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sabato, Aprile 20, 2024
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Papi Melchionna is watching you

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IRIS BASILICATA | I racconti degli amici (perché sono sempre i racconti degli amici) narrano di contrattazioni con donnine allegre e poco vestite e di avventure erotiche sfociate in situazioni non sempre piacevoli. Per una volta, ci concediamo anche noi il lusso di contrattare per una prestazione. Non siamo però sulla Togliatti o sulla Colombo bensì a Cinecittà. È qui che dopo oltre 370 repliche si è trasferito Dignità autonome di prostituzione. Per una sera addio moralità, salutatela con la manina ed entrate nella casa chiusa dove potete gustare le vostre pillole di piacere. Il format ideato e diretto da Luciano Melchionna e Betta Cianchini stavolta veste i panni del mito del cinema grazie alla location che lo immerge in un’atmosfera filmica.

40 attori e 10 maitresse non vedono l’ora di vendere la propria arte per qualche dollaro. Dollari, non euro. Ma come si fa a trovare un Change a Cinecittà? Tranquilli, i dollari per accedere alla “casa chiusa dell’arte” di Papi Melchionna te li danno appena fai il biglietto. La presentazione generale degli attori-prostituti da parte del Papi è inframmezzata da canzoni, colori sfavillanti, altalene e ritmi da avanspettacolo. Poi il capo si assicura che tutti si mettano a lavoro: ragazze con abiti anni anni 40, uomini in giacca da stanza, marinai, travestiti e donne in calze a rete ti invitano a seguirli per passare del tempo con loro. Questi strambi personaggi ti incitano, ti chiamano, ti trascinano facendoti sentire un po’ come Mastroianni al richiamo di: “Vieni Marcello, vieni!”. Piccoli gruppi di spettatori vengono trascinati nei posti più disparati: negli studi, in camioncini, in piccole stanze, toilette, uffici, per assistere a delle piccole performance attoriali. Finita una, si ricomincia il giro: si ritorna nel magico tendone da circo rosso e bianco posizionato al centro del parco di Cinecittà per scegliere altre prostitute, altri uomini con cui intrattenersi. Ogni “prostitut-attore” si esibisce per i suoi clienti in un monologo o performance in cui si spoglia dai panni di sensuale affabulatore per vestire quelli di personaggi semplici, dal passato difficile, dalle corde toccanti. Storie di uomini e donne che decidono di condividere con il pubblico un po’ del loro vissuto prostituendo, dunque, non il loro corpo ma la loro vita. Con dignità.L’atmosfera di Cinecittà ci fa stare all’interno di un sogno: attori e clienti contrattano davanti alla Venusia del Casanova di Fellini, il tendone rosso e bianco dal cui soffitto pendono altalene dove dondolano ninfette di bianco vestite, richiama il clima de I clowns e di Giulietta degli spiriti.Verso mezzanotte, dopo aver fatto diversi giri con i clienti più diversi, tutti ritornano alla base. Sembra che lo show sia finito ma in realtà è appena cominciato: fino a notte fonda si alternano cantanti, chitarristi, musicisti e violiniste alternati a pezzi di cabaret e di mimo. Vengono cantate famosissime canzoni e tutti gli attori della casa chiusa, papi compreso, incitano il pubblico a prendere parte alla loro festa. Il loro entusiasmo coinvolge fino a trascinarci al centro dell’enorme tendone facendoci partecipare ad un’allegra taranta. Poi tutto finisce. Il papi ringrazia, gli attori spariscono e i clienti se ne vanno. Salutiamo le “rovine” di Cinecittà con il divertimento in tasca. E più storie nel cuore.

“MA” di Latella: PPP tra le sue madri

GIULIA MURONI | “Ma” come un balbettio, un ‘incertezza, l’incedere di un dubbio. Sillaba in bilico tra due cornici di senso: il richiamo  alla madre e l’introduzione, con una avversativa,  di un dubbio, un’ opposizione.

Antonio Latella ha debuttato con la sua nuova opera “Ma” al Festival delle Colline Torinesi, a partire dalla figura della madre di Pasolini colei che- scrive Latella- “lo ha accompagnato nella fuga dalla banalità coatta del vivere quotidiano”.

Candida Nieri, già premio Ubu come migliore attrice 2013, dà vita a un momento teatrale prezioso. La scena è spoglia e lei, seduta su uno sgabello, di profilo rispetto alla platea, indossa delle scarpe enormi. Ricurva, la presenza del suo corpo contratto permane con intensità, volgendo fino alla fine con coerenza la scelta di mantenersi fissa in quella postura. Lo spettacolo si apre nel silenzio, è solo la sua fisicità straniante a riempire la scena. Sgorgano le parole, la drammaturgia ricchissima a cura di Linda Dalisi è stratificata, disposta a innumerevoli pieghe e torsioni. Sulle labbra di Nieri si avvicendano magnifiche e crudeli alcune figure materne: la madre di Pasolini, la figura materna come Pasolini l’ha descritta nelle sue opere e Pasolini-madre delle sue opere, figlie bastarde e dannate.

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Di fronte a sé un’alta porta in ferro dalla quale pendono alcune lampade. Oggetti di un interno domestico, illuminano con differenti toni di colore. L’attrice stringe tra le mani un fazzoletto che contiene un microfono, che registra, rimanda e riverbera i suoni. Straziante e meravigliosa, Candida Nieri rievoca e astrae la maternità, ne rivela i drammi e le debolezze, le contraddizioni e i parossismi, singhiozzando suoni e parole con intensità violenta.  “Perché mi hai fatto madre di un Cristo comunista?” e ancora “Tu sapevi che la tua vita la pagavi ad un prezzo molto alto. E al prezzo che abbiamo pagato noi, hai mai pensato?”

Sguardi su vite violente, in cui il dolore materno diviene assoluto e soffocante e la sua figura irriducibile, mai del tutto rappresentabile e tuttavia infinitamente riprodotta, rievocata nel tentativo inesausto d ucciderla simbolicamente.

“Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. (…) Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei madre e il tuo amore è la mia schiavitù”. (Pasolini, “Supplica a mia madre”).

Latella ha firmato la regia di un monologo sapiente, introiettivo e commovente, forte di una drammaturgia schietta e un’interprete eccezionale.

 

 

La storia di Lea Garofalo a San Miniato: passione laica alla ricerca delle proprie radici

 LAURA NOVELLI | Lunghi capelli neri raccolti in uno chignon. Occhi luminosi, vivi, estremamente mobili. Una voce calda, matura, impastata di cadenze dialettali che rimandano ad un Sud profondo, ancestrale. E un sorriso aperto,  generoso, dove tuttavia si annida spesso una sorta di languore malinconico pronto ad esplodere in cocente disperazione. Federica Carruba Toscano, ventiseienne attrice siciliana già nota per le belle prove affrontate con la compagnia catanese Vucciria Teatro, è l’intensa protagonista del monologo Ogni volta che guardo il mare,  presentato nei giorni scorsi a San Miniato nell’ambito della LXIX Festa del Teatro (www.drammapopolare.it). In scena si chiama Sara. Ma Sara è qui in realtà una trasfigurazione poetica – e però intrisa di forti richiami alla cronaca – di Denise Cosco, giovane figlia di Lea Garofalo e Carlo Cosco e testimone chiave nel processo istruito dopo il terribile omicidio della madre (2009) di cui furono responsabili, come è tristemente noto, lo stesso Cosco e altri affiliati alla ‘Ndrangheta tra cui l’ex fidanzato di Denise, Carmine Venturino.

Se Lea Garofalo, uccisa perché strenua oppositrice della malavita calabrese e testimone di giustizia, rappresenta da sempre un esempio estremo di coraggio femminile e di impegno civile, in questo lavoro Denise/Sara si arroga il diritto di un coraggio diverso: quello della memoria intima, della verità personale. Il coraggio di un’autobiografia affettiva che ripercorre il passato (l’infanzia pervasa di sapori e colori mediterranei, la fuga con la madre, la permanenza a Milano, il tentativo di rapimento ai danni di Lea, le menzogne sulla sua scomparsa) per attraversare fiumi di dolore, di lutto, di orrori  e uscirne (“cercare” di uscirne) più forte, più consapevole, più adulta. Motivo per cui il monologo, opera prima dalla giornalista Mirella Taranto e frutto anche di un attento studio delle carte processuali e di numerosi articoli coevi ai fatti, non è propriamente un testo di denuncia sociale e politica quanto un rito laico di ritorno alle radici: una cerimonia intima che riabilita il sentimento  matriarcale di quella Passione (ed eccoci al titolo dell’intera manifestazione toscana che trova proprio nella Passio Hominis diretta da Antonio Calenda, con Lina Sastri protagonista e repliche fino al 22 luglio, il suo spettacolo di punta) da intendersi come sacrificio e misericordia, amore e tradimento, morte e rinascita.

Guidata dalla regia sobria e pulita di Paolo Triestino, accompagnata dalle canzoni di Rita Pavone (One for you  one for me) e Fabrizio De Andrè (con la citazione  diretta di Disamistade: “Il dolore degli altri per tutti è un dolore a metà”), Federica/Sara torna nel suo paese d’origine, Petilia Policastro, sulle tracce di sapori, odori, suoni materni e primigeni che la riconnettano al senso ultimo del suo (nostro) stare al mondo. Porta con sé una busta della spesa con dentro gli ingredienti per fare un dolce, che è poi il dolce dell’infanzia. Ma prima della concretezza così naturalmente “fisiologica” di quell’impastare, spremere arance e ungere teglie c’è il genius loci, c’è il sorriso della madre che abita gli spazi ormai vuoti di una vecchia casa/cucina. C’è soprattutto e innanzitutto “U mari. Bello, bellissimo. Pare uno scrigno. Lo diceva pure il poeta. Quello francese, che piaceva alla mia professoressa. Ci dovevo tornare a casa, questo mare lo dovevo venire a salutare”.

Inizia così questo affondo nel travaglio degli affetti e dei legami di sangue dove la scrittura si mantiene sempre su un registro sospeso tra poesia e concretezza, italiano e dialetto, tanto che nel racconto del proprio scandalo (uno scandalo che ovviamente ci riguarda tutti) si insinua persino un desiderio di ironia. A tratti la memoria si popola infatti di personaggi buffi (basti vedere la zia innamorata di Mike Bongiorno), di una religiosità popolare e aneddotica, di stralci di storia quotidiana che sembrano quasi voler sovrapporre l’autobiografia dell’autrice (anch’ella calabrese) con la biografia stessa di Sara/Denise. Tra i due piani lievita dunque tacitamente e spontaneamente un accordo di affinità, di comune sentire, in un’ambivalenza armoniosa di astrazione e fisicità che, oltre alla lingua,  riguarda pure la scenografia (a firma di Lucrezia Farinella) e l’impianto registico di Triestino, disegnato su forti scarti di luce e su movimenti decisi, cadute a terra, continuo utilizzo degli oggetti di scena.

Ma è soprattutto l’interpretazione della Carruba Toscano a colpire. Padrona di una maturità espressiva davvero apprezzabile, l’attrice ci cattura con la mobilità plastica del suo corpo e del suo volto: ogni espressione ne contiene una opposta, ogni nuovo stato emotivo è già preparato nel precedente, ogni sorriso mostra un angolo acre e ogni lacrima o grido aspira ad un anelito di pace e di perdono. Via via che si entra nelle maglie della tragedia la sua figura cambia: i capelli sciolti, poi legati in una treccia, la gestualità sempre più decisa, l’irrequietezza sempre più manifesta e ricomposta alla fine, mangiando una fetta di torta insieme all’ombra della madre. E proprio mentre l’odore di quella torta messa in forno a cuocere si impossessa della sala, l’interprete sempre più e sempre meglio si lascia amare e inseguire, come fosse un’immagine votiva e pietosa di donna, di martire, e al contempo un corpo di ragazza capace ancora di sperare e di sognare. Avevamo lasciato questa bella promessa del nostro teatro nella sguaiatezza della prostituta greca e della moglie omicida di Battuage (si veda la recensione della sottoscritta, www.paneacquaculture.net del 6 maggio 2014); l’avevamo apprezzata nella cugina morbida e sensuale di Io, mai niente con nessuno avevo fatto (primo e ultrapremiato lavoro di Vucciria) e la ritroveremo presto sulle scene italiane con una nuova produzione della compagnia capeggiata dal talentuoso Joele Anastasi (“cambiamo decisamente registro – ci confida – e stavolta non affronteremo una storia di disagio ed emarginazione, ma non voglio anticipare di più”) e in una commedia di Antonio Grosso e Francesco Stella, Vicini di stalla, diretta da Ninni Bruschetta. E naturalmente non possiamo non augurarci che questo Ogni volta che guardo il mare – in cartellone a fine luglio tra gli eventi programmati a Tor Bella Monaca (www.estateromana.comune.roma.it) – possa avere lunga vita, approdare proprio a Petilia Policastro e in altri centri del nostro Sud. Laddove la testimonianza si fa memoria “necessaria”. Per non dimenticare. Mai e poi mai.

Cartoline da Alto Fest 2015 Napoli

Alto Fest | Pietribiasi Tedeschi
Alto Fest | Pietribiasi Tedeschi “BIOS”

ALESSANDRA CORETTI | Dal Garage Comunale di via San Vincenzo alla Sanità riparte il viaggio nelle fitte maglie di Alto Fest. Siamo in pochi, raggiungiamo con allure consumata una cavità dell’autorimessa, e ci accovacciamo a gambe incrociate, su uno scomodo terriccio, in posizione frontale rispetto all’area di azione. Il colore tetro del luogo e lo stantio odore di muffa fanno presagire qualcosa di oscuro. Ha inizio tra presentimenti funesti l’ultima opera di TeatroInRivolta, Kaninchen, lavoro ispirato alla vita dell’attivista tedesco autore dell’attentato contro Adolf Hitler. La performance è il risultato di un intreccio – da cui purtroppo non trapela una convincente urgenza – tra corpo, fatica e polvere; l’estenuante danza di Marcello Serafino, autore anche del testo della performance, sembra incastrata in una partitura fisica volta ad estrarre uno spirito ingombrante imprigionato nel proprio corpo. Ci relazioniamo all’opera astraendola, ovvero trascendendo i confini del luogo e delle presenze sceniche. Viviamo un’esperienza, che ci mette in contatto con un ossessionante senso di morte.
Voltiamo totalmente registro dirigendoci al Pepi Vintage Room Bar, il tempo di ordinare un calice di prosecco e siamo invasi da una staffetta di colori e musiche; enormi sorrisi e labbra rosse, abiti color oro, boa di struzzo, calze a rete. Un trio di vedette, fuggito da un programma di varietà, dà vita ad una festa degli arti. Sgambettanti e ammiccanti, le attrici intrattengono il pubblico accalcatosi in vico San Domenico Maggiore. Sketch e canzonette azionano la macchina del tempo che di colpo ci catapulta nelle atmosfere del Cafè Cyrano – titolo anche della performance – luogo cult degli anni Trenta passato alla storia come ritrovo dei surrealisti.
Non riusciamo a capire verso quale finale virerà lo spettacolo, abbandoniamo quell’eccesso di moine e vivacità, insieme alle bollicine del nostro bicchiere di prosecco ancora mezzo pieno, per spostarci in vico San Pietro a Majella alla volta di BIOS. Il lavoro della compagnia Pietribiasi | Tedeschi ha sin dall’inizio una buona tensione, data dall’interazione ben congegnata tra corpo umano e dispositivi tecnologici; in scena, inizialmente, un uomo che lotta con la riproduzione virtuale di se stesso. Mani e schiena del performer diventeranno le superfici di proiezione su cui il protagonista riflette la propria ombra, a grandezza variabile, mentre in sottofondo vengono elargite istruzioni per affrontare bene la giornata. Una serie di radiografie (che scopriremo solo alla fine riprodurre animali) andrà a formare un pannello spartiacque – promosso ad elemento drammaturgico – che fungerà da sfondo nella prima parte dello spettacolo, e da filtro, da superficie di visione, nella seconda parte dell’opera affidata all’agilità coreutica di Cinzia Pietribiasi. La performer, muovendosi al di là del pannello, rivelerà la sua presenza per gradi, disseminando tracce del suo corpo attraverso lo spettro radiografico. Un modo, con margini interpretativi molto ampi, per affrontare la dicotomia tra uomo e donna, tra piccolo e grande, tra pieno e vuoto.
Tra i lavori più intensi ed apprezzati di Alto Fest 2015, Selbstbezichtigung/Autodiffamazione del duo Barletti | Waas. In questo lavoro emergono con forza le dimensioni di necessità ed energia essenziali per l’azione performativa. Per circa un’ora il duo italo-tedesco “recita” un elenco (testo di Peter Handke), una lista di convenzioni sociali violate, ovvero una fiera ammissione di colpe. I due performer entrano in scena con i loro disarmati e disarmanti corpi nudi, che vestiranno solo in seguito. Assistiamo ad una sorta di processo pubblico in cui la morale sociale sembra prendere il sopravvento su quella individuale.

L’ultimo giorno del festival è dedicato ad un interessante simposio a cura dell’Osservatorio critico, che si distingue dai canonici coordinamenti critici di supporto alle arti sceniche, per non voler entrare nel merito delle singole visioni o delle scelte estetiche operate dagli artisti, optando invece per un focus sul festival e sulle sue politiche organizzative. L’incontro verte sulla condivisione di un’esperienza, ancora non del tutto conclusa, che merita, per la sua radicalità, un approfondimento specifico. Alto Fest configurandosi, al momento, come un processo non un prodotto, richiede un’analisi che non si rapporti ai risultati raggiunti ma a quelli auspicabili e alle direzioni intraprese. Il simposio quindi, si rivela essere un prezioso momento per tirare le somme e affrontare le criticità congenite ad un esperimento di tale portata. Se alcune posizioni, largamente condivisibili, hanno sottolineato l’importanza di una manifestazione di questo genere, in un Paese come l’Italia che dal punto di vista artistico (e non solo) ha abdicato a lavorare “nel solco di una tradizione del nuovo”. Altre hanno individuato dei punti di debolezza strutturali di cui tenere conto nel tratteggiare il profilo della sesta edizione, primo fra tutti il senso di disorientamento derivante dal percorso complesso del festival e dalle enormi distanze che dividono le varie location scelte per le performance, evidenziando quanto questo gap sottragga energie e tempo utili a favorire l’incontro tra artisti, pubblico e operatori, rinunciando a uno scambio fondamentale che agevolerebbe la tanto sognata rigenerazione sociale.

Stanze fuori dalle case. Note d’arte, fra musica e filosofia multimediale

MICHELA MASTROIANNI E RENZO FRANCABANDERA | Nel segno della musica si è mossa la ripresa a Giugno di Stanze, il progetto di teatro d’appartamento ideato da Alberica Archinto e Rossella Tansini, il cui merito innegabile consiste in una sapiente operazione di scouting combinato ambientale-artistico, che attraverso il teatro dona nuovi riflessi a luoghi meravigliosi di una Milano (e non solo) difficilmente esplorata. Ed eccoci a raccontare due date di giugno, interessanti per ragioni differenti.

Il primo appuntamento si è dato nel salotto della casa-museo Boschi Di Stefano, zona Buenos Aires, divenuta nel 2003 sede espositiva di parte della straordinaria collezione di oltre duemila opere, donata al Comune di Milano nel 1974 dalla coppia.

L’atmosfera raffinata ed intima della casa aveva già affascinato il pubblico della rassegna ospitando a novembre Il posto, il primo studio dell’ultimo progetto di Deflorian e Tagliarini Il cielo non è un fondale. Questa volta è di scena Toni Laudadio, interprete potente e commovente del dialogo per voce e musica Šostakovič il folle santo, scritto da Antonio Ianniello e Francesco Saponaro che ne cura anche la regia e l’allestimento dello spazio scenico.

Uno Šostakovič sfinito dalla malattia e dalla vecchiaia, ma non sconfitto, entra con passo lento ed incerto nella stanza, poi siede sulla poltrona accanto al pianoforte, e racconta la sua vita. Accanto alla poltrona un telefono, attraverso il quale Šostakovič ha gli unici contatti con il mondo esterno, da cui riceve informazioni o attraverso il quale gli vengono poste domande che fanno da pretesto al dipanarsi della narrazione autobiografica, che mette a fuoco per frammenti le questioni centrali dell’esistenza del musicista sovietico senza un rigoroso ordine cronologico ed accompagnate da brani tratti dalle sue opere. La sua passione inesausta per la composizione e la dedizione all’insegnamento. Il conflitto con il potere e la stroncatura staliniana che lo taccia di creare “Caos anziché musica”. La fuga da Leningrado, sua città natale attaccata dai Nazisti, città alla cui strenua resistenza dedica la sinfonia n.7. La paura di essere denunciato, imprigionato o ucciso insieme alla famiglia, come era accaduto a molti dei suoi amici, vittime della feroce censura politico-culturale staliniana, che si abbatte contro gli artisti, gli scrittori e i compositori. L’accusa di comporre musiche “perverse, formalistiche ed antipopolari” e il conseguente dolorosissimo allontanamento dall’insegnamento nei conservatori di Mosca e Leningrado. La sincera adesione agli ideali della rivoluzione di Lenin e la critica al loro tradimento da parte della oligarchia di partito. Del personaggio emerge a più riprese lo sguardo ironico ed autoironico con cui rilegge la storia che ha attraversato e la resilienza che gli consente passare oltre Stalin, la cui inumana crudeltà segna il secondo movimento della decima sinfonia, composta appunto dopo la morte del dittatore. La resilienza, si diceva, ma anche la vodka, anestetico per l’anima, lo aiutano a sopportare il dolore e la paura. Una bottiglia del potente superalcolico, una maschera di cartone di Stalin con cui si copre il volto per declamarne con tono enfatico la prosopopea, carta da musica e una matita, con cui continua a tracciare le parti per gli strumenti della sua ultima composizione, degli occhiali dalle lenti spessissime e quasi opache, tormentati e riassestati sul volto: sono questi gli oggetti con cui Ludadio, dal 2010 costruisce in modo convincente il personaggio del musicista, che tra le note della sua musica si alza dalla poltrona ed esce ancora più lento ed affaticato del suo ingresso, svanendo dietro una porta a vetri.

IMG_8601Passa qualche giorno. Siamo ancora a Milano. L’odore fresco e deciso della menta si sprigiona dalle foglie che io (Michela) stropiccio un po’ tra le dita mentre mi accovaccio su una coperta distesa sul prato che cresce sul tetto del Superstudiopiù in via Tortona, cuore pulsante del fuori Salone, del fuori Expo ecc. Sono già tutte occupate le sedie sistemate sotto la cupola geodetica in bambù realizzata, ad integrazione del progetto Coltivare la città, sopra il cerchio centrale del simbolo del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto. La luce serale nel cielo di giugno e un vento leggero che ci induce a coprire le spalle sembrano quasi dare concretezza a tutti i paradigmi filosofici ed estetici a cui questa risaia sul roof fa da cornice e da pretesto. Lascio che il profumo della menta, uno dei dieci odori fondamentali della percezione olfattiva secondo un recente studio di tre ricercatori statunitensi, evapori portato via dal vento, poi mi annuso le dita. Gli odori sono quelli giusti.

Siamo in campagna. Ma l’illusione sensoriale di vista, tatto e olfatto è rotta dal rumore invadente del motore di un impianto di condizionamento che ininterrottamente ronza sul nostro piccolo angolo di paradiso. Sarà per questo disturbo sonoro esterno o forse perché le casse acustiche che amplificano la voce di Monica Demuru e gli strumenti di Cristiano Calcagnile sono rivolte all’interno della struttura geodetica, ma della loro Sonatina in tasca. Tre quadri per un presagio sento in modo distinto solo dei frammenti.

Il pubblico attento di Stanze, variamente accomodato su sedie, panchine, sdraio, coperte, cuscini, muretti, dentro e fuori la struttura in bambù, segue con visibile concentrazione la performance realizzata attraverso la rielaborazione di una sceneggiatura ispirata a I pugni in tasca di Bellocchio (ritroviamo l’ambiente angosciante, il nome di Leone che torna a più riprese, il tema della morte, il dentro e fuori), di canzoni della tradizione colta e popolare, poesie e suggestioni letterarie in una partitura ritmica e sonora, secondo il codice artistico del duo. Il sodalizio artistico tra Cristiano Calcagnile (batterista, percussionista e compositore) e Monica Demuru (vocalist, performer e dramaturg) propone infatti da circa dieci anni sotto la denominazione di BLASTULA.scarnoduo un’idea di performance come costruzione di uno spazio sonoro stratificato e profondo come la memoria. L’essenzialità degli strumenti utilizzati, voce e percussioni, racconta di una particolare visione della musica, che vuole ritornare alle sue origini e all’ancestrale bisogno umano di costruire intesa, dialogo ritmico tra individui, di disegnare contorni di armonia al contrasto ineludibile del vivere sociale, di ricondurre a forma comune respiri distanti, integrandoli in un sistema sonoro.

Intuisco il senso generale del lavoro. Mi aiutano i titoli, quasi didascalie, delle tre sezioni della Sonatina, annunciati con voce chiara dalla Demuru: I quadro: TUTTE ADOLESCENZE DORATE; II quadro: MAMA, TURRIS EBURNEA; III quadro: MORIRE DI MONTAGGIO.

E gli ultimi minuti della performance mi regalano anche quell’illusione sonora che l’ambiente intorno aveva negato: il belato delle pecore, il richiamo limpido delle loro campane, fanno subito campagna e anche il Terzo Paradiso, con questo estremo ritorno alla natura, sembra perfetto.

La casa museo è visitabile gratuitamente. Per tutte le informazioni visitare il link

www.fondazioneboschidistefano.it

per la cupola del Terzo Paradiso www.biagiodicarlo.com/iweb/la_cupola_del_terzo_paradiso.html

per la Fondazione Pistoletto www.cittadellarte.it

per n.o.v.a.civitas Nuovi Organismi di Vita Abitativa www.cittadellarte.it/attivita.php?att=36

Al di là dello spettacolo. Note sulla scrittura scenica di Gommalacca Teatro

Progetto
“Eduardo” ph Luca Puglisi
ALESSANDRA CORETTI |  Nell’irriducibile molteplicità delle espressioni teatrali s’inscrivono pratiche che mettono in crisi, di continuo, le certezze sceniche. Non alludiamo a prassi codificate, bensì ad esperienze che, per prassi, si pongono degli interrogativi estetici subordinati ad esigenze etiche (o viceversa?): entrare in relazione con il proprio tempo. All’interno di questa geografia teatrale collochiamo anche il lavoro di Gommalacca Teatro, compagnia – riconosciuta dal MiBACT come Impresa di Innovazione Teatrale – nata a Potenza nel 2005 per volontà di Mimmo Conte (attore/regista) e Carlotta Vitale (attrice/educatrice). La conversazione che segue nasce non da mera curiosità, ma da una serie di risonanze scaturite dal vocabolario professionale dell’ensemble. Attraversando alcuni aspetti della ricerca del gruppo abbiamo tentato di comprendere come si sviluppa un ecosistema teatrale in un territorio non avvezzo al teatro. Il teatro che c’ho in testa, rassegna estiva organizzata dalla compagnia al termine dei percorsi laboratoriali e di ricerca avviati nel 2015, è stata la scusa per conoscere meglio la formazione artistica potentina; dal confronto emerge un racconto prezioso, che molto rivela sulla progettazione di attività teatrali al di là dei tracciati culturali convenzionali.

Il teatro che c’ho in testa è la rassegna che ha riunito gli esiti scenici dei vostri ultimi laboratori. Un bilancio sull’esperienza, quanto ha segnato la vostra prospettiva di ricerca e soprattutto qual è il teatro che Gommalacca “ha in testa”, ovvero spera di realizzare?

La rassegna, alla sua seconda edizione, nasce da un’esigenza specifica: fare palco durante l’anno e diversificare gli spettatori, in realtà distribuiamo l’attività di educazione teatrale nell’arco dell’intero anno proponendo eventi di varia natura come Le colazioni filosofiche, le matinée per i piccoli nel nostro spazio off, le anteprime del lavoro di ricerca dei laboratori. Lavorando a Potenza da dieci anni abbiamo riscontrato delle criticità territoriali legate alle consuetudini (o meglio alla loro assenza) con cui le persone percepiscono la scena e l’attività di formazione teatrale (anche se questa parola “formazione” non rende l’idea). A teatro si va molto poco anche quando si sceglie di seguire un laboratorio teatrale, come se si volesse imparare a giocare a calcio non vedendo neanche una partita. Abbiamo cercato quindi di invertire questo dato culturale adottando una progettualità mossa da nuove necessità. Nei primi anni di vita ci siamo concentrati sulla produzione di spettacoli scritti da noi, legati a temi che sentivamo l’urgenza di far emergere. Da quando abbiamo acquisito stabilità con l’attribuzione di una sede, l’U-Platz, Spazio civico e teatrale, il lavoro ha preso una nuova direzione, abbiamo inaugurato La Klass Laboratori di ricerca scenica, chiamando a raccolta persone dai 13 ai 65 anni, che con noi hanno lavorato alla creazione di drammaturgie originali e che hanno sostenuto la compagnia con una quota di corresponsabilità. Al momento seguiamo la nostra irrequietezza naturale, ogni anno cerchiamo di capovolgere lo sguardo e di spaziare. Siamo affascinati dalla comunicazione del teatro, dalla scrittura per il teatro, dalla macchina umana che assorbe il reale e lo trasforma. Il teatro che abbiamo in testa è quello che produce spettacoli, che gira e che riesce a sostenere il lavoro di organizzazione, ricerca, drammaturgia e allestimento. Abbiamo in testa di portare il nostro teatro fuori dai confini nazionali, di attraversare altre culture, di essere felici facendo ciò che amiamo fare.

Gommalacca Teatro dà grande importanza e spazio a momenti laboratoriali come La Klass Laboratori di ricerca scenica, qual è il metodo di ricerca scenica che adottate?

I laboratori sono dedicati, in gran parte, allo studio del mimo corporeo, dell’improvvisazione, al rafforzamento dell’apparto vocale e della presenza scenica. Noi partiamo dall’uomo, dal corpo e da ciò che rappresenta come crocevia di culture, di passato e presente. Siamo per lo sforzo, il sudore e la ricerca della bellezza individuale, crediamo nella fatica del levigarsi, ascoltarsi e prima di tutto conoscersi. I nostri percorsi laboratoriali non prevedono un tempo finalizzato allo studio di un copione; o meglio il “testo”, che sia parlato o fisico, si costruisce nel mentre, e non prende mai un tempo di prova, cresce dentro. In questo modo quest’anno abbiamo lavorato su La dodicesima notte e la drammaturgia di Eduardo.

Mi sembra di capire che spesso partiate da un testo classico, per poi ricavarne una scrittura scenica a sé stante; come lavorate nella riattualizzazione dei testi? Perché la ritenete importante?

Conoscere i testi classici, moderni e contemporanei crediamo sia, come il lavoro sul corpo, un ottimo allenamento per la lingua e l’immaginazione. Spesso accade di non trovare una propria corrispondenza in ciò che è già stato scritto, o che ciò che è scritto inneschi assonanze, contaminazioni con altri testi, con la cronaca o con la storia contemporanea. Abbiamo lavorato per tre anni su Antigone, partendo da Sofocle fino ad arrivare alle riscritture contemporanee del testo, tra Maria Zambrano, Valeria Parrella e Ali Smith. In effetti in questo caso non abbiamo operato una vera riattualizzazione, ma costruito una dialettica tra la voce del singolo e quella del coro, abbiamo cercato un’unità senza trovarla, così abbiamo trasformato Antigone in Ilaria Cucchi che non rivendica la sepoltura, ma la giustizia per il corpo morto del fratello. Oltre a nutrire la nostra ricerca pensiamo sia importante lavorare in questo modo perché ci permette di sviluppare un’etica professionale in rapporto alla storia e alle trasformazioni sociali in atto. Crediamo che il teatro possa fungere da facilitatore, rimettere al mondo la dignità delle esistenze ed essere un valido strumento per creare/fare comunità (parola che tra poco diventerà odiosissima come creatività, ovvero come tutte le parole di cui si abusa).

Quali sono i nuovi lavori a cui vi state dedicando?

Stiamo lavorando alla nostra nuova produzione di cui abbiamo presentato un primo studio al Festival delle Cento Scale di Potenza. Nuova malattia organizzata (questo il titolo provvisorio) è la storia dell’assenza di un padre, di un figlio che vorrebbe non nascere, di una nazione alluvionata, disfatta, è la storia della ricerca di una patria. Cos’è la patria? Un luogo dove sentirsi al posto giusto.

Città Balena: Teatro i nel grande mare del contemporaneo, fra Artaud, bestemmie buone e zanzare

cb3blogRENZO FRANCABANDERA | Dal 4 al 19 luglio, tra musica e teatro, con Francesco Tricarico, quotidiana.com, Riserva Canini, Paola Tintinelli e  più di dieci compagnie selezionate da IT Festival 2015. Questo è in sintesi il programma di Città Balena, progetto di Teatro i che sceglie come icona il cetaceo bianco riprodotto su uno striscione davanti alla sede di Via Gaudenzio Ferrari, da un annetto e mezzo aperto in una funzionalità ampia anche negli spazi al pian terreno.

Città Balena è un progetto che nasce per avvicinare gli artisti al pubblico e il pubblico agli artisti, che ha percorso emergendosi e inabissandosi per tutta la stagione 2014-15 di Teatro i. Dopo gli appuntamenti di settembre e febbraio/marzo, la rassegna continua anche in piena estate, per quindici giorni, con un programma ricco di appuntamenti,  attraverso luoghi e linguaggi differenti, con una serie di spettacoli scelti in joint venture con IT Festival, da cui è stato preso a piene mani per un assaggio di quello che di più nuovo viene pensato a Milano sui linguaggi della scena, in spazi non teatrali, come nella natura del progetto Città Balena.

Tra i tanti gruppi coinvolti, abbiamo visto di recente Circolo Bergman, con un progetto site specific per Città Balena, ispirato al tema goethiano de Il giovane Werther (ancora a cuore aperto, aspettiamo un po’ più di sostanza drammaturgica, al netto di tecnicalità da audiopercorsi, già viste in altre occasioni in città e non solo, cui forse si può anche rinunciare senza grossi rimpianti. Prossima occasione di crescita il Franco Parenti fra pochi giorni), gli Oyes con l’avvio di un’intelligente riscrittura di Zio Vania di Checov, diretta da Stefano Cordella con Francesca Gemma, Vanessa Korn, Umberto Terruso e Fabio Zulli, dove Vania tifa Milan e vive la sua dimensione straniata e stordita, mentre attorno un mondo lucido e cinico gli sfila la dignità e le emozioni sotto i piedi (bravi gli interpreti, servirà rodaggio, concentrazione e una lettura dei personaggi capace di evolvere).

Ci concentriamo qui su due lavori di maggior struttura, di artisti anagraficamente omogenei, pur se votati a forme espressive e ricerche differenti.

Ci riferiamo al lacerante Oh… tu che mi suicidi, progetto di Lello Cassinotti e Nino Locatelli liberamente tratto da Van Gogh il suicidato della società (Antonin Artaud) e giunto qui all’undicesima tappa di un percorso tra musica e parole su cui vale la pena spendere qualche parola e a L’anarchico non è fotogenico di e con Roberto Scappin e Paola Vannoni (quotidiana.com)

dellealiIl primo è una libera re-interpretazione dal saggio Van Gogh il suicidato della società, una delle ultime opere di Antonin Artaud, scrittore, poeta e pensatore della scena diventato icona di un certo tipo di teatro per tutto il Novecento e non solo. Il saggio, pubblicato la prima volta nel dicembre 1947 vinse il premio Saint-Beuve l’anno dopo e si basa sull’idea portante di rivalutazione della figura del genio e dell’alienato come portatore di una verità scomoda da accettare per la società normale, che spinge queste intelligenze all’autoemarginazione e al suicidio metaforico o letterale. L’artista vero, in quanto portatore di una sensibilità borderline è di fatto assimilato al folle da Artaud, che pure ebbe a che fare con il sistema psichiatrico, ri-centrando il fuoco sulla figura dell’alienato, la cui sensibilità superiore viene schiacciata per  non comunicarla alla normalità, zittita. Ecco dunque Van Gogh come emblema di una sorta di riscatto dell’alienato che trova la forza di esprimersi. Cassinotti, che ricerca spesso tra l’altro dell’intersezione fra scena e suono, ribadisce questa sua vocazione con un progetto singolare, che prevede un numero limitato di repliche e sulle cui intenzioni profonde le parole di Cassinotti sono chiare: “Abbiamo deciso che Nino avrebbe suonato esclusivamente un mezzo tono, senza sapere quale … è capitato G2 Ab2. Siamo stati molto contenti della serata…Avrebbe dovuto essere una estemporanea ma abbiamo poi immaginato di poterla riproporre altre 53 volte in virtù dei 54 possibili semitoni che si possono ottenere dal clarinetto contralto. Ad ogni tappa del progetto il semitono che verrà suonato sarà determinato tramite estrazione ad esclusione di quelli già utilizzati”. Teatro i ha ospitato la decima tappa di questo lavoro poetico, affidato all’interpretazione disillusa, fragile, assente, intensa e rossa del duo Cassinotti-Locatelli, il cui connubio si fa apprezzare in un evolvere denso di pathos. Il progetto cerca nuove case, teatri, luoghi dediti alla sensibilità in cui poter continuare le repliche fino alla nr 54.

quotidianaIl secondo è una variazione sul tema dell’ormai decennale (e di fatto unico) monologo diviso in capitoli esistenziali che Paola Vannoni e Roberto Scappin, in arte appunto Quotidiana.com, hanno iniziato a scrivere; una sorta di pluriennale flusso di coscienza in scomode dispense, con cui la caustica coppia ribalta, fra nonsense, assurdo, senso comune e soprattutto dissenso poco comune, una serie di questioni sul vivere, rivolgendosi ad un pubblico spiazzato dal loro volutamente goffo tentativo di sembrar seri, a dispetto del fatto che loro vogliano esserlo.
Tempo fa in un viaggetto in auto con i due artisti mi chiedevo come mai non avessero mai deciso di affrontare un classico, a modo loro. Ecco la risposta in una trilogia, di quelle sostenute da Inequilibrio /Castiglioncello: il progetto Tutto è bene quel che finisce. E’ proprio nell’elisione finale del titolo del Bardo l’idea portante di una trilogia di cui L’anarchico non è fotogenico è il primo capitolo, del 2014, presentato appunto a Teatro i in questo contesto.
Tre sono i capitoli, performance autonome o unica partitura, che compongono la “Trilogia dell’inesistente”, percorso che si svolge in forma di dialogo e di monologo, prendendo a pretesto il tema della morte. Il secondo capitolo, Io muoio e tu mangi, rimprovero rivolto al figlio dal padre morente, ragiona sul tema della accettazione della morte ma soprattutto di quanto fatto in vita, in termini anche sociali. Il terzo capitolo, Lei è Gesù, propone un Cristo donna che non si sottomette al volere del Padre negandosi alla crocifissione.
La dicotomia che a loro riesce meglio rispetto a quasi tutti gli altri che in Italia si accingono a proposte sulla stessa cifra, è fra sembrare ed essere, fra la verità e il dubbio, fra dittatura del pensiero unico e pensiero debole, in un’alternanza fra i due artisti in scena che non dà mai certezza su chi sia il portatore di una o dell’altra metà della mela. Anche perchè il tutto è sussurrato, come quelle chiacchere che si fanno d’estate sul balcone e che si concludono ripetendo le ultime parole dell’altro, prima di schiaffeggiarsi il polpaccio preso di mira da qualche zanzara.
Eh si, eh già, la morte dici eh… e così il filo si dipana fra questioni esistenziali, sociali e (rarissimo, visto che in Italia non si può per copione) persino morali e religiose, con un’irriverenza che alla fine suona molto più “morale” di tantissime riverenze e genuflessioni cui il Bel Paese ci abitua.

Fiesole, le Alchimie riuscite tra città e teatro

Manifesto Alchimie 2015MATTEO BRIGHENTI | Tre giorni sono piccoli e pochi. Mercoledì 8, giovedì 9 e venerdì 10 luglio il Festival Alchimie, alla sua terza edizione, ha costruito qualcosa di grande e tanto: un teatro all’aperto per Fiesole, i cui legami di cittadinanza si sono stretti su un palcoscenico di sguardi, gesti, frasi da condividere, trasmettere, imparare. Lontano dai caotici e impersonali riflettori del centro, in provincia, è ancora possibile riscoprire un senso di autentica appartenenza a una comunità. Per questo il direttore artistico Marco Di Costanzo e il Teatro Solare, che ne ha curato l’organizzazione all’interno dell’Estate fiesolana, hanno presentato ai loro concittadini Arianna Scommegna, Lorena Senestro e Gli Omini, perché Potevo essere io, Madama Bovary e La famiglia Campione sono specchi dentro cui riconoscersi e possibilmente migliorarsi.
Una caparbia rivoluzione del possibile che, dopo gli spettacoli, ho cercato di esplorare insieme agli artisti e al pubblico rimasto ancora in ascolto.

“Il senso di trovarsi qua, insieme, forse per me vale più di tutto. È molto raro e prezioso, e chi si sbatte a fare teatro penso lo faccia proprio perché crede sia necessario stare insieme. Questa semplicità l’ho trovata in Potevo essere io, in Renata Ciaravino che l’ha scritto, in Serena Sinigaglia che l’ha diretto, e adesso anche in voi.”
Siamo alle Terme del Teatro romano di Fiesole, piccolo comune che domina Firenze dall’alto, e Arianna Scommegna ha appena finito di raccontare che le rovine di chi è cresciuto negli anni Ottanta sono fatte di marche, di oggetti, di grandi magazzini stipati di sogni in plastica che speravano di poter realizzare, e poi o non li hanno realizzati o hanno smesso di sperare. La premio Ubu 2014 riesce a sentire, come cassette in un walk-man, entrambi i lati, quello alla luce e quello al buio, di due bambini che diventano grandi partendo dallo stesso cortile nel quartiere Niguarda, periferia di Milano, li abbraccia di carezze e schiaffi e lo stesso fa con il pubblico.
“Io sono straconvinta della tragicomicità del nostro esserci. Se ci fai caso, non c’è un momento, anche quando sei giù di morale, che non ti succedano delle cose ridicole. Per me non esiste la tragedia se dentro non c’è anche il comico.”
Arianna Scommegna vive Potevo essere io (vincitore del bando Nextwork 2013 e del Festival della Valtellina 2014) in ogni virgola, pausa, giro di pagina, e diventa anche paesaggio urbano in continua evoluzione grazie ai video di Elvio Longato.
Per quanto tu possa inventarla più bella fin da piccolo, la vita, comunque, ti travolge. “Ogni volta che faccio questo spettacolo lo dedico a chi non si perdona di non essere stato in grado di aiutare chi amava. Io non so come si faccia, però il modo c’è, la parola ‘perdono’ esiste.”

Le Terme del Teatro romano di Fiesole
Le Terme del Teatro romano di Fiesole

Il desiderio che inseguiamo fino all’ultimo abbaglio è una realtà fuori della realtà, un nome affermato per tenere lontane le ombre dell’oblio. Lorena Senestro reinventa in scena il suo dentro quello di Emma Bovary. Madama Bovary, da lei anche scritto (finalista al Premio Scenario 2011), regia di Massimo Betti Merlin e Marco Bianchini, è un monologo chiaroscuro che unisce Flaubert e Gozzano, italiano e piemontese, dramma e sarcasmo, dentro e fuori un’attrice in perenne movimento tra corpo, parola e onomatopee (per PAC l’ha recensito Elena Scolari).
Madame Bovary ha tanti riferimenti indiretti alla mia biografia. Sono cresciuta in campagna, a stretto contatto con la natura, nell’immobilismo e nella noia della provincia – dice Lorena Senestro – a ventidue anni, contro le aspettative della mia famiglia, mi sono trasferita in città per coltivare le mie passioni, prime fra tutte la letteratura e il teatro.” Interviene Massimo Betti Merlin: “Già quando la conobbi mi disse che Madame Bovary era il romanzo che aveva segnato la sua crescita adolescenziale. Non ha mai abbandonato quel sentimento originario del vivere appreso a contatto con i ritmi della campagna.”
Massimo e Lorena sono marito e moglie e insieme, oltre ai figli, una decina di anni fa hanno fatto un teatro, il Teatro della Caduta, una piccola sala da 50 posti in via Michele Buniva 24, a Torino, che offre agli attori la possibilità di sperimentare e sperimentarsi in pubblico (l’ingresso è libero, le serate sono ‘a cappello’). Su questo palco Lorena Senestro ha portato avanti una personale ricerca sull’uso della parola e delle sonorità vocali a partire dai testi letterari, dai passi che le piacciono, dalle frasi di un autore che danno voce a qualcosa che lei ha in mente. La scena è un’immaginazione secondaria, successiva.

È la vita stessa, invece, che fornisce a Gli Omini le parole adeguate che non sarebbero in grado di inventare. La famiglia Campione è un campione di famiglie sondato con incontri e laboratori che hanno coinvolto cinque comuni della provincia fiorentina.
“Facciamo indagini territoriali – spiega Francesco Rotelli – ascoltiamo le persone, le osserviamo e poi cerchiamo di restituire con delle istantanee in scena ciò che ci hanno dato. Ci interessa sempre mettere in risalto i conflitti, le piccolezze, le miserie dell’essere umano.”
I Campione sono 10 individui, 10 tipi che assumono quindi modi e storie di centinaia di persone conosciute per strada, tre generazioni, nonni, genitori e figli impersonati dallo stesso Rotelli, da Francesca Sarteanesi e da Luca Zacchini, mentre Giulia Zacchini è Bianca, la sorella che si è chiusa in bagno e non vuole più uscire. “Questa idea ci è stata confermata da un ragazzo durante i laboratori – continua Rotelli – lui si era chiuso in camera ed è rimasto lì addirittura la sera che doveva venire in scena con noi.”
Il futuro in questo stato, e in questo Stato, è un problema da risolvere, e, al tempo stesso, il motivo che  tiene unita a colpi di ironia arcigna la famiglia Campione. Non c’è più la forza di reagire davanti a niente o i genitori, almeno, non l’hanno insegnata ai figli. “Qualche responsabilità gliela vogliamo dare? – domanda Luca Zacchini – poi, sì, noi facciamo di tutto e di più per crogiolarci nelle nostre mancanze. La famiglia Campione, però, punta il dito contro tutte le generazioni, non una in particolare.”
E Gli Omini sono i primi a mettersi in gioco. “I vecchi, se vuoi, hanno quasi solo loro una spinta – conclude Rotelli – hanno molte cose da dirci, perché hanno più tempo e un passato altro. I giovani, invece, spesso li rappresentiamo inconcludenti, e ci dispiace, perché è la nostra di generazione. Ci dispiace e affondiamo il coltello anche su noi stessi.”

Conversazione con Àlex Serrano Leone d’Argento Biennale Teatro 2015

festival-mirabilia-2015-26giugno-5luglio-internationalcircusandperformingarts-sl1-1500x800ANDREA CIOMMIENTO | Abbiamo incontrato Àlex Serrano, fondatore di Agrupación Serrano (Barcellona) ospite con lo spettacolo “Brickman Brando Bubble Boom” a Mirabilia Festival, una rassegna internazionale attiva da anni incentrata sull’interazione delle arti performative, circensi, figurative e di strada. Una festa progettuale, a meno di un’ora da Torino, con una programmazione consistente che genera e rafforza relazioni tra realtà italiane ed estere, proponendo spettacoli e incontri con rappresentanti istituzionali, operatori culturali e artisti indipendenti. Come gli artisti anche il festival si rivela agile e capace di “ascoltare il corpo e il movimento”. In questo pieno ascolto della “strada” non mancano spettatori tenaci pronti a seguire gli spettacoli più interessanti del programma. Così il pubblico si fa coinvolgere in atmosfere variabili dove la crisi del settore non sembra prendere il colore predominante. Il risultato è l’entusiasmo e la perseveranza dello staff e degli artisti, con la conseguente reazione attiva di spettatori e operatori.

Tra gli spettacoli più interessanti di questa edizione il gruppo di Aléx Serrano, pronto a ricevere a Venezia il Leone d’Argento alla Biennale Teatro come una delle realtà artistiche più innovative del momento. Proprio nei giorni del festival la rivista di costume Vanity Fair pubblica un articolo-omaggio riassumendo la loro storia in un titolo esemplare (“Ci capiscono anche le zie”), rivelando una poetica fatta di linguaggi figurativi, scenici e video senza rinunciare a una narrazione comprensibile.

AgrupacionSenorSerrano-BrickmanBrandoBubbleBoomLo spettacolo “Brickman Brando Bubble Boom” racconta la realtà come bolla che si muove e incontra altre bolle generando esplosioni. Questa visione contraddistingue tutto il vostro lavoro o risulta specifico di questo spettacolo?

A livello drammaturgico quello che abbiamo fatto nei nostri ultimi tre spettacoli – e anche in quest’ultimo (“The House in Asia”) che porteremo alla Biennale Teatro di Venezia – è parlare di un tema centrale attraverso temi marginali. Nel caso di “Brickman Brando Bubble Boom” abbiamo provato a parlare di casa e della differenza tra “casa” (house) e “hogar” (home). Per farlo non volevamo raccontare la crisi direttamente, allora abbiamo cercato una scusa concreta. Crediamo che la migliore maniera per parlare di un tema doloroso non sia attaccare quel tema difficile ma le sue forme marginali. Attraverso Marlon Brando, personaggio reale, e John Brickman, personaggio inventato, raccontiamo la bolla economica e ipotecaria spagnola di questi anni.

Fin dall’inizio lo spettatore è convinto di “conoscere” ciò che si racconterà, prendiamo a esempio la vita di Marlon Brando, ma quello che scoprirà sarà gradualmente l’altra faccia della star cinematografica…

La prima cosa che facciamo vivere agli spettatori è la dimensione del “voyeur”, quello che ci interessa di Marlon Brando è l’altro Marlon Brando. Quello che ci interessa sapere di John Brickman (personaggio inventato da noi) è che era un ragazzo povero che diventa ricco. Ci interessa questa parte perfida e morbosa. Non solo a noi, ma anche agli spettatori.

È un corto circuito, un impatto e uno scontro che il pubblico scopre attraverso la vita di questi due protagonisti. Un altro corto circuito è la vostra presenza scenica ibrida. Non sappiamo se siete in scena come performer, attori o personaggi e questo attira l’attenzione di chi guarda…

Pensiamo molto agli “inizi” dei nostri spettacoli. È una maniera di stare in scena quella di non far comprendere se siamo attori, personaggi o performer. Allo stesso modo è una maniera di intendere la scena quella di non far comprendere quando inizia lo spettacolo. In questo modo trasformiamo lo spettatore in complice, come qualcuno che forma parte dello spettacolo. Lo spettatore attiva così automaticamente alcune percezioni: “Che cosa sta succedendo qui? Chi sono loro? Mi stanno sorridendo, si muovono, fanno parte della normalità”. Tutto questo è un ghigno che farà pensare che lo spettacolo inizierà in una forma differente.

KUWZUXIWVW79560Chi fa teatro oggi ha paura di esplorare liberamente forme differenti…

Esattamente. Buona parte del nostro teatro è documento, solo che lo spettatore sa già quello che gli piace. In fondo la drammaturgia non è altro che la scusa che usiamo in teatro per nascondere i drammi reali attraverso una storia. Il problema nasce quando noto che c’è qualcosa di reale in forma di idea e qualcuno mi sta buttando questa idea in faccia. Questo è disturbante quando leggo un libro, guardo un film o seguo un’opera teatrale. È disturbante vedere che c’è un’idea che ci avvicina a me e si trasforma in qualcosa di dogmatico. Quando invece stai lì appartato e qualcuno a poco a poco ti inganna, nel senso buono della parola, facendoti avvicinare a un’idea e a un dramma reale senza dogmi, questo diventa molto apprezzabile.

Questo inganno si avvalora grazie agli strumenti utilizzati e all’interazione dei linguaggi. Non solamente il video, la scena e la musica ma anche tutto ciò che potremmo definire gioco di “schermi su schermi”; proiezioni video che avvengono davanti ai nostri occhi e proiettano a loro volta video da smartphone. In più riceviamo dalla scena continui stimoli visivi che attingono al nostro quotidiano – facebook, whatsup, reality shows – contribuendo a un’esplosione visiva complessa ma comprensibile…

Tutto questo riguarda lo strumento che usiamo ogni giorno. Per comunicare utilizziamo un telefono cellulare e non un attore. Ogni giorno utilizziamo siti, skype, facebook, videocamere: sono questi gli strumenti reali che uso con il mio gruppo ogni giorno. In fondo un attore è molto lontano da noi, è qualcosa che non forma parte della nostra vita quotidiana. Lavoro con persone, certo, ma un attore è qualcosa di molto lontano e diverso dalla persona, per questo preferisco usare nei nostri spettacoli un performer o qualcuno che ha le nozioni dell’attore ma che non sia precisamente un attore. Per esempio Diego – nello spettacolo “Brickman Brando Bubble Boom” – è un attore perché fa il Padrino ma non lo è perché sta montando contemporaneamente una casa o sta usando una camera e suonando uno strumento musicale.

È chiaro quindi che la creazione di uno spettacolo non porta solamente al centro l’attore o il tema sviluppato. C’è altro da esplorare…

Serve qualcosa che apprendiamo dai francesi ovvero l’idea di dispositivo. Noi creiamo opere ma l’importante non è l’opera ma il dispositivo. La forma che prende l’opera è come una frangia che ti aiuta a unire concetti, drammaturgie e forme. Questo è molto importante per noi ed è molto importante per un teatro contemporaneo. Il dispositivo è importante perché ti sta forzando a raccogliere i tuoi strumenti e capire che non sono solo i tuoi attori.

Lo spettacolo proietta nella seconda parte della storia una frase: “tutti gli essere umani cercano un luogo dove vivere ma in pochi trovano la propria casa”…

In spagnolo c’è una differenza tra casa (house) e hogar (home) “Casa/House” è come dire condominio, si riferisce all’edificio, a un’idea fisica. “Hogar/Home” si riferisce a un luogo dove rifugiarti dove crei la tua identità e la tua famiglia. In questi anni “house” ha invaso “home”, ma noi abbiamo bisogno di case come identità e famiglie, non solo come edifici. “Hogar” in spagnolo viene da fuoco, un luogo dove c’è un fuoco che ci protegge dagli animali e dalle temperature della notte; solo che oggi la casa si è trasformata solamente in una specie di contratto sociale. Il mercato a poco a poco ha trasformato questo diritto sociale in un diritto artificiale e in un oggetto finanziario, e l’oggetto finanziario in un oggetto di speculazione. Per questo oggi non siamo più possessori di “hogar/home” ma di luoghi finanziari, quindi oggi la mia casa non è il mio luogo dove proteggermi ma un oggetto in cui speculo. Questo è molto pericoloso: quando credo che la mia casa vale in questi termini ma domani varrà di più nonostante io stia vivendo al suo interno, automaticamente scompare l’idea di “hogar/home”.

Alla fine accusate ironicamente gli spettatori – attraverso altre scritte proiettate – di essere persone “deboli” che credono nei sogni e nelle favole sciocche. Perché raccontate le vostre favole con il teatro?

C’è una frase che un artista ha esposto in una mostra: “ci raccontiamo storie per vivere”. È molto importante perché è la chiave del teatro. Abbiamo bisogno di una certa finzione e di una certa menzogna, di una certa favola, di un’idea d’inganno per alimentarci e sopravvivere. Dobbiamo far sopravvivere la nostra immaginazione ogni giorno. All’inizio il nostro Agrupación Serrano era molto concettuale, astratto, visuale e senza una drammaturgia. C’erano immagini e concetti, ma alla fine ci siamo resi conto che serve “raccontare storie per vivere”. Ci serve questo piccolo veleno. In fondo questo è come omeopatia, rivela l’antidoto. Questa idea di racconto e menzogna porta il suo virus dentro.

Alto Fest: apri! L’arte è di casa

 ALESSANDRA CORETTI | Calzature comode, elasticità visiva, mappa a portata di mano, una minerale ghiacciata. Questo il kit utile per addentare i ritmi di Alto Fest International Contemporary Live Arts (Napoli, 8-12 luglio). Cinquantadue location per centosette artisti è la grandezza con cui si definisce l’edizione in corso della kermesse che, in linea con lo spirito napoletano, è un miracolo continuo, un dono capace di rinnovarsi, per il quinto anno consecutivo, senza alcun tipo di finanziamento, ma esclusivamente grazie alla testardaggine di TeatrInGestAzione. Il nostro tour, tra i vari luoghi prestati all’azione performativa, comincia giovedì alle 17.30: immediatamente tangibile il sentimento di fondo che muove Alto Fest, innescare un risveglio emotivo dei luoghi e delle persone che vi entrano in contatto. Il festival infatti è concepito come un organismo relazionale totalizzante che ha fatto della filosofia del dono il suo mantra. Rimane in filigrana, ma affiora nelle politiche organizzative adottate da Alto Fest, il suo principale obiettivo: operare una rigenerazione urbana ed umana attraverso gli strumenti culturali. La sensazione è che ad Alto Fest piaccia giocare sulla sottile soglia che divide interno ed esterno, dimensione pubblica e privata, e si diverta così a riscrivere le logiche di questo scambio, dando valore in maniera inusuale al “rapporto confidenziale” che lega l’opera al suo spettatore. Così abitazioni, negozi, giardini, chiese, diventano i palcoscenici temporanei, privilegiati, per interventi artistici interdisciplinari, mentre una rete ospitale di cittadini offre un posto letto agli artisti e agli operatori culturali coinvolti nell’evento.

 Tentiamo di restituire una polaroid del festival, ripercorrendo le nostre prime tappe. Primo pit stop per Cage (assolo del progetto Traces of Casuality) di Katie Duck. La sessantenne di Amsterdam – che si esibisce all’interno della Chiesa San Girolamo delle Monache – utilizza il suo corpo simulando lo strappo violento fondamentale per svuotare l’anima; un imperativo impresso sul suo petto custodisce il senso di questa liberazione: feel! La donna gioca con un abito nero elasticizzato emblema di costrizione, difatti, per disfarsene chiederà aiuto al pubblico. Lo lascerà cadere in vita per poi sfilarlo completamente e avvolgerlo sul capo. La fisicità di Katie Duck, minuta e scolpita, spinge a fare i conti con le paure per liberarsene, togliendole via come un vestito che limita il corpo restringendolo. Attraverso una serie di domande e di disegni corporei, mutuati da studi sull’agorafobia, la performer vorrebbe farsi “promotrice” di una socialità resiliente. Interessante lo iato creato tra la biografia della protagonista: una donna avanti negli anni, che ha allevato da sola un figlio, che vive da single la sua maturità, e il luogo scelto per la performance: una chiesa. Il contrasto tra le peculiarità del luogo e la biografia della performer stimolano interrogativi e sguardi che mandano in cortocircuito le tradizionali categorie di pensiero. Il corpo come dispositivo epifanico è l’idea di base di Akis-Calendar della coppia italo-belga Fabris | Mansour. La performance, ideata ad hoc per Alto Fest 2015, ci catapulta subito in una dimensione onirica. Un numero considerevole di gradini conduce nel giardino di Casa Cremona/Tagliatela perimetrato da candele e abitato da una piscina gonfiabile colma d’acqua. Il pubblico è lasciato libero di appropriarsi di un punto di vista muovendosi liberamente nello spazio, mentre una voce fuori campo racconta il mito di Galatea, come una tessitura di suggestioni. Perdiamo più volte di vista il filo conduttore della performance ammaliati da una serie di tracce disseminate lungo il percorso dell’esibizione che si trascina anche all’ interno dell’abitazione e poi sul rispettivo terrazzo, con vista mozzafiato sulla città. Liberiamo i sensi in un viaggio estetico stimolato da input visivi e sonori che avvolgono il nostro immaginario. Un approccio totalmente diverso richiede la performance firmata da Roberto Corradino / Reggimento Carri Teatro, NAH NAH NAH A HEART SONG FOR YOU // WORKIN’ ON MANNOYO SINGER. Corradino in questo lavoro – per un unico spettatore alla volta – mette in scena un tentativo di seduzione. Tra gli assillanti odori e colori di un negozio di saponi artigianali obbliga lo spettatore ad un tête-à-tête. Quello che si consuma è un rapporto di conoscenza forzato tra due sconosciuti. Con disinvoltura e un paio di occhiali neri, che scherma i suo occhi, il performer invade il nostro spazio intimo senza pietà. Ci prende per mano, ci abbraccia, ci scioglie i capelli, ci invita a ballare con lui e poi ci fa sedere sulle sue gambe, riusciamo a sentire la consistenza del suo fiato e il suo petto villoso. C’è un senso di prossimità continua tra performer e spettatore, che provoca tutti gli imbarazzi del caso. Concludiamo questo prima carrellata su Alto Fest con Pocket Soundscapes della messicana Ana Paula Santana, la giovane sound artist propone un lavoro ispirato a I am sitting in a room di Alvin Lucier. L’intervento sonoro si innesta nello spazio di Bottega ‘E Pappecci, attraverso circuiti elettrici e microfoni a contatto, con cui ispezioneremo lo spazio che ci ospita. Lo spettatore è invitato a muovere i microfoni sul pavimento come fossero pedine di una scacchiera, per indagare la trama di fondo che lega i suoni all’ambiente che li contiene. Dopo un momento di iniziale timidezza ci lasciamo travolgere dalla curiosità e diamo il via all’esplorazione.

Il primo appuntamento con Alto Fest termina qui con una buona dose di entusiasmo, nonostante il ritardo di mezz’ora sulla tabella di marcia con cui alcune performance hanno avuto inizio (un disagio per un festival itinerante). La percezione, però, è anche quella di dover entrare nel flusso della manifestazione con una predisposizione mentale nuova, prendendo atto di essere parte di un esperimento immersivo che non contempla un tema specifico, piuttosto chiede al pubblico di non rimanere tale, ovvero di rimodulare la propria presenza di fronte ai luoghi, agli interventi artistici, all’idea di cultura e al suo modo di fruirne. Toneremo nelle prossime ore a perderci tra le molteplici dimensioni che questo evento è capace di farci vivere, tentando di abbandonare le remore e ponendoci, esclusivamente, in una dimensione di ascolto.