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venerdì, Marzo 29, 2024
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Dopo la prova e Persona: il dittico bergmaniano di van Hove

imageRENZO FRANCABANDERA  | Quello composto da Dopo la prova e Persona è un dittico di Ivo van Hove nato da una commissione della Josef Weinberger Ltd, London e dell’Ingmar Bergman Foundation, portato di recente in scena al Piccolo Teatro di Milano: due opere del grande regista attraverso la riscrittura drammaturgica di Peter van Kraaij. Van Hove era per la prima volta ospite nel teatro milanese, ma aveva già portato in altre occasioni in scena capolavori cinematografici di Bergman (Scene da un matrimonio nel 2005 e Sussurri e grida nel 2009), e il dialogo continua ora con altri “due testi sul significato del teatro e dell’arte nelle nostre vite e nella società in cui viviamo”, due riflessioni sul concetto di identità e sulla dualità realtà-finzione.

Entrambi vivono e respirano delle scene studiate da Jan Versweyveld. E’ un’oscura stanza, forse un backstage teatrale, una sorta di camerino, o dimora al confine con lo spazio scenico, grigia e opprimente, in cui però si trovano videoproiettori e fari da palcoscenico. Il film del 1984 racconta la storia della conversazione tra un maturo regista, Hendrik Vogler, e una giovane attrice, Anna, che egli sta dirigendo nel Sogno di Strindberg. La loro vicenda umana e professionale, in un gioco artistico e di seduzione si allaccia alla love story che il regista avrebbe vissuto anni prima con la madre della giovane e che ad un certo punto appare, pur essendo morta anni prima in una clinica per alcolisti, oppressa dalle frustrazioni ma anche da quel furore artistico che spesso brucia chi lo vive.
Uno spazio chiuso, che fa da purgatorio mentale per la vicenda delle due donne in un confronto generazionale a distanza in cui l’attore Gijs Scholten van Aschat muove una sorta di pendolo emotivo che scatena il confronto a distanza fra le due, che si condensa incredibilmente nello stesso luogo fisico, dando corpo ad una relazione quasi perversa e di contesa per lo stesso uomo e per la stessa arte fra la madre, una grande Marieke Heebink, che mette non solo la sua esperienza di attrice ma tutto il suo corpo a disposizione di van Hove, e la giovane attrice in grande ascesa Gaite Jansen.
Il confronto fra le due è forse più di tutto il perno delle scelte di van Hove rispetto al dittico, perché ancor più nel secondo, e ancor più in una finzione fra realtà e costruzione le due interpreti si confrontano in Persona, tratto dal celebre film del 66 di cui furono interpreti Liv Ulmann e Bibi Andrersonn, storia di due donne, Elisabeth (Heebink) e Alma (Jansen), la prima un’attrice che, durante una replica di Elettra viene colta da un irrefrenabile accesso di risa, seguito dalla chiusura in un assoluto mutismo, cui segue un periodo di forzato riposo. La seconda è la giovane infermiera che le viene affiancata. Fra le due sembra nascere un idillio di comunicazione e intesa oltre le parole, esaltato da una serie di ribaltamenti scenografici di grandissimo impatto visivo, con le luci a esaltare il bellissimo impianto di Jan Versweyveld che sventra la macchina scenica per trasportarci in una realtà tanto finta da sembrar vera con temporali e schiarite in riva al mare.
Il secondo pezzo, forse proprio in virtù di questa ariosa struttura visiva, resta più impresso e vivo, ma ha ragione di avvicinarsi al primo dei due elementi del dittico di cui pare voler risolvere e dire ancora, come se il rapporto madre figlia del primo tempo vada a risolversi in questo gioco di equivoci fra donne, in una crudele partita a scacchi al femminile in cui gli uomini finiscono per esser in fondo testimoni, quasi di passaggio, che entrano da una porta sul fondo scena e dalla stessa escono.

Ritorno al futuro: le nuove creatività lombarde – IL VIDEOREPORTAGE FINALE

FRANCESCA CURTO e VALENTINA SORTE |

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Dal 21 al 23 maggio, nel quadro di Ritorno al Futuro, Brescia è stata letteralmente invasa dalle “nuove creatività lombarde”. La seconda edizione è ormai alle spalle, è quindi tempo dei primi bilanci.

Nato dall’idea di sei residenze teatrali targate Etre e in collaborazione con Teatro Stabile di Brescia, il festival mira a promuovere compagnie professioniste emergenti attive in Lombardia. Lo fa attraverso un vero e proprio sistema di tutoraggio, per cui realtà teatrali ormai consolidate accompagnano le creazioni di giovani artisti, sostenendo attivamente la produzione, la promozione e la circuitazione dei loro lavori.

Quest’anno il tandem ha coinvolto rispettivamente Residenza Teatrale ILINXARIUM/ Raffaella Agate, Residenza Idra/C&C Company, Animanera/ PietraTeatro, Teatro Magro/ Luilebaciò, Associazione K. – Manifattura K./ CampoverdeOttolini, teatro in-folio/ La Confraternita del Chianti.

Si tratta di un nuovo modo di fare rete e di ripensare il futuro sostenibile delle arti performative. Il festival non è infatti una semplice vetrina culturale ma riesce a creare reali momenti di scambio e confronto tra compagnie, operatori culturali e critici. Le occasioni sono molte, dagli appuntamenti ufficiali alle situazioni più informali.

Per gli “addetti ai lavori” Ritorno al futuro è stata un’esperienza preziosa e costruttiva, grazie all’accoglienza e alla sensibilità dei suoi organizzatori – in particolar modo di Luca Marchiori di ILINX, Residenza Idra e Associazione Etre. Peccato però che questa iniziativa non abbia avuto finora un largo seguito tra il pubblico bresciano. Le potenzialità e le energie per creare un maggiore coinvolgimento col territorio ci sono. Attendiamo quindi con entusiasmo l’edizione 2016!

Per ingannare l’attesa, vi invitiamo a seguire il nostro video reportage girato durante i giorni del festival.

Mattoncini di ordinaria follia. Ambra Senatore a Interplay

Theatre de la Ville: "ARINGA ROSSA" coreografia di Ambra Senatore

GIULIA MURONI | È il foyer delle Fonderie Limone di Moncalieri ad accogliere “Mattoncini”, nuova fatica di Ambra Senatore con Caterina Basso, Matteo Ceccarelli e Elisa Ferrari. Scheletro di un prossimo spettacolo, l’idea è quella di formare appunto dei mattoncini della durata variabile, tratti dal quotidiano, da rappresentare in luoghi non convenzionali.

La corrente edizione di Interplay, che si chiuderà venerdì 12 Giugno al Museo Ettore Fico di Torino, ha ospitato come anteprima nazionale questo lavoro in fieri, firmato Ambra Senatore. Ambra Senatore - Viola Berlanda

In un foyer adibito ad interno, con tavoli, sedie, tappeti e divani agiscono i personaggi, mossi dal vivace talento di Ambra Senatore. La materia di questi tre mattoncini è frammista di parole e movimento, benché nell’ultimo la parola prenda un po’ il sopravvento. Non c’è una narrazione lineare: in pochi minuti a partire da gesti consueti e chiacchiericcio abituale, l’ordine dei discorsi viene destrutturato, capovolto o esacerbato. Emerge il filo sapientemente ironico con cui Ambra Senatore cuce i suoi lavori, forbiti nel lessico coreutico formale e nel contempo dotati di leggerezza arguta. (Si rimanda a una precedente riflessione sull’artista torinese : http://paneacquaculture.net/2014/12/17/aringa-rossa-il-caos-armonico-di-ambra-senatore/).

I dialoghi scorrono tra i personaggi a partire da eventi e situazioni nella norma: “hai visto tizia?” “Sai hanno aperto un ristorante..” e progressivamente si incagliano in paradossi e surrealtà che tuttavia non si discostano troppo dai dialoghi reali, venati spesso inconsapevolmente di una densa coltre di assurdità. Grumi di discorso che ricordano certi dialoghi di Ronald Laing in “Mi ami?”, dove questo stesso aspetto liminare tra normale e patologico in campo psichico viene mostrato in modo esilarante e lucidissimo. Questa disamina del quotidiano, dilatato dalla lente d’ingrandimento, lo distorce e rivela, rendendosi capace di un variare di registri e atteggiamenti che corrispondono alla schizofrenia del reale.

Molto buone le premesse, sicuramente da ampliare l’apporto specifico del linguaggio fisico, in vista di quel sincretismo lieve tra gesto e parola, cifra peculiare dell’opera di Senatore.

 

Il Toni di Mario Perrotta: videoreportage dalle rive del Po

FRANCESCA DI FAZIO | Toni il pitur. ‘Ntoni il matto. Antonio il naïf. Laccabue rinominato Ligabue. Anton lo svizzero. L’orfano. Il senza casa. Il solo. L’artista. Ci sono tutte le anime di Antonio Ligabue nell’intensissimo “gran finale” del Progetto Ligabue di Mario Perrotta, materializzatosi nei luoghi dove il pittore ha vissuto: Gualtieri (il Fiume), Guastalla (la Città) e Reggio Emilia (il manicomio). Un progetto di ampio respiro, che ha coinvolto circa duecento persone tra artisti e addetti, che soprattutto ha coinvolto le popolazioni di quei luoghi, rendendole partecipi della restituzione di un pezzo della loro storia. Gli abitanti hanno, con i loro racconti, aiutato a ri-abitare i luoghi del Toni, a ricostruire la sua figura di uomo e di artista: interessantissima in tal senso la visione del documentario “La Terra, il Fiume, il Toni. I luoghi e la vita di Antonio Ligabue” con Mario Perrotta e le testimonianze e le affascinanti letture dell’opera di Antonio Ligabue di Gian Luca Torelli, custode del museo dedicato al pittore.

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Percorso Città
Uno straniero che parla solo tedesco arriva in città, guardato con scherno e diffidenza dagli abitanti del posto. È il Toni, Anton, lo svizzero. Quello espulso dal suo paese d’origine perché denunciato dai genitori adottivi. Quello che il padre non l’ha mai riconosciuto, quello che la madre lo affidò ad altri genitori dopo averlo partorito. Quello che gli altri genitori l’hanno espulso. Arriva, alle soglie del ventennio fascista, di anni duri, premonitori di fuoco di guerra. Da qui lo seguiamo attraverso gli anni e attraverso meravigliosi luoghi delle due piccole città, Guastalla e Gualtieri, che non l’hanno saputo accogliere. Perché Ligabue bosco era, natura, bestia. Lontano dai paesaggi urbani sentiva la sua anima di sostare. Da qui percorriamo quei luoghi che ha sfiorato, senza lasciarsi trattenere. Percorriamo le piazze di Guastalla invase dai tedeschi, che su pullman turistici modello 2014 e suoni registrati di sirene ci portano a Gualtieri, e dopo il viaggio la guerra è finita. Sono gli anni del boom economico e al meraviglioso Teatro Sociale di Gualtieri, piccolo gioiellino settecentesco, vediamo il Toni vivere la comparsa del cinematografo e sognare attraverso i film d’avventura ambientati nella giungla, che tanto lo affascinava. Non vediamo solo il Toni: con e contro di lui ci sono sempre gli abitanti che non lo comprendono, che al cinema lo zittiscono quando imita il verso degli animali, che gli ballano intorno con intense e sconnesse coreografie (curate da Mario Coccetti) in una danza urbana che lo esclude e spaventa. Arriviamo all’anno 1951, l’anno del dramma della piena del Po che invase con le sue acque tutte le città della bassa reggiana, a cancellare ogni differenza tra paesaggi cittadini e campagne. Il racconto della piena è affidato ad un intenso monologo che grazie all’interpretazione di Lorenzo Ansaloni (interprete del Toni per il Percorso Città) tiene sospesi, avvince, emoziona.

Percorso Fiume
la Golena del Po, l’argine che l’ha accolto. Qui nel ’20 Toni iniziò a dipingere. Dipingeva natura con natura. Usava l’erba per il verde, la terra per il marrone, i fiori per i colori e con l’argilla scolpiva. Mangiava quello che gli capitava, quello che il bosco gli offriva. Era il re del bosco. Lì visse solo, in voluto isolamento, in ricercato silenzio. Ma quelle giovani coppie di amanti…nel bosco vediamo apparire una danza di paese, un rincorrersi di giovani ragazzi, un inno all’incontro dei corpi. Ci sono anche le meretrici del paese, quelle che non rifiutano nessuno. Perché invece lui doveva rimanere solo? Perché sua mamma lo aveva cacciato via? Perché l’hanno sempre tutti emarginato? A lui basterebbe una donna, una carezza, una tenerezza. Un bès. Ma il suo cuore era troppo tenero, per trovarne un altro come il suo. Allora lì deve restare, tra le bestie, perché bestia lui stesso. È aquila, è leopardo, con quel muso irregolare, animalesco. Tali e altre parole le sentiamo provenire da una lontana chiatta sul fiume, su cui intravediamo una figura di uomo che al fiume parla, e si agita. Pian piano si avvicina, ma sempre coperto dalle foglie degli alberi. Lo vediamo appena, mentre ci emozioniamo ascoltando il monologo offertoci da Marco Cavalcoli, delicato e forte al punto giusto, mentre guardiamo quell’acqua piana del fiume, mentre tra alberi ed erba sentiamo una voce umana che sa di lontana tenerezza. Il percorso continua lungo la sponda e, poco più in là, un violino si dava. Con una sonata per violino e voce, proveniente da un’altra chiatta lontana, il fiume ci dà commiato. A noi, ma trattiene con sé il Toni, che lento su una canoa passa e va.

Tutto ciò che di Toni si poteva raccontare è stato raccontato. Siamo stati calati in lui. La regia e la drammaturgia (o sceneggiatura, verrebbe da dire) consentono di conoscerlo in modo immediato, senza avvertire il peso di un racconto narratologico. La ri-costruzione della sua vita è attuata con onestà e verità. Ci si sente dalla sua parte.

Alla fine dei percorsi, su quei pullman un po’ disorientanti, si torna nella magnifica piazza Bentivoglio di Gualtieri. Anche qui modi e usanze di ieri si rimaterializzano calandoci in una realtà altra e allo stesso tempo credibile, vera. Una banda suona la marcia funebre, introduce l’arrivo della bara. Toni è morto. E ce lo racconta lui stesso, mentre si arrabbia con noi per essere andati al suo funerale, pur non avendolo mai considerato prima, pur avendo disprezzato i suoi quadri. Vergogna, ci dice, vergogna. Con quella sua rabbia di bambino offeso, mai crudele o sporca come quella degli adulti. Perché in fondo, anche qui, Toni chiede solo un bacio. Lo grida. Un bés. Lo grida per lui Mario Perrotta, nell’unica sua apparizione in questi spettacoli di Bassa Continua. Lo grida con forza che commuove. Col grido si chiude la storia. Il corteo si allontana, un muto Toni sopra la bara, quasi a statua di sé stesso.

Un video-reportage dei giorni di Bassa Continua – Toni sul Po:

Ritorno al futuro, vol.2: nuove creatività a confronto

FRANCESCA CURTO e VALENTINA SORTE | In occasione della seconda edizione del Festival Ritorno al Futuro, Brescia guarda al teatro giovanile e sceglie lo Spazio teatrale Idra e il Teatro Santa Chiara per ospitare le produzioni teatrali di sei nuove creatività lombarde: Raffaella Agate, C&C Company, PietraTeatro, Luilebaciò, CampoverdeOttolini e La Confraternita del Chianti. Attraverso il tutoraggio di sei residenze teatrali appartenenti ad Associazione Etre, le giovani compagnie sono arrivate a presentare lavori interessanti ed originali.

Ad inaugurare Ritorno al Futuro il 21 maggio è stata, presso la Residenza Idra, Raffaella Agate con “La mia gamba sinistra”, il primo spettacolo da lei firmato, approdato a Brescia con la collaborazione di Ilinxarium. L’attrice e danzatrice coniuga in una sola performance le sue due passioni dando vita al personaggio super caricato di Laura Bonola-Bestetti, repressa e diritta rampolla dell’omonimo studio legale che insegue le taciute pulsioni solo attraverso la gamba sinistra. Con un pizzico di trasgressione, a tratti eccessiva e ingiustificata, la Agate ci racconta desideri e punizioni, marce eccitanti e imposizioni, che hanno trasformato Laura nella promettente marionetta in rima dello studio Bonola-Bestetti.

MG_0744Alla provocazione danzante dell’Agate, fa seguito al teatro Santa Chiara lo spettacolo di teatro-danza “Tristissimo”, seconda produzione della trilogia del dolore, che C&C company porta in scena con l’aiuto di Residenza Idra. L’atmosfera deprimente richiamata dal titolo è subito evocata dalla nebbia fitta che accoglie lo spettatore in sala e che precipita, grazie alla musica mistica che la accompagna, in un’atmosfera onirica e rarefatta. Sul palco da Balletto Civile arrivano Carlo Massari e Chiara Taviani, che tagliano la nebbia con i loro corpi nudi e imparruccati, due moderni Adamo ed Eva biondi. Cominciano la vestizione e una giornata particolare, un blue monday che raccontano con il corpo. Con la loro innovativa modernizzazione del dramma wagneriano di Tristano e Isotta colpiscono per la visione impattante ma non altrettanto con il senso. Di triste rimane giusto il titolo di fronte a parecchi momenti irriverenti. La cura dei particolari è quella che rimane più impressa: una scenografia “pelosa”, richiamata da parrucche che si evolvono in trecce chilometriche, geoidi di capelli e yeti che ballano.

Ad aprire in modo inaspettato la seconda giornata del festival è “Senso” di PIETRATeatro che propone agli spettatori un percorso sensoriale straniante e allo stesso tempo intimo. Molto diverso l’approccio con il pubblico pensato da Luilebaciò in “GRADI KÆLVIN”, nella seconda parte della serata. Avvalendosi di un codice performativo eclettico, che accoglie performance fisiche, danza e ricerca sonora, la giovane compagnia tenta una riflessione personale sul tempo e sulla morte. Nonostante la severità dei temi affrontati, la scrittura scenica è vivace e ironica, molto leggera. Si passa da una divertita e frenetica corsa nel tempo, fra passato e futuro, a una coreografia, in cui i corpi dei performer diventano a intermittenza stroboscopica ingranaggi di un orologio. Luilebaciò affronta anche la spinosa questione della morte targata  2.0. Gli spunti sono numerosi e interessanti, ma lo spettacolo soffre di una certa bulimia e manca una ra unità d’azione. La regia è infatti firmata collettivamente. Le scene hanno un forte impatto visivo e sono curate, ma il pubblico non ha il tempo di metabolizzarle è a rischio di indigestione. Luilebaciò è comunque un gruppo pieno di potenzialità e un palcoscenico come Ritorno al futuro è un’occasione preziosa per capire come dosare la propria creatività.

diada-5CampoverdeOttolini e La Confraternità del Chianti chiudono la terza e ultima giornata del festival bresciano con, rispettivamente, “DI A DA” e “La bottega del caffè”. I primi presentano, sotto forma di studio, un monologo liberamente ispirato all’Antologia di Spoon River, in cui il protagonista è un essere ingenuo e autocentrato, chiuso nei mondi che inventa e incapace di accogliere la propria alterità. Marco Ottolini solo in scena dà vita alla sfrenata immaginazione di ME. Basta poco – dei cocci di legno, dei fili e dei pupazzi, dei suoni – per ricreare ambienti acquatici o città immaginarie: protesi dell’io, tanto affascinanti quanto precarie. L’atto creativo si rovescia presto nel suo opposto. Tutto implode e ME si trasforma in un inconsapevole distruttore, delle sue creature e di sé. Elisa Campoverde appronta un’originale riflessione sul potere ma non si coglie ancora chiaramente la direzione della sua ricerca. Allo stesso modo la relazione tra il personaggio e il pubblico in sala non sempre è facile da decifrare. Siamo quindi curiosi di vedere come si svilupperà questo primo studio. Il debutto è previsto per la seconda metà dell’anno.

Dentro e oltre l’immaginazione: il “Flauto magico” di Fanny&Alexander

FRANCESCA GIULIANI | Ingmar Bergman in Fanny & Alexander rende omaggio al teatro e all’apparenza teatrale di persone che si muovono tra realtà e immaginazione. Il film si apre su un teatrino giocattolo e Alexander e si chiude con Il sogno di Strindberg che recita: “Tutto può avvenire, tutto è possibile e verosimile”. Nel Flauto magico dello stesso regista una bambina dai capelli rossi osserva costantemente ciò che avviene con il volto che sembra bucare lo schermo; nello stesso le prime inquadrature sono i visi di spettatori che guardano la messa in scena, che è poi un’opera registrata per la tv svedese. Maria Anna, sorella di Mozart, scriveva in una lettera che quando erano bambini Amadeus si era inventato un gioco, “das Königreich rücken” il reame del didietro, dove non c’era spazio per gli adulti e lui era il re. Nel Flauto Magico l’Amore è il tema principale e, affiancato dalla Musica e dall’Arte in toto, è l’unico vincitore nella lotta tra il Bene e il Male. Sono i primi indizi e l’elenco potrebbe continuare ma è sufficiente per dire che tutto questo, e tanto altro c’è nel Flauto Magico dei Fanny&Alexander, alle prese per la prima volta con la messa in scena di un’opera lirica.

Rocco Casaluci
ph. Rocco Casaluci

La trama del Singspiel di Mozart è molto semplice, quasi una fiaba: un rapimento, un principe salvatore, una serie di prove e il trionfo dell’amore. Alla Regina della Notte (Christina Poulitsi, in scena) viene rapita la figlia Pamina (Maria Grazia Schiavo), dal crudele sacerdote Sarastro (Mika Kares) ma il giovane principe Tamino (Paolo Fanale) con l’aiuto di Papageno (Nicola Ulivieri), il buffo uccellatore della Regina, e tre Dame tenta di trovarla. Nel regno di Sarastro scopre Pamina. Fine primo atto, inizio secondo, il mondo si capovolge. Il sacerdote è buono, la regina cattiva, Tamino e Pamina sono innamorati così come Papageno e Papagena; superate tre prove Tamino e Papageno trovano la felicità con le loro innamorate.

Fin da subito il regno di Sarastro ci avvolge. Nel Teatro Comunale di Bologna, che ha ospitato il Flauto Magico per la regia di Luigi De Angelis, la drammaturgia e i costumi di Chiara Lagani e la direzione musicale di Michele Mariotti, non sono semplici maschere ad accoglierci ma un coro di “sacerdoti” che recano sugli abiti la targhetta “Teatro di Sarastro”. Come aiutandoci a varcare la soglia della rappresentazione ci danno i primi indizi di ascolto e visione.

Occhialini alla mano pronti a indossarli al primo richiamo veniamo travolti dalla foresta che fuoriesce dal video, creato da ZAPRUDERfilmmakersgroup, andando a sfiorare uno a uno gli spettatori. In questa sensazione d’immersione iniziale il corpo è penetrato dalla visone di due bambini che dalla profondità si avvicinano allo schermo come se volessero uscirne. Come giganti immobili ci guardano, sorridono con sguardi di sfida o aggrottano gli occhi nel tentativo di capire qualcosa che sembra indefinibile. Sono un bambino e una bambina che vestiti come marinaretti citano i due predecessori del film bergmaniano, che è anche ispiratore del nome della compagnia, Fanny&Alexander. Si avvicinano e trovano un teatrino giocattolo che, seguendo per filo e per segno l’immaginario del regista svedese, reca le stesse scritte del “teatro” di Alexander, che a sua volta ripeteva il motto del Teatro di Copenhagen, “EI BLOT TIL LYST”, “non solo per il piacere”. Iniziano a giocare. Un drago/dinosauro e un uomo combattono. Il drago/dinosauro punta verso lo schermo, esce e appare Tamino in carne ed ossa che scappa. Siamo dentro il Flauto Magico. “Dove sono? Questo è un sogno o la realtà?”, dice Tamino racchiudendo in questa frase tutta l’opera e la messa in scena stessa.

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ph. Rocco Casaluci

Fin dall’ouverture quella doppiezza, che già si fonde nel nome della compagnia ravennate, una doppiezza che allude alle possibili trasfigurazioni di realtà mescolate nell’ambiguità di immaginari che confondono il buio con la luce attraverso alternanze o eccessi di bianco e di nero, tende a evidenziare il tema portante del Flauto. Ed è in questo stesso gioco di luce e buio che i giochi di ombre si alimentano, che il teatro stesso si fonda e che la fotografia si basa. E siamo proprio in un teatro, dove la scena si costruisce finzionalmente su proiezioni; il gioco è quello di due bambini che sembrano immaginare l’opera davanti ai nostri occhi azionando attraverso desiderose occhiate, ironici sorrisi e inquietanti bronci i corpi dei cantanti che in scena appaiono come piccole marionette viventi; e la fotografia è l’idea che fa da sfondo all’impianto scenografico, ideato da Nicola Fagnani sull’apertura chiusura di un sorta di gigante diaframma che varia di colore e forma a seconda dello sfondo/mondo che ospita. Varcando non solo la profondità dello schermo ma del teatro stesso i livelli interagiscono. Il teatro e il proscenio ospitano il regno rosso di Sarastro accompagnato dal feroce Monostato. Il fondo ospita il regno blu/nero della Regina della Notte. A metà, la foresta, l’otturatore verde e lo schermo che ospita il video animato attraverso la tecnica cinematografica dell’anaglifo (3D).

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ph. Rocco Casaluci

“Dove sono? Che cosa vedo? […]” si chiede Tamino mentre i due bambini nello schermo continuano ad osservare e nell’osservare è come se guardassero attraverso la loro fantasmagorica immaginazione ciò che avviene duplicandolo e duplicandosi loro stessi negli altri bambini presenti in scena tra gli schiavi di Monostato o nei tre fanciulli che fanno da guida al viaggio di Tamino e Papageno durante la risoluzione delle tre prove.

È nell’ambiguità dei segni che si fonda quest’opera di Fanny&Alexander, nell’enigmaticità di uno sfondo nel quale l’avvicinamento alla verità crea doppi significati e molteplici visioni. E la rappresentazione, palesando la sua finzione di gioco fanciullesco, avviene e si fa necessariamente reale.

Ritorno al futuro: le creazioni più innovative del festival

FRANCESCA CURTO e VALENTINA SORTE | Tra le proposte più innovative messe in campo dalle creatività lombarde di Ritorno al Futuro spiccano i quindici minuti di “Senso”, prima produzione di PietraTeatro che mira a condurre gruppi di sette spettatori attraverso un percorso di riscoperta dei cinque sensi, assorto nell’oscurità.

«Aspettate qui» è l’unica indicazione che arriva da un moderno Caronte dopo che ha “traghettato” in fila indiana le sette anime nello Spazio Idra di Brescia. La piccola attesa che pare un’eternità offre allora una prima occasione di ascoltarsi e di cercare un contatto con gli altri. Si respira stupore, allegria e un po’ di titubanza, finché dal grande buio comincia ad avanzare la piccola luce di una torcia, tra le mani di un’attrice bianco-vestita che vuole essere seguita in uno strano angolo di Paradiso in cui lei rappresenta la divina Beatrice. Beatrice è la luce, e con lei il primo senso, la vista, si accende su sei corpi femminili che cominciano a svegliarsi tra le bianche lenzuola di un letto improvvisato in una buia soffitta. Quando il letto si svuota delle sue ninfe dormienti, tocca allo spettatore prenderne il posto e avvertire la morbidezza del suolo e la dolcezza dell’abbandono. A ciascuno dei sette eletti spetta infatti una ninfa, che con fare materno lo accompagna ad adagiarsi tra le lenzuola.

«Chiudi gli occhi»gli sussurra all’orecchio e, mentre lo strofinio delle lenzuola che passano sulle gambe simula il vento e smuove l’olfatto con un profumo di fresco, si ode il racconto di un bambino che corre tra i gelsomini ed assapora una ciliegia prima che arrivi l’inverno, che con la sua neve sembra solleticare gelidamente i piedi. Con la stessa dolcezza la ninfa lo conduce al risveglio e all’intimità del luogo materno, collocato agli angoli del materasso.

«Accarezza il ventre della lupa» è il nuovo invito delle ninfe, che introducono la mano degli eletti in una concavità di pelle che non si sa quanto è possibile esplorare. Dopo l’incontro più intimo con il corpo materno, le ninfe si scompongono con la stessa fluidità del gocciolio che le accompagna, in statuarie madonne con bambino, per poi tornare tra i loro canti al letto in cui l’inerme spettatore vorrebbe nuovamente accoccolarsi un’ultima volta. Ma il quarto d’ora è finito e Beatrice riappare con il faro acceso per esortare gli spettatori a lasciare una volta per tutte l’onirico posto e a cedere il morbido letto al prossimo gruppo.

Grazie anche al coordinamento di Animanera, la performance ideata da Natascia Curci offre un’esperienza piacevole e personale allo spettatore e agli stessi attori che partecipano a questa forma di teatro performativo talmente priva di limiti e barriere – a cominciare da scarpe, borse e zainetti – da risultare estraniante. Questa totale libertà rappresenta per PietraTeatro la sua forza ma anche il suo difetto, di fronte all’impatto di un’esperienza personale così forte il rischio è infatti di non riuscire a rendere tutti partecipi allo stesso modo nel progetto.

Nel quadro del festival, un’altra proposta originale è stata sicuramente la riscrittura de La Bottega del Caffè presentata da La Confraternita del Chianti.bottega-1

Sotto la penna di Chiara Boscaro, il testo goldoniano riacquista una nuova vita. Il toscano che l’autore veneziano aveva scelto nel 1750 come lingua accessibile a un largo numero di spettatori, viene rimpiazzato da un impasto linguistico molto vivace, ricco di espressioni e inflessioni dialettali. La novità del linguaggio non si esaurisce però in questa forte caratterizzazione, ma si traduce in una vera operazione di attualizzazione. Goldoni fa un salto nella contemporaneità: freespin, scatter e video poker diventano la nuova grammatica del ludopatico.

Marco de Stefano non è da meno e firma una regia agile ed elastica. La chiave del suo lavoro sta nell’uso dello spazio scenico. La Bottega del Caffè si svolge infatti in un tipico campiello veneziano. Per riprodurre questo effetto, il giovane regista spezza il rapporto di frontalità fra pubblico e palcoscenico. Lo fa sia accogliendo in scena sei malcapitati spettatori, sia offrendo alla platea una “visione a 360 gradi”, spostando spesso l’azione dei personaggi lungo i corridoi laterali o il fondo della sala. L’impressione è quella di essere in una piazza e di partecipare collettivamente a una tragicommedia privata.

Non è un caso allora che una vicenda come questa, piena di colpi di scena, equivoci e svelamenti sia l’occasione per La Confraternita del Chianti per sfruttare, mentre li addita, tutti i meccanismi teatrali. Gli a parte diventano così veri e propri esercizi di metateatralità. E in questo gioco di continui rimandi, il grande assente è proprio il protagonista della storia, Eugenio. Di lui, sappiamo che passa tutto il tempo nella sala giochi, ma non lo vediamo mai. A suggerire la sua presenza una fessura nel sipario, alle spalle degli attori, e una vistosa insegna luminosa: “SLOT”.

La direzione d’attori è piuttosto buona. L’interpretazione è volutamente sopra le righe, esaltata dalla mimica facciale grazie all’uso della biacca. Convincenti Marco Pezza (il Conte Leandro/Flaminio), Giulia Versari (Lisaura, Placida) e Diego Runko (Ridolfo), bravi Giovanni Gioia (Don Marzio) e Valeria Sara Costantin (Vittoria).

Meritati dunque gli applausi. Resta però un interrogativo. Come tutte le commedie dal piglio frizzante e pungente, la rapidità degli affondi e la facilità delle risate rischiano di rimanere una provocazione e di non fare veramente presa sullo spettatore, anche fuori dalla sala. La giovane compagnia sembra voler scampare a questo pericolo e termina lo spettacolo con un appello diretto al pubblico: «avete riso di questi personaggi, fate che non si abbia, da oggi, a ridere di voi». Basterà?

Note di cucina: Loris rimette la minestra di Garcìa sul fuoco

outoff-note-di-cucinaRENZO FRANCABANDERA | Il tema dell’alimentazione, Expo, e così via… Salteremmo un’intro sulle ragioni di una scelta che riporta Lorenzo Loris sul terreno della drammaturgia iper contemporanea di cui è frequentatore occasionale, avendo finora più spesso preferito autorialità del secondo dopoguerra, diciamo drammaturghi e testi più legati agli anni 60-70. Insomma Rodrigo Garcìa, l’argentino delle periferie di Buenos Aires, con il suo Note di cucina, è una sfida sicuramente per il regista dell’Out Off. Lo è adesso e lo era a maggior ragione nel 2004 quando propose il testo per la prima volta, sempre all’OUt Off.

Torniamo quindi sull’intro che abbiamo saltato per dire che si, certamente l’occasione della riproposizione sarà pure Expo, ma questa questione poetica, letteraria, concettuale, era già stata al centro dell’interesse artistico. All’epoca i tre attori in scena furono Gigio Alberti, Elena Callegari, Mario Sala, un trittico che più Out Off non si può.

Ora per il remake Loris sceglie Mario Sala, Massimiliano Speziani, Monica Bonomi che quanto ad outoffezza sono decisamente in linea con la tradizione. Forse Speziani un po’ meno continuo, ma sta recuperando forte e la presenza della colonna Sala a distanza di undici anni fa media per questo che, a tutti gli effetti, deve evidentemente intendersi a questo punto uno spettacolo di repertorio, ancorchè questo teatro milanese non abbia mai ritenuto il concetto di repertorio come elemento fondante di una poetica che invece trova proprio nel continuo innesco la sua forza motrice.

Andiamo allo spettacolo, agito su un’installazione pittorica di Giovanni Franzi, che racconta una società alle prese con la fagocitazione di cibo e forse più ancora di se stessa: questo è il cuore dell’allestimento ma soprattutto del testo che mescola in modo audace, a tratti folle, non sempre continuo ma sempre tagliente, “fuori”, distonico, il rapporto fra gli individui, letto attraverso una vicenda surreale che non ha nulla di erotico ma è sessuale, non ha nulla di sociale ma è politica, non ha nulla di rivoluzionario ma è sovversiva.

L’allestimento scenico si dota di due pannelli di proiezione laterali e uno a fondo sala, su cui vanno in onda dei video inserti, che hanno a che fare con il tema della macellazione, della dimensione carnivora e violenta dell’alimentazione.

Questo tema affiora di tanto in tanto nei video-inserti scenici di alcune recenti regie di Loris, ma di rado il tema arriva a quel giusto contrasto con quanto il testo fornisce, e a volte suona più didascalia. Insomma dovrebbe ricavarsene fastidio o qualsiasi altra dimensione di estraneità al sensibile.

Purtroppo nella società al tempo di Esselunga e Auchan, con il bancone carne in bella mostra e sul fondo i macellai a tritare e tagliare in diretta, video di questa specie non aggiungono sentimento o emozione e a volte invece che scandire un ritmo lo tolgono. Segnaliamo peraltro, e questa è una considerazione personale, che forse hanno allora ragione d’essere ben più forti le provocazioni performative come quelle di Garcìa stesso, dove in “Accident: matar para comer” ovvero “Incidente: uccidere per mangiare” faceva bollire in scena un’aragosta, facendone sentire il sibilo di sofferenza, o dell’austriaco Hermann Nitsch con le sue  performance estreme di ammazzamento in pubblico all’interno di una teca, di animali, come nella tradizione contadina. O gli esempi di rituali panici cui Jodorowski fa spesso menzione nei suoi scritti.
ll medium video, che subito nella nostra coscienza si avvicina al televisivo, proprio in proposte come queste della macellazione trova su quel livello di dettaglio rispetto alla pornografia della carne, del cibo e all’ostentazione della violenza un paragone da cui risulta subito purtroppo perdente rispetto a quanto la tv propone. Il tutto proprio mentre il testo pare decollare, come nell’altissima ed erotica elencazione dei verbi, in cui eros, cibo e corpo umano si fondono sulle labbra di un’ispiratissima Monica Bonomi, che li declama in impermeabile e a cosce schiuse, con un effetto deflagrante sul potenziale di questa testuali anti narrativa.

Perché alla fine, il rapporto fra la donna e uno dei due cuochi è totalmente un pretesto, mentre il testo è essenzialmente un insieme di micromonologhi su situazioni assurde del vivere, in cui il cibo diventa elemento per fare distinzioni di classe, genere, idea.

Il testo ha momenti di maggior ispirazione, spiagge di fine sabbia lirica su cui le onde della drammaturgia si infrangono ora forte, ora piano, e su cui la regia ben si appoggia, ma non è esente da fasi di stanca, di risacca. Qui forse qualcosa in più poteva esser fatto, oltre al lavoro degli attori che pure resta meritorio, che ben lavorano in trio per trasportare sempre la parola in un universo di simboli e concetti che parte dal reale per atterrare in un immaginario che si presuppone individuale, soggettivo, quello del pubblico, un pubblico finanche evocato, ripreso da telecamere, videoriportato.

Detto questo, lo spettacolo forse conserva un sapore un po’ vintage, che non bastano le video inserzioni a togliere via. Insomma, la minestra resta  buona, ma forse andava ricucinata ex novo, ripensata, ribollita. Non in senso stretto, ovviamente.

Ricci/Forte su tutte le furie: rendiconto di un trittico

 IMG_8949IRIS BASILICATA | Le formiche si muovono in fila indiana per adempiere ai loro compiti e guadagnarsi il cibo. Calme e pazienti si mettono in fila ad una stessa distanza le une dalle altre. Così allo stesso modo dal 12 al 21 maggio gli spettatori del teatro India si sono messi in fila indiana per guadagnarsi un biglietto per vedere i tre spettacoli del Trittico furioso di Ricci/Forte. Still life, Macadamia nut brittle e Imitationofdeath. C’è il pienone. Vediamo cosa c’è di così furioso.

Qualcuno, per smorzare l’attesa e anche il caldo atroce, parla di spettacoli che si tengono in altri teatri. Male, ovviamente. Bisogna sempre parlar male degli altri spettacoli con il proprio casuale vicino. “Non aggiunge niente” è questa la grande critica che solitamente si fa. Di certo non si può dire per gli spettacoli che si sono tenuti in questi giorni all’India. Sicuramente il linguaggio utilizzato dalla compagnia è molto forte, senza peli sulla lingua. La tematica, forse, un po’ troppo ripetitiva, è quella dell’amore, soprattutto omosessuale. L’amore omosessuale; e perciò condannato. Ricci/Forte mettono a nudo l’uomo con le sue paure e le sue incertezze. Gli attori si spogliano, si violentano, si afferrano per i genitali, parlano di cosa hanno perduto. Non si risparmiano: sicuramente l’aggettivo con cui si possono descrivere queste recitazioni è prima di tutto “atletiche”. Un lavoro del corpo molto faticoso. La cosa che sorprende è che anche un pubblico non proprio giovanissimo apprezza le idee cosi’ vivaci, i corpi nudi in scena, le scene di violenza molto spinte ed il linguaggio non proprio ordinario. Durante la messa in scena di uno dei tre spettacoli, seduta tra due uomini, gli attori della compagnia si avvicinano e baciano appassionatamente i miei vicini che all’inizio non battono ciglio ma poi mi guardano, un po’ imbarazzati. No, cari vicini. Tranquilli: non vi giudicherò perché siete stati baciati da due uomini.

Il pubblico viene coinvolto anche quando viene chiamato a scrivere su un grande cartellone bianco il nome della persona che ha perduto, di quel vuoto che ognuno di noi sente intorno a sé. Insomma, gli spettacoli toccano sicuramente qualcosa che ci riguarda nel profondo e nell’intimo. È la furia del giudizio altrui, sempre presente e sempre minaccioso, è la furia della perdita di qualcuno, sfogata in lettere che vengono lette e che mi viene il dubbio non siano di pura invenzione. È la furia dell’amore dolce ma preconfezionato come un Haagen- Dazs al gusto macadamia nut brittle, è la furia dell’uso e dello sfruttamento del corpo fino all’estremo, è la furia delle conversazioni multimediali da cui si può trovare rifugio solo che nelle serie tv, dell’abbandono e della perdita di ciò che abbiamo di più caro. L’amore e la morte sono due facce della stessa medaglia perché sono tra le esperienze che più segnano la nostra vita. Gli attori raccontano le loro più intime esperienze. Tutto comincia chiaramente, con i respiri degli attori che scandiscono lo scorrere del tempo.

E poi ci sono pasticcini. Tanti pasticcini, messi in fila e poi schiacchiati. Un coniglio viene scuoiato vivo mentre intona una canzone di Mia Martini. Lisa Simpson si rifugia in una tenda di Hello Kitty.
E a me è venuta fame.

Interplay 2015 all’insegna della molteplicità di estetiche

GIULIA MURONI | Ha preso il via la quindicesima edizione di Interplay. La kermesse torinese guidata da Natalia Casorati conferma la propria inclinazione bifronte: guardando all’Italia e all’estero, propone artisti esordienti, perlopiù selezionati per talento dalle reti di operatori e realtà consolidate del panorama nostrano e non solo.

Nella seconda serata, al Teatro Astra di Torino, si sono succeduti gli spettacoli “Strascichi” di Irene Russolillo e  “Complex des genres” di Virginie Brunelle.

La prima performance, diretta e danzata dalla giovane danzatrice pugliese, intesse un personale collage di azioni e sensazioni attraverso una partitura di movimento, parole e suono. I testi attingono da un ricco repertorio, Beckett, Cohen, Morante, Szymborska, e fanno da contraltare a musiche e arrangiamenti originali. La danza è agile, asciutta nel suo tendersi nervoso, potente in realizzazioni inedite: Russolillo si mostra performer poliedrica e intensa.

“Complex des genres”, ad opera della compagnia canadese guidata da Virginie Brunelle, ha dato vita a uno spettacolo ricco e efficace, che ha suscitato un’ovazione dal pubblico. I sei interpreti, tre uomini e tre donne, sulla scena si annodano, perdono i confini tra sé e l’altro, hanno atteggiamenti ludici, voluttuosi, irosi. Un disegno luci articolato ha pennellato la scena e i corpi dei danzatori in modo sapiente, elegante. La partitura coreografica ha raccolto a piene mani dal codice della danza classica per risignificarlo mediante una cornice di senso totalmente altra. Anche l’elemento acrobatico porge la mano alla costruzione di uno spettacolo che vuole mostrare la natura labile e paradossale dei generi, laddove maschile e femminile sono costruzioni più culturali che biologiche in senso stretto. Spettacolo immediatamente fruibile, è arrivato con forza al pubblico dell’Astra, commosso e partecipe.

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Alle Fonderie Limone, Interplay darà il suo contributo al progetto “Torino incontra Berlino” con la proposta di due realtà provenienti dalla Germania: la coreografa israelo-tedesca Zufit Simon e Stephen Herwig. Serata spartita con “Gut Gift” di Francesca Foscarini e Yasmeen Godder. Sarà poi la volta dei Blitz Metropolitani, realizzati in collaborazione con Torino Jazz Festival Fringe 2015 e con Torino Capitale Europea dello Sport, dove si susseguiranno brevi performance Daniele Ninarello, Sara Marasso con Stefano Risso, Lali Ayguadè, Daniele Albanese, Francesco Cordova Azuela e Virginia Garcia insieme a Damiàn Muñoz.

Un’altra serata alle Fonderie Limone il 30 Maggio e infine il 12 Giugno performances site-specific nel Museo Ettore Fico. Questo il pacchetto Interplay, costellato di collaborazioni importanti, varietà di luoghi, performance in contesti urbani, aperitivi con dj-set, workshop e, soprattutto, un ricco cartellone di spettacoli parla di una rassegna che, nonostante i tempi di crisi e anche in virtù di una proficua rete di partner  e di collaborazioni, dichiara e dimostra di tenere viva l’attenzione sulla pluralità dei linguaggi del contemporaneo.