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giovedì, Marzo 28, 2024
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“L’asino albino”, Cosentino e la bugia delle piccole cose

Andrea Cosentino ne L'asino albino
Andrea Cosentino ne L’asino albino

MATTEO BRIGHENTI | Il tempo nel Belpaese è un boomerang: non passa, torna indietro. L’asino albino di Andrea Cosentino ha 11 anni, eppure i ‘tour del dolore’ prosperano ora come allora, la memoria non è ancora condivisa ed è rinata anche Forza Italia. Si tratta quindi di un lavoro a tutt’oggi contemporaneo perché accade e vive sempre nella stessa realtà, come due treni perfettamente paralleli: l’uno è fermo in relazione all’altro, da entrambi si vede la medesima cornice di cielo e terra. Non è questione di distanza, velocità o lungimiranza, ma di cosa guardare, se il panorama o il vetro del finestrino. Cosentino sceglie il vetro, lì dove, tra i graffi e lo sporco, il suo occhio aguzzo e disincantato riesce a scorgere l’immagine riflessa di chi è in carrozza con lui. Cioè tutti noi.
Siamo agli albori del teatro del drammaturgo, attore e regista, nato a Chieti nel 1967. Prima di Esercizi di rianimazione, di Not here not now, ma pure prima di Angelica. E in un’alba amniotica è immerso lo spazio scenico de L’asino albino, un cerchio in ferro e cose sparse per terra, occhiali da sole, cappello, bandana, macchina fotografica, settimana enigmistica, una stanza dei giochi da rimettere in ordine, la sala parto di  una raggelante estate al mare. Cosentino si immagina guida e, insieme, gruppo di turisti sull’Asinara, l’isola che è stata anche lazzaretto, campo di concentramento, carcere di massima sicurezza. Ogni carattere viene restituito al pubblico attraverso il suo accessorio, il ‘campo di forza’ in cui la parola si prende il corpo dell’attore, che risuona nel semplice uso dell’oggetto, come le note del theremin sono prodotte dal solo movimento delle mani: il mare, la spiaggia, i detenuti non si vedono, ugualmente si sentono, si percepiscono, si annusano.
Asino albino - CosentinoTra i visitatori, c’è la coppia che chiama al telefono l’amico malato terminale per raccontargli quanto la vacanza sia straordinaria, c’è il bambino che riconosce gli animali solo quando sono morti spiaccicati sotto le macchine, c’è l’intellettuale che propone di rieducare i pedofili castrandoli e facendoli cantare l’inno di Forza Italia in un coro di voci bianche. “Come ti può piacere una bambina? È piatta!” E poi: “I carcerati qui non se la passavano tanto male.” Caricature delineate a pennellate visibili dalla prima all’ultima fila, grosse, spessore diverso dal grossolano. L’ironia di Cosentino, infatti, non è di superficie né consolatoria, è tagliente, arriva al fondo della cattiveria divertita di chi non ha occhi aggrappati che a sé, in una coazione a ripetersi che le proprie sono le uniche ragioni possibili. L’insensibile ignoranza dell’essere.
Sui volantini che pubblicizzano quel giro panoramico della spudoratezza è riprodotto un asino albino, specie endemica all’Asinara e dalle origini misteriose. L’animale è la materializzazione del finale che l’attore cerca fin dall’inizio dello spettacolo, il miraggio di capire chi siamo e dove realmente ci troviamo, di annullare le differenze tra marito e moglie o tra fidanzati come quelle tra Storia e presente. Di chiedere scusa a papà per il tempo perso a inseguire i sogni, che Cosentino ripone tutti in un tamburo alle sue spalle, insieme agli oggetti della sua immaginazione. E poi via. Verso un’altra isola per recitare in controluce alla vita. Perché il giorno conduce inevitabilmente alla notte. Puoi solo mentire che non sia così.

L’asino albino di e con Andrea Cosentino; regia: Andrea Virgilio Franceschi; collaborazione artistica: Valentina Giacchetti; primo spettatore: Antonio Silvagni; oggetti scenici: Ivan Medici. Visto all’Officina Culturale Via Libera, il Quadraro, Roma, il 14 febbraio.

SANREMO 2015: se la TV torna nazional popolare

Sanremo-2015 ALESSANDRO MASTANDREA | Via le interminabili liste da leggere in due, via l’ospite socialmente impegnato chiamato a dire la propria su questi tempi incerti, via anche la satira caustica di Maurizio Crozza, l’edizione 2015 del Festival della canzone italiana lavora per sottrazione, ed è votata alla semplicità. Quel che rimane sono la musica, un Carlo Conti sempre più erede di Pippo Baudo e ben tre vallette. E non sarebbe potuto essere diversamente, visto che era tutto già scritto in quel “tutti cantano Sanremo”, tema centrale di questa edizione, foriero di aneddoti e amarcord da parte di ospiti e star internazionali. Che questa lettura più “smart” dell’evento canoro sia stata la carta vincente da giocare, ce lo ha confermato il trionfo unanime attribuito alla manifestazione. Un trionfo da dividere in tre parti: una per “Il Volo”, vincitore predestinato della competizione canora, una per la RAI che ha raggranellato indici di share che non si vedevano da 15 anni, e, soprattutto, una per Carlo Conti che ha riportato il festival alla sua radice nazional-popolare. Un festival che ha fatto della ricerca della “normalità”, tanto agognata dalla gente comune in tempi di congiuntura economica negativa, assicura l’illustre sociologo e showman televisivo Conti, la propria missione.
Un ritorno a una TV di puro intrattenimento, attenta alle altrui suscettibilità politiche, comica quanto basta, pur senza graffiare, orgogliosamente autoreferenziale.
Ecco dunque Sanremo 2015 che rimette al centro la musica per non dispiacere a nessuno, spettacolo televisivo che non punta lo sguardo al di fuori della propria cornice, bensì nelle profondità di essa, in un gioco di rimandi e mise en abyme, capace di dare una lettura del nostro paese attraverso la propria lente iconografica.
Sicché nel turbinio di ospiti e cantanti che hanno affollato il palco del teatro Ariston, troviamo un po’ di tutto: l’immancabile parentesi calcistica costituita dal CT della nazionale Antonio Conte e dal presidente della Samp Massimo Ferrero detto “er Viperetta”, le eccellenze del made in Italy di cui l’astronauta Cristoforetti è portabandiera (con tanto di finta diretta dallo spazio), l’autentica “carrambata” della reunion di Al Bano Carrisi e Romina Power, le star holliwoodiane Will Smith e Charlize Theron.
Il tutto condito da un’abbondante spruzzata di personaggi presi a prestito da format televisivi di successo quali X-Factor, Amici e Zelig.
Come dite? Una visione del bel Paese un poco limitante?
Corre voce, in effetti, che sia stato lo stesso Carlo Conti a prendere coscienza del problema, pretendendo per se, in queste ore così cruciali per il rinnovo, maggiore libertà creativa al fine di rimuovere un poco di quella patina di televisione stantia in favore di una ritrovata verosimiglianza. E così sembra proprio che, già dal prossimo anno, verrà dato un peso maggiore alla giuria popolare, le cui fila saranno però rinforzate dall’innesto dei tre giudici di Masterchef Italia.

Per chi non lo conoscesse, “er viperetta” visto da Crozza.

Animanera e il sogno follia di cambiare il mondo con la pistola

fsv-30RENZO FRANCABANDERA | Dietro un velo che dovrebbe nascondere l’interprete dall’intimità con il pubblico ma che in realtà non protegge né la protagonista né gli spettatori dallo scambiarsi sguardi e intese ambigue, Natascia Curci abita un interno da fine anni Settanta-inizio Ottanta per “Figli senza volto”, nuovo spettacolo di Animanera, collettivo artistico milanese attivo da anni in un’area fra il performativo e il teatrale.

Dopo gli spettacoli con i testi di Magdalena Barile, l’ultimo triennio, con le residenze al Pim Off e ora al CRT, ha portato ad una nuova evoluzione del linguaggio della compagnia, che sta coincidendo con una maturazione e un affinamento estetico assai significativo.

In particolare uno stimolo notevole a questa evoluzione è arrivata dall’interesse per la tematica degli anni di piombo e il confronto con quel tempo, che per i sodali di Animanera è coinciso con il tempo dell’infanzia/gioventù, quindi un’epoca del ricordo evanescente, della realtà vissuta con la mediazione della consapevolezza adulta altrui, spesso affioranti con qualche documento audio video delle teche RAI, ritagli di giornale nei cassetti o negli scatoloni di qualche parente attento e documentato.

E così inizia, con una scatola dei ricordi, da cui affiorano foto bianco e nero di volti in primo piano e ritagli di giornale, in un interno, pochi metri quadri, pareti bianche, un tappeto, un giradischi e una tv di quegli anni. Dei 33 giri. Un posacenere. Una mela. Interno bianco con donna. Anche lei vestita prima con un lungo maglione di tonalità fredda. Questa la scena, realizzata da Valentina Tescari, con i costumi di Lucia Lapolla.

Non un bianco e nero, ma verrebbe da dire una foto seppia, che ritorna dagli archivi della memoria. A questo effetto contribuiscono in maniera essenziale altri due ingredienti della costruzione scenica, ovvero le luci di Beppe Sordi e i suoni ripetitivi, ticchettii incessanti di Antonio Spitaleri. Due elementi che interagiscono praticamente in tempo reale con la recitazione di Natascia Curci, interprete e co-regista dello spettacolo con Aldo Cassano.

Lo spettacolo, dal punto di vista drammaturgico, è una sorta di ampliamento di “Come voi”, adattamento teatrale del racconto di Ida Faré Come voi, pubblicato in Il pozzo segreto. Cinquanta scrittrici italiane (Giunti, 1993). L’autrice del testo, ai tempi giornalista de Il Manifesto, ha pubblicato anche Mara e le altre, e dopo la prima messa in scena di Animanera su una versione più strettamente legata al suo racconto ha deciso con la compagnia di approfondire e ampliare il dato testuale per arrivare ad una nuova drammaturgia, affidata sempre al corpo della Curci.

Una femminilità, quella che l’interprete regala alle parole, che per larga parte della messa in scena è quasi performativa, e si completa, nella sua descrizione, con gesti, sguardi, piccole azioni.

Ne viene fuori una ricca e interessante azione attorale, in cui la Curci cresce con lo spettacolo, forse più incline alle sfumature della seconda psicologia femminile fra le due raccontate, quella per così dire “sovversiva”. Infatti nei 50 minuti di spettacolo i pochi spettatori ammessi al di qua del velo, osservano e sono osservati da una donna che a lungo descrive una sua sostanziale adesione agli schemi della società di cui siamo parte.

E’ poi pian piano che questa donna, attraverso una metamorfosi di vesti ma anche psicologica, arriva a rivelare la sua altra identità. In questo tempo lo spettatore riflette su di lei, su di sé, sul proprio tempo, sulla meccanica che lo caratterizza e lo domina, in cui ognuno di noi si sente un po’ pollo nella batteria del produci – consuma – crepa. E anche non sentendosi terroristi in nessun modo, e anzi nonviolenti come la gran parte degli spettatori immaginiamo sia, quasi si prova una strana nostalgia non per quella pazzia, ma per il solo sogno adrenalinico di poterla avere.

Stamattina, mi sono alzato e mia figlia di 2 anni mi ha raccontato di aver sognato il gatto con gli stivali.

Ecco, questo spettacolo prima di tutto e nell’assurdità di aver di fronte un personaggio da cui per la gran parte siamo distanti, ci mette davanti ad una frustrazione, all’impossibilità di sognare quella segretissima e inconfessabile, digitalmente a quei tempi invisibile, folle idea di poter cambiare la società a proprio desiderio. Fosse anche in modo ghandiano, nonviolento. Un pensiero che il nostro tempo ha affidato al pensiero debole, con la Coca Cola che ruba in un suo spot (che lo spettacolo riprende) le immagini delle rivolte studentesche degli anni settanta per addomesticarle alle bollicine. E l’onnipresenza social, le celle a cui siamo agganciati passo dopo passo con il cellulare in tasca, le mille telecamere, il mondo orwelliano di cui siamo prigionieri, a salutaci con un pollice blu levato. E tutto ci appare irrimediabilmente irreversibile e ineluttabile. Senza poter nemmeno non dico fare, ma nemmeno tifare per una rivolta credibile. Ma anche incredibile. Neanche per un gatto con gli stivali.

Lettera al mio giudice: Scordio e la strana coppia Loreto-Burgarello

28VINCENZO SARDELLI | Georges Simenon, un romanziere capace di tracciare suggestivi ritratti psicologici e di evocare con efficacia l’atmosfera grigia e stagnante della provincia francese. Che succede se un suo testo viene messo in scena da un regista classico come Giuseppe Scordio, e da una coppia di attori agli antipodi (per età e percorsi) come Massimo Loreto e Sonia Burgarello?

È tutto un flashback Lettera al mio giudice, in scena per il secondo anno allo Spazio Tertulliano di Milano. Charles Alavoine, stagionato medico di campagna responsabile della morte della giovane Martine, scrive al giudice Ernest Coméliau per fargli comprendere le ragioni del suo gesto. Ha ucciso per «liberare la sua amante da un passato vergognoso che ostacolava il loro amore».

Charles è un uomo senz’ombra, ma soprattutto senza qualità. Si è lasciato a lungo calpestare dalle circostanze: una madre ingombrante, due matrimoni per convenzione, due figlie non desiderate. Ogni tanto Charles evade, fughe velleitarie verso una vita diversa. Poi l’incontro con Martine.

I palpiti dell’amore si uniscono ai singulti della morte. Due solitudini si riconoscono e s’incastrano in maniera mortifera. Essere felici e soffrire. Gelosia, senza raziocinio né scampo: «Il grande problema, quello cruciale, era capire perché ci amavamo».

Tormento e amarezza. Lettera al mio giudice è romanzo paradossale. Protagonista è un medico, ma con il mal di vivere. Per mestiere Charles dovrebbe restituire la vita agli altri. E invece la toglie, persino a se stesso.

Scordio rilancia la scommessa di Simenon: raccontare una vita non attraverso la classica narrazione dei fatti, bensì per mezzo di una confessione. L’adattamento teatrale non intacca una storia densa di passione, affilata come una lama. Intensità, esaltazione, violenza. È una lettura serrata, sofferta e accorata, che focalizza le sfumature psicologiche dei protagonisti. Si alternano passato e presente, soliloqui, dialoghi, narrazioni fuori campo.

La scenografia a pannelli scorrevoli (c’è lo zampino di Michelangelo Zeno) crea interni mutevoli come gli stati d’animo, mobili come la vita: la cella fredda di un carcere, le atmosfere fumose di un albergo, quelle sognanti di una stazione, o calde di un’alcova. A dominare su tutto è quella zona d’ombra che appartiene al protagonista, angolo oscuro dove va a rifugiarsi la libertà frustrata.

Alessandro Tinelli (alle luci) tira fuori tutto il nero che si cela nell’anima in bilico tra felicità desiderata e baratro esistenziale. Domina il torpore, un vuoto che è vertigine, sottolineato dalle elaborazioni musicali di Marco Pagani.

Buono il lavoro sui personaggi. Un’angoscia profonda porta Martine a darsi impulsivamente. Brava Sonia Burgarello, affascinante e istrionica, sprovveduta e ammiccante. Balla con movenze sinuose. Oppure gioca nervosamente con i capelli. È la doppia personalità di Martine: donna sicura e forte, ma anche giovane abbandonata e sfruttata.

Massimo Loreto tarda a trovare la temperatura giusta per il suo personaggio attempato, goffo, sovrappeso. Poi si libera, rinasce sulle note jazz di C’est si bon, sui particolari del viso e del corpo di lei che lo seducono e coinvolgono in una passione distruttiva per entrambi: «Non sapevamo dove stavamo andando ma non potevamo andare altrove».

Emerge un sentimento doloroso e divorante. Le musiche di Peter Gabriel da L’ultima tentazione di Cristo, ibridi raffinati che rilevano il conflitto interiore, creano atmosfere rapite. L’iniziale lamento senza tempo, tetro e surreale, diventa coinvolgente. Il climax percussivo scuote la pièce e l’attenzione dello spettatore. Una regia essenziale, che non osa in coefficiente di difficoltà, ma ispirata e partecipata, da non farci accorgere che in fondo si tratta di un corpo estraneo a un’opera fatta per la lettura.

Creaturamia…Teatring in un duello tra madre e figlio

GIULIA MURONI| È bene che la maternità acquisisca un ruolo centrale nelle narrazioni, di cui il linguaggio scenico-performativo è quello che in questa sede interessa, per tentare la costruzione di una definizione nuova, arricchita delle polimorfe e impreviste variabili dell’esistente. Questa specifica potenzialità femminile, che naturalmente non viene meno se inespressa e pertanto non racchiude in sé la totalità di una presunta essenza femminile, si esplica nell’atto fisico più creativo che possa esistere: generare una vita.

TEATRING

La rassegna Schegge al Cubo alle Officine Corsare a Torino, ha proposto al suo terzo appuntamento “Creaturamia…” di TeatRing, monologo scritto e interpretato da Marianna Esposito, in cui il focus è proprio la relazione madre-figlio, raccontata con gli occhi della madre. La scena si apre con la donna riversa su un fianco, sopra una sedia. È chiara da subito la stortura che guida l’immagine, fin dalle prime parole è presente l’inquietudine ansiogena di una donna sola accanto ad un marito silente, sola nell’angoscia per un figlio che, ancora adolescente, inizia a perdersi, a distaccarsi, a divenire irriconoscibile. Di lì, un crescendo di intensità, in un alternarsi di fatti drammatici e flebili gioie che Marianna Esposito vive con il pubblico senza mai risparmiarsi, affiancando alla narrazione una gestualità concitata. I pochi elementi della scena prendono vita e senso nelle sue mani: due sedie, un tavolo e una matassa di lana con cui avvolge ogni cosa sono strumenti di un racconto che si svolge quasi nella sua interezza nell’interno delle mura domestiche. Mura asfittiche entro le quali si consumano dei drammi tanto atroci quanto banalmente comuni, in cui Marianna, nel personaggio di Marina, soffre senza commiserarsi, traendo soltanto da sé la forza di proseguire. Gianluca, il figlio diciassettenne, ha iniziato a farsi di eroina e, proprio poco dopo questa terribile scoperta, il suo coniuge scopre di avere tumore ai polmoni in metastasi, lancinante.

Come nel recente film di Xavier Dolan, “Mommy” anche in questo spettacolo la lente mette a fuoco il rapporto tra madre e figlio adolescente svelando una congerie di amore incondizionato e crudeltà, immersi in una dinamica violenta latente. C’è un modo di indugiare nell’emotività che sembra inevitabile e che Marianna Esposito padroneggia, alternando con grazia e sarcasmo l’attraversamento di voragini di sofferenza, in un perenne stato di confine tra il lasciarsi sprofondare e il tentativo di trarre a galla Gianluca.

Convincente e commovente la prova di TeatRing, conferma la vocazione della rassegna Schegge, intenta non a proporre un teatro accomodante o d’intrattenimento, bensì un teatro foggiato con la materia ruvida e in trasformazione del reale.

Ranuncoli#14/2 … se a un dior preferisci un freud

illustrazione di Federico Maggioni

COSIMA PAGANINI | Il teatro era pieno. Durante l’intervallo le facce degli spettatori: critici, attori (tanti), operatori teatrali, intellettuali (persone dall’ottimo gusto e persone dal pessimo gusto) mostravano contentezza e soddisfazione. Nessuno aveva dormito (anche perché appena qualcuno tentava di appisolarsi qualcun altro cominciava ad applaudire l’esibizione di un attore), tutti avevano capito tutto, tutti avevano riso, sorriso, applaudito.

Capita di andare a vedere uno spettacolo e trovarsi di fronte a un dior (vedi Ranuncoli#14/1). Poi guardi la seconda parte e cominci a sentire che qualcosa non va.  E non andava nemmeno prima ma non te ne potevi accorgere perché eri incantata dalle funambolerie degli attori. Poi mentre stai andando a casa il tuo accompagnatore ti dice che era proprio un bel dior quello che avevate visto e ti guarda per cercare una conferma ma tu non riesci a cancellare il disagio e allora l’accompagnatore ti chiede se qualcosa non va: non ti è piaciuto lo spettacolo? Mi è piaciuto. Gli attori? Bravissimi. Il testo? Bello. L’allestimento? Bello. E allora perché sei perplessa?

Forse l’alta moda non mi basta più. In fondo non ho mai pensato che la moda sia arte e che i creatori di moda siano artisti. Forse adesso avrei voglia di un Freud (Lucian) o un Castiglioni (Niccolò) …

Pensi che sia uno spettacolo inutile? Stai per dire di sì ma  improvvisamente capisci: Lehman Trilogy non è TOV! E lo dici perché lo avevi sentito dire da qualcuno durante l’intervallo ma lo avevi cancellato e ora finalmente il disagio scompare.

Nei giorni della Creazione quando YHWH contempla ciò che ha creato, egli vede che è tov: parola che copre il significato semantico di “bello, giusto e buono”, fusione della dimensione etica ed estetica. La bellezza sottratta alla giustizia non è che un idolo, è letteralmente demoniaca, dai-mon che separa ambiti del reale che devono restare uniti. Una cosa ingiusta non può essere buona.

Lehman Trilogy, il funerale del capitalismo

lehman1NICOLA ARRIGONI – E’ un lungo funerale, in cui vivi e morti convivono, in cui la ritualità ebraica si intreccia con i sogni, in cui il denaro è signore subdolo, onnipotente e presente. E’ tutto questo Lehman Trilogy di Stefano Massini, un testo esemplare, ricco di suggestioni, complesso e con la chiarezza e la potenza dei grandi racconti epici. E’ tutto questo lo spettacolo di Luca Ronconi, un allestimento essenziale, minimalista in cui le insegne della Leham Brothers e un orologio sono gli unici segni in una sorta di sepolcro grigio dove si muovono tre generazioni di Lehman. Nel riferire di Lehman Trilogy vale la pena procedere per sezioni al fine di analizzare un’operazione che per la sua complessità è di per sé un viaggio pieno di rimandi, stimoli, affascinanti scenari per il nostro mondo al tramonto.
La storia – La storia dei Lehman spazia dagli esordi legati al commercio del cotone per arrivare alla globalizzazione della fine anni Settanta del secolo scorso, disegna 160 anni di storia del capitalismo americano. Si parte dall’arrivo di Henry Lehman negli States e dal commercio di cotone per passare all’espansione dei Lehman con i fratelli Mayer e Emanuel, divisi fra piantagioni e l’ufficio per gli affari nel cuore di New York. La spregiudicata ascesa di Philip, l’apporto politico di Herbert sono centrali e hanno il loro esito nella vertigine globale inseguita da Bob il cui orizzonte non è più l’America ma il mondo, vertigine che porterà alla cessione della banca e dell’impero Lehman fino al crack del 2008. La storia della dinastia ebraica dei Lehman racconta dell’invenzione del capitalismo, della nascita di Wall Street, dello strapotere delle banche, della crisi del ’29, ma soprattutto della forza del denaro che da mezzo diviene un fine. La storia dei Lehman è storia della signoria del denaro, della forza dell’accumulo, della possibilità che denaro faccia denaro. In questa parabola familiare sta la vicenda stessa del capitalismo e dell’economia occidentale prima e ora planetaria.
lehman3Il testo – Stefano Massini costruisce un testo che intreccia storia e rito, che fa dei Lehman delle figure epiche, delle sorte di semidei che reggono il mondo, a loro volta forti di un mondo che si regge su riti, su radici solide che via via si sgretolano. In questo sgretolarsi c’è anche la perdita di senso, c’è l’accecamento del profitto per il profitto, la perdita di un’etica del capitalismo, per dirla con Max Weber. I vari personaggi si raccontano alla terza persona singolare creando così una distanza fra chi narra e il lettore/spettatore, la distanza di un racconto che è al tempo stesso epico e ballata. A cadenzare gli avvenimenti i riti della religione ebraica e soprattutto i funerali e l’osservanza dello Shivà oltre che del ricordo del paese di cui i Lehman erano originari nella Baviera tedesca. L’ortodossia ebraica e la consapevolezza delle origini sono destinate viepiù a perdersi e annullarsi, una perdita di identità che cresce nella stessa misura in cui il denaro prende il sopravvento, in cui il profitto per il profitto hanno la meglio su qualsiasi etica. A richiamare quell’etica sono i sogni che i vari Lehman compiono, sogni premonitori o semplicemente volti ad allertare. Nello scorrere del tempo, nel crescere della ricchezza morti e vivi coesistono. Eppure tutto ciò si segue alla perfezione grazie a un testo fatto di riprese, di ritornelli che scandiscono l’azione, definiscono i personaggi, spiegano l’azione in una continua ripresa e avanzamento che ha lo stesso equilibrio sospeso di Solomon Paprinsky che passeggia sul filo davanti all’ingresso della borsa di Wall Street. Si entra pian piano nel testo di Lehman Trilogy ma poi si è trascinati, coinvolti in un racconto che è fatto di parole che risuonano precise e vere, concrete e feroci.
La regiaLuca Ronconi costruisce uno spettacolo essenziale, algido che fa dei Lehman non uomini, ma semidei che esistono in uno spazio separato, asettico, assoluto in cui il tempo è annullato e cadenzato solo dai riti dell’ebraismo in un ripetersi continuo e rassicurante ma anche disorientante. Le cinque ore di messinscena sanno essere serrate e appassionanti, sanno distillare e far brillare il testo di Stefano Massini grazie ad un insieme di attori eccellenti che il regista del Piccolo mette in competizione pur costruendo una grande coesione. La cosa è possibile anche per la natura essenzialmente monologante del testo, è come se ogni personaggio vivesse di una propria assoluta individualità, è come se ogni Lehman avesse la consapevolezza di essere parte per il tutto, sapesse di avere una spiccata individualità che racchiude la totalità di una dinastia. La stessa consapevolezza guida la regia di Ronconi e l’atteggiamento richiesto agli attori: Massimo De Francovich, Massimo Popolizio, Fabrizio Gifuni, Paolo Pierobon, Roberto Zibetti, Fausto Cabra, ma anche i comprimari Francesca Ciocchetti, Fabrizio Falco, Martin Llunga Chishimba, Raffaele Esposito, Denis Fasolo, Laila Maria Fernandez.

lehman2Gli attori – Diversi per stile e intensità gli attori di Lehman Trilogy sono macchine da guerra pur nelle differenze. Massimo De Francovich è ironico e leggero capostipite della dinastia Lehman, Massimo Popolizio strappa applausi con la sua un po’ tronfia e gigiona bonaria insicurezza di Mayer Lehaman, Fabrizio Gifuni è come il bastone che regge Emanuel in vecchiaia, rigido e inflessibile, agghiacciante ghiacciato nel suo agire oltre, nel suo aprire le porte al futuro finanziario della Lehman Brothers. Paolo Pierobon è mefistofelico, inarrestabile, potente e spiazzante nel suo personaggio calcolatore, così come il giovane e da tener d’occhio Fausto Cabra costruisce un Bob Lehman di grande e drammatica intensità. Diversi per stili e personalità i Lehman come i loro interpreti si ritrovano alla fine e idealmente noi con loro a ballare un drammatico e sfiancante twist della resistenza, del continuare malgrado tutto perché se ci si ferma nel profitto per il profitto, nell’inventare denaro è finita, il sistema crolla cosi come ha fatto crack la Lehman Brothers nel 2008. Alla fine di cinque ore di teatro e di parole applausi trionfali e un po’ di inquietudine perché il nostro futuro sembra segnato.

Lehman Trilogy di Stefano Massini, regia di Luca Ronconi, con Massimo De Francovich, Massimo Popolizio, Fabrizio Gifuni, Paolo Pierobon, Roberto Zibetti, Fausto Cabra, Francesca Ciocchetti, Fabrizio Falco, Martin Llunga Chishimba, Raffaele Esposito, Denis Fasolo, Laila Maria Fernandez, scende di Marco Rossi, costumi di Gianluca Sbicca, luci di AJ Weissbard, suono di Hubert Westkemper, trucco e acconciature di Aldo Signoretti, produzione Piccolo Teatro – Teatro d’Europa, al teatro Grassi, Milano, fino al 15 marzo.

Roberta Nicolai: il tempo ordinario della creatività contemporanea. L’intervista

unnamedLAURA NOVELLI | Rivolgere lo sguardo alla nostra contemporaneità, allo smarrimento delle utopie, alla scena nazionale e internazionale per interrogarci su quanto e come (e se) la creazione artistica del terzo millennio sia ancora parte della cultura e ancora capace di connettersi con il reale costruendo un senso di identità che superi il consueto divario tra individuo e massa, artista e spazio urbano, l’io e gli altri. In sintesi è questo l’obiettivo ultimo di Singolare/Plurale, una “piazza” di creazioni multidisciplinari, saperi, narrazioni individuali e collettive ideata da Triangolo Scaleno teatro e diretta da Roberta Nicolai con appuntamenti per tutto il mese di febbraio a Roma. Forse è il caso – in questo caso – di iniziare scomodando qualche citazione filosofica. Scrive Jean-Luc Nancy: “Essere singolare plurale significa: l’essenza dell’essere è, ed è soltanto, una co-essenza […] dunque l’essente – ogni essente – è determinato nel suo stesso essere come essente l’uno-con-l’altro. Singolare plurale: cosicché la singolarità di ciascuno è indissociabile dal suo essere-con-in-tanti”.

Ispirandosi al pensiero del filosofo francese, Roberta Nicolai, da sempre vigile sentinella delle tensioni creative odierne convogliate nella consolidata esperienza del festival Teatri di Vetro, ci spiega come sia nata l’idea di questa nuova rassegna capitolina. “Singolare/Plurale nasce essenzialmente dall’attenzione che, durante Teatri di Vetro, ho sempre riservato al tempo ordinario del festival. Mi sono spesso chiesta, cioè, se quel tempo straordinario in cui si mostrano gli spettacoli restituisca realmente il senso della scena contemporanea nella sua ricerca ordinaria, quotidiana, precedente alla rappresentazione. Credo che sia fondamentale l’osservazione degli artisti, così come la capacità di disegnare connessioni tra artisti e cittadini, tra scena e teoria. Molti degli artisti contemporanei che seguo, ad esempio, si avvicinano al lavoro dei teorici, spesso con teorizzazioni a posteriori che costituiscono una sorta di riracconto di quanto sperimentato in scena. Voglio dire che molto della scena contemporanea possiede una restituzione teorica solida, eppure tanti teorici puri non la conoscono”.

Dunque, per semplificare, possiamo dire che questa vetrina intende fare una mappatura più dei processi creativi che degli esiti?

“In un certo senso sì. Singolare/Plurale, per molti versi, è il monitoraggio del tempo sotterraneo di Teatri di Vetro. Durante il festival – come succede in ogni festival – emergono gli oggetti artistici; il pubblico e la critica si limitano a guardare questi oggetti e anche le indicazioni ministeriali per le sovvenzioni pubbliche, se ci riflettiamo, guardano solo al prodotto. Non c’è attenzione al processo. Io non riesco a scindere lo spettacolo da ciò che lo precede. Perché se è vero che un buon lavoro può essere una magnifica sintesi dell’intera storia del teatro, è altrettanto vero che la domanda centrale da porsi resta quale ruolo abbia la scena contemporanea all’interno della cultura, della nostra cultura. Il rapporto con la realtà è un altro aspetto per me fondamentale. Per lunedì 16 abbiamo organizzato una tavola rotonda proprio sul tema La creazione contemporanea e il reale; credo sia un nodo nevralgico perché i cambiamenti dei nostri tempi hanno portato giocoforza dei cambiamenti nelle modalità della creazione e bisogna chiedersi se ciò abbia determinato un cambiamento anche nei linguaggi. Ecco, partendo da queste riflessioni, abbiamo pensato ad un contenitore dove rendere visibile il tempo più ordinario del lavoro artistico contemporaneo, regalando ai suoi protagonisti un tempo lungo, dilatato, di lavoro e pensiero”.

Come siete arrivati a mettere insieme il programma di questa prima edizione?

Oltre a questo gomitolo di riflessioni, alla radice del progetto c’è anche un significativo elemento biografico: dopo anni in cui Triangolo Scaleno teatro aveva un ufficio al Palladium, abbiamo dovuto cercare un’altra sistemazione e l’abbiamo trovata prendendo una stanza in co-working alla Biblioteca Vaccheria Nardi, in zona Tiburtino III. Un posto splendido. Era una stalla ed ora è una biblioteca; il fienile è diventato una mediateca; c’è un giardino, un parchetto e tutto intorno palazzoni costruiti negli anno ’80. Sembra davvero di stare a Parigi. Dunque, ci è parso sin da subito un luogo altro, una piazza, e ci siamo immediatamente interrogati su che senso dare al nostro stare lì. Il punto di partenza della rassegna è senza dubbio questo luogo di Roma”.

La riflessione su questo luogo altro cosa ha significato in prima battuta per voi?

Essenzialmente cercare una connessione con le persone che lo abitano e lo conoscono. Non volevamo fare né animazione né assistentato sociale ma esserci con dei veri e propri gesti artistici. Così abbiamo attivato due laboratori importanti: il primo, tenuto da Francesca Macrì e Andrea Trapani, con gli anziani del quartiere che raccontano e si raccontano intercettando alla perfezione l’ottica di singolare/plurale che dà il titolo alla rassegna. Abbiamo trovato persone con una grande attitudine alla condivisione e all’oralità e storie cariche di verità. Storie che diventeranno oggetto di un’apertura pubblica affidata però ai bambini di una terza elementare, come per sottolineare un passaggio generazionale, un senso di continuità passato/presente. Il secondo intervento laboratoriale si sta svolgendo al Liceo Artistico Enzo Rossi, un polo didattico molto importante della zona. Abbiamo chiamato il fumettista Manuel De Carli che in questi giorni sta lavorando con alcuni allievi dei liceo, ed è davvero bello constatare come la professionalità di un artista del suo livello sappia rivelarsi tanto comunicativa con e per i giovani”.

Da Roma poi la traiettoria si è spinta fino oltreconfine. In che modo questa apertura internazionale incontra la matrice locale della manifestazione?

“Ovviamente se il punto di partenza è Roma, quello di approdo non potrebbe che essere la scena internazionale. Una creatività che nasce in altri luoghi, in altre dimensioni spazio/temporali. Abbiamo due presenze molto interessanti. Il portoghese Miguel Bonneville (classe 1985), giovane artista visivo e performer, presenta alle Carrozzerie n.o.t. un esperimento di narrazione autobiografica al femminile intitolato MB#6 dove sei donne intervengono in video raccontando le loro storie mutuate dalla voce dell’artista stesso. Si tratta di un lavoro molto semplice ma innovativo a livello di linguaggio, perfettamente inerente il tema del singolare/plurale e con contenuti fortemente emozionali”. La francese Marie Lelardoux, attrice e performer in residenza al Théâtre des Bernardines e cofondatrice della compagnia Ėmile Saar, ci propone invece lo studio Tout est calme (trop), in cui affronta il tema della solitudine. Una performance di soli corpo e spazio che si interroga e ci interroga su cosa avvenga quando siamo da soli, e se sia possibile comprendere, senza approcci psicologici, quello che accade nella solitudine di una stanza”.

Ma il teatro internazionale in Singolare/Plurale è anche chiamato ad una emblematica riflessione teorica. Qual è la finalità del meeting che avete organizzato?

“Il 26 e il 27 febbraio ci sarà un meeting di lavoro, aperto anche al pubblico e realizzato pure in vista di Creative Europe 2015, con drammaturghi e artisti europei provenienti dal Kosovo, da Budapest, Belgrado, Vienna. Abbiamo lanciato un’idea su cui riflettere: considerare cioè, attraverso la drammaturgia, quanto della storia recente del secolo scorso sia ricaduto nelle nostre vite e abbiamo dato un titolo, Utopia, che è stato accolto favorevolmente da molte realtà. Inutile negare che la cadute delle ideologie e la loro valutazione negativa abbia un peso forte sulla contemporaneità. Credo che la carenza utopica di oggi causi un abbassamento del livello spirituale della nostra società. Ed è un tema su cui il teatro può dire e fare molto. Avremo delle presenze importanti e sarà anche l’occasione per ragionare sul rapporto, qui da noi molto problematico, tra scena istituzionale e scena indipendente”.

Prima parlavi di innovazione, cambiamento dei linguaggi. L’esperimento di Absolutely Live previsto al Brancaccino il 25 febbraio sembra un progetto coraggioso. Ce lo racconti?

“Probabilmente si tratta dell’evento più stravagante e senza dubbio coraggioso della vetrina: una jam session teatrale dedicata al Sogno di una notte di mezza estate in cui il testo di Shakespeare sarà letto live da alcuni attori e registrato sempre live per diventare un libro scaricabile gratuitamente dalla piattaforma di Liber Liber. Anche questo progetto è nato, per così dire, grazie ad una scintilla autobiografica. Durante la nostra permanenza alla Biblioteca Vaccheria Nardi abbiamo conosciuto il gruppo di Liber Liber e abbiamo deciso di fare qualcosa insieme coinvolgendo la scena contemporanea in un gioco, anche molto impegnativo, che restituisse alla comunità un audiolibro dell’evento in regalo. Così abbiamo preso il Sogno, che un’opera universale e difficilmente messa in scena dagli artisti della scena indipendente, e l’abbiamo affidata a Francesca Macrì, che ne ha curato una nuova traduzione e un nuovo adattamento. Dopodiché abbiamo organizzato un cast, ancora segreto, che avrà il testo solo quarantotto ore prima della serata. Nessuno degli interpreti sa quindi che ruolo avrà e tutto accadrà come in una vera e propria jam session. Ognuno metterà a disposizione il proprio talento, il proprio stile, la propria emotività per realizzare un oggetto realmente plurale, collettivo. La singolarità di ciascuno confluirà dentro un tempo/spazio collettivo e tutto si giocherà in quel preciso momento. Certo, potrebbe essere un disastro. Ma sempre meglio correre il rischio del disastro che accontentarsi del preconfezionato”.

21°C, la temperatura in tempo di crisi: Teatro Ex Drogheria apre i frigoriferi e debutta

21°C
FRANCESCA CURTO | La difficoltà di adattarsi, di trovare una soluzione, o semplicemente di sopravvivere in un periodo di alti e bassi, è quella raccontata da tre personaggi che, in un bilocale quadrato dalle tinte rosse e marroni, vanno alla ricerca dell’equilibrio perfetto.

Alberto è sempre fuori, dove lavora per due e vive una vita ripetitiva, precisa, e senza emozioni. I veri problemi lo attendono a casa, quella che una volta era di suo nonno e che adesso è un intimo cantuccio di bei ricordi, ma anche di dolorose ferite.
Con lui infatti abita la compagna Flavia, che è depressa perché vorrebbe un bambino ma è senza lavoro e non se lo può permettere.
Poi il precario equilibrio della coppia viene turbato dall’arrivo di Betta, esplosiva sorella di Alberto e migliore amica di Flavia. Betta ha talento e non guadagna abbastanza, è preoccupata per la sua inattività sessuale ma non rinuncia a sognare ad occhi aperti (infatti è sonnambula).
Per ultimo un problematico frigorifero rosso, come un quarto personaggio, partecipa all’azione con la sua “ronza” intermittente e perde acqua, va riempito o risulta troppo pieno. Con il suo andamento influenza la vita domestica e dà il nome ad ogni scena, simulando una sua storia a parte che inizia con l’apertura del frigo e si chiude con il suo svuotamento.

“21°C” debutta il 6 febbraio 2015 al Teatro Erbamil di Ponteranica, in occasione del terzo appuntamento della rassegna “In the mood for”.
In realtà il progetto che coinvolge lo stesso frigorifero rosso nasce già nel 2013, quando Teatro Ex Drogheria, compagnia di Pagazzano, fa della gente la protagonista della sua indagine sociale “21° Costanti”.
Il suo punto d’arrivo è una performance sulla crisi: del lavoro, della coppia che ha rinunciato a un figlio e di due fratelli che hanno preso strade diverse. Ma soprattutto sulla crisi di coloro che hanno riempito i frigoriferi del Teatro Ex Drogheria con delle risposte al “Re-Esistere” nel momento che stiamo vivendo e che hanno ispirato una commedia ben recitata che affronta con originalità un tema attualissimo.

Il frigorifero è il cuore di una studiata geometria di spazi, ciascuno col suo clima, costruiti, come una sorta di scatola cinese, all’interno di una scenografia curata e funzionale, fatta di lampade, cassette della frutta e materiali riciclati utilizzati all’occasione come suoni (di Begnini le riletture sonore a tastiera).
L’assenza di pareti permette di affacciarsi alla vita frenetica che i personaggi conducono fuori, mentre si difendono dagli sbalzi termici vestendosi e svestendosi di continuo e “ronzano” attorno al perimetro esterno dell’appartamento quadrato come se qualcuno avesse pigiato il tasto “avanti veloce”.

In una commedia nera di donne aggressive e uomini impauriti sono le prime a lasciare da parte gli abiti sgargianti mettendo i pantaloni in scena per combattere il “Nulla”, il non-luogo che le terrorizzava quando guardavano “La storia infinita”. Invece era il lupo che faceva paura ad Alberto, portavoce di una categoria maschile rappresentata sottotono. Infatti, paralizzato dagli sbalzi “termici”, non ha il coraggio di sposare Flavia e combatte la sua crisi con il fisico -in particolare in una bella sequenza dinamica di Simone Baldassarri- ma rimane sempre imprigionato negli stessi vestiti.
Il frigorifero rosso è l’unico in grado di mantenere un microclima costante tra la cucina, che evoca ricordi anni ’80 -piacevolmente coccolati da sigle e pezzi di allora rieditati con la tastiera- il salotto, che ospita amori e litigi, e l’esterno, raggelante e meccanico.
Oracolo e maestro dell’equilibrio, come uno scrigno prezioso conserva al fresco anche aspettative e rimpianti degli abitanti di casa: una laurea sudata che ora non serve, un test di gravidanza che dovrà attendere e delle mutandine commestibili che non trovano la loro occasione.

Ma a 21°C il corpo umano raggiunge l’equilibrio perfetto ed accetta la rassegnata constatazione che in un frigo sovraccarico di ideali c’è bisogno di lasciare posto alle cose concrete. E così la generazione che ha nostalgia degli anni ’80 avverte il più impellente bisogno di lottare, rispetto a quello di rimpiangere. Perché, secondo Sara Pessina e la sua bella commedia speranzosa, arriverà -magari tra 10 anni- il tempo in cui i sogni saranno possibili, gli sforzi verranno ripagati e Fantàsia si potrà salvare dal Nulla.

Do not disturb: il teatro in hotel del progetto Gelardi a Napoli

10943074_644347185693039_3808980096705789834_nEMANUELE TIRELLI | Di quella volta che il teatro si fece in casa, per strada, a scuola, nel bistrot e pure in albergo. A Napoli quest’idea è soffiata nella mente di Mario Gelardi. Lui è autore, regista e direttore artistico del Nuovo Teatro Sanità. L’idea si prepara invece per un nuovo allestimento chiamato “We’re in love”. Le recite, come suggerito dal titolo e dall’occasione, sono previste dal 12 al 14 febbraio al Grand Hotel Parker’s di Napoli. Ma partiamo dall’inizio, almeno per tracciare un paio di coordinate. Do Not Disturb è un vero e proprio format nato due anni fa nelle stanze del Chiaja Hotel de Charme. Per quale motivo? “Il teatro – dice Gelardi – è stato portato spesso in altri luoghi, ma quasi mai si usa l’ambiente per quello che è. Volevo creare invece una storia in un luogo reale e in un tempo reale. Un gioco di sguardi in cui l’attore, pur avendo il pubblico così vicino, non deve percepirlo mai. In questo modo il disagio di chi guarda diventa enorme”. In effetti la distanza tra attore e spettatore è quasi inesistente. Ci si mette lì, tutti intorno al letto, disposti dagli organizzatori a seconda dei movimenti scenici previsti dall’allestimento. Il pubblico si ritrova spesso faccia a faccia con l’interprete senza diventare mai parte attiva del dramma, come se fosse invisibile. E l’imbarazzo, spesso, è davvero concreto.
Ogni appuntamento è caratterizzato da stanze diverse. E ogni stanza porta con sé una storia differente, legata all’altra da un fil rouge che cambia a seconda della data, del contesto e degli attori, con microdrammi sempre nuovi. Forse è anche per questo che il pubblico di Do Not Disturb ritorna affezionato e incrementa il passaparola. Dal Chiaja Hotel de Charme, il progetto si è spostato al Grand Hotel Parker’s (più grande e stellato), è passato per l’ultima edizione di Benevento Città Spettacolo e si è fermato qualche giorno nella Galleria Primopiano di Napoli, con un omaggio a Pier Paolo Pasolini.
Ogni data prevede spesso più di un turno e ogni turno è aperto a venticinque spettatori che, sommati nei mesi, stanno raggiungendo con disinvoltura le mille unità. “All’inizio – continua Gelardi, che si occupa anche delle regie ma condivide le drammaturgie con Claudio Finelli – non ci aspettavamo risultati così interessanti. Poi abbiamo capito che l’esperimento era molto gradito al pubblico, anche perché l’intimità che si crea è difficilmente riproducibile in un altro contesto. E cosa c’è di più intimo di una camera da letto?”.
L’idea, per adesso, è quella di tornare questa estate con storie nuove e forse anche con una tre giorni dedicata a quelle già andate in scena. Nel frattempo, il weekend di San Valentino sarà l’occasione per “We’re in Love”, di nuovo al Grand Hotel Parker’s, con le parole di Gelardi e Finelli interpretate da Carlo Caracciolo, Irene Grasso, Antimo Casertano, Gennaro Maresca, Carlo Geltrude e Fabiana Fazio.
La prenotazione, va da sé, è assolutamente obbligatoria.