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giovedì, Aprile 18, 2024
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Se un lago si trasforma in palcoscenico: Silvia Frasson e la sua martire santa

Silvia Frasson nel monologo La Santa. Ovvero quando Mustiola volò sul lago
Silvia Frasson nel monologo La Santa. Ovvero quando Mustiola volò sul lago
Silvia Frasson nel monologo La Santa. Ovvero quando Mustiola volò sul lago

LAURA NOVELLI | Culla dell’Etruria settentrionale ed importante centro della Toscana medievale, Chiusi sorprende per le numerose bellezze architettoniche ed artistiche custodite in ogni angolo del suo territorio. Forse però non tutti sanno che ai piedi del ridente borgo toscano si apre un lago circondato da colline e vigneti e un tempo unito alle acque del Trasimeno, con cui formava un unico grande bacino lacustre. Nei giorni scorsi questo lago, con tanto di piccolo porticciolo ombroso pullulante di ninfee, è stato uno dei set più originali e affascinanti della rassegna Orizzonti. Festival delle nuove creazioni nelle arti performative svoltasi dal 31 luglio al 9 agosto in diversi spazi della bella cittadina del senese.

Giunta alla tredicesima edizione e diretta per il secondo anno da Andrea Cigni, la vetrina ha avuto un leitmotiv quanto mai emblematico: il Mediterraneo. Mediterraneo come crocevia di culture e civiltà. Come incontro di stili, tendenze, forme e linguaggi espressivi. Come superamento di barriere non solo geografiche ma soprattutto – e tanto più – etiche, ideologiche, sociali. Su questo silenzioso lago Pippo Delbono, ospite del festival con lo spettacolo/concerto La notte, ha girato  alcune scene del film che presenterà a Locarno, complice il prezioso aiuto dei remaioli chiusini. Sulla sua riva più prossima al porticciolo, Andrea Adriatico ha riproposto la felice regia de L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi e sempre su queste acque verdi di vegetazione e riflessi arborei l’attrice/narratrice Silvia Frasson – tra i suoi ultimi lavori Quando non avevamo niente e poi arrivò il signore della porcellana e Amore e ginnastica (un Edmondo De Amicis riscritto in forma di monologo da Stefano Massini) – ha raccontato la storia di Santa Mustiola, martire cristiana del III secolo che, in fuga dai persecutori romani,  si dice abbia attraversato il lago usando il suo mantello come barca e, grazie al miracoloso evento, sia approdata proprio a Chiusi  diventandone la patrona.

Silvia/Mustiola aspetta il pubblico su una zattera coperta da un velluto rosso e stagliata in mezzo a quelle acque tranquille, solo lievemente increspate da qualche alito di vento. Noi spettatori arriviamo in piccoli gruppi, seduti su agili imbarcazioni che si trasformano nel luogo privilegiato della nostra inconsueta visione. Ombrelli bianchi per ripararci dal sole; qualche onda più forte scuote ogni tanto la calma del momento e un panorama mozzafiato ci restituisce l’idea di un contatto profondo e incontaminato con la natura. Con la semplicità di uno stile fabulatorio che tanto ricorda Gabriele Vacis e Laura Curino, ma anche Marco Baliani, gli accenti mimici di Marceau e un certo levità “barbiana”,  la Frasson (originaria di Chiusi e formatasi alla Paolo Grassi di Milano, all’interno della cui Summer School insegna proprio “tecniche di narrazione e creazione del racconto”) ci parla della Roma paleocristiana, dei primi martiri della Chiesa, di una giovane ragazza di sangue nobile che ha il coraggio di sfidare i suoi aguzzini con la sola forza della fede. Abito nero lungo, capelli lasciati liberi di assecondare il vento, occhi grandi e vivi, braccia e mani sempre in movimento, l’attrice costruisce una partitura mimico/vocale molto espressiva e al contempo lineare, snella, fruibile. D’altronde, in quello scenario così fuori da ogni tempo e ogni spazio, non le serve davvero altro per regalarci le immagini di una storia di morte e rinascita, sacrificio e redenzione che non vuole essere una semplice storia locale bensì una parabola universale contro le discriminazioni e le persecuzioni religiose di sempre.

Il monologo, intitolato La Santa. Ovvero quando Mustiola volò sul lago e prodotto proprio da Orizzonti Festival, fa parte del trittico Visitazioni che l’artista ha realizzato per Chiusi, ereditando un format già felicemente sperimentato l’anno scorso da Paolo Panaro e mettendo insieme tre assoli pensati site specific. Alla ben nota città sotterranea chiusina, la Frasson ha destinato la narrazione de Le mille e una notte, mentre presso gli antichi resti di un lavatoio ha raccontato due novelle del Decameron di Boccaccio (Masetto, la prima della terza giornata, e Guglielmo Rossiglione, la nona della quarta giornata), passando con fluida ma compita disinvoltura dai toni farseschi e ironici della prima, storia di gioie sessuali elargite alle monache di un convento da un prestante contadino, alla tragedia passionale della seconda, dove si narra – e parrebbe un voluto contrasto – la terribile fine di un amore fedifrago. Anche qui c’è lei da sola, vestita di nero, su un palcoscenico naturale che mette le ali all’immaginazione chiedendoci di credere in ciò che ascoltiamo e di vedere ciò che non vediamo. E noi spettatori – adolescenti e bambini compresi – stiamo al gioco volentieri perché lo sappiamo che in questa semplicità si annida il senso ultimo del teatro.

Nei dieci giorni della rassegna (www.orizzzontifestival.it) di spettacoli teatrali  a Chiusi se ne sono visti molti, e anche di ottimo livello: insieme a Delbono (che qui ha fatto debuttare la versione definitiva del già citato La notte, monologo autobiografico intriso di riferimenti a Koltès), il programma ha proposto, ad esempio, Le Metamorfosi (di forme mutate in corpi nuovi) di Roberto Latini e Thérèse et Isabelle di Valter Malosti, oltre ad alcune produzioni affidate alla giovane Compagnia Festival Orizzonti e a una nutrita rosa di attività laboratoriali. Non da meno tuttavia il cartellone della danza (basti sottolineare la presenza di Adriana Borriello), quello della musica (ricordo almeno Paolo Fresu e il pianista/collega/amico Roberto Cipelli in stato di grazia e il raffinato concerto barocco intitolato Furie, dolcezze, pianti e tormenti) e quello molto corposo dell’opera lirica, snodatosi in due allestimenti di calibro quali Cavalleria rusticana di Mascagni e La voix humaine di Poulenc (per il quale rimando al pezzo di Matteo Brighenti La mia storia d’amore con la voce: intervista a Tiziana Fabbricini pubblicato su PAC il 9 agosto) . A chiudere la manifestazione, una serata/intervista a Franca Valeri condotta live da Pino Strabioli e straripante di aneddoti, ricordi, arguzia, intelligenza e sincera commozione.

E se non è mio compito stare qui a cantare le lodi di un festival che senza dubbio ha mostrato una compattezza di visione (e di “intenzione”) molto forte, mi sembra tuttavia importante anticipare qualcosa sul prossimo anno, convinta che la continuità di un progetto artistico come questo sia comunque segno di lungimiranza e impegno culturale appassionato. “Orizzonti 20016 si intitolerà #follia – chiarisce Cigni – e su questo tema lasceremo ampia libertà agli artisti coinvolti. Proseguirà il percorso già intrapreso dalla Compagnia del Festival e apriremo la vetrina con un’opera lirica molto ambiziosa, un allestimento della Traviata di Verdi con un’orchestra di quaranta elementi, buona parte dei quali giovani musicisti provenienti da diversi conservatori italiani. Mi sento di dire che vogliamo essere un piccolo spicchio di luce nel panorama dei festival nazionali e che il coraggio di fare certe scelte non ci mancherà”. Sul fronte prettamente teatrale ancora tutto top secret:  “per ora – mi confida il direttore artistico – posso solo svelare la presenza di Babilonia Teatri con una nuova produzione e il ritorno di Roberto Latini”.   

“La mia storia d’amore con la voce”: intervista a Tiziana Fabbricini

La Voix Humaine @ Flashati Cinefotoclub
La Voix Humaine @ Flashati Cinefotoclub
La Voix Humaine @ Flashati Cinefotoclub

MATTEO BRIGHENTI | “Io insegno, non canto più. Ho detto di sì perché me l’ha chiesto il direttore artistico Andrea Cigni, un carissimo amico che stimo, con cui ho anche lavorato in passato.” Tiziana Fabbricini, la Traviata degli anni Novanta, debutto giovanissima alla Scala diretta da Riccardo Muti e 150 repliche nel mondo (“vuol dire 300 in linea generale, io cantavo tutte le prove, che però non si contano”), ha detto sì all’idea matta e vincente di fare del Festival Orizzonti di Chiusi una manifestazione riconosciuta a livello nazionale per la sua multidisciplinarietà. Teatro, danza, musica classica, contemporanea e opera lirica si tengono strette come le vie del piccolo borgo nel senese. Con la tragedia lirica La Voix Humaine (La Voce Umana), un atto unico del compositore francese Francis Poulenc, tratto dall’omonima piéce di Jean Cocteau, il soprano di Asti è riuscito a unire canto e intepretazione. “L’ho eseguita diverse volte. Qui è stata nella forma più classica, due mobili neri, divano rosso, telefono e il pianoforte di Andrea Dindo. Tutto era concentrato sull’interpretazione della cantante: doveva fare tutto lei, non c’era nulla che potesse aiutarla.”
Tiziana Fabbricini mi parla dritto negli occhi nella ‘sala stampa’ del Festival, il chiosco nei giardini del Duomo. Il racconto della distruzione di un amore attraverso “il comune accessorio dei drammi moderni, il telefono”, come scrive Cocteau, lascia presto il tempo e lo spazio a domande e risposte sui ricordi e i progetti di una figlia delle note, una virtuosa dell’animo che ascolta ancora il canto del talento.

A chi appartiene la voce che ha interpretato?
“È di una donna molto angosciata, che tenta di nascondere il suo dolore, ma alla fine non ce la fa, non può fare a meno di tirarlo fuori. Non ha nome: Jean Cocteau non intende definirne l’identità. Gli basta dire che è una voce umana in quanto è espressione di un’interiorità, una spiritualità. La voce di per sé, se non comunica sentimenti, è solo un suono. ”

Che rapporto ha con l’uomo dall’altra parte della cornetta?
“Lei non vuole interrompere la loro relazione, ma non può succedere altrimenti, perché lui vuole che questa storia finisca. Dalle risposte di lei si intuisce che quest’uomo è con un’altra, ma con chi? La moglie? Una nuova amante? Non è sincero e questo la angoscia sempre di più.”

Com’è intervenuto Poulenc su Cocteau?
“La musica è straordinariamente adatta al testo, aderisce perfettamente a quello che la donna dice e prova. Quindi si possono trasmettere, se la cantante è anche attrice, le emozioni. Ed è quello che a me piace. Da sempre, da subito, ho cercato di comunicare il personaggio, di far sentire il ruolo, perché possa diventare spontaneo, perché il canto possa restituire i sentimenti che prova il personaggio. Sono cose indissolubili, non si possono cantare solo le note, è impensabile.”

Di grande intensità drammatica fu Anna Magnani, che interpretò La Voix Humaine in Amore, film del ’48 diretto da Roberto Rossellini.
“Anna Magnani aveva una passionalità molto forte, più propensa all’espressione popolare che a quella raffinata. Quindi l’interpretazione che ne diede, secondo me, fu molto marcata, anche troppo. Io cerco di essere più elegante, meno ‘verace’, di non diventare mai volgare, eccedere o urlare.”

Foto di Flashati Cinefotoclub
Foto di Flashati Cinefotoclub

C’è differenza tra cantare e dire un sentimento?
“Nessuna, per me non deve essercene nessuna. Bisogna possedere una tecnica vocale che possa permettere di parlare cantando. Non è una cosa che fanno tutti, io ho sempre dato grandissima importanza alla pronuncia. Se non si capiscono le parole non si può comprendere bene, a livello emotivo, quello che prova l’interprete. La musica fa tanto, ma non fa tutto. Qui più che mai.”

Che legame c’è, se c’è, tra la donna di Cocteau e le sue tante ‘Violette’?
“C’è l’universo femminile del sentimento, che è straordinariamente uguale in tutti i tempi, un modo di sentire l’amore fondamentalmente diverso da quello del maschio. Avendo vissuto un’esperienza abbastanza simile posso dire che Cocteau e Poulenc, pur essendo uomini, hanno raccontato noi donne in maniera straodinariamente vera.”

Violetta l’ha cambiata nel tempo?
“Non mi ha cambiata, io mi sono espressa da subito in quel modo, io ero già così da ragazza. Ho debuttato nel ruolo a 21 anni dopo aver vinto a Rieti il Concorso Internazionale per Cantanti Lirici ‘Mattia Battistini’, bandito da Franca Valeri, anche lei quest’anno a Orizzonti, e dal suo compagno. Sentivo Violetta così come l’ho interpretata anni dopo, alla Scala, con il maestro Muti. Certo, avendola cantata tante volte ho potuto perfezionarla, ma il mio modo di approcciarmi a questo personaggio è sempre stato identico, non ho potuto metterci qualcosa che non ci fosse già.”

Perché ha scelto di diventare una cantante lirica?
“La musica me l’hanno trasmessa i cromosomi. Mia mamma cantava, era bravissima, poi si è sposata e mio papà non ha voluto seguisse la carriera. Cantava in casa e io imparavo le opere a memoria con estrema facilità. Anche mio papà aveva una voce bellissima, suonava la chitarra. A 4 anni mi comprarono un piano giocattolo con un’ottava e mezza: da quel momento non ho più avuto altro gioco. Si sono accorti che dovevo studiare musica, è stata una cosa molto spontanea. Sono entrata in conservatorio per studiare pianoforte, poi mi sono iscritta alla classe di canto. A 18 anni sono entrata nel Coro del Teatro Regio di Torino dopo aver vinto un concorso. Ero la più giovane, vivevo in teatro, compresa la notte, facevo il giro con la guardia notturna. Stavo lì, vivevo lì. A 29 anni il debutto alla Scala con Traviata diretta da Riccardo Muti, come ho detto prima. Ho fatto tutto molto presto, perché il talento è precoce, si vede, è evidente.”

C’è qualcosa che rimpiange di non aver detto o fatto con il canto?
“Ci sono tantissime cose che avrei voluto fare e non ne ho avuto l’occasione, il cabaret di Kurt Weill, la Norma: quando stavo per debuttare mi sono ammalata e ho dovuto rinunciare. Uno vorrebbe cantare tutto, ma non si può.”

Oggi lei insegna: avrà modo di interpretare Norma attraverso le sue allieve.
“Potrò farlo con chi ha le qualità giuste, certo. Il mio lavoro di adesso, forse, è più importante di quello di prima. Tutto il mio impegno possibile è far capire che l’arte deve essere un bisogno intimo, una necessità, così come lo è stata per me. Altrimenti è solo capriccio, velleità e non porta a niente di buono.”

La Voix Humaine
di Francis Poulenc
Tiziana Fabbricini, soprano
Direttore Sergio Alapont
Maestro al pianoforte Andrea Dindo
Regia, scene e costumi Renato Bonajuto
Produzione Festival Orizzonti Fondazione
Venerdì 7 e sabato 8 agosto, Chiostro di San Francesco, Chiusi.

Seconda tappa ad Avignone OFF’15

VALENTINA SORTE| visuelDopo la videointervista a Drammatico Vegetale e a Mirabilia Teatro, abbiamo incontrato una giovane compagnia di Modena:  Peso Specifico Teatro. Oltre a parlarci del loro “Barbe-bleue”, originale rivisitazione dell’omonima favola di Perrault, il gruppo ha condiviso con noi alcune riflessioni sulla loro partecipazione al festival. Ad arricchire il nostro reportage, si aggiunge anche la voce preziosa di Lucia Pozzi, testimone diretta di questi 50 anni di OFF. Buona visione!

GUARDA QUI IL NOSTRO SECONDO REPORTAGE SU AVIGNONE OFF’15

Il successo in 10 perchè: vol.1 – Il Festival Drodesera Fies

foto Andrea Pizzalis

RENZO FRANCABANDERA | Questa estate post crisi ha iniziato a spingere molti, fra critici e operatori, stretti da contingenze legate ad erogazione fondi, riassestamenti territoriali, tagli ai budget, a ragionare su alcuni fatti stilizzati che hanno determinato e determinano in certe realtà il raggiungimento di obiettivi desiderabili per la sostenibilità degli esperimenti artistici.

Ne consegue anche l’abitudine di volersi interrogare sui motivi del successo, così da capire se esistono pratiche virtuose che aiutano a determinare l’affermazione.
Iniziamo quindi ad esaminare alcuni casi su cui il giudizio dei partecipanti e degli operatori è abbastanza netto da tempo, per riflettere, condividere, discutere, confrontarsi.

1 – RIPENSARSI
Dal 26 luglio al 2 agosto 2015 negli spazi di Centrale Fies si è tenuta la 35esima edizione di Drodesera, un festival ad originaria vocazione territoriale e “di strada”, figlia degli anni 70, potremmo dire, ma che nel decennio 2000-2010 in particolare ha subito una nettissima inversione per arrivare a caratterizzarsi come uno dei pochi centri/incubatori italiani dedicati alla declinazione più performativa delle arti, un progetto assai articolato che si propone a livelli multipli, dal Festival alla Factory, dal Centro di Irradiazione culturale e produzione ad Incubatore. Centrale Fies, come luogo e come concetto, è un esempio della capacità di ripensare e ripensarsi, e pur nello stucchevole dibattito fra figo e fighetto, è uno dei pochi e per certi versi l’unico centro in Italia capace di affermarsi a livello internazionale come sede ospitale per performing art, exhibit, site specific, video ed ogni forma di spettacolo dal vivo, di eventi come festival, esposizioni, manifestazioni; ma è anche un sito in grado di ospitare corporate meeting, tavole rotonde, work-shop. Era un castello, poi un centrale idroelettrica, e adesso incubatore per le arti. Se non è ripensarsi questo…

2 – COMUNICARE
E’ innegabile e può piacere o meno, ma il segno distintivo di Fies è la comunicazione all’esterno. Perchè poi, nella sostanza, a Dro ci sono gli stessi ingredienti che ci sono in moltissimi altri festival, diremmo che almeno per quanto riguarda il Festival in sè, poco lo distingue da quanto si trova altrove, ma a Dro comunicano tutto molto molto meglio che altrove. E questo è un dato di fatto. Pur nello stucchevole dibattito fra figo e fighetto, il dato di fatto nudo e crudo è che Dro ha imposto un marchio, un concept, Fies in meno di dieci anni, dopo la svolta, diciamo, è diventato un nome noto in Italia e non solo. Quanti Festival possono vantare tutto questo, in un’Italia di campanili e festival d’estate? Non bastano solo i soldi di una regione ricca e attenta, che ha sostenuto il progetto in molti modi, a spiegare. Si può continuare ad avere l’anima della sagra ma spostandosi poco poco nel terzo millennio?
3 – IL PUBBLICO

Dal punto 2 discende che questo posto ha saputo intercettare opportunità di dialogo con circostanze e interessi anagraficamente molto vari. Quasi tutti i ragazzi coinvolti anche solo negli stage parlano altre lingue, accolgono in modo “contemporaneo”, non stanno a chiamare la cugina per tradurre dall’inglese con l’ospite esotico, e anzi l’esotico è di casa. Mentre ero lì quest’anno ho visto arrivare giovani ospiti ma anche operatori e pubblico da mezza Europa, dalla Slovenia come dalla Germania. Pur nello stucchevole dibattito fra figo e fighetto, sul tavolo ci sono anche questi risultati.

4 – OLTRE CONFINE
Che va bene stare attenti alle compagnie del territorio… Che va bene che l’assessore se non fai fare le giornate ENPALS a tizio o caio poi ti rompe, ma con questa filosofia, quest’anno più che mai, in giro sono stati infilati nei festival cose davvero al limite dell’imbarazzante. Un’ondata di filodrammatiche ed esperimenti paraparrocchiali che sono un dazio assai impegnativo da pagare per chi lavora sul territorio. Anche perchè, come diremo nelle prossime puntate, si può rimanere puri anche in povertà, aguzzando ingegno e intelligenza. Dro da sempre guarda all’estero, porta in Italia artisti che non si vedono se non qui. Mettiamo il caso di Philippe Quesne, ad esempio, da tre quattro anni fisso nella loro programmazione, la cui estrosa genialità avevo segnalato raccontando dell’edizione 2010 del Festival di Avignone dove con il Vivarium Studio proponeva “Big Bang”, un esperimento oltre il linguaggio, che saltava la comprensione, il senso logico. Una sorta di fumetto raccontato in uno spazio asettico. E per molti versi anche il suo lavoro proposto nell’edizione di quest’anno ha la stessa cifra. Quesne è uno dei pochi artisti per i quali il principio di impredittibilità governa la creazione. E questo è un valore, che spesso va oltre persino l’esito finale.

5 – MA ANCHE DENTRO
E poi guardando all’Italia, qui da anni c’è la sperimentalità più interessante condensata in una settimana. I grandissimi della regia non ortodossa, le compagnie della ricerca semiotica, i nuovi soggetti della creatività performativa. Poi magari il tutto viene condito di foto su Instagram con l’effetto vintage dell’ Iphone, ma anche dando spazio a giovani occhi armati di obiettivo, come lo sguardo felice dietro la macchina fotografica di Andrea Pizzalis, per esempio (per nominare giusto l’ultima delle creatività aggiuntesi a questo gruppo). Pochi hanno dato a compagnie in costruzione tre anni di fiducia e sostegno. E quei pochi hanno giocato un po’ più sul sicuro di come ha fatto Fies. Perchè dare a due ragazzini poco più che ventenni che agitavano pezzi di ossa dietro una tenda bianca una residenza triennale non era da tutti. Anzi. E pur nello stucchevole dibattito… dal 2007 i soldi nel piatto per far nascere e/o crescere Pathosformel, Grilli, Cuscunà, Teatro Sotterrraneo, Codice Ivan, Anagoor, giusto per dirne qualcuno, ce li hanno messi loro. E loro, che hanno saputo vedere più lontano di altri evidentemente, sono cresciuti con questi nomi, aiutandoli (a differenza di altri) a circuitare in modo feroce, invece che farsi interpreti di quella volgare abitudine di produrre per un giorno solo e alimentare le statistichine per il ministero e avere l’elemosina.

6 – IL BRAND CAPACE DI PROPORRE
Il risultato di cui al punto 5 si riverbera in questo punto 6. Perchè il brand Fies è diventato così forte da essere capace di proporre e imporre nomi che diversamente non farebbero smuovere pubblico nè operatori, andandoli a scovare in mezza Europa, dall’Islanda in giù. E così nomi come Söderberg & Willekens, Kovanda, o Ómarsdóttir e Jóhannsson vengono coraggiosamente proposti insieme ad autorevoli nomi italiani e stranieri, perchè per loro garantisce il marchio. Non sale da 1000 posti ma 350-400 spettatori che ogni sera seguono, uno di fila all’altro, dai 3 ai 6 spettacoli di ispirazione mista, fra l’installazione, la performance, lo spettacolo tradizionale.

7 – IL CALENDARIO
E qui poi, viene fuori il tema di quella allucinante abitudine introdotta a metà del decennio 2000-2010 da alcuni festival, di inzuppare il programma di mille eventi in sovrapposizione uno all’altro per giunta in luoghi irraggiungibili fra loro, così che il già sparuto pubblico teatrale doveva scegliere fra due o più artisti, con il risultato, battezzato dall’antico detto meridionale “Spartisci ricchezza che diventa povertà”, che le sale di questo o quello spettacolo erano mezze vuote, mentre il pubblico e gli operatori si concentravano in pochi eventi. I forzati alla corsa e alla rincorsa facevano poi sì che tutto partisse in enorme ritardo, perchè bisognava aspettare il mitico “pullman dei critici” senza i quali non si poteva dar inizio alle feste, con scene di delirio e isteria ottuagenaria per ritmi infernali insostenibili. Calma. Qui non si sbaglia. Un treno di spettacoli uno dietro l’altro dalle 19 alle 23,30, chi vuole scende dal treno, si ferma e risale sullo spettacolo successivo, ma tutti vedono tutto, chi viene è incentivato a seguire tutto quello che c’è, e così il numero di spettatori è costante, coerente con gli intenti, respira comunità.

8 – L’ARCHITETTURA
Sarà che perfino i piloni dell’energia elettrica qui vengono illuminati in modo fascinoso, ma lo spettatore ha il senso di essere in un posto bello. L’idea del bello che non è solo il paesaggio, che pure qui c’è, ma quel poco o tanto che l’uomo può aggiungere per trasformare l’esserci in esperienza estetica e dei sensi (si veda anche la pratica installativa insistita, che quest’anno ha avuto due capisaldi ad esempio in proposte come Les Thermes di France Distraction/Belinda Annaloro, Antoine Defoort, Julien Fournet, Halory Goerger, Sébastien Vial (FR/BE), o The house of immortalities, di Mali Weil (IT) centrate nella ricerca fra luogo archetipico e conoscenza ancestrale), quel poco o tanto, dicevamo, qui c’è. E in realtà basta poco. Si, certo, magari altrove usano quel denaro per pagare un lavoratore invece che per accendere un faro sugli scogli del fiume o nel pilone dell’energia elettrica. Per carità. Però molti festival diventano spesso sfoghi per lavoretti socialmente utili che mostrano in modo volgare e bieco l’incapacità di produrre competenza, facendo sì che tutto resti manovalanza senza specializzazione. Insomma assistenzialismo della peggior specie, che spiega di per sè la debolezza di alcune direzioni artistiche rispetto ai ricatti del territorio. Pratiche queste, molto poco fighe.

9 – IL FUTURO
Fies è un festival che come altri è anche e sopratutto residenza durante l’inverno, lavoro continuativo di molti anche prima e soprattutto dopo. E l’efficacia del sistema di produzione, che ha saputo invadere i teatri italiani e che vede un nome in ogni rassegna “Altri percorsi” in quasiasi città italiana si vada a parare, ne è la prova.
Poche storie: ci sono festival roboanti con budget milionari che per anni non hanno circuitato nemmeno nelle città della provincia le loro produzioni. Il Napoli Teatro Festival da questo punto di vista è proprio l’esempio di come non vorrei un festival, con una struttura faraonica per anni incapace di vendere quello che proponeva oltre le date del Festival. Cose fatte e morte lì. Un sentimento dello spreco dell’energia umana che ho sempre trovato fastidiosissimo. Sarà che qui c’è la parsimonia trentina, ma è un dato di fatto che nulla che abbia messo piede in Fies sia andato sprecato. E questo al paese mio, è molto figo. Sa di sostenibilità, sa di futuro.

10 – E POI, DEO GRATIA, IL TEATRO
Quella roba di luci accese e spente. Di buio in sala. Di gente che respira assieme emozioni. Di creazioni di senso. Una programmazione autorevole, che messa a confronto con quella di festival votati al contemporaneo da non meno tempo, ma forse più sciatti nella scelta unitaria, ha fatto si che questa edizione, come e per certi versi persino più di altre, abbia segnato un passaggio deciso nella storia della pratica della cultura scenica in Italia. Non sono un fan della supremazia del marchio, della comunicazione spinta, della novità che si fa marketing, ma è innegabile che tutti questi elementi, che pure per molti versi contraddistinguono Fies e sono gli elementi su cui spesso si concentrano le critiche a questo progetto, qui non sono mai separati da risultati tangibili dell’azione professionale. Cioè qui il teatro si fa. E attenzione, a differenza di molti altri posti, non si fa il teatro fatto con gli spettacoli dello stesso direttore artistico che dirige la baracca. O dell’accolita dei questuanti, costretti ad umilianti anticamere. Perchè se è vero che a Fies l’immagine è molto, anche queste immagini di cui abbiamo detto e che fanno subito venire in mente molti, molti altri festival, non sono belle da vedere, e segnano lo spartiacque fra quello che dovrebbe essere il futuro di quest’arte e quello che no.

Nelle prossime puntate parleremo di altri festival, meno brand oriented, con più fumo di salamella che fumogeni in sala, ma che hanno lo stesso i requisiti dell’esperienza di successo, proprio per capire che non esiste un’unica ricetta per il buono, come la ristorazione insegna, ma molte. Con un unico ingrediente comune: la cura. Al dentro e al fuori. A chi c’è e a chi arriva. A chi c’è e a chi ci dovrà essere.

Benjamin Verdonck ad Avignone: magia e sovversione delle forme

VALENTINA SORTE|

notallwhowanderarelost, benjamin verdonck
notallwhowanderarelost, benjamin verdonck
Nella Cappella dei Penitenti Bianchi, lontano dai palcoscenici più ambiti di Avignone, e lontano dall’agitazione festivaliera delle vie adiacenti, l’artista belga Benjamin Verdonck ha presentato un lavoro molto interessante che spazia dal teatro d’oggetti alla performance, e che domanda al pubblico un’attenzione particolare.

Notallwhowanderarelost, letteralmente “non tutti coloro che vagano sono perduti”, è un vero e proprio esercizio alla visione, un invito alla percezione delle forme e delle cose. Lo spettacolo inizia con un numero di equilibrismo in cui l’artista, grazie ad un pallone e a un barattolo usati come contrappesi, riesce a tenere sospesa una sedia su due lattine di Coca-Cola. L’operazione è millimetrica. Partono i primi applausi, ma vengono subito smorzati. Non si tratta di un’esibizione di bravura, piuttosto di una “preparazione a”: un aggiustamento visivo ed “emotivo” a quello che seguirà. Un po’ come il tempo necessario alla nostra retina per abituarsi a vedere al buio. Solo che qui non manca affatto la luce, siamo in pieno giorno.

La sedia viene tolta e lo sguardo cade su una struttura in legno, al centro della scena. Una sorta di circo di Calder dalle dimensioni enormi. Misurerà almeno 6mX4m, e assomiglia a un telaio a mano. E in effetti Verdonck come un marionettista,  grazie a semplici fili di spago, si diverte a manovrare (a vista) dei piccoli triangoli in cartone, muovendoli lungo diversi binari. Ai lati, su ogni livello, dei quadrati di legno fanno da quinte e coprono parte del meccanismo. Tirando o allentando ogni volta un filo diverso o più fili insieme, l’artista crea una coreografia di oggetti molto pulita e delicata, quasi geometrica e piena di poesia. È un gioco di epifanie e sparizioni, di accelerazioni e decelerazioni, di avvicinamenti e allontanamenti. Le variazioni sul tema sono infinite, mai abusate. Al contrario ogni variazione è inattesa e apre lo sguardo dello spettatore alla “possibilità”. Non ci si stanca mai di guardare, ogni volta si vede qualcosa in più. Si comincia dalla grandezza, si passa al colore, alla velocità, e poi all’inclinazione, per finire con l’orientamento, le direzioni e le rotazioni. Il riferimento alla pittura e alle forme pure di Malevič o di Josef Albers è piuttosto leggibile.
VB!Ogni pezzo di cartone cessa di essere un semplice oggetto inanimato, perde qualsiasi utilità o usabilità e si carica al contrario di una forza astratta ed emozionale capace di proiettare il pubblico in un’altra dimensione e in un’altra temporalità, facendogli dimenticare per circa un’ora il mondo fuori. E infatti, prima di passare alla terza e ultima parte del lavoro, l’artista abbandona il suo giallo maglione e si camuffa in una specie di manichino senza testa che recita alcuni versi di J. L. Borges sul tempo: “Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco”. Questa citazione non è però l’unico momento in cui compare la parola. Durante tutto lo spettacolo, dei frammenti di frasi, incollati su alcuni pezzi di cartone raccontano una storia – la storia di un certo K. – che sembra non aver un diretto legame con la narrazione visiva ma che probabilmente ne è la genesi. La questione rimane aperta.

Notallwhowanderarelost si chiude infine con un’altra citazione pittorica. Da Malevič si passa a Rothko. Verdonck abbandona la geometria delle forme per regalare allo spettatore un autentico viaggio nel colore. Ritagliando e ricavando all’interno della sua “macchina a illusioni” una sezione rettangolare, l’artista fa scorrere pure porzioni di colore. È un gioco di sovrapposizioni e accostamenti, tanto semplice quanto efficace. L’effetto è ottenuto grazie a dei pannelli mobili che creano diverse combinazioni cromatiche e che si inseriscono perfettamente in questa drammaturgia ludica, fatta di micro-eventi e invenzione. Nella successione delle varie cromie, l’ultimo posto è però riservato al performer stesso. L’artista sembra essere diventato parte della sua opera. L’ultimo pannello colorato si alza e spunta la sua testa che lentamente inizia a ruotare per ritrovarsi all’ingiù. Fine.

Ora capiamo perché questo lavoro è stato inserito tra gli spettacoli rivolti a un pubblico più giovane: per la sua capacità di parlare, al di là dell’età, alla parte di ludica e infantile di tutti noi. Bravò! Finalmente gli applausi sono concessi e sono tutti meritati.

La Birmania del Teatro delle Albe: “Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi”

FRANCESCA GIULIANI | Tra uno schermo cinematografico immersivo e un ambiente casalingo a tratti soffocante, tra ritmi di rap birmano e incursioni di elementi sonori metallici, tra fantasmi famigliari e spiritelli magici, tra politici corrotti e militari mostruosi si muovono le gesta della Aung San Suu Kyi del Teatro delle Albe, messo in scena all’Hangar durante il festival di Santarcangelo, con la drammaturgia e la regia di Marco Martinelli e l’interpretazione di Ermanna Montanari. Il paesaggio evocato è la Birmania, così lontana dall’Europa ma così fin troppo vicina da potersene dimenticare e da poterla ignorare.

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ph. Enrico Fedrigoli
La scena si apre su un presente. È uno degli ultimi interrogatori fatti alla donna premio Nobel per la pace nel 1991. Tre grotteschi militari con maschere scimmiesche iniziano a fare domande senza senso a Ermanna Montanari, perfetta sosia di Aung San Suu-Kyi, seduta a centro palco e illuminata dalla luce inquisitoria di una lampada, senza lasciarle nemmeno la possibilità di rispondere. Da qui si retrocedere a flash back nel passato della donna che è il passato della Birmania stessa. Dalla vita politica all’uccisione del padre nel 1947 per mano dei suoi nemici politici, dal suo andarsene adolescente in Europa per poi rientrare da donna matura, madre e moglie con una carriera di studi storico-politici alle spalle, in patria, ogni passo viene sezionato in questa precisa messa in scena del Teatro delle Albe.

Siamo nella Birmania assediata dai regimi dittatoriali, isolata dal resto del mondo come lo è la stessa vita della donna, rinchiusa per oltre vent’anni all’interno delle quattro mura della sua casa, controllata a vista. Da quest’ambiente, accompagnata unicamente dai suoi libri e dalla sua mite governante, dalle presenze letterarie che spaziano da Brecht al Buddha, dalla sua spiritualità e dai suoi spettri, dai suoi ricordi e dai criminali che la circondano, inizierà ad assediare dal basso il regime testimoniando all’esterno, quando possibile, la tragica realtà che sta invadendo e percuotendo a morte il suo paese. L’esile donna in scena trasuda potenza nelle parole nei gesti e nelle azioni mentre si oppone a quel regime dittatoriale e a quelle figure che lo dominano tramite un sorriso o un semplice sguardo silenzioso, tramite l’incedere incerto di un passo che nell’eleganza della sua fisicità trae conforto e potenza.

Unknown-1La scena è semplice, i cambi d’ambientazione avvengono direttamente davanti agli occhi dello spettatore per mano degli attori (in scena, Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu con l’incursione scenica di Fagio, tecnico del suono delle Albe) che attraversano il palco rompendo la finzione fino all’apice: è il momento in cui Ermanna Montanari si rivolge direttamente alle spettatrici chiedendo un aiuto fisico, un aiuto che è un sostegno di presenza. In platea tutte le donne si alzeranno rispondendo alle richieste dell’attrice, sostenendola in quel suo percorso di democratizzazione del paese. È travolgente questo lavoro, che evidenzia come la forza e l’urgenza delle persone a liberarsi delle oppressioni e delle violenze oltrepassa le proprie necessità personali e nella sofferta lontananza le rafforza, giustificandole con un’azione rivoluzionaria, che è politica e spirituale al tempo stesso.

 

IL FILM DELL’ESTATE TEATRALE: Armunia Castiglioncello 2015

IMG_8783RENZO FRANCABANDERA | Continuiamo a ripercorrere l’estate teatrale in Italia e non solo, con la narrazione video da Avignone a cura di Valentina Sorte, i reportage sulle compagnie ospiti a Venezia di Ciommiento e Giuliani, e il racconto di alcuni festival italiani che abbiamo frequentato.

Proponiamo oggi il videoreportage per PAC su Armunia Festival Inequilibrio 2015, con le interviste ad Angela Fumarola, Fabio Masi, Simona Bertozzi, Irene Russolillo, Oscar De Summa.

CLICCA QUI PER IL VIDEOREPORTAGE
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Alto Fest: prime cose e ultime. Intervista a Gesualdi|Trono

Alto Fest Palazzo San Felice Opera retablO
Alto Fest Palazzo San Felice Opera retablO

ALESSANDRA CORETTI | Mentre Alto Fest parla già al futuro tracciando le direttrici della prossima edizione, torniamo sulle orme della quinta ripercorrendone la poetica. Diamo voce alla direzione artistica del festival, rappresentata da Anna Gesualdi, che sottolinea di non aver organizzato né un evento né uno showcase. Ha messo in piedi invece, un cantiere pioneristico con l’intento di stordire la pigrizia dello sguardo spettatoriale. Approcciarsi ad Alto Fest vuol dire aprirsi all’incontro e all’imprevisto. La nostra postura inizialmente non è stata accomodante, ma la diffidenza, dopo le prime ore, si è sciolta diventando negoziabile. Se da un lato pensiamo ancora non si possa parlare di miracolo (motto ereditato dall’edizione scorsa del festival), perché il vero miracolo, oggi, sarebbe trovare la giusta sostenibilità economica che armonizzi il valore dell’attività artistica nella sfera sociale; dall’altro crediamo che questo festival abbia avuto il grande merito di conferire centralità all’atto artistico. In un momento in cui l’arte, soprattutto in materia di politiche dal basso, stenta ad affrancarsi dallo status di supporto, la pratica performativa in Alto Fest sembra non delegare la sua efficacia al sollevamento di una “giusta” causa o a alla risoluzione di un problema contenutistico, ma è pensata come veicolo di valori intrinseci in grado di riflettersi fisiologicamente sugli spettatori. Probabilmente ponendo così il primo – determinante – tassello per il processo di rigenerazione umana.

Che cos’è Alto Fest e quali sono state le novità introdotte nella quinta edizione?

Alto Fest è un luogo di incontro per artisti provenienti da ogni parte del mondo, il programma del festival, composto da quarantaquattro interventi artistici in rappresentanza di ventisette nazioni, lo dimostra. L’edizione di quest’anno ha compiuto un significativo passo avanti con l’introduzione di “Texture – Laboratorio Internazionale di pratiche e visioni di rigenerazione urbana culture-led e performing heritage”. Abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con esperienze culturali di operatori provenienti da Olanda, Grecia, Croazia, Repubblica Ceca, con l’obiettivo di sviluppare un apparato critico, che lavori per accorciare le distanze createsi tra spettatore ed evento artistico. La particolarità di “Texture” è il non essere staccato dal progetto di cui tratta, gli operatori coinvolti infatti, oltre a portare la propria testimonianza hanno vissuto il festival, calandosi totalmente nell’atmosfera Alto Fest con gli artisti e gli spettatori, correndo insieme a loro da un capo all’altro della città; perché Alto Fest è anche questo: una corsa dalla collina alle cave di tufo di Napoli, alla scoperta di una città che si rivela sublime nonostante la miseria particolarmente esposta.

I luoghi che hanno ospitato gli interventi artistici sono dislocati in diversi rioni di Napoli, zone popolari incluse. Quali sono stati i principi-guida nella scelta delle location?

Alto Fest vuole comporre un discorso plurale – dal basso verso l’alto – e creare uno spazio di promiscuità dove il cittadino della zona più popolare possa entrare in casa del cittadino che vive in condizioni più agiate. Questo senso di promiscuità è amplificato anche dagli artisti che innestano le proprie estetiche dirompenti, pensate appositamente per il luogo in cui si esse si manifestano. Crediamo sia necessario, infatti, per sviluppare l’apparato critico di cui parlavo prima, entrare in una prospettiva di condivisione del rischio, abbandonare dunque – artisti e cittadini – la sicurezza delle strade già percorse e tentare di costruire qualcosa di nuovo.

Nella diversità dei formati artistici scelti riscontriamo la presenza di un filo rosso che attraversa i lavori: il livello di sperimentazione. Quali sono stati i parametri di selezione usati nella scelta degli artisti?

Nelle proposte che vagliamo – quest’anno, in risposta alla call lanciata, ne abbiamo ricevute duecentocinquanta – valutiamo il grado di rischio e la capacità di approfondimento, che si traducono automaticamente in un’estetica non adagiata in forme artistiche precostituite e conosciute. Per questo nel programma di Alto Fest confluiscono sia progetti in divenire: studi o work in progress, sia lavori già conclusi, nati per teatri o musei, ma pronti ad essere ripensati in nuovi contesti.

Alto Fest è diventato il megafono attraverso cui rivendicare la priorità di una riqualificazione dell’essere umano, come pensate possa attuarsi questo processo di rigenerazione?

Innestando le opere d’arte nella vita quotidiana dei cittadini, principalmente delle persone che partecipano ad Alto Fest in qualità di “donatori di spazi”, perché si crea una relazione indissolubile tra il cittadino donatore e l’artista ospitato, anzi non solo con l’artista ma anche con l’opera d’arte. L’opera infatti si innesta non si adatta; chiediamo all’artista di riformulare la domanda che è alla base della sua creazione e quando l’artista entra in uno spazio donato, essendo uno spazio abitato, entra in un luogo carico di umanità da cui paradossalmente rischia di essere schiacciato. L’artista chiede il permesso, non invade. Nasce quindi una relazione reciproca. Quando io tendo la mano verso qualcuno per donargli qualcosa, egli può scegliere se prenderla o rifiutarla, è costretto comunque a prendere una posizione, genero una domanda e quindi do corpo alla sua presenza. Non a caso il dono è il principio su cui si basa Alto Fest.

Quali sono le evoluzioni a cui state pensando per la prossima edizione del festival?

Per la prossima edizione continueremo a lavorare in una dimensione di internazionalità, caratteristica grazie alla quale Alto Fest ha ricevuto il riconoscimento di Festival d’Europa dalla Piattaforma EFFE, quindi svilupperemo ulteriormente i rapporti con le ambasciate, con gli Istituti di Cultura Internazionali affinché Napoli, la città che ha dato vita ad Alto Fest e continua ad accoglierlo, possa diventare il simbolo di un appuntamento fisso che mette in rete idee, visioni e pratiche. C’è naturalmente una visione-guida a cui tendiamo, che già si intravede nella struttura organizzativa del festival: trasformare in residenza tutti i luoghi donati, perché nelle residenze accade qualcosa di speciale. L’artista ospitato per un lungo periodo in uno spazio quotidiano, che diventa anche il suo campo d’azione, consente di accogliere una comunità nella comunità, innescando un processo di rigenerazione umana – nel suo significato più alto.

Il Riccardo III che ci divora dentro: Ostermeier ad Avignone

unnamedVALENTINA SORTE | La 69° edizione del Festival d’Avignone ha messo al centro delle sue riflessioni l’Altro: “Je suis l’autre”. E Thomas Ostermeier con il suo Riccardo III moderno  e sopra le righe ha interpretato perfettamente questa istanza di alterità.

Lo spettacolo è costruito principalmente su due livelli. Mentre il Duca di Gloucester – interpretato da un bravissimo Lars Eidinger – riesce con abilità a sedurre e manovrare tutto il suo entourage, grazie al potere della parola, il regista tedesco riesce la stessa “manipolazione” col pubblico. Nonostante la malvagità e l’efferatezza dei suoi atti, durante le 2h30 di spettacolo il suo Riccardo seduce lo spettatore, rendendolo in qualche modo complice dei suoi istinti e delle sue macchinazioni. Come? Dichiaratamente. L’operazione è molto trasparente e leggibile da parte del pubblico, e per questo motivo ancora più sconvolgente. Emotivamente si vive questa fascinazione, ma pienamente consapevoli del processo in atto. Usciti dalla sala, la sensazione è quella di essere stati ammaliati da questa figura perversa e crudele, forse non così tanto estranea e lontana da noi. Ma cominciamo dall’inizio.

Il contesto storico è la guerra delle Due Rose, in scena però i personaggi vestono e parlano la contemporaneità. Nel testo shakespeariano, Riccardo III è già un uomo sgradevole, sia nell’aspetto che nelle azioni. È un essere deforme e assetato di potere. Non esita a uccidere chiunque si interponga fra lui e la corona d’Inghilterra. Ostermeier parte da qui, dalla deformità fisica e morale del personaggio: gobbo, dall’andatura claudicante, storpio a un piede, con un casco di cuoio sulla testa e l’apparecchio ai denti. Ma piuttosto che insistere sulla sua mostruosità, agendo su un meccanismo di estraneazione e di distanza, usa le perversioni di Riccardo per fa emergere gli istinti più nascosti e inconfessati presenti in ognuno di noi. Tutto lo spettacolo gioca sull’identificazione. La sua lingua è tagliente e manipolatoria, ma corrompe e tortura chi glielo consente, come Lady Anna che dopo le prime resistenze, decide di sposarlo, nonostante per mano sua abbia perso il padre e il marito Edoardo. Grazie all’uso di un microfono – appeso a un lungo tirante elastico calato dal soffitto e trasformato in una sorta di estensione vocale della sua intimità – il Duca di Gloucester commenta con degli a parte le sue reali intenzioni e la facilità con cui gli altri si lasciano irretire. Nello spazio di questi commenti – vero homo ludens – Lars Eidinger porta il pubblico dalla sua parte.

Per questo motivo, la regia di Ostermeier mira a creare fin dal primo momento una stretta complicità fra gli attori e il pubblico. Riuscitissima in tal senso la scenografia concepita da Jan Pappelbaum, che avanza il palcoscenico verso la sala, ridisegnando il rapporto fra scena e platea in termini di prossimità e trasformando l’Opéra Grand Avignon in una specie di vecchio Globe. Questo effetto viene rafforzato da alcune inquadrature di Riccardo in primissimo piano, nei momenti più sadici o onirici della pièce. Estensioni iconiche della sua interiorità.

E forse spinto da un’eccessiva intimità col pubblico o dalla libertà di improvvisazione su cui si regge in certi punti lo spettacolo, Lars Eidinger rischia in più occasioni di uscire troppo dal personaggio e di rubargli la scena. Infastidito dai flash di una spettatrice, l’attore in due riprese interrompe la performance per apostrofarla e ricordare l’unicità del teatro nella sua irrepetibilità e irriproducibilità. Parole molto intense e che gli valgono diversi applausi ma che segnano delle vere invasioni  di campo. Per fortuna lo spettacolo ha molta coesione e un buon ritmo, dati dalla ricchezza dei registri e dall’agile uso dello spazio scenico, sia per le entrate e le uscite dei personaggi  (lungo i corridoi della platea) che per i loro spostamenti  (in altezza, sui due piani). In questo modo le due interruzioni non spezzano eccessivamente la fluidità delle scene, anche grazie alla batteria di Thomas Witte, che come un continuum accompagna fino alla fine i momenti più significativi della vicenda, con una funzione quasi drammaturgica.

L’ultima scena è magistrale, e si chiude con il personaggio esamine, dopo una lunga notte, divorato dai suoi stessi fantasmi e appeso in alto come la carcassa di un animale. Ostermeier osa e osa in tutto, offrendo un’ interessante lettura della pièce che sposta i confini tra bene e male, e apre molti interrogativi sulla capacità del teatro di esorcizzare i nostri orrori. Uno spettacolo da non mancare.

Avignone OFF 50: un punto di arrivo o una nuova partenza?

7782195-12057596VALENTINA SORTE | Sotto il grosso tendone che si erge nel cuore del Villaggio OFF – il quartier generale di Avignon OFF – è già tempo di bilanci. La 50° edizione si è appena conclusa e i primi comunicati stampa parlano di risultati eccellenti. Mentre infatti in Francia, negli ultimi 2 anni, si è assistito alla progressiva scomparsa di quasi 200 festival, l’OFF ha visto al contrario aumentare costantemente i suoi numeri.

Dal 04 al 26 luglio, la città dei Papi si è trasformata nuovamente in un immenso palcoscenico a cielo aperto. In tutto sono stati presentati 1336 spettacoli, distribuiti in 127 luoghi differenti (dentro e fuori le mura). 1071 le compagnie presenti al Festival, di cui 128 provenienti dall’estero, per un totale di 25 paesi coinvolti. E il pubblico festivaliero ha risposto positivamente a tutte queste proposte. Durante l’intera manifestazione sono stati venduti 54.000 pass, l’8% in più rispetto al 2014, e l’attenzione dei “professionnels” – ovvero giornalisti, programmatori ed operatori – è aumentata, arrivando a toccare 3587 presenze.

Queste cifre sono incoraggianti, soprattutto se si allarga lo sguardo e si leggono i risultati in un’ottica retrospettiva. Nel 2015 cade infatti un importante anniversario: ovvero i 50 anni di OFF – da quando cioè Andrè Benedetto, portando in scena “Statues” al Thèâtre des Carmes, diede inizio a questo festival parallelo, nato a margine di quello officiale, ma oggi protagonista insieme all’IN della scena avignonese.

Il Festival è un appuntamento sempre più importante nel quadro dello spettacolo e delle arti performative, sia in Francia che all’estero, e per questo motivo la sfida dei suoi organizzatori per il futuro è quella di uscire da un’ottica strettamente evenemenziale per seguire invece dei modelli culturali più “sostenibili”,  in grado di coinvolgere maggiormente il territorio, puntando su quelle strutture (circa 40) con una programmazione distribuita lungo il corso di tutto l’anno. L’AF&C vorrebbe lanciare inoltre un progetto di residenze, nazionali e internazionali (con Cina, Giappone, Corea, Italia e Germania), capace di arricchire gli scambi con l’estero ben al di là dei tempi forti del festival.

In quest’ottica di relazione, abbiamo seguito le quattro compagnie italiane presenti ad Avignone: in questo video raccontiamo di Drammatico Vegetale e Mirabilia TeatroAl di là della diversità delle loro proposte, c’è qualcosa che li accomuna? Cosa li ha spinti a venire al Festival? Cosa rappresenta per loro la partecipazione a questa 50° edizione? E cosa porteranno a casa? Queste sono state alcune delle domande che abbiamo rivolto loro.

GUARDA QUI IL NOSTRO VIDEOREPORTAGE SU AVIGNONE OFF’15