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venerdì, Aprile 19, 2024
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Luca i’vorrei… Ronconi, ultimo grande di una stagione irripetibile. Cosa resta?

14059RENZO FRANCABANDERA | Non è nemmeno cosa di ore. Forse di minuti. Ancora non ne dà notizia il sito del Piccolo Teatro, forse colto di sorpresa come noi per la cosa. E forse sono ancora in scena in questi minuti gli interpreti della seconda parte del suo ultimo lavoro, Lehman Trilogy.

La notizia della morte di Luca Ronconi è oltre che una notizia triste di per sé, una sorta di grande passaggio generazionale, che chiude un lustro di grandi figure che hanno lasciato la scena, non solo italiana, ma mondiale, partendo da Pina Baush fino ad arrivare nel 2011 a Franco Quadri, che con Ronconi è stato l’anima del teatro milanese e non solo, dopo la morte di Giorgio Strehler.

Parliamo di due intellettuali in confronto continuo, che si scambiavano le proposte drammaturgiche, permettendo così di farci conoscere autori stranieri contemporanei, visto che Ronconi, ha sempre unito la passione per i grandi classici (solo negli ultimi 10 anni basti ricordare gli allestimenti di Shakespeare e Goldoni) alla sperimentazione sulla parola contemporanea, da Botho Strauss a Spregelburd, da Lagarce fino all’ultimo Massini, in scena in questi giorni, che rimarrà quindi l’ultima opera compiuta del maestro.

Pur nell’ermetismo che ne ha contraddistinto per molti versi la poetica, Ronconi è stato soprattutto nel trentennio fra fine anni Sessanta (con il suo Orlando Furioso del 1969 passato alla storia del teatro e di cui rimane un’ovviamente parzialissima ma preziosa testimonianza nelle teche RAI) e il 1999, quando diventa direttore artistico del Piccolo Teatro, forse l’ultimo grande regista di quella storia tutta italiana del secondo dopoguerra che ha consolidato un sistema che, fra pregi e difetti, ha consentito al teatro italiano di avere figure intellettuali di riferimento di valore internazionale.
La scuola di Santa Cristina negli ultimi anni aveva iniziato a raccogliere sul sito www.lucaronconi.it un archivio ragionato di documenti e materiali di una carriera che ha attraversato gli ultimi 50 anni di storia del teatro.

Quello che avrei voluto domandare, come quarantenne, allo schivo maestro, resta in una lettera aperta, pubblicata sul sito www.klpteatro.it, in cui meno di due anni fa chiedevo un incontro, per non lasciare che quel testimone poetico mancasse per così dire il confronto con la generazione critica e di appassionati del teatro under 40.

Ne venne fuori ad inizio 2014 un dibattito a due fra Ronconi e Cordelli, in cui noi under 40 potemmo intervenire in breve a conclusione di uno scambio di memorie mature e amarcord, ma senza in realtà poter costruire una vera e propria occasione di confronto e dialogo con l’ultimo dei maestri viventi, che con la sua poetica ha comunque segnato una stagione fondamentale del teatro italiano.

Quello è forse l’unico, vero, grande rammarico di chi, come me, ha potuto recuperare solo in video, i primi, grandi, colossali allestimenti, surreali e metafisici insieme del maestro e, per via del suo carattere schivo, non ha poi mai potuto confrontarsi con la persona, che invero ha sempre preferito parlare attraverso le sue opere.

Oltre al tanto, che comunque Ronconi è stato per  il teatro, resta lo strappo, sicuramente il vuoto e la mancanza per quello che anche in questo caso non è stato. Per quei silenzi, simili e per certi versi vicini a quelli di Franco Quadri, quei sorrisi con gli occhi stretti che avevano entrambi, e quell’idea di teatro come arte mitica che portano con loro, lasciando un mondo alle soglie della caduta dell’impero, quando un imprecisato numero di satrapi si azzuffa per un potere di mezza stagione.

Ecco Luca, i’vorrei che avessimo parlato. Non dico di più. Dico solo parlato. Perché anche tu sei andato via, lasciandoci la sete di quello scambio che fra la tua generazione e la mia non si è avuto. Non so perché. Ma quei maledetti quarant’anni, fra voi nati nel periodo fra le due guerre, e noi, giovani figli del Sessantotto o giù di lì, sono stati una barriera. Un inspiegabile muro che in poche occasioni si è schiuso.

Spiegarlo non saprei. Sicuramente una questione di riferimenti, di possibilità, di sogni; di autori e parole, di quel che avremmo voluto e non abbiamo avuto. Forse la vostra generazione è andata via prima che l’umanità smettesse di sperare. Ultimi giorni per questa umanità che forse avevi pronosticato in quel grandioso allestimento di 15 anni fa al Lingotto di Torino sul testo di Krauss (anche di quello restano preziose testimonianze video, per fortuna) che aveva in scena alcuni degli attori con cui hai poi continuato a lavorare in tutti questi anni, fino a questi ultimi giorni.

Resta quell’intervista mai fatta, quel caffè non bevuto, quello scambio generazionale non avvenuto, quelle possibilità mai nate. E quelle botole ad ascensore che si aprono e si chiudono, come in molti tuoi spettacoli, e che inghiottono i personaggi, che oggi hanno inghiottito anche te. Prima che noi ti si potesse chiedere. Quelle domande che non ho mai scritto.

Genesi: l’emigrazione secondo La Confraternita del Chianti

genesiVINCENZO SARDELLI | Buona la prima. È uno stile sobrio quello di Genesi, primo capitolo di una raccolta dedicata al Pentateuco dalla Confraternita del Chianti, compagnia attenta ai linguaggi contemporanei fondata da Chiara Boscaro e Marco Di Stefano. I primi cinque libri della Bibbia diventano spunto per monologhi a tema: la differenza linguistica (Genesi), l’esodo degli italiani dall’Istria (Esodo), la disciplina come modello di vita (Levitico), la clandestinità (Numeri), la legge nella società occidentale (Deuteronomio). Operazione che ricorda vagamente il Decalogo di Kieslowski, o Seven, il film di David Fincher sui vizi capitali.

Progetto ambizioso: per esplorare la condizione umana senza crudeltà né cinismo, senza effetti spettacolari, con monologhi scarni e una drammaturgia che sfuma nell’ironia i laceranti dilemmi etici ed esistenziali.

Genesi, in questo weekend al Teatro Verdi di Milano, racconta l’impatto con la grande città di una migrante spaesata. Lanova (il personaggio interpretato da una pimpante Valeria Sara Costantin) capisce che la lingua rappresenta non solo un limite comunicativo, ma anche uno scoglio capace di sgretolare la sua personalità.

Una creatura seminuda è alle prese con l’alterità. La narrazione fuori campo ha il ritmo dei versi di Celan o Mallarmé. Parole come stelle, note come pioggia. Buio, respiro, sibilo. L’approccio ha i colori e i silenzi della notte. La sinfonia in quattro movimenti di Lorenzo Brufatto è un contrappunto lieve di violini. Avvolge uno stridore di freddo, paura e solitudine.

Il linguaggio è metaforico, evocativo: Il monologo fuoricampo distilla frasi evanescenti. È una sequenza di spazi vuoti e parole strappate al silenzio. Quando invece l’attrice si esprime dal vivo, le luci si ravviano, le note sfumano. La lingua realistica, lingua del potere, definisce scenari alienanti e ostili. Il vuoto scenico esaspera l’alterità della protagonista, il suo ghetto, lo iato comunicativo e relazionale.

Lo sfregamento compulsivo delle mani introduce lo scacco della parola: «qui sono tutti qualcosa d’altro»; «i miei nomi sono tutti sbagliati». Eppure c’è in Lanova la curiosità per questo mondo sfuggente, il gioioso piacere della scoperta. Parlare, scrivere, memorizzare. La protagonista ha la stessa frenesia di assorbire la neolingua, di Liesel, il personaggio del bestseller La bambina che salvava i libri di Markus Zuzas. Caparbia, intelligente, Lanova scrive su un muro-lavagna tutte le parole apprese. Si sforza di vincere l’afasia, superando i vagiti di un essere inerme nevriticamente in cerca di un codice d’accesso al mondo.

Tra buio che inghiotte e luci abbacinanti, Lanova percorre la faticosa strada verso la “terra senza odore”. Qual è il prezzo dell’integrazione?

Poetica e sbarazzina, la drammaturgia di Chiara Boscaro usa l’esperanto come codice comunicativo da acquisire. Trovata originale e paradossale. Originale perché ricorda l’utopia pacifista di una lingua per tutti, senza prevaricazioni né nazionalismi. Paradossale perché qui l’esperanto è discrimine per accedere al nuovo mondo, anziché elemento inclusivo.

Misurata e intelligente, la regia di Marco Di Stefano si vale di un gesso, un muro-lavagna, un microfono-megafono, luci come strumenti narrativi. E due abiti “iniziatici”, scansioni di una cerimonia che conduce a un contato sempre più intimo con la nuova dimensione.

“L’asino albino”, Cosentino e la bugia delle piccole cose

Andrea Cosentino ne L'asino albino
Andrea Cosentino ne L’asino albino

MATTEO BRIGHENTI | Il tempo nel Belpaese è un boomerang: non passa, torna indietro. L’asino albino di Andrea Cosentino ha 11 anni, eppure i ‘tour del dolore’ prosperano ora come allora, la memoria non è ancora condivisa ed è rinata anche Forza Italia. Si tratta quindi di un lavoro a tutt’oggi contemporaneo perché accade e vive sempre nella stessa realtà, come due treni perfettamente paralleli: l’uno è fermo in relazione all’altro, da entrambi si vede la medesima cornice di cielo e terra. Non è questione di distanza, velocità o lungimiranza, ma di cosa guardare, se il panorama o il vetro del finestrino. Cosentino sceglie il vetro, lì dove, tra i graffi e lo sporco, il suo occhio aguzzo e disincantato riesce a scorgere l’immagine riflessa di chi è in carrozza con lui. Cioè tutti noi.
Siamo agli albori del teatro del drammaturgo, attore e regista, nato a Chieti nel 1967. Prima di Esercizi di rianimazione, di Not here not now, ma pure prima di Angelica. E in un’alba amniotica è immerso lo spazio scenico de L’asino albino, un cerchio in ferro e cose sparse per terra, occhiali da sole, cappello, bandana, macchina fotografica, settimana enigmistica, una stanza dei giochi da rimettere in ordine, la sala parto di  una raggelante estate al mare. Cosentino si immagina guida e, insieme, gruppo di turisti sull’Asinara, l’isola che è stata anche lazzaretto, campo di concentramento, carcere di massima sicurezza. Ogni carattere viene restituito al pubblico attraverso il suo accessorio, il ‘campo di forza’ in cui la parola si prende il corpo dell’attore, che risuona nel semplice uso dell’oggetto, come le note del theremin sono prodotte dal solo movimento delle mani: il mare, la spiaggia, i detenuti non si vedono, ugualmente si sentono, si percepiscono, si annusano.
Asino albino - CosentinoTra i visitatori, c’è la coppia che chiama al telefono l’amico malato terminale per raccontargli quanto la vacanza sia straordinaria, c’è il bambino che riconosce gli animali solo quando sono morti spiaccicati sotto le macchine, c’è l’intellettuale che propone di rieducare i pedofili castrandoli e facendoli cantare l’inno di Forza Italia in un coro di voci bianche. “Come ti può piacere una bambina? È piatta!” E poi: “I carcerati qui non se la passavano tanto male.” Caricature delineate a pennellate visibili dalla prima all’ultima fila, grosse, spessore diverso dal grossolano. L’ironia di Cosentino, infatti, non è di superficie né consolatoria, è tagliente, arriva al fondo della cattiveria divertita di chi non ha occhi aggrappati che a sé, in una coazione a ripetersi che le proprie sono le uniche ragioni possibili. L’insensibile ignoranza dell’essere.
Sui volantini che pubblicizzano quel giro panoramico della spudoratezza è riprodotto un asino albino, specie endemica all’Asinara e dalle origini misteriose. L’animale è la materializzazione del finale che l’attore cerca fin dall’inizio dello spettacolo, il miraggio di capire chi siamo e dove realmente ci troviamo, di annullare le differenze tra marito e moglie o tra fidanzati come quelle tra Storia e presente. Di chiedere scusa a papà per il tempo perso a inseguire i sogni, che Cosentino ripone tutti in un tamburo alle sue spalle, insieme agli oggetti della sua immaginazione. E poi via. Verso un’altra isola per recitare in controluce alla vita. Perché il giorno conduce inevitabilmente alla notte. Puoi solo mentire che non sia così.

L’asino albino di e con Andrea Cosentino; regia: Andrea Virgilio Franceschi; collaborazione artistica: Valentina Giacchetti; primo spettatore: Antonio Silvagni; oggetti scenici: Ivan Medici. Visto all’Officina Culturale Via Libera, il Quadraro, Roma, il 14 febbraio.

SANREMO 2015: se la TV torna nazional popolare

Sanremo-2015 ALESSANDRO MASTANDREA | Via le interminabili liste da leggere in due, via l’ospite socialmente impegnato chiamato a dire la propria su questi tempi incerti, via anche la satira caustica di Maurizio Crozza, l’edizione 2015 del Festival della canzone italiana lavora per sottrazione, ed è votata alla semplicità. Quel che rimane sono la musica, un Carlo Conti sempre più erede di Pippo Baudo e ben tre vallette. E non sarebbe potuto essere diversamente, visto che era tutto già scritto in quel “tutti cantano Sanremo”, tema centrale di questa edizione, foriero di aneddoti e amarcord da parte di ospiti e star internazionali. Che questa lettura più “smart” dell’evento canoro sia stata la carta vincente da giocare, ce lo ha confermato il trionfo unanime attribuito alla manifestazione. Un trionfo da dividere in tre parti: una per “Il Volo”, vincitore predestinato della competizione canora, una per la RAI che ha raggranellato indici di share che non si vedevano da 15 anni, e, soprattutto, una per Carlo Conti che ha riportato il festival alla sua radice nazional-popolare. Un festival che ha fatto della ricerca della “normalità”, tanto agognata dalla gente comune in tempi di congiuntura economica negativa, assicura l’illustre sociologo e showman televisivo Conti, la propria missione.
Un ritorno a una TV di puro intrattenimento, attenta alle altrui suscettibilità politiche, comica quanto basta, pur senza graffiare, orgogliosamente autoreferenziale.
Ecco dunque Sanremo 2015 che rimette al centro la musica per non dispiacere a nessuno, spettacolo televisivo che non punta lo sguardo al di fuori della propria cornice, bensì nelle profondità di essa, in un gioco di rimandi e mise en abyme, capace di dare una lettura del nostro paese attraverso la propria lente iconografica.
Sicché nel turbinio di ospiti e cantanti che hanno affollato il palco del teatro Ariston, troviamo un po’ di tutto: l’immancabile parentesi calcistica costituita dal CT della nazionale Antonio Conte e dal presidente della Samp Massimo Ferrero detto “er Viperetta”, le eccellenze del made in Italy di cui l’astronauta Cristoforetti è portabandiera (con tanto di finta diretta dallo spazio), l’autentica “carrambata” della reunion di Al Bano Carrisi e Romina Power, le star holliwoodiane Will Smith e Charlize Theron.
Il tutto condito da un’abbondante spruzzata di personaggi presi a prestito da format televisivi di successo quali X-Factor, Amici e Zelig.
Come dite? Una visione del bel Paese un poco limitante?
Corre voce, in effetti, che sia stato lo stesso Carlo Conti a prendere coscienza del problema, pretendendo per se, in queste ore così cruciali per il rinnovo, maggiore libertà creativa al fine di rimuovere un poco di quella patina di televisione stantia in favore di una ritrovata verosimiglianza. E così sembra proprio che, già dal prossimo anno, verrà dato un peso maggiore alla giuria popolare, le cui fila saranno però rinforzate dall’innesto dei tre giudici di Masterchef Italia.

Per chi non lo conoscesse, “er viperetta” visto da Crozza.

Animanera e il sogno follia di cambiare il mondo con la pistola

fsv-30RENZO FRANCABANDERA | Dietro un velo che dovrebbe nascondere l’interprete dall’intimità con il pubblico ma che in realtà non protegge né la protagonista né gli spettatori dallo scambiarsi sguardi e intese ambigue, Natascia Curci abita un interno da fine anni Settanta-inizio Ottanta per “Figli senza volto”, nuovo spettacolo di Animanera, collettivo artistico milanese attivo da anni in un’area fra il performativo e il teatrale.

Dopo gli spettacoli con i testi di Magdalena Barile, l’ultimo triennio, con le residenze al Pim Off e ora al CRT, ha portato ad una nuova evoluzione del linguaggio della compagnia, che sta coincidendo con una maturazione e un affinamento estetico assai significativo.

In particolare uno stimolo notevole a questa evoluzione è arrivata dall’interesse per la tematica degli anni di piombo e il confronto con quel tempo, che per i sodali di Animanera è coinciso con il tempo dell’infanzia/gioventù, quindi un’epoca del ricordo evanescente, della realtà vissuta con la mediazione della consapevolezza adulta altrui, spesso affioranti con qualche documento audio video delle teche RAI, ritagli di giornale nei cassetti o negli scatoloni di qualche parente attento e documentato.

E così inizia, con una scatola dei ricordi, da cui affiorano foto bianco e nero di volti in primo piano e ritagli di giornale, in un interno, pochi metri quadri, pareti bianche, un tappeto, un giradischi e una tv di quegli anni. Dei 33 giri. Un posacenere. Una mela. Interno bianco con donna. Anche lei vestita prima con un lungo maglione di tonalità fredda. Questa la scena, realizzata da Valentina Tescari, con i costumi di Lucia Lapolla.

Non un bianco e nero, ma verrebbe da dire una foto seppia, che ritorna dagli archivi della memoria. A questo effetto contribuiscono in maniera essenziale altri due ingredienti della costruzione scenica, ovvero le luci di Beppe Sordi e i suoni ripetitivi, ticchettii incessanti di Antonio Spitaleri. Due elementi che interagiscono praticamente in tempo reale con la recitazione di Natascia Curci, interprete e co-regista dello spettacolo con Aldo Cassano.

Lo spettacolo, dal punto di vista drammaturgico, è una sorta di ampliamento di “Come voi”, adattamento teatrale del racconto di Ida Faré Come voi, pubblicato in Il pozzo segreto. Cinquanta scrittrici italiane (Giunti, 1993). L’autrice del testo, ai tempi giornalista de Il Manifesto, ha pubblicato anche Mara e le altre, e dopo la prima messa in scena di Animanera su una versione più strettamente legata al suo racconto ha deciso con la compagnia di approfondire e ampliare il dato testuale per arrivare ad una nuova drammaturgia, affidata sempre al corpo della Curci.

Una femminilità, quella che l’interprete regala alle parole, che per larga parte della messa in scena è quasi performativa, e si completa, nella sua descrizione, con gesti, sguardi, piccole azioni.

Ne viene fuori una ricca e interessante azione attorale, in cui la Curci cresce con lo spettacolo, forse più incline alle sfumature della seconda psicologia femminile fra le due raccontate, quella per così dire “sovversiva”. Infatti nei 50 minuti di spettacolo i pochi spettatori ammessi al di qua del velo, osservano e sono osservati da una donna che a lungo descrive una sua sostanziale adesione agli schemi della società di cui siamo parte.

E’ poi pian piano che questa donna, attraverso una metamorfosi di vesti ma anche psicologica, arriva a rivelare la sua altra identità. In questo tempo lo spettatore riflette su di lei, su di sé, sul proprio tempo, sulla meccanica che lo caratterizza e lo domina, in cui ognuno di noi si sente un po’ pollo nella batteria del produci – consuma – crepa. E anche non sentendosi terroristi in nessun modo, e anzi nonviolenti come la gran parte degli spettatori immaginiamo sia, quasi si prova una strana nostalgia non per quella pazzia, ma per il solo sogno adrenalinico di poterla avere.

Stamattina, mi sono alzato e mia figlia di 2 anni mi ha raccontato di aver sognato il gatto con gli stivali.

Ecco, questo spettacolo prima di tutto e nell’assurdità di aver di fronte un personaggio da cui per la gran parte siamo distanti, ci mette davanti ad una frustrazione, all’impossibilità di sognare quella segretissima e inconfessabile, digitalmente a quei tempi invisibile, folle idea di poter cambiare la società a proprio desiderio. Fosse anche in modo ghandiano, nonviolento. Un pensiero che il nostro tempo ha affidato al pensiero debole, con la Coca Cola che ruba in un suo spot (che lo spettacolo riprende) le immagini delle rivolte studentesche degli anni settanta per addomesticarle alle bollicine. E l’onnipresenza social, le celle a cui siamo agganciati passo dopo passo con il cellulare in tasca, le mille telecamere, il mondo orwelliano di cui siamo prigionieri, a salutaci con un pollice blu levato. E tutto ci appare irrimediabilmente irreversibile e ineluttabile. Senza poter nemmeno non dico fare, ma nemmeno tifare per una rivolta credibile. Ma anche incredibile. Neanche per un gatto con gli stivali.

Lettera al mio giudice: Scordio e la strana coppia Loreto-Burgarello

28VINCENZO SARDELLI | Georges Simenon, un romanziere capace di tracciare suggestivi ritratti psicologici e di evocare con efficacia l’atmosfera grigia e stagnante della provincia francese. Che succede se un suo testo viene messo in scena da un regista classico come Giuseppe Scordio, e da una coppia di attori agli antipodi (per età e percorsi) come Massimo Loreto e Sonia Burgarello?

È tutto un flashback Lettera al mio giudice, in scena per il secondo anno allo Spazio Tertulliano di Milano. Charles Alavoine, stagionato medico di campagna responsabile della morte della giovane Martine, scrive al giudice Ernest Coméliau per fargli comprendere le ragioni del suo gesto. Ha ucciso per «liberare la sua amante da un passato vergognoso che ostacolava il loro amore».

Charles è un uomo senz’ombra, ma soprattutto senza qualità. Si è lasciato a lungo calpestare dalle circostanze: una madre ingombrante, due matrimoni per convenzione, due figlie non desiderate. Ogni tanto Charles evade, fughe velleitarie verso una vita diversa. Poi l’incontro con Martine.

I palpiti dell’amore si uniscono ai singulti della morte. Due solitudini si riconoscono e s’incastrano in maniera mortifera. Essere felici e soffrire. Gelosia, senza raziocinio né scampo: «Il grande problema, quello cruciale, era capire perché ci amavamo».

Tormento e amarezza. Lettera al mio giudice è romanzo paradossale. Protagonista è un medico, ma con il mal di vivere. Per mestiere Charles dovrebbe restituire la vita agli altri. E invece la toglie, persino a se stesso.

Scordio rilancia la scommessa di Simenon: raccontare una vita non attraverso la classica narrazione dei fatti, bensì per mezzo di una confessione. L’adattamento teatrale non intacca una storia densa di passione, affilata come una lama. Intensità, esaltazione, violenza. È una lettura serrata, sofferta e accorata, che focalizza le sfumature psicologiche dei protagonisti. Si alternano passato e presente, soliloqui, dialoghi, narrazioni fuori campo.

La scenografia a pannelli scorrevoli (c’è lo zampino di Michelangelo Zeno) crea interni mutevoli come gli stati d’animo, mobili come la vita: la cella fredda di un carcere, le atmosfere fumose di un albergo, quelle sognanti di una stazione, o calde di un’alcova. A dominare su tutto è quella zona d’ombra che appartiene al protagonista, angolo oscuro dove va a rifugiarsi la libertà frustrata.

Alessandro Tinelli (alle luci) tira fuori tutto il nero che si cela nell’anima in bilico tra felicità desiderata e baratro esistenziale. Domina il torpore, un vuoto che è vertigine, sottolineato dalle elaborazioni musicali di Marco Pagani.

Buono il lavoro sui personaggi. Un’angoscia profonda porta Martine a darsi impulsivamente. Brava Sonia Burgarello, affascinante e istrionica, sprovveduta e ammiccante. Balla con movenze sinuose. Oppure gioca nervosamente con i capelli. È la doppia personalità di Martine: donna sicura e forte, ma anche giovane abbandonata e sfruttata.

Massimo Loreto tarda a trovare la temperatura giusta per il suo personaggio attempato, goffo, sovrappeso. Poi si libera, rinasce sulle note jazz di C’est si bon, sui particolari del viso e del corpo di lei che lo seducono e coinvolgono in una passione distruttiva per entrambi: «Non sapevamo dove stavamo andando ma non potevamo andare altrove».

Emerge un sentimento doloroso e divorante. Le musiche di Peter Gabriel da L’ultima tentazione di Cristo, ibridi raffinati che rilevano il conflitto interiore, creano atmosfere rapite. L’iniziale lamento senza tempo, tetro e surreale, diventa coinvolgente. Il climax percussivo scuote la pièce e l’attenzione dello spettatore. Una regia essenziale, che non osa in coefficiente di difficoltà, ma ispirata e partecipata, da non farci accorgere che in fondo si tratta di un corpo estraneo a un’opera fatta per la lettura.

Creaturamia…Teatring in un duello tra madre e figlio

GIULIA MURONI| È bene che la maternità acquisisca un ruolo centrale nelle narrazioni, di cui il linguaggio scenico-performativo è quello che in questa sede interessa, per tentare la costruzione di una definizione nuova, arricchita delle polimorfe e impreviste variabili dell’esistente. Questa specifica potenzialità femminile, che naturalmente non viene meno se inespressa e pertanto non racchiude in sé la totalità di una presunta essenza femminile, si esplica nell’atto fisico più creativo che possa esistere: generare una vita.

TEATRING

La rassegna Schegge al Cubo alle Officine Corsare a Torino, ha proposto al suo terzo appuntamento “Creaturamia…” di TeatRing, monologo scritto e interpretato da Marianna Esposito, in cui il focus è proprio la relazione madre-figlio, raccontata con gli occhi della madre. La scena si apre con la donna riversa su un fianco, sopra una sedia. È chiara da subito la stortura che guida l’immagine, fin dalle prime parole è presente l’inquietudine ansiogena di una donna sola accanto ad un marito silente, sola nell’angoscia per un figlio che, ancora adolescente, inizia a perdersi, a distaccarsi, a divenire irriconoscibile. Di lì, un crescendo di intensità, in un alternarsi di fatti drammatici e flebili gioie che Marianna Esposito vive con il pubblico senza mai risparmiarsi, affiancando alla narrazione una gestualità concitata. I pochi elementi della scena prendono vita e senso nelle sue mani: due sedie, un tavolo e una matassa di lana con cui avvolge ogni cosa sono strumenti di un racconto che si svolge quasi nella sua interezza nell’interno delle mura domestiche. Mura asfittiche entro le quali si consumano dei drammi tanto atroci quanto banalmente comuni, in cui Marianna, nel personaggio di Marina, soffre senza commiserarsi, traendo soltanto da sé la forza di proseguire. Gianluca, il figlio diciassettenne, ha iniziato a farsi di eroina e, proprio poco dopo questa terribile scoperta, il suo coniuge scopre di avere tumore ai polmoni in metastasi, lancinante.

Come nel recente film di Xavier Dolan, “Mommy” anche in questo spettacolo la lente mette a fuoco il rapporto tra madre e figlio adolescente svelando una congerie di amore incondizionato e crudeltà, immersi in una dinamica violenta latente. C’è un modo di indugiare nell’emotività che sembra inevitabile e che Marianna Esposito padroneggia, alternando con grazia e sarcasmo l’attraversamento di voragini di sofferenza, in un perenne stato di confine tra il lasciarsi sprofondare e il tentativo di trarre a galla Gianluca.

Convincente e commovente la prova di TeatRing, conferma la vocazione della rassegna Schegge, intenta non a proporre un teatro accomodante o d’intrattenimento, bensì un teatro foggiato con la materia ruvida e in trasformazione del reale.

Ranuncoli#14/2 … se a un dior preferisci un freud

illustrazione di Federico Maggioni

COSIMA PAGANINI | Il teatro era pieno. Durante l’intervallo le facce degli spettatori: critici, attori (tanti), operatori teatrali, intellettuali (persone dall’ottimo gusto e persone dal pessimo gusto) mostravano contentezza e soddisfazione. Nessuno aveva dormito (anche perché appena qualcuno tentava di appisolarsi qualcun altro cominciava ad applaudire l’esibizione di un attore), tutti avevano capito tutto, tutti avevano riso, sorriso, applaudito.

Capita di andare a vedere uno spettacolo e trovarsi di fronte a un dior (vedi Ranuncoli#14/1). Poi guardi la seconda parte e cominci a sentire che qualcosa non va.  E non andava nemmeno prima ma non te ne potevi accorgere perché eri incantata dalle funambolerie degli attori. Poi mentre stai andando a casa il tuo accompagnatore ti dice che era proprio un bel dior quello che avevate visto e ti guarda per cercare una conferma ma tu non riesci a cancellare il disagio e allora l’accompagnatore ti chiede se qualcosa non va: non ti è piaciuto lo spettacolo? Mi è piaciuto. Gli attori? Bravissimi. Il testo? Bello. L’allestimento? Bello. E allora perché sei perplessa?

Forse l’alta moda non mi basta più. In fondo non ho mai pensato che la moda sia arte e che i creatori di moda siano artisti. Forse adesso avrei voglia di un Freud (Lucian) o un Castiglioni (Niccolò) …

Pensi che sia uno spettacolo inutile? Stai per dire di sì ma  improvvisamente capisci: Lehman Trilogy non è TOV! E lo dici perché lo avevi sentito dire da qualcuno durante l’intervallo ma lo avevi cancellato e ora finalmente il disagio scompare.

Nei giorni della Creazione quando YHWH contempla ciò che ha creato, egli vede che è tov: parola che copre il significato semantico di “bello, giusto e buono”, fusione della dimensione etica ed estetica. La bellezza sottratta alla giustizia non è che un idolo, è letteralmente demoniaca, dai-mon che separa ambiti del reale che devono restare uniti. Una cosa ingiusta non può essere buona.

Lehman Trilogy, il funerale del capitalismo

lehman1NICOLA ARRIGONI – E’ un lungo funerale, in cui vivi e morti convivono, in cui la ritualità ebraica si intreccia con i sogni, in cui il denaro è signore subdolo, onnipotente e presente. E’ tutto questo Lehman Trilogy di Stefano Massini, un testo esemplare, ricco di suggestioni, complesso e con la chiarezza e la potenza dei grandi racconti epici. E’ tutto questo lo spettacolo di Luca Ronconi, un allestimento essenziale, minimalista in cui le insegne della Leham Brothers e un orologio sono gli unici segni in una sorta di sepolcro grigio dove si muovono tre generazioni di Lehman. Nel riferire di Lehman Trilogy vale la pena procedere per sezioni al fine di analizzare un’operazione che per la sua complessità è di per sé un viaggio pieno di rimandi, stimoli, affascinanti scenari per il nostro mondo al tramonto.
La storia – La storia dei Lehman spazia dagli esordi legati al commercio del cotone per arrivare alla globalizzazione della fine anni Settanta del secolo scorso, disegna 160 anni di storia del capitalismo americano. Si parte dall’arrivo di Henry Lehman negli States e dal commercio di cotone per passare all’espansione dei Lehman con i fratelli Mayer e Emanuel, divisi fra piantagioni e l’ufficio per gli affari nel cuore di New York. La spregiudicata ascesa di Philip, l’apporto politico di Herbert sono centrali e hanno il loro esito nella vertigine globale inseguita da Bob il cui orizzonte non è più l’America ma il mondo, vertigine che porterà alla cessione della banca e dell’impero Lehman fino al crack del 2008. La storia della dinastia ebraica dei Lehman racconta dell’invenzione del capitalismo, della nascita di Wall Street, dello strapotere delle banche, della crisi del ’29, ma soprattutto della forza del denaro che da mezzo diviene un fine. La storia dei Lehman è storia della signoria del denaro, della forza dell’accumulo, della possibilità che denaro faccia denaro. In questa parabola familiare sta la vicenda stessa del capitalismo e dell’economia occidentale prima e ora planetaria.
lehman3Il testo – Stefano Massini costruisce un testo che intreccia storia e rito, che fa dei Lehman delle figure epiche, delle sorte di semidei che reggono il mondo, a loro volta forti di un mondo che si regge su riti, su radici solide che via via si sgretolano. In questo sgretolarsi c’è anche la perdita di senso, c’è l’accecamento del profitto per il profitto, la perdita di un’etica del capitalismo, per dirla con Max Weber. I vari personaggi si raccontano alla terza persona singolare creando così una distanza fra chi narra e il lettore/spettatore, la distanza di un racconto che è al tempo stesso epico e ballata. A cadenzare gli avvenimenti i riti della religione ebraica e soprattutto i funerali e l’osservanza dello Shivà oltre che del ricordo del paese di cui i Lehman erano originari nella Baviera tedesca. L’ortodossia ebraica e la consapevolezza delle origini sono destinate viepiù a perdersi e annullarsi, una perdita di identità che cresce nella stessa misura in cui il denaro prende il sopravvento, in cui il profitto per il profitto hanno la meglio su qualsiasi etica. A richiamare quell’etica sono i sogni che i vari Lehman compiono, sogni premonitori o semplicemente volti ad allertare. Nello scorrere del tempo, nel crescere della ricchezza morti e vivi coesistono. Eppure tutto ciò si segue alla perfezione grazie a un testo fatto di riprese, di ritornelli che scandiscono l’azione, definiscono i personaggi, spiegano l’azione in una continua ripresa e avanzamento che ha lo stesso equilibrio sospeso di Solomon Paprinsky che passeggia sul filo davanti all’ingresso della borsa di Wall Street. Si entra pian piano nel testo di Lehman Trilogy ma poi si è trascinati, coinvolti in un racconto che è fatto di parole che risuonano precise e vere, concrete e feroci.
La regiaLuca Ronconi costruisce uno spettacolo essenziale, algido che fa dei Lehman non uomini, ma semidei che esistono in uno spazio separato, asettico, assoluto in cui il tempo è annullato e cadenzato solo dai riti dell’ebraismo in un ripetersi continuo e rassicurante ma anche disorientante. Le cinque ore di messinscena sanno essere serrate e appassionanti, sanno distillare e far brillare il testo di Stefano Massini grazie ad un insieme di attori eccellenti che il regista del Piccolo mette in competizione pur costruendo una grande coesione. La cosa è possibile anche per la natura essenzialmente monologante del testo, è come se ogni personaggio vivesse di una propria assoluta individualità, è come se ogni Lehman avesse la consapevolezza di essere parte per il tutto, sapesse di avere una spiccata individualità che racchiude la totalità di una dinastia. La stessa consapevolezza guida la regia di Ronconi e l’atteggiamento richiesto agli attori: Massimo De Francovich, Massimo Popolizio, Fabrizio Gifuni, Paolo Pierobon, Roberto Zibetti, Fausto Cabra, ma anche i comprimari Francesca Ciocchetti, Fabrizio Falco, Martin Llunga Chishimba, Raffaele Esposito, Denis Fasolo, Laila Maria Fernandez.

lehman2Gli attori – Diversi per stile e intensità gli attori di Lehman Trilogy sono macchine da guerra pur nelle differenze. Massimo De Francovich è ironico e leggero capostipite della dinastia Lehman, Massimo Popolizio strappa applausi con la sua un po’ tronfia e gigiona bonaria insicurezza di Mayer Lehaman, Fabrizio Gifuni è come il bastone che regge Emanuel in vecchiaia, rigido e inflessibile, agghiacciante ghiacciato nel suo agire oltre, nel suo aprire le porte al futuro finanziario della Lehman Brothers. Paolo Pierobon è mefistofelico, inarrestabile, potente e spiazzante nel suo personaggio calcolatore, così come il giovane e da tener d’occhio Fausto Cabra costruisce un Bob Lehman di grande e drammatica intensità. Diversi per stili e personalità i Lehman come i loro interpreti si ritrovano alla fine e idealmente noi con loro a ballare un drammatico e sfiancante twist della resistenza, del continuare malgrado tutto perché se ci si ferma nel profitto per il profitto, nell’inventare denaro è finita, il sistema crolla cosi come ha fatto crack la Lehman Brothers nel 2008. Alla fine di cinque ore di teatro e di parole applausi trionfali e un po’ di inquietudine perché il nostro futuro sembra segnato.

Lehman Trilogy di Stefano Massini, regia di Luca Ronconi, con Massimo De Francovich, Massimo Popolizio, Fabrizio Gifuni, Paolo Pierobon, Roberto Zibetti, Fausto Cabra, Francesca Ciocchetti, Fabrizio Falco, Martin Llunga Chishimba, Raffaele Esposito, Denis Fasolo, Laila Maria Fernandez, scende di Marco Rossi, costumi di Gianluca Sbicca, luci di AJ Weissbard, suono di Hubert Westkemper, trucco e acconciature di Aldo Signoretti, produzione Piccolo Teatro – Teatro d’Europa, al teatro Grassi, Milano, fino al 15 marzo.

Roberta Nicolai: il tempo ordinario della creatività contemporanea. L’intervista

unnamedLAURA NOVELLI | Rivolgere lo sguardo alla nostra contemporaneità, allo smarrimento delle utopie, alla scena nazionale e internazionale per interrogarci su quanto e come (e se) la creazione artistica del terzo millennio sia ancora parte della cultura e ancora capace di connettersi con il reale costruendo un senso di identità che superi il consueto divario tra individuo e massa, artista e spazio urbano, l’io e gli altri. In sintesi è questo l’obiettivo ultimo di Singolare/Plurale, una “piazza” di creazioni multidisciplinari, saperi, narrazioni individuali e collettive ideata da Triangolo Scaleno teatro e diretta da Roberta Nicolai con appuntamenti per tutto il mese di febbraio a Roma. Forse è il caso – in questo caso – di iniziare scomodando qualche citazione filosofica. Scrive Jean-Luc Nancy: “Essere singolare plurale significa: l’essenza dell’essere è, ed è soltanto, una co-essenza […] dunque l’essente – ogni essente – è determinato nel suo stesso essere come essente l’uno-con-l’altro. Singolare plurale: cosicché la singolarità di ciascuno è indissociabile dal suo essere-con-in-tanti”.

Ispirandosi al pensiero del filosofo francese, Roberta Nicolai, da sempre vigile sentinella delle tensioni creative odierne convogliate nella consolidata esperienza del festival Teatri di Vetro, ci spiega come sia nata l’idea di questa nuova rassegna capitolina. “Singolare/Plurale nasce essenzialmente dall’attenzione che, durante Teatri di Vetro, ho sempre riservato al tempo ordinario del festival. Mi sono spesso chiesta, cioè, se quel tempo straordinario in cui si mostrano gli spettacoli restituisca realmente il senso della scena contemporanea nella sua ricerca ordinaria, quotidiana, precedente alla rappresentazione. Credo che sia fondamentale l’osservazione degli artisti, così come la capacità di disegnare connessioni tra artisti e cittadini, tra scena e teoria. Molti degli artisti contemporanei che seguo, ad esempio, si avvicinano al lavoro dei teorici, spesso con teorizzazioni a posteriori che costituiscono una sorta di riracconto di quanto sperimentato in scena. Voglio dire che molto della scena contemporanea possiede una restituzione teorica solida, eppure tanti teorici puri non la conoscono”.

Dunque, per semplificare, possiamo dire che questa vetrina intende fare una mappatura più dei processi creativi che degli esiti?

“In un certo senso sì. Singolare/Plurale, per molti versi, è il monitoraggio del tempo sotterraneo di Teatri di Vetro. Durante il festival – come succede in ogni festival – emergono gli oggetti artistici; il pubblico e la critica si limitano a guardare questi oggetti e anche le indicazioni ministeriali per le sovvenzioni pubbliche, se ci riflettiamo, guardano solo al prodotto. Non c’è attenzione al processo. Io non riesco a scindere lo spettacolo da ciò che lo precede. Perché se è vero che un buon lavoro può essere una magnifica sintesi dell’intera storia del teatro, è altrettanto vero che la domanda centrale da porsi resta quale ruolo abbia la scena contemporanea all’interno della cultura, della nostra cultura. Il rapporto con la realtà è un altro aspetto per me fondamentale. Per lunedì 16 abbiamo organizzato una tavola rotonda proprio sul tema La creazione contemporanea e il reale; credo sia un nodo nevralgico perché i cambiamenti dei nostri tempi hanno portato giocoforza dei cambiamenti nelle modalità della creazione e bisogna chiedersi se ciò abbia determinato un cambiamento anche nei linguaggi. Ecco, partendo da queste riflessioni, abbiamo pensato ad un contenitore dove rendere visibile il tempo più ordinario del lavoro artistico contemporaneo, regalando ai suoi protagonisti un tempo lungo, dilatato, di lavoro e pensiero”.

Come siete arrivati a mettere insieme il programma di questa prima edizione?

Oltre a questo gomitolo di riflessioni, alla radice del progetto c’è anche un significativo elemento biografico: dopo anni in cui Triangolo Scaleno teatro aveva un ufficio al Palladium, abbiamo dovuto cercare un’altra sistemazione e l’abbiamo trovata prendendo una stanza in co-working alla Biblioteca Vaccheria Nardi, in zona Tiburtino III. Un posto splendido. Era una stalla ed ora è una biblioteca; il fienile è diventato una mediateca; c’è un giardino, un parchetto e tutto intorno palazzoni costruiti negli anno ’80. Sembra davvero di stare a Parigi. Dunque, ci è parso sin da subito un luogo altro, una piazza, e ci siamo immediatamente interrogati su che senso dare al nostro stare lì. Il punto di partenza della rassegna è senza dubbio questo luogo di Roma”.

La riflessione su questo luogo altro cosa ha significato in prima battuta per voi?

Essenzialmente cercare una connessione con le persone che lo abitano e lo conoscono. Non volevamo fare né animazione né assistentato sociale ma esserci con dei veri e propri gesti artistici. Così abbiamo attivato due laboratori importanti: il primo, tenuto da Francesca Macrì e Andrea Trapani, con gli anziani del quartiere che raccontano e si raccontano intercettando alla perfezione l’ottica di singolare/plurale che dà il titolo alla rassegna. Abbiamo trovato persone con una grande attitudine alla condivisione e all’oralità e storie cariche di verità. Storie che diventeranno oggetto di un’apertura pubblica affidata però ai bambini di una terza elementare, come per sottolineare un passaggio generazionale, un senso di continuità passato/presente. Il secondo intervento laboratoriale si sta svolgendo al Liceo Artistico Enzo Rossi, un polo didattico molto importante della zona. Abbiamo chiamato il fumettista Manuel De Carli che in questi giorni sta lavorando con alcuni allievi dei liceo, ed è davvero bello constatare come la professionalità di un artista del suo livello sappia rivelarsi tanto comunicativa con e per i giovani”.

Da Roma poi la traiettoria si è spinta fino oltreconfine. In che modo questa apertura internazionale incontra la matrice locale della manifestazione?

“Ovviamente se il punto di partenza è Roma, quello di approdo non potrebbe che essere la scena internazionale. Una creatività che nasce in altri luoghi, in altre dimensioni spazio/temporali. Abbiamo due presenze molto interessanti. Il portoghese Miguel Bonneville (classe 1985), giovane artista visivo e performer, presenta alle Carrozzerie n.o.t. un esperimento di narrazione autobiografica al femminile intitolato MB#6 dove sei donne intervengono in video raccontando le loro storie mutuate dalla voce dell’artista stesso. Si tratta di un lavoro molto semplice ma innovativo a livello di linguaggio, perfettamente inerente il tema del singolare/plurale e con contenuti fortemente emozionali”. La francese Marie Lelardoux, attrice e performer in residenza al Théâtre des Bernardines e cofondatrice della compagnia Ėmile Saar, ci propone invece lo studio Tout est calme (trop), in cui affronta il tema della solitudine. Una performance di soli corpo e spazio che si interroga e ci interroga su cosa avvenga quando siamo da soli, e se sia possibile comprendere, senza approcci psicologici, quello che accade nella solitudine di una stanza”.

Ma il teatro internazionale in Singolare/Plurale è anche chiamato ad una emblematica riflessione teorica. Qual è la finalità del meeting che avete organizzato?

“Il 26 e il 27 febbraio ci sarà un meeting di lavoro, aperto anche al pubblico e realizzato pure in vista di Creative Europe 2015, con drammaturghi e artisti europei provenienti dal Kosovo, da Budapest, Belgrado, Vienna. Abbiamo lanciato un’idea su cui riflettere: considerare cioè, attraverso la drammaturgia, quanto della storia recente del secolo scorso sia ricaduto nelle nostre vite e abbiamo dato un titolo, Utopia, che è stato accolto favorevolmente da molte realtà. Inutile negare che la cadute delle ideologie e la loro valutazione negativa abbia un peso forte sulla contemporaneità. Credo che la carenza utopica di oggi causi un abbassamento del livello spirituale della nostra società. Ed è un tema su cui il teatro può dire e fare molto. Avremo delle presenze importanti e sarà anche l’occasione per ragionare sul rapporto, qui da noi molto problematico, tra scena istituzionale e scena indipendente”.

Prima parlavi di innovazione, cambiamento dei linguaggi. L’esperimento di Absolutely Live previsto al Brancaccino il 25 febbraio sembra un progetto coraggioso. Ce lo racconti?

“Probabilmente si tratta dell’evento più stravagante e senza dubbio coraggioso della vetrina: una jam session teatrale dedicata al Sogno di una notte di mezza estate in cui il testo di Shakespeare sarà letto live da alcuni attori e registrato sempre live per diventare un libro scaricabile gratuitamente dalla piattaforma di Liber Liber. Anche questo progetto è nato, per così dire, grazie ad una scintilla autobiografica. Durante la nostra permanenza alla Biblioteca Vaccheria Nardi abbiamo conosciuto il gruppo di Liber Liber e abbiamo deciso di fare qualcosa insieme coinvolgendo la scena contemporanea in un gioco, anche molto impegnativo, che restituisse alla comunità un audiolibro dell’evento in regalo. Così abbiamo preso il Sogno, che un’opera universale e difficilmente messa in scena dagli artisti della scena indipendente, e l’abbiamo affidata a Francesca Macrì, che ne ha curato una nuova traduzione e un nuovo adattamento. Dopodiché abbiamo organizzato un cast, ancora segreto, che avrà il testo solo quarantotto ore prima della serata. Nessuno degli interpreti sa quindi che ruolo avrà e tutto accadrà come in una vera e propria jam session. Ognuno metterà a disposizione il proprio talento, il proprio stile, la propria emotività per realizzare un oggetto realmente plurale, collettivo. La singolarità di ciascuno confluirà dentro un tempo/spazio collettivo e tutto si giocherà in quel preciso momento. Certo, potrebbe essere un disastro. Ma sempre meglio correre il rischio del disastro che accontentarsi del preconfezionato”.