiato l’ostensione non avviene più nella leggendaria calzamaglia ma in smoking nero, quasi prestigiatore nella cornice di un teatrino d’altri tempi dove tutto appare e scompare a vista con i tecnici che smontano sotto gli occhi del pubblico le macchine sceniche perfette via via realizzate, mescolando al delirio della pazzia la pratica della vita dell’artista di spettacolo, come a dire che il bordo è così sottile, che a volte percepire la differenza fra vita, scena e follia è davvero solo un punto di vista. Magari sotto le luci di un puntatore color fucsia.

Misteri e Fuochi: il teatro nel pellegrinaggio dell’uomo contemporaneo

Anfiteatro romano di Lucera
Anfiteatro romano di Lucera
Anfiteatro romano di Lucera

ROSSELLA PORCHEDDU | Quattro luoghi lungo la via Francigena. Lucera, Bari, Taranto, Brindisi. Quattro città simbolo della Puglia, terra di Misteri e Fuochi, come ben riassume il titolo del progetto che dal 24 al 27 settembre 2015 porterà nel tacco d’Italia sei artisti internazionali, chiamati a esplorare il tema della sofferenza. La catalana Angélica Liddell, l’uruguaiana Tamara Cubas, gli iraniani Shoja Azari, Mohsen Namjoo e Shirin Neshat, l’italiano Armando Punzo, prenderanno spunto, per i loro lavori, dal tema del pellegrinaggio, perché la terra pugliese è stata, già nel Medioevo, crocevia di itinerari religiosi, al centro di un cammino che portava verso la Terra Santa, ed è ancora oggi meta di pellegrinaggi, dal Gargano al Salento. Un’indagine sulla condizione dell’uomo contemporaneo, l’incontro con un territorio carico di fascino, ma anche contaminato dall’industria e, talvolta, poco sfruttato turisticamente. La creazione di opere inedite, site-specific, e l’apertura all’estero, con questo e altri progetti, come ci racconta Giulia Delli Santi, Dirigente Attività Teatrali del Teatro Pubblico Pugliese, e ideatrice di Misteri e Fuochi.

“Questo progetto è finanziato con il Fondo per lo sviluppo e coesione della Regione Puglia, e rientra all’interno del piano di internazionalizzazione che il Teatro Pubblico Pugliese sta portando avanti. Non ci interessa soltanto il passaggio di artisti internazionali, perché la Puglia già da tempo è abituata a spettacoli stranieri. L’internazionalizzazione riguarda il sostegno delle tournée estere delle compagnie pugliesi, il Protocollo di intesa tra il TPP e la Fondazione Teatro a Mil di Santiago del Cile, per la cooperazione nell’ambito delle arti sceniche (circuitazione di spettacoli, circolazione di produzioni, scambio di esperienze artistiche). E, non ultimo, Puglia Showcase 2015, una vetrina internazionale di teatro contemporaneo che dal 24 al 27 settembre porterà a Taranto, all’interno di stArt up teatro (festival di teatro contemporaneo organizzato dalla rete di residenze teatrali pugliesi, ndr) distributori teatrali, operatori, critici e giornalisti nazionali e internazionali”.

La spinta verso l’estero, dunque, e il delinearsi, per il Teatro Pubblico Pugliese, di un profilo sempre più internazionale. Ma, con le radici ben piantate in patria. Misteri e fuochi mira alla valorizzazione del territorio, e attinge profondamente alla tradizione pugliese.

“Sì, la Puglia è toccata dalla via Francigena, perciò abbiamo immaginato un pellegrinaggio, delle mete che fossero punti di un cammino. Luoghi che portano in sé caratteristiche di bellezza e di bruttura insieme, perché sono sporcati dall’uomo. A Taranto c’è l’Ilva, a Brindisi la Montedison, a Bari c’è il Teatro Margherita, e a Lucera l’Anfiteatro romano. Gli ultimi due sono spazi inutilizzati, che, se sfruttati, potrebbero incentivare il turismo locale”.

Dunque la contaminazione dell’industria da una parte e l’abbandono dall’altra. Ma, superando le specificità locali, le suggestioni vogliono essere universali.

“Il fulcro del lavoro è il tema della passione, interpretato, però, in chiave laica e moderna. Agli artisti è stato chiesto di rappresentare la sofferenza, a partire da quella di Cristo, ma raccontando quale può essere il dolore umano oggi. Il percorso di Cristo come percorso dell’uomo”.

Appuntamento dunque a Taranto, nel rione Tamburi, il 24 settembre con Armando Punzo e Paradiso – voi non sapete la sofferenza dei santi. Dal 25 al 27 Shoja Azari, Mohsen Namjoo e Shirin Neshat saranno a Bari, al Teatro Margherita, con Assage through the world. Tamara Cubas presenterà Multitud all’Anfiteatro romano di Lucera il 26, mentre il 27 Angélica Liddell invaderà gli spazi del Castello Alfonsino di Brindisi con La puertas de la carne.

Il più solo solissimo George di tutti i tempi a Short Theatre

foto di Claudia Pajewski
foto di Claudia Pajewski
VALENTINA DE SIMONE | Quando Werner Waas nel bel mezzo della rappresentazione apre le tende pesanti sul fondo della sala ed esce sul vialetto del retro, in accappatoio, tra l’incredulità dei passanti che iniziano a sbirciare quello che avviene all’interno dello spazio finalmente svelato, si ha come l’impressione, dalla platea, di essere piombati di colpo in un altro spettacolo, dalla parte degli attori questa volta. Osservati da un altro pubblico, come spettatori assaporiamo un ribaltamento di senso curioso, una fascinazione per la prospettiva inversa e una strana, esilarante dipendenza dalla visione.

D’altronde c’è da aspettarselo da una performance che sembra un paradosso continuo con le sue situazioni sempre al limite, con la placida indolenza delle sue espressioni mai consolidate, anzi quasi buttate lì per caso ad ogni scambio ma, invece, profondamente centrate. Tristezza&Malinconia o il più solo solissismo George di tutti tutti i tempi nasce dalla sinergia creativa tra Bonn Park, tedesco di origini coreane, autore del testo, Lea Barletti e Werner Waas, ideatori oltre che attori della mise en espace presentata alla decima edizione di Short Theatre, Nostalgia di futuro, all’interno del progetto Fabulamundi. Playwriting Europe, una rete condivisa di teatri, festival e organizzazioni culturali in Italia, Francia, Germania, Spagna e Romania, per la circolazione e il sostegno della drammaturgia europea.

Sulla scena abitata da una scrivania con tanto di piantina di lattuga in bella mostra, la solerte narratrice Lea Barletti ripercorre in tailleur le tappe salienti della lenta, lentissima vita di George, una tartaruga millenaria, ultima della sua specie, che sogna di morire nella buca di sabbia dove è nata, dopo un’estenuante routine di solitudine e di (inesistenti) grandi imprese. Ci prova periodicamente George a condividere la sua esistenza con un suo simile ma il tempo, si sa, è una brutta bestia, e anche il sesso, a furia di farlo, diventa noioso, come tutto il resto. Tanto vale allora andare avanti da solo nel proprio narcisismo, indolente e indifferente al destino altrui, anche alla fatina-bambina svolazzante (la brava Simona Senzacqua) che di tanto in tanto gli appare per raccontargli la storia amara di Raperonzolo e dei suoi capelli d’oro. Privo di entusiasmo il suo parlare è una fredda cantilena senza alcun vigore, un elenco monocorde di cibi, di situazioni, di riflessioni, di sentimenti, di lacrime, che fa da contrappeso all’animata partecipazione scenica della partner-voce narrante a fianco.

Una drammaturgia intelligente ed esuberante che molto bene si accorda alle semplici ed efficaci soluzioni sceniche adottate, e che è valorizzata dalla sintonia dei capaci interpreti. E Werner Waas, nel ruolo di George, è un atlante zoomorfo del disincanto moderno, un compendio anatomico dell’apatia tutta contemporanea dell’essere, un animale umano svagato e saggio perché cosciente, fin troppo, della sua innata precarietà. Una vera e propria specie in estinzione.

A Cagliari zefiro artistico autunnale :“10 Nodi”, il festival dei festival.

Schermata 2015-09-12 alle 13.53.56GIULIA MURONI | “Pocos, locos y mal unidos”. Sentenza dall’origine incerta, è toccata in sorte come stigma sociale alla popolazione sarda. La Sardegna mostra tuttora una diversificata frammentarietà territoriale, linguistica e politica che, se da un lato si traduce in un patrimonio originale e ricchissimo, d’altra parte mostra delle fragilità nel percepirsi come parte di un tutto comune. Affrancarsi dallo stereotipo si traduce in un rinnovato assetto antropologico, in grado di farsi carico delle specificità dell’isola senza ripiegarsi in antipatie intestine e ostilità ombelicali. Cercare insieme con lo sguardo una linea del mare all’orizzonte che non blocchi le prospettive ma ne amplifichi indefinitamente la risonanza.

È sulla scorta di un’idea corale di lavoro che si è delineato il programma per la candidatura Cagliari2019, in gara per l’attribuzione del titolo di Capitale Europea della Cultura. Benché Matera si sia aggiudicata la qualifica, l’avvio di quei lavori non si è fermato e proseguono le numerose iniziative e piattaforme di partecipazione, condivisione e coinvolgimento di cittadini, artisti, creativi, professionisti, volontari, associazioni.

Figlia di questo fermento è  “10 Nodi – i festival d’autunno a Cagliari”, progettualità organizzata in coprogettazione e coworking tra le associazioni Sardegna Teatro, Vox Day, Tuttestorie, Spaziomusica, Cada Die Teatro, Is Mascareddas, Carovana, Sardex, TiconZero e Spaziodanza che mostrerà nell’autunno cagliaritano oltre 400 eventi, agiti da più di 300 artisti da 20 nazioni differenti. Un festival dei festival che coinvolga realtà consolidate del territorio e le tenga insieme senza costringerle in un’identità statica. Non si tratta di una giustapposizione di elementi, l’immagine dei “nodi” – frutto di un concorso di idee vinto dalla studentessa IED Laura Sirbe – esemplifica la connessione, il punto di giunzione in una trama, il crocevia che dà luogo all’incontro, ma anche l’unità di misura della velocità del vento. Dieci nodi infatti indica una brezza che accarezza e trasporta.

Capofila è Sardegna Teatro, progetto guidato  dalla direzione artistica del Teatro di Sardegna, Massimo Mancini, forte del riconoscimento da parte del MIBAC di Teatro di Rilevante Interesse Culturale.  Karel Music Expo, festival Spaziomusica, Tuttestorie, Animar,Mitzas, Autunno Danza, Oscena Teatro, Signal insieme in un cartellone ricchissimo che durante l’autunno cagliaritano vedrà susseguirsi musica d’avanguardia, teatro d’animazione, letteratura per ragazzi, danza contemporanea, performance urbane e numerosi incontri promossi dalla collaborazione di due o più soggetti.

Un progetto inclusivo e ambizioso, che spera con questa tessitura comune di arrivare a un pubblico locale sempre più numeroso e di mostrare la propria identità multiforme e autorevole nel panorama italiano e internazionale.