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venerdì, Marzo 29, 2024
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Il più solo solissimo George di tutti i tempi a Short Theatre

foto di Claudia Pajewski
foto di Claudia Pajewski
VALENTINA DE SIMONE | Quando Werner Waas nel bel mezzo della rappresentazione apre le tende pesanti sul fondo della sala ed esce sul vialetto del retro, in accappatoio, tra l’incredulità dei passanti che iniziano a sbirciare quello che avviene all’interno dello spazio finalmente svelato, si ha come l’impressione, dalla platea, di essere piombati di colpo in un altro spettacolo, dalla parte degli attori questa volta. Osservati da un altro pubblico, come spettatori assaporiamo un ribaltamento di senso curioso, una fascinazione per la prospettiva inversa e una strana, esilarante dipendenza dalla visione.

D’altronde c’è da aspettarselo da una performance che sembra un paradosso continuo con le sue situazioni sempre al limite, con la placida indolenza delle sue espressioni mai consolidate, anzi quasi buttate lì per caso ad ogni scambio ma, invece, profondamente centrate. Tristezza&Malinconia o il più solo solissismo George di tutti tutti i tempi nasce dalla sinergia creativa tra Bonn Park, tedesco di origini coreane, autore del testo, Lea Barletti e Werner Waas, ideatori oltre che attori della mise en espace presentata alla decima edizione di Short Theatre, Nostalgia di futuro, all’interno del progetto Fabulamundi. Playwriting Europe, una rete condivisa di teatri, festival e organizzazioni culturali in Italia, Francia, Germania, Spagna e Romania, per la circolazione e il sostegno della drammaturgia europea.

Sulla scena abitata da una scrivania con tanto di piantina di lattuga in bella mostra, la solerte narratrice Lea Barletti ripercorre in tailleur le tappe salienti della lenta, lentissima vita di George, una tartaruga millenaria, ultima della sua specie, che sogna di morire nella buca di sabbia dove è nata, dopo un’estenuante routine di solitudine e di (inesistenti) grandi imprese. Ci prova periodicamente George a condividere la sua esistenza con un suo simile ma il tempo, si sa, è una brutta bestia, e anche il sesso, a furia di farlo, diventa noioso, come tutto il resto. Tanto vale allora andare avanti da solo nel proprio narcisismo, indolente e indifferente al destino altrui, anche alla fatina-bambina svolazzante (la brava Simona Senzacqua) che di tanto in tanto gli appare per raccontargli la storia amara di Raperonzolo e dei suoi capelli d’oro. Privo di entusiasmo il suo parlare è una fredda cantilena senza alcun vigore, un elenco monocorde di cibi, di situazioni, di riflessioni, di sentimenti, di lacrime, che fa da contrappeso all’animata partecipazione scenica della partner-voce narrante a fianco.

Una drammaturgia intelligente ed esuberante che molto bene si accorda alle semplici ed efficaci soluzioni sceniche adottate, e che è valorizzata dalla sintonia dei capaci interpreti. E Werner Waas, nel ruolo di George, è un atlante zoomorfo del disincanto moderno, un compendio anatomico dell’apatia tutta contemporanea dell’essere, un animale umano svagato e saggio perché cosciente, fin troppo, della sua innata precarietà. Una vera e propria specie in estinzione.

A Cagliari zefiro artistico autunnale :“10 Nodi”, il festival dei festival.

Schermata 2015-09-12 alle 13.53.56GIULIA MURONI | “Pocos, locos y mal unidos”. Sentenza dall’origine incerta, è toccata in sorte come stigma sociale alla popolazione sarda. La Sardegna mostra tuttora una diversificata frammentarietà territoriale, linguistica e politica che, se da un lato si traduce in un patrimonio originale e ricchissimo, d’altra parte mostra delle fragilità nel percepirsi come parte di un tutto comune. Affrancarsi dallo stereotipo si traduce in un rinnovato assetto antropologico, in grado di farsi carico delle specificità dell’isola senza ripiegarsi in antipatie intestine e ostilità ombelicali. Cercare insieme con lo sguardo una linea del mare all’orizzonte che non blocchi le prospettive ma ne amplifichi indefinitamente la risonanza.

È sulla scorta di un’idea corale di lavoro che si è delineato il programma per la candidatura Cagliari2019, in gara per l’attribuzione del titolo di Capitale Europea della Cultura. Benché Matera si sia aggiudicata la qualifica, l’avvio di quei lavori non si è fermato e proseguono le numerose iniziative e piattaforme di partecipazione, condivisione e coinvolgimento di cittadini, artisti, creativi, professionisti, volontari, associazioni.

Figlia di questo fermento è  “10 Nodi – i festival d’autunno a Cagliari”, progettualità organizzata in coprogettazione e coworking tra le associazioni Sardegna Teatro, Vox Day, Tuttestorie, Spaziomusica, Cada Die Teatro, Is Mascareddas, Carovana, Sardex, TiconZero e Spaziodanza che mostrerà nell’autunno cagliaritano oltre 400 eventi, agiti da più di 300 artisti da 20 nazioni differenti. Un festival dei festival che coinvolga realtà consolidate del territorio e le tenga insieme senza costringerle in un’identità statica. Non si tratta di una giustapposizione di elementi, l’immagine dei “nodi” – frutto di un concorso di idee vinto dalla studentessa IED Laura Sirbe – esemplifica la connessione, il punto di giunzione in una trama, il crocevia che dà luogo all’incontro, ma anche l’unità di misura della velocità del vento. Dieci nodi infatti indica una brezza che accarezza e trasporta.

Capofila è Sardegna Teatro, progetto guidato  dalla direzione artistica del Teatro di Sardegna, Massimo Mancini, forte del riconoscimento da parte del MIBAC di Teatro di Rilevante Interesse Culturale.  Karel Music Expo, festival Spaziomusica, Tuttestorie, Animar,Mitzas, Autunno Danza, Oscena Teatro, Signal insieme in un cartellone ricchissimo che durante l’autunno cagliaritano vedrà susseguirsi musica d’avanguardia, teatro d’animazione, letteratura per ragazzi, danza contemporanea, performance urbane e numerosi incontri promossi dalla collaborazione di due o più soggetti.

Un progetto inclusivo e ambizioso, che spera con questa tessitura comune di arrivare a un pubblico locale sempre più numeroso e di mostrare la propria identità multiforme e autorevole nel panorama italiano e internazionale.

Pilade parte II: ArchivioZeta oltre la Ragione. Dalla Futa alle tappe bolognesi

pilade_ArchivioZeta_15 agostoRENZO FRANCABANDERA | Pratica teatrale seria e follia sono due stanze vicine nell’albergo della vita umana. Sono nel piccolo corridoietto, spesso senza finestre che guardano fuori, in cui di solito ci sono anche le stanze della povertà di mezzi, della ricchezza di spirito e il mausoleo di Don Chisciotte.
Perché in fondo dedicarsi a quest’arte è consdensarsi e spesso un po’ masochisticamente crogiolarsi fra lotte contro i mulini a vento, grande battaglie ideali al limite se non oltre la ragione, in cui da guadagnare c’è spesso solo la consapevolezza di aver riservato alla propria presenza nel tempo della vita e nella società un ruolo adeguato al dono dell’intelligenza che Natura ha dato a ciascuno.

Parliamo qui di una compagnia che ha sempre focalizzato l’attenzione sullo studio dei classici e dei tragici in particolare: ArchivioZeta, che nell’ultimo anno, dopo una lunga militanza sull’Appennino tosco-emiliano ha deciso di stabilire il suo quartier generale a Bologna.

E parliamo di un drammaturgo intellettuale contemporaneo italiano, autore di sei tragedie in uno dei periodi più travagliati della storia repubblicana, e tra il 1966 e il 1970: sei opere straordinarie in versi, che affrontano temi delicatissimi che spaziano dall’umano sentire alla forma della società, con una tecnica di scrittura e di strutturazione del testo che ha finora costretto quasi tutti coloro che si sono confrontati con queste parole ad acrobazie sceniche nel tentativo di mantenere un’unità che forse in fondo neanche Pasolini poteva mantenere tale, se non nella forma teorica e astratta dello scritto.

Il mito: Pilade è nipote per parte di madre di Agamennone e Menelao, crebbe con il cugino Oreste e fu al suo fianco nella vendetta su Clitennestra ed Egisto per l’uccisione di Agamennone. La sua vicenda è narrata nell’Orestea eschilea, di cui l’opera pasoliniana è intrinsecamente conseguente.
Pasolini immagina i due amici Oreste e Pilade arrivare, dopo aver conquistato Argo, a confrontarsi sulla forma di governo. Il primo è difensore della Ragione/Atena (che porta inizialmente a un potere democratico ma in ultima analisi borghese, nella similitudine pasoliniana con il nostro tempo), il secondo invocherà la lotta a difesa dei diritti degli sfruttati (qualcosa che aveva riferimento nella fede politica comunista di Pasolini). L’intellettuale Pilade, rinchiuso nel proprio mondo, uscirà però sconfitto e non potrà che gridare alla Ragione la propria maledizione, suggello della sua impotenza, data anche della sua diversità, ma consapevole anche (e questa parte del pensiero è molto moderna e supera il credo politico per arrivare ad una meditazione filosofica sulla natura dell’uomo) di aver peccato non meno di Oreste nel bramare un cambiamento che non era in fondo altro se non un desiderio di un potere. Diverso, ma pur sempre potere.

Della trilogia di Eschilo ArchivioZeta ha messo in scena i tre atti negli anni dal 2010 al 2012 riproponendo poi l’integrale nel 2013 con grande successo al Cimitero Germanico al Passo della Futa. Confrontarsi a teatro con l’opera di Pasolini era dunque quasi una necessità ma iniziativa scivolosa proprio perché, come noto a tutti coloro che fanno teatro, rispettarne l’unità formale prima di quella sostanziale rischia di produrre esiti tragici in senso lato ma anche in senso stretto.
E forse l’operazione di ArchivioZeta riesce proprio perché l’intero viene smembrato nei suoi diversi elementi costituenti, configurandosi proprio come un classico polittico di ardimento teatrale, una di quelle imprese rare in cui una compagnia si imbarca in un progetto politico-sociale di massa, dove il primo elemento, quello politico, in questo caso è incarnato proprio dal tema, dalla scelta drammaturgica, il Pilade; il secondo elemento si sostanzia nella volontà di declinarlo in forma plurale, attraverso una serie di atti, di letture stratificate e sovrapposte, ciascuna delle quali consenta di declinare una variazione sul tema.

Il progetto è stato diviso in cinque parti (Montagne – aprile 2015 a Marzabotto, Campo dei Rivoluzionari – luglio 2015 a Volterra, Boscocimitero – agosto 2015 al Passo della Futa, Parlamento – 12-13 settembre a Bologna e Morti – 2 Novembre a Bologna), di cui in particolare gli atti di Volterra e Bologna si configurano come vere e proprie imprese teatrali d’altri tempi, con decine e decine di attori non professionisti coinvolti in
La cifra particolarissima dell’allestimento della Futa di quest’anno e che la creazione si è configurata, all’interno del corpus creativo plurale dedicato al lavoro di Pasolini, come una sorta di confronto di Archivio Zeta con la sua storia, il suo passato e il suo futuro. Ci sono i genitori e i figli, la recitazione tradizionale e la tecnologia, la tragedia classica e quella contemporanea, i vivi e i morti. In ciascuno di questi capitoli, la compagnia si è sforzata di realizzare atti unici, che non abbisognassero di prologhi o spiegazioni, in modo che la creazione risulti si unitaria, ma al contempo composta da capitoli indipendenti.

FGF_0054_542415-500x334Mentre i due atti scenici, quello di Volterra e quello che verrà presentato Sabato 12 e domenica 13 settembre ore 19 a Villa Aldini a Bologna, sono veri e propri confronti sul messaggio politico e sociale di Pasolini con la società, con le sue criticità contemporanea, la perdita di lavoro, la questione migranti, l’allestimento al passo della Futa ha quasi una dimensione intima, in cui la cifra estetica, sempre presente nel lavoro del gruppo, assume una spiritualità familiare e assoluta al contempo. Persino la divinità Atena viene presentata bambina e donna allo stesso tempo, il confronto fra giovani e persone mature racchiude il conflitto tutto interno al Pilade che riguarda la dicotomia fra sogno e realtà, utopia e real Politik, tutela dei deboli e ragion di stato, che annichilisce le differenze in nome del progresso.

L’anziano viandante e il bambino che lo accompagna, che nel finale dell’opera si addormenteranno, dormono due sogni diversi. In mezzo, per la prima volta in maniera esplicita un accenno al contemporaneo, alla storia con la S maiuscola, con il simbolo della bandiera greca che viene fatta sventolare qui al passo della Futa dove sventolano tutti i giorni dell’anno le bandiere tedesca, europea ed italiana.

Ma si ascolta anche la voce di Pasolini, e la tecnologia viene per la prima volta in maniera decisiva utilizzata nell’allestimento, attraverso delle audio cuffie. Se altre volte la digitalità era stata al servizio della parte musicale, qui sostanzia sempre la parte sonora, ma con riguardo a parte del testo scenico che gli spettatori ascoltano tramite le cuffie, mentre l’azione pare dipanarsi quasi come un film muto davanti ai loro occhi.

Introduzione tecnologica intelligente e misurata: il pubblico capisce in forma immediata quando utilizzare la tecnologia e quando invece deve ascoltare dal vivo, dimostrazione della grande cura e attenzione che la compagnia riserva al momento fruitivo.

Pilade diventa così, in questo esercizio di sussurro e coralità, un’invocazione sul ruolo che l’uomo dovrebbe svolgere nella società, il tema della resa, dell’illusione, della speranza e dell’abbandono. Elemento che troverà nei prossimi atti la sua declinazione.

Da questo punto di vista proprio il parlamento multietnico che viene allestito a Bologna per l’atto settembrino del polittico, prima del confronto di novembre con la memoria di Pasolini, diventa testimonianza di un ragionamento più grande sulla distonia fra realtà ed uguaglianza nel nostro tempo.
A Villa Aldini, palazzo storico di Bologna ma ora anche un centro di accoglienza per richiedenti asilo, lo spettacolo vedrà la partecipazione degli ospiti della Villa, migranti e rifugiati (alcuni ospiti arrivano dal Senegal o dal Mali e parlano solamente la loro lingua, altri invece parlano inglese o francese), in un confronto con l’attualità di quello che in questi giorni sta accadendo. Saranno loro il coro della tragedia. Il processo creativo che ArchivioZeta ha potuto realizzare con il supporto della cooperativa sociale Arca di Noè, che ha affiancato il lavoro della compagnia, ha cercato anche concretamente di insegnare l’italiano ai migranti, oltre a sensibilizzarli e farli riflettere, attraverso l’arte del teatro, sull’ampio concetto di cittadinanza.

Siamo di certo di fronte ad uno dei 10 maggiori progetti teatrali del 2015. Un’operazione culturale di primo livello, per molti versi irripetibile nella declinazione che se ne è avuta finora e di cui, a chi può, diciamo che è giusto e bene che faccia quanto possibile per assistervi. Esserci. Prendervi parte.

Vocazione di Danio Manfredini o dell’attore alla prova della vita

Manfredini

MARIELLA DEMICHELE| Un velatino come fondale. Dietro, in penombra, si delinea la sagoma di un uomo che, lentamente, arriva al centro della scena sulle note dell’aria “Vesti la giubba” dai “Pagliacci” di Leoncavallo: “Recitar!”- così canta Canio nell’interpretazione di Pavarotti – “Tramuta in lazzi lo spasmo e il pianto, in una smorfia il singhiozzo e il dolor”. Recitare, dunque, come azione “trasformativa” agita in scena da un soggetto: l’attore. Ed è al mestiere dell’attore, al rapporto tra arte e vita che Danio Manfredini, attore e regista riconosciuto come uno dei maestri del teatro italiano contemporaneo, dedica questo lavoro, intitolato Vocazione.

Fin dall’apertura, dunque, il tono che risuona è quello della malinconia. Finita la musica, l’anziano Minetti di Ritratto d’artista da vecchio di Thomas Berhnard, con i suoi occhiali troppo grandi, il cappotto liso e il cappelluccio calcato sulla testa, racconta del suo desiderio di tornare in scena a recitare il Re Lear dopo trent’anni di assenza dalla scena: guizzi di ironia, talvolta feroce, ma non bastano a nascondere la consapevolezza della condizione di solitudine, smarrimento e paura che l’attore, “irrimediabilmente perduto nella materia dell’arte drammatica”, sperimenta quotidianamente. Una presa di distanza, dunque, dalle altisonanti definizioni che fanno dell’attore il “folle”, lo “stupratore dell’arte”, per riconoscere, invece, che la sua vocazione, se autentica, è materia fragile che porta in sé anche il rischo del fallimento: il mondo è pieno di “esistenze artistiche distrutte”, consumate nell’ostinazione di prove solitarie in soffitte di periferia. Qualsiasi “vocazione” è un movimento centripeto: parte dall’esterno per arrivare al cuore. Un’esperienza di conoscenza, di svelamento, dopo la quale non si è più gli stessi. Un amore, in questo caso, per il quale l’attore è disposto a farsi male, a “mettere vestiti” che non gli appartengono, a truccarsi e mascherarsi. Tutto, pur di esporsi al paradosso di quel “gioco”, il teatro, che “non serve a niente”.

Un gioco il teatro. Precario ed effimero come quella pila di sedie che Manfredini e Vincenzo Del Prete – suo inseparabile e affidabile compagno di viaggio – accatastano al centro della scena e che un rotolo di carta igienica srotolato come un nastro e un ventaglio posto in cima riescono a trasformare in una misteriosa ed evocativa installazione. Immaginazione ci vuole. E passione. Oltre ad un duro lavoro. Per trasfigurare la realtà in poesia.

A testi di Manfredini si alternano brani tratti dalla tradizione teatrale: oltre al già citato Minetti di Thomas Berhnard, il celebre monologo Essere o non essere dall’Amleto di Shakespeare, Servo di scena di Ronald Harvood, Il gabbiano e Il canto del cigno di Čechov, Psicosi delle 4.48 di Sarah Kane e Conversazioni con la morte di Testori, per citare i principali.

Per esprimere in modo estremo quell’esigenza di trasformazione che il teatro impone all’attore, Manfredini riprende inoltre personaggi di suoi precedenti lavori: troviamo, infatti, Erwin/Elvira, il macellaio diventato donna per amore nel film Un anno con 13 lune di Fassbinder, protagonista di uno degli episodi di Tre studi per una crocifissione, e Samira, l’indimenticabile transessuale in minigonna, tacchi a spillo e alucce rosse già vista in Cinema Cielo.

Una tessitura drammaturgica che esprime un percorso individuale che all’esperienza maturata attraverso l’intensa attività teatrale praticata in contesti anche molto lontani dai circuiti ufficiali, a stretto contatto con situazioni di disagio e marginalità, ha saputo unire anche la riflessione critica su di un dibattito che, partito in modo sistematico nel ‘700 con il Paradosso sull’attore di Diderot, ha attraversato tutto il Novecento. Un incalzante interrogarsi su questioni relative non solo alla psicologia dell’attore, ma anche sulle scelte estetiche o morali che regolano l’interazione tra l’aspetto sensitivo ed intellettuale della recitazione, tra “grammatiche” ed autencità. Nella formazione di Manfredini e nella elaborazione della sua personalissima poetica sono evidenti le tracce lasciate da Grotowski e dalla sua teoria dell’ “attore sacro”, da Kantor e dalla Bausch, oltre che dal terzo teatro di Eugenio Barba. L’attore che gli interessa è quello capace di “denudarsi”, in un continuo processo, quasi ascetico, di conoscenza e superamento dei propri limiti fisici e psicologici. E nei passaggi tra un quadro e l’altro gli attori si svestono e vestono spesso in scena, in uno spazio anch’esso nudo, spoglio, occupato solo, sui lati, da un baule, qualche sedia e dall’asta del microfono usato nel finale. Corpi esposti allo sguardo del pubblico per cogliere, nella figura dell’artista, la sua “essenza umana scarna”.

L’autenticità dell’azione scenica, cosa ben diversa dalla semplice credibilità dei personaggi, viene perseguita rinunciando a scelte di tipo naturalistico: ritornano allora, come già in altri spettacoli di Manfredini, sia le maschere di lattice, una recitazione che tende a de-psicologizzare i personaggi mediante una gestualità stilizzata e un tono sostenuto e freddo, volutamente privo di espressività, che la ricerca sulla voce e sul movimento declinata, attraverso la disciplina del training, in molteplici soluzioni sceniche. Guidati da una drammaturgia sonora che unisce generi musicali diversissimi che spaziano da Vasco Rossi a Chopin, si passa dalla sospensione quasi onirica del dialogo tra Nina e Kostja all’avvitamento su se stesso e alla corsa senza meta di Amleto, dalla danza dei due emarginati di periferia a quel corpo attraversato da un fremito quasi animalesco dal quale, sulla diagonale di un fascio di luce, sottile e pallido come una ferita, traboccano parole che accogliamo con un sentimento di grato stupore. Fino al’ultimo quadro. All’ultima vestizione, quella di Samira, alla quale Manfredini affida il compito di sussurrare un segreto. L’attesa, un giorno, di un profeta di vita. Di artisti capaci di “riunire la vita”. E dopo gli applausi, che i due attori ricevono con una compostezza anch’essa rituale, uscendo non possiamo fare a meno di chiederci cosa ha reso possibile questa profonda alleanza tra spettatore e attore, nonostante le imperfezioni, alcune ripetizioni e schegge di superfluo manierismo. Prima di qualsiasi messaggio, sicuramente l’energia dell’attore, il suo bios scenico capace di agganciare cuore e mente di chi guarda. Poi, uscendo, le immagini ancora impresse dietro le palpepre suggeriscono un pensiero: se è vero che tutto ciò che accade all’uomo serve all’artista, forse non sempre è vero il contrario. Ma per riflettere su ciò, ci vorrebbe un altro spettacolo…

Archivio Zeta, Pasolini nostro rivoluzionario

Pilade/Campo dei rivoluzionari @ Stefano Vaja
Pilade/Campo dei rivoluzionari @ Stefano Vaja

MATTEO BRIGHENTI | Archivio Zeta è il teatro di corpi offesi che la parola strappa all’oblio. Parola tragica, perché interroga e sfida la sopraffazione, il potere, il dominio dell’uomo sull’uomo. Eschilo, Sofocle e adesso il Pilade di Pasolini, in occasione del 40° anniversario della morte, sono armi e architettura nelle mani e negli sguardi di Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, luogo di incontro, assemblea di ascolto e decisione partecipata da attori e pubblico, da pari a pari.
A VolterraTeatro, dopo aver ricucito l’anno scorso La Ferita tra città e cittadini, la compagnia ha spinto il progetto Pilade/Pasolini fin dentro la Locatelli, la salina di Saline di Volterra (Pisa), per alleviare, arginare, condividere attraverso Pilade/Campo dei Rivoluzionari la paura continua degli operai della SMITH BITS che per loro non esista un domani. In 193 in primavera sono stati “messi in libertà”, cioè mandati a casa senza stipendio e senza ore di attività da svolgere, ridotti poi a 114 nelle scorse settimane. Numeri che non sono casualità, fatalità, sfortuna, ma freddo e ragionato calcolo che antepone il profitto alla vita. Le altre tappe sono state Pilade/Camposanto, al Cimitero vecchio di Montecatini Val di Cecina, Nascita di Atena, a Castelnuovo Val di Cecina, nell’incanto inconsueto delle Fumarole di Sasso Pisano, e infine, a chiusura del Festival, Pilade/Montagne a Pomarance, sulla Rocca Sillana.
Tutto il Pilade affronta il potere, inteso come governo, amministrazione, ‘sepolcro imbiancato’ del progresso, quindi falso e ipocrita, che nasconde la perversa natura di comportamenti riprovevoli sotto una parvenza d’irreprensibile miglioramento. Qui dentro, nelle viscere di un mare evaporato, dove la luce penetra, ma non abbaglia, confonde i contorni e mette al mondo un tempo dilatato, umido e rumoroso, qui nella salina che produce il sale più puro d’Italia il bianco è dappertutto e ciò che ancora non lo è, lo sarà presto. Un tempo sospeso come sospesa è la città che fa da tema-guida alla XXIX edizione del Festival Internazionale delle Arti diretto da Armando Punzo (20-26 luglio).

Foto di Stefano Vaja

Questa scenografia, questo spazio/set scelto da Archivio Zeta, allora, non è illusione né inganno, è senso, direzione, un preciso punto di vista che accoglie e amplifica, per contrasto e paradosso, i gesti e i pensieri sottratti all’oltraggio di parametri, tendenze, stime. È, in definitiva, lo spazio della mente di un artista. “Non è un luogo presente, è un luogo assente, sospeso”, scrive Punzo, “un artista [è] l’unico capace di realizzare una rivoluzione senza sangue e senza nemici, dove l’unica vittima è lui stesso.”
Il rosso è solo nell’abito altero che indossa Enrica Sangiovanni, Atena, venuta ad Argo alla testa di un corteo di Eumenidi per insediare il culto della Ragione, fredda e severa, che guarda esclusivamente al futuro. Pasolini riannoda la trama là dove Eschilo conclude la trilogia dell’Orestea, con l’assoluzione del matricida Oreste da parte dell’Areopago, che segna il passaggio dalla società arcaica, permeata da un senso di religiosità oscura e violenta, a quella moderna dove la giustizia è esercitata dai tribunali, e che Archivio Zeta ha attraversato guardando negli occhi le lapidi del Cimitero Militare Germanico del Passo della Futa, sull’Appennino tosco-emiliano, il più grande sacrario di vittime tedesche della Seconda Guerra Mondiale in territorio italiano.
Rami di ulivo, grandi bandiere bianche percorrono imponenti il perimetro dell’hangar, ventre di quella che sembra una vita migliore, il benessere arreso all’evidenza della pace. Archivio Zeta riesce a esprimere una visione d’insieme e un movimento di masse di corpi che avvince per forza e composta fierezza. Perché sotto le maglie nere che li fanno assomigliare ai cittadini di Argo, uomini e donne in silenziosa processione nascondono la loro appartenenza alla SMITH BITS, la loro identità di operai traditi. Il sistema si è servito di loro per rendersi indispensabile, ma adesso che è diventato modalità di pensiero e può auto-riprodursi, auto-rigenerarsi, non ha più bisogno di loro.
L’artista, il timido Pilade, interpretato da Gianluca Guidotti, in cui s’identifica lo stesso Pasolini, l’intellettuale, può gridare dal suo mondo non dimentico del passato la propria bestemmia alla Ragione. La sua impotenza, sconfitta e diversità, non è nei limiti della sua voce. Pilade/Campo dei Rivoluzionari non fa grandi cose, fa cose grandi, fa trasparire le responsabilità dell’esercito di Pilade, colpito da una cascata di sale e dall’assenza di una coscienza e presenza di sé, di sentirsi capaci di poter contare e cambiare le cose.
Mancano del senso di comunità di popolo che Archivio Zeta costruisce tanto nell’esecuzione di questo rito teatrale di appartenenza e resistenza quanto nella sua preparazione. Infatti, sono oltre settanta i cittadini-attori che Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni hanno messo in scena: ai circa quaranta del laboratorio annuale tenuto a Volterra, si sono uniti, eccezionalmente, i partecipanti di un laboratorio speculare che la compagnia ha condotto con i cittadini di Bologna, oltre ad alcuni operai della fabbrica SMITH BITS. “Noi che viviamo in una sola generazione ogni generazione vissuta qui”, rimarca alla fine la voce di Pasolini leggendo Il canto popolare. Il teatro come apprendimento della gestione della cosa pubblica, non un accidente o un accessorio, ma una pratica quotidiana di dibattito e riflessione in cui ieri e domani sono dentro un oggi uguale per tutti, che ascolta e fa parlare tutti.
Per questo dai loro itinerari poetico-letterari non si ritorna più gli stessi: perché non lasciano indifferenti, perché, essenzialmente, Archivio Zeta odia gli indifferenti.

Archivio Zeta
Pilade/Pasolini
direzione artistica e regia di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
partitura sonora Patrizio Barontini

Sabato 12 e domenica 13 settembre debutta l’ultimo episodio del progetto Pilade/Pasolini, Pilade/Parlamento, all’interno di Villa Aldini, a Bologna, che fu set del film Salò. Lo spettacolo vedrà la partecipazione degli ospiti del centro di accoglienza per richiedenti asilo che si trova accanto alla Villa.

Come pesci nell’acquario. Ovvero, nel villaggio globale delle immagini non c’è posto per tutti

merkelALESSANDRO MASTANDREA | Di acqua, a essere onesti, non ne manca affatto, ma non è un acquario quello di cui le cronache parlano a giorni, settimane, o mesi alterni. E nemmeno di pesci si tratta, per quelle sagome sospese magari con grazia in acque di superficie stiepidite dal sole, oppure sul fondo, ricoperte da sabbie finissime o al riparo in quelle barchette adagiate, che nemmeno i costosissimi gadget dei negozi specializzati.
Di acqua, nell’acquario dove noi ci troviamo immersi, invece, ce n’è pochina. E non parliamo del Mediterraneo. Si perché nella grande boccia di cristallo del sistema informativo dove nuotiamo in branchi, piccoli ed esotici pesciolini, l’appagamento è costante nel seguire l’Immagine ripetuta e ripetitiva, deformata magari, ma innocua il più delle volte – lontano dai pasti, almeno.
E così sia: oggi a te e domani a un altro. Salvi e protetti dietro lo schermo in plastica dei nuovi cristalli liquidi, aiutati dal censore freudiano contro ogni rischio di immedesimazione troppo profonda.
Ma questa volta è cambiato tutto, giurano i più. L’immagine del povero Aylan riverso sulle spiagge della Turchia è un dito puntato verso noi anime belle del villaggio globale. Non si può rimanere indifferenti a tanto shock. Persino la Germania l’ha capito, persino la Merkel, quella di “qui non c’è posto per tutti” e delle lacrime di una bambina. Persino Renzi (o forse era Crozza?) de “l’Europa non può solo commuoversi, ma deve anche muoversi”. Persino, magari chissà, Salvini, quello delle ruspe e di “aiutiamoli in casa loro”.
Eh, stavolta dobbiamo capirla per forza, anche noi telespettatori, come l’abbiamo capita all’indomani degli ottocento migranti morti in mare al largo della Sicilia.
D’accordo, si dirà, ma quello era prima che scoppiasse il “Ruby bis”, o forse era dopo? Poi c’è stato il “Ruby ter”, “mafia capitale” e i funerali di Vittorio Casamonica. Il flusso informativo è suggestivo come una scatola di mangime, e notoriamente la memoria dei pesci è incredibilmente corta.
Poi ci sono le guerre, le crisi monetarie, i dittatori deposti per portare la democrazie a spasso nel mondo, ma anche gli interessi nazionali e delle grandi holding del petrolio (queste ultime informazioni da somministrare con parsimonia, come si fa con le molliche di pane).
Che dire poi del calciomercato, del campionato di serie A e della nazionale impegnata nelle qualificazioni . Il tono va alleggerito, e i diritti SIAE per le musiche struggenti dei servizi dei TG costano. Tutto questo dolore non ce lo meritiamo.
Per la commozione, per l’indignazione, abbiamo già dato e ancora daremo: se tutto va bene, forse, proprio nel minuto di silenzio che precede il fischio di inizio di Italia Malta.

Elena Guerrini, Mario Perrotta: il mondo reale nuoce gravemente alla rappresentazione?

Alluvioni @ Lorenza Cerbini
Alluvioni @ Lorenza Cerbini

MATTEO BRIGHENTI | A teatro la realtà così com’è è una bugia. Senza soluzione di sensibilità drammaturgica, senza l’intelligenza del dubbio verso fatti, luoghi, persone, la cronaca e la storia diventano il resoconto di un altrove perso nel tempo e nello spazio. Qui, adesso, sul palcoscenico, tutt’al più si celebra un processo in contumacia, con la chiarezza e nettezza dell’a posteriori, di chi sa come gli eventi sono andati a finire. Il pubblico, però, seleziona, condivide, applaude rassicurato: anche questa volta la responsabilità o colpa non è sua, i buoni siamo noi, i cattivi sono altri, gli altri, spesso i potenti.
Nell’estate dei festival in Toscana, la regione in cui ogni campanile ha la sua rassegna di teatro e arti varie, sono almeno due gli spettacoli incontrati su questa traiettoria di senso e consenso: Alluvioni, dal fango alla luce di e con Elena Guerrini, in prima assoluta a Kilowatt, Sansepolcro, provincia di Arezzo, e Milite ignoto – quindicidiciotto di e con Mario Perrotta, visto a VolterraTeatro, provincia di Pisa.

Il pubblico è il fine e il principio di Kilowatt Festival – L’energia della scena contemporanea. Un metodo riconosciuto a livello europeo: fino al 2018 Festival e Comune coordineranno 12 istituzioni, in rappresentanza di 9 Paesi, nel progetto “Be SpectACTive!” per il coinvolgimento attivo degli spettatori. Si tratta della diffusione oltreconfine dell’esperienza dei Visionari che caratterizza la manifestazione aretina. Giunto quest’anno alla 13° edizione, dal 2007 Kilowatt ha messo nelle mani di un gruppo sempre più numeroso di “non addetti ai lavori” il suo ingranaggio più delicato e prezioso, la scelta degli spettacoli, affinché il festival sia ‘cosa propria’ della città e del territorio. Parte del programma è quindi opera dei Visionari, che vedono tutti i video che arrivano tramite il bando promosso e realizzato dalla compagnia Capotrave. Il lavoro di Elena Guerrini è uno degli esiti della selezione 2015.

La scena di Alluvioni è una catasta di oggetti ormai inservibili, come il cesto di una lavastoviglie, simbolici, come un televisore senza schermo con dentro delle macchinine e un’ambulanza, identitari, come il tricolore e una madonnina con l’acqua santa. Poi, scatole di cartone, a destra e a sinistra. È l’eredità di un metro d’acqua che il 12 novembre 2012 devastò Albinia (Grosseto) e dell’altro fango, pubblico e privato, che appesta l’Italia. Su questa geografia liquida Guerrini, maremmana, attrice dal 1993 (ha lavorato con Teatro Valdoca e con Pippo Delbono prima di mettersi a fare l’attrice/narratrice in proprio), alterna una poesia sulla piena di un avvocato di Grosseto a La pioggia nel pineto di D’Annunzio, dalla registrazione del telegiornale (“togli il fango e ti sembra di non farcela”) si passa a un gioco a premi in cui un concorrente immaginario deve rispondere ad alcune domande per vincere la ricostruzione del suo ristorante alluvionato. Cosa fa un computer durante un’alluvione? Naviga. Una televisione? Va in onda. Un gallo? Galleggia. La vita va avanti, la distruzione scatena anche la creatività, con barzellette o modi di dire, ma dentro Alluvioni non sono nuove forme di resistenza e sopravvivenza, sono cose e cause perse da una sfilacciata drammaturgia.
“In un’ora lo spettatore, a stretto contatto con me sulla scena – promette Elena Guerrini – si immerge nel fango e ne esce pulito. Nuovo.” La derisione dell’informazione e, più in generale, della retorica dei disastri, le si ritorce presto in un azzardo che non tiene in alcuna considerazione la portata del dramma: l’alluvione di Albinia provocò sei morti. Il crescendo finale della abusata Perfect Day di Lou Reed, estremo tentativo di unire pathos e coinvolgimento del pubblico, arriva al culmine del disappunto e dello sconcerto per una mascherata di prese in giro.

Elena Guerrini è stata fortemente voluta dai Visionari, incantati forse dagli intenti di teatro d’impegno civile (due gli anni di studio), Mario Perrotta è stato largamente applaudito dalla Fortezza Medicea di Volterra, tramutata in palcoscenico da VolterraTeatro, il Festival Internazionale delle Arti diretto da Armando Punzo, giunto quest’anno alla XXIX edizione.

Milite Ignoto - quindicidiciotto
Milite ignoto – quindicidiciotto

La guerra è tutta di tutti una volta che ci entri e Milite ignoto – quindicidiciotto parla i dialetti della regione Italia, una lingua di lingue in cui ogni frase è un inciampo di pronunce, dalle Alpi alla Sicilia, e di sensi, vista, udito, olfatto, gusto, tatto. Perrotta, in grigio militare, seduto sul salto della civiltà (dei sacchi di sabbia), usa una voce ‘tridimensionale’, che abbraccia il vicino e il lontano, e danzando le mani avanti e indietro, come la marea o la risacca, fa comparire ciò che vede e sente davanti agli occhi: la trincea, lo scoppio pretestuoso della Prima Guerra Mondiale, lo scoppio inutile di chi muore senza gloria e senza ricordo.
“Ho rivolto la mia attenzione verso gli sguardi e le parole di singoli uomini che hanno vissuto e descritto quegli eventi dal loro particolarissimo punto d’osservazione – avverte il drammaturgo, attore e regista – perché questo è il compito del teatro, o almeno del mio teatro: esaltare le piccole storie per gettare altra luce sulla grande storia.”
Della Storia con la maiuscola, però, il fondatore della compagnia del Teatro dell’Argine riporta solo la cronologia, le date come sono sui libri, per portare all’accusa, alla sbarra del teatro, la stupidità e impreparazione dei vertici militari. Ma perché il generale Cadorna ha mandato al massacro centinaia di migliaia di giovani soldati? Come ha potuto far macellare tutta quella ‘carne da cannone’, come la chiamava? Milite ignoto non lo dice, non prova nemmeno a capirlo, impegnato com’è a far sentire ‘tu, te, ti’ nel fango e gelo e piscio e merda e pidocchi della trincea. Soldati per chi? Per Trento e Trieste? La Patria è roba da studenti che pesano i pensieri, è una cosa inutile, la Patria mica si mangia. Le risate e gli applausi sono il suggello sulla continua richiesta di consenso e complicità con il pubblico, confortato nelle sue convinzioni preconcette sull’irrilevanza della politica, la codardia della ricchezza, l’incompetenza dell’autorità.
Perrotta ha gioco facile: chi può dirsi a favore della guerra? Ricordare e restare in silenzio, questo sappiamo e vogliamo fare: commemorare. E difatti lo spettacolo è stato inserito tra gli eventi del programma ufficiale per il Centenario della Prima Guerra Mondiale, a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Elaborare, investigare, analizzare, invece, non dà frutti né fondi. Perché poi dovremmo scoprirci uguali a quelli che ci fanno sentire così ignoti e indifesi. E i colpevoli non hanno niente da applaudire.

Per approfondire, leggi anche:
Carlotta Tringali, Formazione del pubblico al centro del convegno di Rete Critica a Kilowatt, su Il Tamburo di Kattrin.
Giulio Sonno, Kilowatt Festival XIII. Dubbi e domande, su [paper street].
Maddalena Giovannelli, Massimo Marino, Santarcangelo: due sguardi, su Doppiozero.

Elena Guerrini
Alluvioni, dal fango alla luce
drammaturgia, regia e interpretazione Elena Guerrini
cura della produzione Davide Di Pierro
assistente di produzione Stefania Anzidei
movimenti di scena Anna Redi
prima spettatrice Elena Di Gioia
produzione Associazione Culturale Creature Creative
con il sostegno di MAV! Festival
Visto venerdì 24 luglio, Teatro alla Misericordia, Kilowatt Festival, Sansepolcro (Arezzo).

Permàr / Archivio Diaristico Nazionale / dueL / La Piccionaia
Mario Perrotta
Milite ignoto – quindicidiciotto
di Mario Perrotta
organizzazione Silvia Ferrari
foto di scena Luigi Burroni
tratto da Avanti sempre di Nicola Maranesi
e da La Grande Guerra, i diari raccontano
un progetto a cura di Pier Vittorio Buffa e Nicola Maranesi
per Gruppo editoriale L’Espresso e Archivio Diaristico Nazionale
Visto sabato 25 luglio, Fortezza Medicea, VolterraTeatro, Volterra (Pisa).

Il successo in 10 perchè: vol. 2 – Il Festival Teatro a Corte

banner-1_1-4-2_3 (1)RENZO FRANCABANDERA | Eccoci con la seconda puntata di questo dossier su esperimenti di successo della gestione dello spettacolo dal vivo. Dopo la prima puntata dedicata al Festival di Dro, raccontiamo oggi di Teatro a Corte, con questo articolo che si conclude con un videoreportage sull’edizione di quest’anno e un’interessante intervista a Beppe Navello, da sempre direttore artistico di questa iniziativa, in cui si parla di molte tematiche assai attuali su gestione del patrimonio culturale e del suo ammodernamento. Continuiamo quindi a volerci interrogare sui motivi del successo di alcune iniziative, sulle pratiche virtuose che aiutano a determinarne l’affermazione.
Iniziamo quindi ad esaminare quali sono i driver di successo di questo caso.

1 – LA HERITAGE
E’ evidente che, per come questo festival è diventato da dieci anni circa a questa parte, Teatro a Corte non esisterebbe senza le corti, l’accesso alle dimore sabaude, all’interno delle quali sono ambientati moltissimi degli spettacoli del ricco cartellone che occupa, in genere, la seconda metà di luglio. E’ un festival che ha come peculiarità il suo svolgersi in luoghi fantastici del patrimonio artistico piemontese, le residenze di casa Savoia, ora trasformate in molti casi in regge-museo. Ogni anno una sfida, un nuovo luogo, il tentativo di stabilire legami fra quello che questi luoghi sono stati e quello che possono essere/diventare. Pochi territori hanno investito in modo così coerente su un progetto di teatralità diffusa che ha portato negli anni a realizzare iniziative di interazione fra arte, pubblico e territori, rimaste nella memoria di chi le ha vissute.

2 – IL PUBBLICO
Teatro a Corte, proprio per le sue peculiarità logistiche è da sempre uno fra i festival più seguiti e frequentati, con un pubblico molto eterogeneo, proveniente dall’intera regione e non solo. La possibilità di visitare le dimore, di scoprirle in una luce totalmente nuova, rivissute e ripensate attraverso il filtro dell’arte, fa si che Teatro a Corte sia sempre un grande successo al botteghino. Non ho mai assistito a spettacoli di questo festival con la sala semi vuota o con 20-30 persone come a volte tristemente capita di vedere qui e lì in Italia. Vuol dire che un percorso è stato fatto, e che il territorio conosce l’iniziativa e ne apprezza il carattere.

3 – COMUNICARE: OLTRE UN CERTO PROVINCIALISMO
Arriviamo qui ad un punto stranissimo, perché questo festival ha sicuramente un grande appeal sulla stampa, soprattutto internazionale, con uscite su prestigiosissime testate come Le Monde, giusto per citarne uno, ma la sua sovrapposizione temporale con il treno dei festival tosco/emiliani di metà luglio fa si che per certa critica italiana (salvo ovvie eccezioni) il festival non abbia tutta l’attenzione che assolutamente merita. In questo va denunciata una certa sclerosi abitudinaria, l’incapacità di aprire al confronto e al nuovo di molti colleghi della stampa, anche quella che si proclama “gggiovane” o “nuova”, e che vivono invece dinamiche tristemente routinarie, che guardano purtroppo in maniera fissa a talune cose, misconoscendone del tutto altre. Certo, nel tanto occorre scegliere, ma non conoscere affatto è spesso un peccato.
Ritengo anche che ci sia una disabitudine al linguaggio della commistione, il ritenere necessaria la supremazia della prosa, il non vivere possibilità di esperienza altra, se non quella legata a ciò che è già noto. Ma così non si aiuta il sistema a crescere.
Menzioniamo qui a puro titolo esemplificativo la presenza nel cartellone di quest’anno di nomi di calibro internazionale come Gob Squad, o i vincitori delle ultime due edizioni dell’International Tanz Solo Competition di Stoccarda, o nel 2012, primi in Italia, Peeping Tom, il sodalizio di Gabriela Carrizo e Franck Chartier nati da una costola della compagnia di Alain Platel (anche qui fra i primi se non proprio i primi a proporli in Italia), giusto per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Ma anche Ilotopie, Groupe F e tantissimi altri, per spettacoli a volte colossali di ispirazione ibrida, fra danza, teatro e dimensione acrobatica di nouveau cirque, che Teatro a Corte ha fatto conoscere all’Italia intera. Insomma se arrivano giornalisti da Parigi e non solo, qualche ragione ci sarà…

4 – OLTRE CONFINE
Ed è appunto l’abilità di guardare e costruire relazioni oltre confine la cifra più significativa dell’organizzazione e dalla direzione artistica che da anni vede Beppe Navello al timone. Negli ultimi anni peraltro è stata prescelta una formula assai interessante di partnership con questa o quella macroregione europea, per ospitare, in taluni focus nazionali, le forme più innovative delle arti sceniche di quella nazione: dalla Russia alla Vallonia, la Germania ecc.

5 – E L’ITALIA?
Ecco, questo è stato finora un punto di forza di Teatro a Corte, ma forse anche una delle ragioni che spiega le questioni di cui al punto 2 sopra: Teatro a Corte non ha mai scelto compagnie nazionali “per forza”. Ha negli anni mostrato alcuni esperimenti italiani, ma senza che la cifra dell’italianità fosse quella necessaria per occupare i palchi. Si, certo, poi si ha a che dire sul fatto che  alla scena italiana manchi il sostegno per la produzione di lavori ecc, ma con la stessa onestà occorre dire anche che in Italia artisti che fanno ad altissimo livello questo tipo di arte “ibrida” ce ne sono pochissimi, se non nessuno, schiacciati come siamo fra la cultura “Orfei” di un circo che ormai in Europa quasi non esiste più e le compagnie capocomicali di prosa. Sarà forse assurdo ma questo spiega ad esempio anche perché sia stata scelta per Expo una compagnia come Le Cirque du Soleil per lo spettacolo celebrativo. In Italia questa forma di acrobatica spettacolare con commistioni di danza contemporanea, non ha interpreti di calibro internazionale. E’ un fatto. Giusto qualcuno che inizia ad appendersi a qualche campanile qui e lì, ma è incredibile come una nazione che nelle arti ginniche ha avuto interpreti di livello olimpico, non abbia finora dedicato possibilità concrete a questa forma di arte su scala medio-grande. In molte regioni del Nord Europa esistono scuole e formazione specifica. In Italia forse una, a Bologna, la cui promotrice Alessandra Galante Garrone è da poco scomparsa. O il percorso di formazione al Teatro Leonardo a Milano negli anni d’oro. Ma poco più… L’Italia è culturalmente un paese che vive di uno stereotipo socio-culturale (piccolo borghese) legato alla tradizione e incapace di proporre il cambiamento dall’interno. Il fenomeno (peraltro diversissimo e che menzioniamo solo per il tema dell’assenza quasi totale della parola in molte creazioni) della Societas Raffaello Sanzio/Castellucci, con tutta la sua portata, è infatti stato un caso unico, e rimasto poi per molti versi isolato.

6 – L’ACCOGLIENZA
Giriamo molti festival in Italia e non solo. Ma l’attenzione che questo festival riserva all’accoglienza di artisti, operatori, addetti ai lavori e anche solo pubblico è un caso quasi unico per eccellenza. Come avevamo menzionato nel caso di Dro l’abilità nelle campagne di comunicazione di Virginia Sommadossi, non può tacersi nel caso di Teatro a Corte lo stile diversissimo, ma non meno originale e indimenticabile, per chi lo ha conosciuto, di Mara Serina, professionista del mondo della comunicazione legata allo spettacolo dal vivo, che ha lavorato con e per istituzioni come Piccolo Teatro di Milano, Teatro degli Arcimboldi, Festival di Santarcangelo, Regione Emilia Romagna, Comune di Milano, e che dal 2008 ricopre l’incarico di consulente artistico presso la Fondazione Teatro Piemonte Europa per la realizzazione di Teatro a Corte, attivando e gestendo progetti con ambasciate, istituzioni pubbliche, centri teatrali, festival e compagnie. E’ un modus operandi, il suo, che di fatto permea ed ha aiutato a creare “uno stile Teatro a Corte”, un’attenzione capace di farsi forma e sostanza.

7 – LOGISTICA E CONVIVIALITA’
Le navette che trasportano il pubblico, le occasioni conviviali non esclusive ma per molti, i momenti di incontro fra artisti e spettatori in località fantastiche delle dimore sabaude, fanno si che negli anni Teatro a Corte abbia creato una modalità di ragionare sulla dimensione dell’accessibilità delle arti e dei linguaggi dell’ibridazione che ha poche analogie in Italia. Facendo mente locale, non vengono in mente molte altre occasioni di organizzazione su un territorio potenziale così ampio, e che comprende così tanti eventi e momenti di accessibilità e apertura. Quest’anno erano previste finanche visite guidate per gli spettatori nelle dimore sabaude prima degli spettacoli, e gli altri anni la possibilità per chi veniva da fuori di avere la Torino Card per i musei. Un ragionamento ampio sulla dimensione del turismo culturale che per organizzazione e capacità di innovarsi è difficile incontrare altrove. E’ un fatto. Sarà perché comunque il circuito piemontese negli anni ha saputo far gruppo, fra comuni interessati, soprintendenze, istituzioni ecc… ma questa cosa, da metà del primo decennio del 2000 in poi ha iniziato a funzionare. Non è un caso che le Olimpiadi di Torino siano state nel 2006 e il primo grande finanziamento al progetto Teatro a Corte sia arrivato nel 2007, con un progetto triennale di valorizzazione di questi luoghi attraverso il dialogo con lo spettacolo dal vivo.

8 – IL DIALOGO E LE RELAZIONI CON ISTITUZIONI E MONDO DEL LAVORO
Perché a volte non ci si pensa, ma allestire in luoghi incredibili, avere autorizzazioni, permessi, ponteggi, americane, migliaia di persone in questa o quella reggia, maestranze, lavoratori del pubblico chiamati a straordinari con accesso a luoghi d’arte in orari spesso notturni fra fine luglio e inizio agosto è cosa che non riesce a tutti dappertutto. A Roma sono bastate due gocce per far chiudere il Maxxi a ferragosto… Qualcuno sta indagando ma si resta interdetti, come pure sul caso Pompei dell’assemblea sindacale. Quindi fra permessi, straordinari, eccecc, ogni edizione di Teatro a Corte sembra un miracolo per quanto c’è sui palchi ma ancor più per quanto c’è attorno. Questo è un tema che viene ampiamente affrontato nel contributo video.

9 – IL GRANDE E IL PICCOLO
Teatro a Corte è un festival che ha saputo coniugare la grandezza di allestimenti fra i più complessi e spettacolari ospitati in Italia (come quello di Groupe F a Venaria nel 2007 per la riapertura della reggia con quasi 10.000 spettatori, che Beppe Navello ricorda nel videoreportage che proponiamo in calce a questa riflessione) con microallestimenti su forme di teatro in piccolissimo, come quelle che sempre a Venaria, ma fuori dai cancelli, accoglievano il pubblico: indimenticabili per chi le ha sperimentate le creazioni di audioteatro de La voce delle cose, un sodalizio artistico assai originale di Bergamo, capace di far costruire a chi partecipava, forme di narrazione tramite oggetti e audiopercorsi guidati, in modo da trasportare anche gli adulti in un universo creativo quasi infantile e fecondo, non sovrastrutturato ma ugualmente potente. Una cifra questa, che a suo modo investe il festival.

10 – E POI, DEO GRATIA, L’ARTE
E poi, anche qui, dulcis in fundo, l’arte. Non sono mai andato via da Teatro a Corte senza aver visto qualcosa che avevo voglia di segnalare, raccontare, che mi aveva stupito, convinto, avvinto. Ho visto anche cose medie, ovvio, o che mi hanno scaldato meno, ma nel complesso, se penso agli anni e alle edizioni in cui ho seguito il festival, ai luoghi a cui ho avuto accesso, al fissarsi di immagini nella memoria, fra arti, stranezze, ibridazioni, potenziale evocativo, penso che si sia sempre realizzata un’alchimia. E anche qui, occorre dire, che oltre al sostegno economico, alla capacità e all’iniziativa del management, l’ingrediente principale del festival è la cura. Al dentro e al fuori. A chi c’è e a chi arriva. A chi c’è e a chi ci dovrà essere.

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L’urlo di identità mancanti: nel NEVER FOREVER di Falk Richter

FRANCESCA GIULIANI | La solitudine assuefatta da scuri suoni graffianti avvolge e sprofonda figure sclerotizzate in una sorta di virtualità comunicativa e identitaria portata all’ennesima potenza. Chi sono? Uomini e donne d’oggi, racchiusi in gabbie di metallo, isolati l’uno dall’altro da pareti trasparenti. Sembrano in ascolto ma solo di loro stessi. Vivono in un mondo fatto di pensieri esauriti e si costruiscono identità sociali e politiche attraverso le immagini che il web – facebook e you tube – rimanda.

ph. Arno Declair
ph. Arno Declair
È questo il ritratto di mondo che fuoriesce dal lavoro di Falk Richter visto alla Biennale Teatro 2015. In NEVER FOREVER tutti i personaggi soffrono di una qualche mancanza che li scollega dalla realtà. C’è una terapeuta che si fa troppo coinvolgere dalla follia della sua paziente. C’è un professore universitario che invece di far lezione al suo uditorio assente – studenti cronicamente assuefatti dalla dipendenza dallo smartphone – racconta le sue vite sessuali infarcendole con frammenti di citazioni politiche. C’è un uomo che non trova tempo disponibile per vivere la storia d’amore con una donna che ha appena conosciuto. C’è una ragazza che, non possedendo nessun contatto con il mondo reale, si crea una vita virtuale. C’è un padre che non può coltivare l’amore per suo figlio a causa dell’ex-moglie che l’ha allontanato. C’è un’ex attrice, la famosa Ilse Richter, una delle prime interpreti dell’opera di Thomas Bernard, che vive solo nella memoria dei personaggi che ha interpretato e non prende in nessuna considerazione la figlia che si sente sola.

Amalgamando azioni e personaggi attraverso la combinazione frammentata di storie narrate, gridate, e di coreografie convulse di corpi spasmodici che continuamente crollano a terra come se le ossa si sfaldassero l’una sull’altra, la scena tumultuosa e assordante di Richter si blocca fotograficamente su un eterno presente immobile, fisso, dal quale non sembra esserci scampo. Non c’è una definizione precisa di spazio in questa pièce, il luogo si fa indefinito: una città assente, che richiude i suoi abitanti in scheletrici appartamenti o li getta in alberate piazze vuote. E non ci sono caratteri evidenti: il solo protagonista resta il web, letto come un dispositivo in grado solo di costruire e proteggere l’isolamento delle persone.

Ogni legame comunicativo si sfilaccia e i monologhi non si connettono in nessun modo l’uno all’altro: restano istantanee di personaggi alienati, intirizziti da un abbandono che ormai sembra cronico. Gli avvicinamenti o i possibili contatti dei danzatori del Total Brutal, ensemble del coreografo israeliano Nir de Volff, avvengono sullo sfondo, quasi fuori scena, frangendosi ben presto in movimenti convulsi e disperati.

Nell’ibrido scenico di sequenze coreografiche, monologhi e malinconici quadri – tipico del teatro di Richter – la negatività del presente è raccontata in modo sicuramente evidente. Ma può essere la negatività stessa, l’urlo e lo shock, la forte musica elettrica, tempestata da quei ritmi tecno fin troppo ammiccanti alla cultura underground berlinese, e la scena algida e metallica gli unici tramiti per descrivere e mettere in scena il mondo contemporaneo? Questa visione molto parziale e riduttiva dell’oggi sembra il pretesto per conservare intatto quel formato drammaturgico e scenico, caro al regista tedesco, che è oggi vincente sulle scene europee.

 

 

L’Ifigenia di Miriam Palma e Lina Prosa: una suadente esecuzione vocale

11845121_860899490664726_6091794929931591776_oMARTINA VULLO | Giovedì 6 Agosto, per la produzione del festival teatri di pietra Sicilia, è andato in scena, nella location del giardino della Kolymbetra presso la Valle dei Templi di Agrigento, Esecuzione/Ifigenia, il lavoro drammaturgico frutto della collaborazione fra la regista Lina Prosa e l’attrice Miriam Palma sulla tragedia Ifigenia in Aulide.

L’eroina euripidea quest’anno aveva già calcato i palcoscenici siciliani, abbigliata in stile orientale, nel riadattamento di Tiezzi che, alla luce degli avvenimenti attuali relativi alle derive terroristiche legate all’integralismo religioso, ha voluto porre l’accento sull’attualità della tematica del sacrificio religioso.  Se in quel contesto il lavoro drammaturgico aveva rispettato fedelmente i canoni stilistici della tragedia, in questo caso abbiamo a che fare con qualcosa di profondamente diverso.

Scenografia essenziale: blocchi di fieno al centro e intorno alla scena. Un tamburello al lato e il tempio dei Dioscuri a fare da sfondo fra ulivi e alberi di agrumi. Una semplicità in grado di restituire con efficacia il senso della grecità.

L’evento a cui assistiamo sfugge a classificazioni facili.

Si potrebbe parlare di un one-woman-show considerando che l’attrice – tailleur con pantalone nero, come la maglia intima sotto la giacca e foulard fantasia – sembra essere l’unica presenza in scena. L’esordio è cantato. Questo può farci pensare ad una qualche forma ibrida di musical. Potrebbe trattarsi anche di uno spettacolo centrato sulla tradizione dialettale, dato che la canzone è in lingua napoletana. Di certo le parole della canzone hanno l’aria di un prologo che narra l’antefatto. La grecità di quest’ultimo elemento tuttavia rappresenta solo una piccola contaminazione. L’attrice come un aedo fra grecità e tradizione medievale, con i ghirigori di trucco agli occhi e le labbra rosso fuoco, utilizzando la voce, il tamburello e più raramente il supporto di una base, inizia a narrare la storia dell’antico sacrificio.

Andando avanti nella performance, canti, rumori e suoni valicano i rispettivi confini e vengono sapientemente mescolati lasciando gli spettatori sospesi nella fascinosa ambiguità in grado di trasformare il filo di un discorso in un alito di vento e ancora nel rumore di pugni in lotta.

La voce, il tamburo, alcune pietre e i tacchi delle scarpe dell’attrice: qualsiasi elemento è votato a divenire strumento di questa partitura sonora. Persino i rumori ambientali mescolandosi alla voce narrante, sembrano conferire alle parole una certa solennità.

La partitura sonora che si viene a creare – rafforzata dal titolo scelto per l’opera – suggerisce il modo in cui interpretare questo lavoro di sperimentazione drammaturgica. Quella di Ifigenia, lo ha affermato in diverse occasioni la stessa Lina Prosa, è un’esecuzione sia in quanto sacrificio, che in quanto realizzazione di una partitura.

D’altronde una ricerca su questo fronte non ci stupisce da parte della Palma, cantante di formazione operistica. L’artista, quasi seguendo le impronte di artisti come Demetrio Stratos o Fatima Miranda (ma per altri versi anche da Bene e altri grandi del teatro legati all’indagine sulla vocalità), da molti anni porta avanti un’esperienza partita dalla ricerca sulle caratteristiche della musica siciliana e le sue affinità a quella mediorientale, andata a confluire poi in un’indagine sul suono in senso lato.

Di fatto per quanto Esecuzione/Ifigenia sia il prodotto di una doppia ricerca – testuale e vocale – l’elemento sonoro nella sua materialità prevale notevolmente: la magnetica voce sopranile dell’artista, in grado di raggiungere con tranquillità inaudita anche toni molto gravi, ha così conquistato l’attenzione del pubblico con le proprie modulazioni e variazioni repentine di volume (dal sussurro al grido) e timbro.

L’Agamennone dalla voce roca e quasi metallica che ne deriva, avrebbe suscitato inquietudine anche parlando una lingua incomprensibile, seppur sostenuto da movenze il cui connubio espressivo, unito alla caratterizzazione del personaggio instabile e vanaglorioso, ha restituito l’immagine di un uomo letteralmente posseduto dai principi dominanti nella sua società.

Diversa è la presenza/assenza di Ifigenia. Onnipresente nei ricordi rievocati dal padre o come personaggio narrato, ma mai come voce narrante. Il suo silenzio dà enfasi al ruolo della vittima sacrificale. La scena dell’esecuzione che anticipa la conclusione costituisce indubbiamente il momento di massimo pathos. L’epilogo che smorza la tensione fino ad allora accumulatasi, punta nuovamente il focus su un Agamennone macchietta e sulla sua barca rivolta verso il mare, accentuando la chiave del contrasto su cui pare centrarsi l’operazione di Miriam Palma e Lina Prosa.

Un contrasto funzionale nella scelta della doppia accezione di “esecuzione” del titolo, che si rivela una soluzione felice quando si materializza nei mutamenti di tonalità, timbro e colore della voce dell’artista. Interessante il contrasto fra drammaticità ed ironia del testo, così come l’elemento dialettale che aggiunge valore a vari momenti della drammaturgia, connotandoli emotivamente. Meno magnetico si è rivelato l’uso della lingua greca che ha un pò appesantito la combinazione fino ad allora funzionale degli elementi etnici. Anche il testo gioca sui contrasti emotivi, pur con momenti piuttosto ermetici. Certo, come già anticipato, l’opposizione fra l’elemento vocale e testuale si è risolta in favore del primo.

Una risoluzione tuttavia inevitabile quando c’è in gioco una forte presenza che in questo caso è data dalla voce. Un po’ come è accaduto all’Antonio laringectomizzato del Giulio Cesare della Societas Raffaello Sanzio, anche in questo caso è la voce nella sua autoreferenzialità a colpire l’attenzione. Se in Castellucci la particolarità risiedeva nella condizione di fragilità e malattia, in questo caso avviene l’esatto contrario: siamo di fronte ad un’estensione vocale straordinaria, viva, potente, utilizzata con maestria, che fissa nella memoria una Ifigenia sonora.