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giovedì, Aprile 18, 2024
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Romeo e Giulietta per Biancofango: dodici adolescenti e una partita di pallone

unnamedLAURA NOVELLI | Jeans e camicia bianca, un ragazzo e una ragazza si guardano negli occhi stando in piedi uno davanti all’altra; dondolano sulle loro scarpe da ginnastica Adidas, barcollano, si avvicinano, si baciano sfiorandosi, e ancora dondolano: così fragili eppure così veri, così eterni. Lei ha una viso già adulto e due occhiali che le ingrandiscono lo sguardo intelligente; lui un sorriso generoso, occhi lucenti e un caschetto moro che gli dà un’aria un po’ dannata. E’ con questa immagine teatralissima che i giovani Lorenzo Fochesato ed Erica Galante danno ali al loro innamoramento in uno dei passaggi più poetici del poetico Romeo e Giulietta, ovvero la perdita dei Padri firmato da Francesca Macrì (drammaturga e regista) e Andrea Trapani (drammaturgo e interprete) per il Teatro di Roma e andato in scena al teatro India nei giorni scorsi.

Lorenzo ed Erica sono due dei dodici adolescenti “reclutati” in diversi licei della capitale e allenati svariati mesi per raggiungere un traguardo che va ben al di là del debutto e che meriterebbe senza dubbio lunga vita. Perché attraverso Shakespeare e attraverso – tanto più – questa coraggiosa riscrittura della sua celebre tragedia, essi hanno potuto sperimentare cosa voglia dire realmente il teatro; quanto sudore, fatica, luminosa bellezza ci sia nel percorso che prepara la presenza in scena; quanta ginnastica ci voglia per formare i muscoli del corpo e del cuore; in quanti modi diversi – persino opposti – il teatro permetta di declinare le emozioni più universali. Che sono poi le emozioni proprie della loro età: la paura e insieme la forza dei sentimenti, la rivalità tra coetanei, l’incomprensione degli adulti, l’idealismo che li rende eroici, la disillusione che ce li fa apparire deboli. E poi la solitudine, l’istinto di schierarsi da una parte o dall’altra, quel silenzioso non saper cosa fare con cui spesso chiedono aiuto ai grandi o, viceversa, quel maldestro voler fare troppo con cui spesso credono di non aver bisogno di aiuto. E il teatro, il lavoro insieme, diventa allora anche una strada per conoscersi, per capirsi, per crescere con maggiore consapevolezza. Non per niente alcuni di questi dodici interpreti – oltre ai due protagonisti, è doveroso citare gli altri dieci: Emilio Airulo, Diego Benedetti, Sara Celestini, Mounir Derbal, Gaia Diodori, Paolo Leccisotto, Sara Mefodda, Martina Mignanelli, Antonio Saponara, Maria Sgro – li avevamo già visti in Culo di gomma, produzione nata all’interno del progetto Perdutamente con cui la compagnia Biancofango si era posta l’obiettivo di parlare dei ragazzi di oggi attraverso i corpi e le voci dei ragazzi di oggi. Nell’affrontare Romeo e Giulietta l’operazione si fa più compiuta, più raffinata, più complessa. A partire proprio da fatto che la partitura originale si presta a una lettura impietosa della famiglia, della distanza generazionale tra padri e figli, come se in fondo il dramma dei due giovani innamorati fosse causato proprio dalla miopia e dall’indifferenza di un potere (tanto più solenne nella voce registrata di Federica Santoro/il Principe) incapace di costruire dialogo e di elargire comprensione.

All’ingresso del pubblico, il palcoscenico, completamente vuoto se non fosse per due panchine e un piccolo tavolo posti sul fondo, è già diventato l’agone di una partita di calcio dove i corpi si scontrano e combattono. Le due bande rivali dei Montecchi e Capuleti non si fronteggiano dunque a furia di duelli e colpi di spada, bensì tirando il pallone ma su un campetto di calcio, metaforicamente assurto a simbolo pasoliniano di una stagione della vita in cui è quanto mai significativo vincere o perdere, rischiare o stare in panchina, resistere o uscire di scena. Laddove uscire di scena sta esattamente per morire (si veda l’uccisione di Mercuzio, quella di Tebaldo e la splendida scena del suicidio finale di Romeo e Giulietta): essere espulsi da quei padri/arbitri glaciali e lontani che con questi adolescenti, con i loro stessi figli, non hanno nulla da spartire, se non che un cartellino nero dai risvolti tragici.

Già, i padri. Chi sono qui i padri? Due attori più o meno quarantenni, Trapani (padre Capuleti) e Simone Perinelli (padre Montecchi), entrambi molto bravi per quanto diversissimi per stile e percorso professionale, che non recitano un ruolo, una parte: piuttosto, mostrano la loro storia/natura di attori (nervosa, inquieta e a tratti cinicamente sguaiata quella di Trapani; pacata, straniata e vagamente distratta quella di Perinelli) per andare incontro alla “naturalezza” dei giovani partner. Motivo per cui i due piani interpretativi – quello dei padri e quello dei figli – non stridono; semmai si incontrano, si completano. Ed è proprio questo incontro “formale” a garantire che lo scontro “sostanziale” sia violento e doloroso: Romeo cerca conforto in un genitore infantile capace solo di leggere il giornale e trangugiare merendine Kinder tutto il giorno; Giulietta in un padre/padrone torbido e viscido (oltre ai versi di una poesia di Gozzano, giunge qualche eco di Porco mondo e Fragile Show) che è pronto a sbatterla fuori di casa.

Unico adulto ammesso a gettare lo sguardo nella verità dei ragazzi è il violoncellista Luca Tilli, pregevole nel dare corpo musicale ai momenti salienti del lavoro (così come già faceva in Culo di gomma) ma anche a confondersi tra i personaggi come fosse un folletto buono, o un Pinocchietto silenzioso che vaga incolume per il campo, mentre il destino rotola dentro una palla. Un destino feroce con molti: ai versi di Dino Campana si affida l’intenso monologo di Rosalina/Maria e il suo pianto é il lamento di ogni abbandono, di ogni occasione perduta (sarà infatti lei a chiudere l’intera pièce); mentre sono le note della canzone Albergo a ore cantata da Gino Paoli ad accompagnare l’ultimo gesto eroico dei due innamorati infelici: quel volo ancora una volta leggero, dondolante, fragilissimo, con cui si accomiatano dal mondo per sempre. Ma è difficile credere che la loro sia realmente una sconfitta.

La vita come una caduta: l’incontro danzato di Guidetti, Giordano e Boccadoro

della caduta un passo di danzaRENZO FRANCABANDERA | Sarebbe onestamente banale ridurre questo incontro di sensibilità fuori dai percorsi tipici di ciascuno dei componenti l’ensemble ad un esercizio di stile.
“…Della caduta, un passo di danza”, infatti, in scena fino a domenica 21 al CRT di Milano è un assolo di danza non privo di una certa ambizione, che prova a proiettare il sensibile di tre artisti Lara Guidetti, Carmen Giordano e Carlo Boccadoro, con aree di pensiero molto diverse e per certi versi distanti, su un tema unico, all’interno di uno spazio scenico che rinuncia a scenografie di sorta per affidarsi al nero del fondale del CRT Milano e a pochi altri elementi, per lo più figli della creatività luministica di Alice Colla e ad alcune trovate di Valentina Tescari.
L’assolo dura circa un’ora, all’interno della quale si sviluppano micro sequenze separate da transizioni al buio, e che raccontano con annotazioni più di luce, movimento e ambientazione sonora, la transizione della vita di una donna attraverso le sue età, dall’infanzia incosciente alla giovinezza elegante e sfrontata, alla maturità fra poesia e delusioni fino alla vecchiaia con i suoi turbamenti e al transito finale.
Lara Guidetti, in scena, firma anche le coreografie, sulle musiche di Boccadoro (composizione acustico elettronica) ed alcuni preziosi silenzi o echi dei movimenti ottenuti grazie al alcuni microfoni ambientali dal sound designing di Marcello Gori. Carmen Giordano, regista e drammaturga, al suo primo esperimento registico nell’arte coreutica, riesce a creare un percorso di immaginazione evocativo.

I primi movimenti dell’essere incosciente e animale, ricordano le bestie nude di Xavier Le Roy, mentre l’età della giovinezza, con un’eleganza “vestita” e un controluce realizzato con mezzi poveri ma usati in modo interessante, trascina poi lo spettatore verso due scene, come quella degli innaffiatoi e della morte, davvero notevoli.

Il lavoro ha alcuni chiari pregi. Innanzitutto non scade nel banale e illustra senza diventare mai didascalico, raggiungendo momenti lirici in ogni sequenza.
In alcuni casi si un po’ insiste sulle immagini, forse per l’impossibilità di compattare l’impianto musicale a tratti troppo egemone nel dettare movimenti e lunghezza delle sequenze: è certamente possibile pensarne una versione più distillata che lasci in evidenza il contrappunto silenzio musica, corpo mobile-corpo immobile, movimento sporco-movimento elegante.

D’altronde la vita è ondeggiare fra miserie e luci, fra ombre di dannazione e passeggiate eleganti nel proprio io migliore. Della caduta, un passo di danza, sa suggerirlo e farlo immaginare, può crescere con le abilità messe a fattor comune e con quell’ulteriore dialogo necessario ad asciugare un lavoro comunque di pregio.

La breve e bellissima poesia di Pessoa da cui deriva il titolo dello spettacolo, in fondo, proprio questo illustra, ovvero come la vita vissuta in forma alta si dia con la mutazione della miseria e dell’errore in ricchezza e gesto elegante, dal corpo allo spirito.

Tale volontà kantiana è proprio la sensazione profonda che Della caduta lascia allo spettatore, con una Guidetti intensa, finalmente diretta da una regia esterna capace di estrapolare un’indentità ulteriore e preziosa, che arriva a livelli di dialogo con il tema artistico oggetto della proposta coreografica assai alti, e finora declinati con spettacoli un po’ troppo carichi di simboli e ibridazioni.

Così pure per la Giordano, questo confronto col silenzio, con la drammaturgia senza parole, è diventato elemento preziosissimo per lavorare sul necessario, sul togliere la parola, elemento per lei imprescindibile ma a volte forse troppo egemone. Una lezione i cui frutti si leggono nel passaggio, ad esempio, fra gli studi su Amleto/Ofelia dell’anno passato, e le più intense e taglienti letture di Checov di quest’anno.

Per entrambe, in mezzo, appunto, questa caduta. Questo passo di danza.

Cristiana Morganti, il teatro danza al futuro

Cristiana Morganti @ Claudia Kempf
Cristiana Morganti @ Claudia Kempf

MATTEO BRIGHENTI | Pina Bausch è il gesto di fumare una sigaretta e passi brevi, raccolti, veloci. Il Maestro è un ricordo scritto nel corpo, uno sguardo addosso, fisico e concreto, anche quando i suoi occhi non vedono più la luce del palcoscenico o di un sorriso. E pensiero in continuo movimento spaziotemporale è Cristiana Morganti che in Jessica and Me si afferma tra memoria, radici ed eredità di vent’anni di Tanztheater Wuppertal, dove tutt’oggi lavora, e lo fa con la sua lingua madre in scena, la danza, che ha la forza tranquilla di mostrare le scelte di una vita. Ora osservandosi da fuori e ora vivendo nel momento, sempre infrangendo il confine tra autobiografia e spettacolo. Una ‘confessione danzata’ gioiosa e commovente.
Il solo, infatti, presentato al Funaro di Pistoia, che lo produce, è scandito da un’intervista della Morganti a se stessa attraverso la sua voce registrata su alcune cassette per mangianastri (un gioco che faceva da piccola, mi rivelò in occasione dell’anteprima ad aprile). Sono domande che non chiedono niente e non fanno nemmeno finire le risposte, sono buttate lì soltanto per ascoltare come suonano nel sorprendere l’intervistata. È una critica dura, seppur ironica, ai tanti che non sanno di cosa parlano o scrivono, ma è soprattutto la chiara dimostrazione che l’artista parla con la sua opera, il resto è una parentesi di attese imbarazzate. A teatro la domanda vera la pone il pubblico con il silenzio, che Cristiana Morganti riempie con tutto quello che avrebbe voluto dire e finora non ha detto o che ha detto e ancora non è stato ascoltato. Si muove in ogni direzione, non resta mai sullo stesso punto, i capelli riccissimi sobbalzano morbidi in testa come fosse sott’acqua, là dove gli astronauti ricreano l’assenza di gravità dello spazio. Il palcoscenico vuoto è la scenografia in cui danza e recitazione si tengono insieme, confluendo in un’arte unica, accesa da un disegno luci intimo, accogliente: la difficoltà è leggerezza.
Anche se, con il passare del tempo, niente è come prima. Il dolore è lo stesso, ma il risultato no, e allora nell’alfabeto dei movimenti, prima di arrivare al Tanztheater Wuppertal, Jessica and Me trova parole per gli inizi di Cristiana bambina su consiglio del pediatra, per il reggiseno a sei ganci per contenere un seno che andava contro progetti e speranze, per il diploma in danza classica all’Accademia Nazionale di Danza di Roma nel 1986 e l’addio all’Italia l’anno dopo. Ci sono le vite che ha vissuto e quelle che dovevano essere inevitabili, e non lo sono state, grazie al suo talento e a Pina Bausch che cercava “esseri umani che sono danzatori, non danzatori e basta, persone che vogliono far parlare tutto il corpo”.

Foto di Claudia Kempf
Foto di Claudia Kempf

Il corpo della Morganti danza la sua storia: ha una gamba più lunga dell’altra, si è rotta tutto, dai piedi in su, dove era più gracile e dove era più forte. Un campo di battaglia in cui rimettere insieme, con dolcezza e sgomento, ricordi, pensieri e azione, per trovare nuove risposte, nuovi modi di stare in scena e al mondo. Jessica and Me inizia con la sua figura che nasce e viene alla luce avanzando in diagonale, mentre la sua voce registrata commenta “no, la camminata densa di significato no!”, ma a metà esibizione l’ironia si fa beffa con un paio di grandi scarpe rosse: i suoi passi stanno più volte dentro il numero del Maestro, sono frazioni di un tutto irraggiungibile. Riconoscere la fatica della propria, originale identità è già accettarla e allora se le toglie, perché quei tacchi non servono più a trovare una posizione nel mondo, l’altezza è stare con i piedi per terra, nell’attimo in cui tutto può cambiare, mutare, evolversi.
Arrivano le chiamate del direttore di scena del Tanztheater Wuppertal. Trenta minuti, quindici minuti, cinque minuti. La sfacciataggine, l’ostinazione, la timidezza, le ombre e il divertimento sono l’antefatto, il presupposto. Dopo aver percorso Jessica and Me, proprio per averlo percorso, Cristiana Morganti è pronta ad andare in scena nello spettacolo più importante: il futuro. Da Maestro, ora, di se stessa.

Il Funaro – Pistoia presenta
Jessica and Me
creazione, direzione, coreografia e interpretazione Cristiana Morganti; collaborazione artistica Gloria Paris; disegno luci Laurent P. Berger; video Connie Prantera; consulenza musicale Kenji Takagi; editing musica Bernd Kirchhoefer; direttore tecnico Jacopo Pantani; suono Simone Mancini; Produzione il Funaro – Pistoia; in coproduzione con Fondazione I Teatri – Reggio Emilia. Visto giovedì 11 dicembre.

Lenz Rifrazioni ri-pensa l’Adelchi

ADELCHI 07FRANCESCA DI FAZIO | Un’Ermengarda rattrappita e spaventata sbuca da dietro pannelli di tessuto bianco che coprono le pareti della sala lungo il perimetro. Perduti nel ricordo della madre che non ha più, i suoi respiri affannosi si mischiano alla sua voce registrata, che durante lo spettacolo si alterna alla voce naturale dell’attrice.
Comincia così l’allestimento di Lenz Rifrazioni ispirato alla tragedia di Manzoni, presentato al performing arts festival Natura Dèi Teatri a Parma. La drammaturgia, curata da Francesco Pititto, mantiene ben poco di quel che è il testo dell’Adelchi: il linguaggio non è quello di Manzoni, le battute rimaste sono scarne ed essenziali, giocate su ripetitività e intensità di silenzi; esse si modellano sulla sensibilità dei tre interpreti, tutti formatisi nei laboratori teatrali di Lenz rivolti a persone con disturbi dello spettro autistico, realizzati in collaborazione con Ausl di Parma – Dipartimento Assistenziale integrato di Salute Mentale.

Il lavoro sull’Adelchi è, per la regia di Maria Federica Maestri, soprattutto un lavoro sul personaggio di Ermengarda, figura-simbolo di donna, di tante donne condannate al dolore dell’abbandono, costrette da un sentimento bruciante ad avanzare verso le proprie ceneri, da eros a thanatos. La giovane attrice Carlotta Spaggiari, affetta da disturbi dello spettro autistico, esprime delicatamente il disorientamento disperato di Ermengarda, con un disciplinato distacco che rende l’interpretazione più mentale che emotiva. Franck Berzieri, già interprete di altre creazioni Lenz, è impegnato nel duplice ruolo del padre Desiderio, un padre sonnolento che non capisce i silenzi della figlia ammutolita dal dolore ma grida vendetta per difendere il suo onore, e in quello di Carlo Magno, un re gradasso e vecchiotto.

Incisiva la scena dell’incontro tra Carlo Magno ed Ermengarda: essa vede il re con solo le mutande addosso mentre tenta di circuire l’esile e silenziosa Ermengarda che, attratta e al contempo spaurita dal sentimento che prova, più volte si avvicina e si accoccola sulle gambe del re francese per poi staccarsi improvvisamente con un sussulto, in un delicato andirivieni senza soluzione, in un movimento da metronomo, in una danza dell’amore impossibile. Adelchi, interpretato da Carlo Destro, è un giovane valoroso che tutto farebbe per riscattare la sorella ma l’unica vera azione che riesce a compiere in questo adattamento è farla giocare assieme a lui ad un’immaginaria partita a tennis, che le strappa qualche risata di bambina. È il figlio eccellente che muore nella guerra scatenata dal padre Desiderio contro Carlo Magno, motivo di rimpianto da parte del padre che, disperato, continua a ripetere: “non c’è speranza, atroce è la guerra, io l’ho voluta, io ti ho ucciso”.

La sala è divisa orizzontalmente da pannelli di tessuto bianco semitrasparente: si crea una scenografia dell’ideale in cui lo spazio è diviso in tre zone che allontanano sempre di più i personaggi dallo spettatore. Ermengarda, dapprima occupante lo spazio antistante al pubblico, esalerà l’ultimo respiro (dopo una lunga serie di strazianti urla) nella zona più in fondo, velata ma visibile ai nostri occhi, su un canapé bianco ricoperto da un leggerissimo telo di plastica, a ricordare le sedie imballate di Christo e Jeanne-Claude. La scenografia, prevalentemente bianca e polverosa, essenziale e rigorosa, di grande impatto, comprende le video-installazioni di Francesco Pititto: la sua “imagoturgia” proietta sui pannelli trasparenti diverse immagini filmiche che accompagnano la visione durante tutto lo spettacolo. Il disegno delle luci è particolare e precisissimo, quasi un’installazione luminosa, con tagli strettissimi a forte contrasto che modellano i personaggi in immagini caravaggesche.

Nel complesso quest’Adelchi è una creatura che ha concentrato tutta la propria energia cinque centimetri sopra la testa, staccandosi dal corporeo e dall’emotivo: è studiata, pensata, riflettuta, elucubrata.

http://lenzrifrazioni.it/ongoing/adelchi/

L’amore a tempo. Timeloss di Amir Reza Koohestani al Festival d’Automne

GIULIA RANDONE | In principio fu una storia d’amore. All’inizio del Duemila, Amir Reza Koohestani era un giovane innamorato e un drammaturgo sconosciuto al di fuori dei confini della città natale di Shiraz. Quando la relazione finì, reagì alla perdita scrivendo una pièce sofferente e arrabbiata, che aveva per protagonisti un ragazzo e una ragazza, che si fronteggiavano dalle estremità di un lungo tavolo. Il successo di Dance on Glasses (2001) aprì a Koohestani le strade del mondo e delle collaborazioni internazionali e per lungo tempo rimase lo spettacolo con il quale il drammaturgo e regista iraniano veniva identificato.

Timeloss_fotocorrettaDodici anni dopo, Koohestani si confronta insieme al Mehr Theatre Group con quell’opera giovanile, divenuta un “oggetto del passato”, il residuo di un’epoca della vita perduta per sempre. Timeloss, visto a novembre al Théâtre de la Bastille di Parigi in occasione della 43° edizione del Festival d’Automne, muove da una circostanza immaginaria per tornare a parlare di amore e separazione con uno sguardo diverso, più adulto, più incerto e pessimista. Il pretesto è offerto dalla fittizia realizzazione del DVD di Dance on Glasses e dalla necessità di correggere la registrazione sonora dello spettacolo doppiando la voce degli attori originari.

Sulla scena buia, un uomo e una donna tra i trenta e i quarant’anni siedono ciascuno al proprio tavolo rivolti al pubblico, imprigionati in due quadrati di luce, in uno spazio che non abbandoneranno mai. Ripassano le battute di Dance on Glasses intrecciandole progressivamente con un dialogo dal quale capiamo che, oltre ad avere interpretato all’epoca il ruolo dei giovani protagonisti in procinto di separarsi, sono stati a loro volta una coppia. Lo scambio tra i due è denso, talvolta affannato, talvolta sospeso nei silenzi e nei non-detti di un passato comune di cui non sappiamo nulla. Oltre metà della conversazione è affollata da interrogativi che non trovano risposta. Anche la domanda “perché ci siamo lasciati?” innesca uno scambio di ricordi confusi e divergenti. Si intuisce che l’uomo confida nel ritorno di lei, immaginandola, in qualche misura, ancora sentimentalmente coinvolta.

Nella drammaturgia a scatole cinesi di Timeloss, il concetto di “ritorno” è declinato in molti modi, anche giocando con la polisemia del termine, come nel caso del “ritorno audio” del video che gli attori in scena sono chiamati a doppiare. Interagendo con la voce off del regista, i due chiedono infatti di riascoltare le proprie voci giovanili per poter ritrovare l’emozione che allora li animava. Accade allora che due schermi che incombono sulle loro teste si accendano e proiettino alcune sequenze di Dance on Glasses, mostrando da vicino il volto e il corpo dei giovani protagonisti. Da questo momento le presenze sul palco si moltiplicano. La scena si trasforma in una vertiginosa, e non più solo testuale, mise en abyme, in cui gli attori invecchiati guardano se stessi recitare dodici anni prima le medesime battute o, addirittura, si sdoppiano e compaiono anch’essi sullo schermo, in una impossibile interazione con i loro alter ego giovanili. Man mano che lo spettacolo prosegue si intuisce che il lavoro a cui sono chiamati oggi i due attori – adattare le proprie voci ai corpi di ieri – è destinato a fallire. Non perché essi non siano in grado di riprodurre, fingendo, un’emozione passata, ma perché su tutto lo spettacolo, pur non accadendo nulla di tragico, aleggia un’atmosfera di cupa irreparabilità.

Il clima di tensione che emerge da questa conversazione a più voci mantiene la performance in bilico tra quotidianità e sogno, tra discussioni ordinarie e allusioni alla morte. Timeloss mi ha ricordato Diario di un dolore di C.S. Lewis, opera in apparenza distante ma che tematizza lo stesso senso di perdita e smarrimento. Il libro indaga la reazione dell’autore alla morte della moglie: dalla malattia al distacco traumatico, dall’amore quotidiano al ricordo che l’azione del tempo – per Lewis “uno dei tanti nomi della morte” – offusca. “Mi dicevo proprio stamattina che ho dimenticato il tuo volto”, dice sul palco l’attore all’attrice; “Non riesco nemmeno più a vedere distintamente il suo viso”, si dispera Lewis, e poi aggiunge “pensavo di descrivere uno stato, invece ho scoperto che il dolore è un processo. Non gli serve una mappa, ma una storia”. Che per descrivere amore e dolore non serva una mappa, ma una storia, Koohestani lo sa bene. I suoi protagonisti non sono immersi in una geografia ma si muovono lungo il tempo, in un itinerario di rimemorazione e ripetizione perenne. Una condizione dinamica – un “processo”, per dirla con Lewis – che Sāl Gashtegi, titolo originale persiano di Timeloss, mette in luce: tradotto alla lettera significa infatti “cercando nel tempo”.

Accomunate dalla necessità umana e artistica di esperire un processo, le creazioni dei due autori approdano tuttavia a visioni divergenti della morte. “Ritorna! Ma non mi è mai venuto in mente di chiedermi se un tale ritorno sarebbe un bene per lei. Io la voglio come ingrediente della restituzione del mio passato. Potevo augurarle qualcosa di peggio?”, si domanda Lewis. Dal canto suo Koohestani non condanna così severamente la propria quête, poiché nutre fiducia nella possibilità di un dialogo con i fantasmi. Lo spettacolo è incorniciato da un prologo e un epilogo nel quale una voce fuori scena evoca il personaggio femminile di Dance on Glasses affidandogli il compito di una catabasi: “Vorrei che tu fossi Orfeo e che andassi a cercare la mia Shiva nel regno dei morti. Chiudo gli occhi e conto, fino a quando Shiva tornerà in vita”. Ma il mito, sulla scena, si complica e confonde. L’uomo che siede in posizione arretrata rispetto alla donna le chiede a un certo punto di voltarsi, di guardarlo finalmente negli occhi. La donna però, un Orfeo che continua imperterrito a fissare la platea, non si volterà mai, condannando entrambi a un limbo doloroso. Nell’epilogo, poi, la voce off si volge indietro nel tempo a una ragazza diciottenne, forse la giovane di cui Koohestani fu davvero innamorato. Lei attende all’ingresso di un cinema, in un Iran non ancora gravato dalle sanzioni che, a partire dal 2007, renderanno difficile l’acquisto di farmaci salvavita. “Se sei ancora là, comincia a raccogliere le pillole contro la sclerosi multipla”.

Aringa Rossa: il caos armonico di Ambra Senatore

Aringa Rossa, coreographie de Ambra Senatore
©ViolaBerlanda

GIULIA MURONI| Durante le campagne di caccia le aringhe rosse venivano utilizzate per distrarre i cani dei cacciatori concorrenti. Nei paesi anglosassoni “aringa rossa” si adopera come espressione idiomatica, quando cioè “un indizio o un’ informazione è pensata per essere fuorviante, di distrazione rispetto alla questione centrale.” Sovente in uso in letteratura e nel cinema, si pensi a tutti quegli elementi che nei gialli conducono verso un falso assassino, Ambra Senatore se ne è servita, in modo forse metadiscorsivo, come titolo per la sua più recente creazione.

Danzatrice e coreografa torinese, francese d’adozione, Ambra Senatore ha presentato “Aringa Rossa” alle Fonderie Limone. Fiore all’occhiello della danza nostrana, trova spazio tra le fila del Made.it, il focus sulla danza italiana che fa parte del cartellone della corrente edizione del Torinodanza. Il punto di partenza è stata l’indagine delle dinamiche di un gruppo, la qualità di questa presenza e dei suoi spostamenti dentro e fuori lo spazio, di cui traccia una fitta rete di attraversamenti. Sono nove gli interpreti sulla scena, Senatore compresa, che costruiscono e disfano un’armonia caotica, in un accadere di quadri dall’ estetica ricercata. I costumi, tratti da un contesto quotidiano, borghese, hanno linee morbide e colori pastello, i lembi delle gonne e delle giacche creano degli arabeschi, scivolano sui corpi in movimento. Il disegno luci è ricco, si trasforma in virtù dei quadri che costruisce e spazia dai laterali color ambra agli occhi di bue che fendono il buio, verso la fine. Lo spettacolo si apre con una diffusa luce calda, nel silenzio, e quattro uomini che sembrano rivolti ad un paesaggio inesistente. Di qui l’ingresso delle donne e un vociare perenne di corpi in dialogo, cui si alternano sparuti attimi sinfonici, e vere e proprie chiacchiere. Scambi surreali, battute di spirito che coinvolgono il pubblico, cui i danzatori si avvicinano e rivolgono. La danza che scaturisce da questo gioco vivace di incontri è composita, ricca nei suoi elementi e nelle appropriazioni di ciascuno dei nove corpi, trae linfa da complessi e stratificati giochi mimetici, lungo le ordinate e le ascisse di uno spazio vissuto nella sua totalità. Si rinnova l’esigenza di partenza, ossia l’indagine delle dinamiche e dei flussi di energia che scorrono in un gruppo, astratta e nutrita di risoluzioni mai banali, pregevoli sul piano coreutico ed estetico, venate dall’ironia e la giocosità che sembrano parte costituente della composizione del gruppo e dello spettacolo. Una serie di simpatici divertissement dal sapore francese, che hanno senz’altro origine da quella pratica nostrana di interesse e rilievo nazionale che è il cazzeggio, lo sguardo ironico e disincantato sulle cose, ma sembrano risentire di una durata stiracchiata soprattutto nel confronto con il pubblico. Una drammaturgia con qualche fragilità per uno spettacolo sofisticato, forte dei limpidi incroci di relazioni e respiri.

 

Tim Spooner a Parma: il microcosmo materico performativo

Ways of Seeing Climate Change - conference. Tim Spooner - artistFRANCESCA DI FAZIO | Tra gli artisti internazionali presenti quest’anno al performing arts festival Natura Dèi Teatri organizzato da Lenz Rifrazioni a Parma è Tim Spooner, giovane artista del Regno Unito che dal 2010 propone creazioni d’arte e live performances. All’interno del festival presenta “The Telescope”, una performance di breve durata in cui una telecamera-microscopio indaga l’interno di terreni sconosciuti.
“Il telescopio ha subito un traumatico spostamento e le sue lenti e i suoi vetrini sono stati risettati irrimediabilmente. E’ diventato impossibile ormai stabilire se, ciò che si vede nel telescopio, sia la superficie di un pianeta lontano o il riflesso microscopico dell’interno dell’occhio dello spettatore stesso.
Nonostante tutto, questo nuovo mondo è stato studiato e documentato a fondo.”
Così parla una voce fuori campo nell’immediato inizio della performance. Nello spazio bianco della sala Est di Lenz Teatro, un alto ed esile ragazzo in tutina argentea e parapetto in cartone bianco, quasi un bambino travestito da astronauta. Accanto a sé ha una curiosa valigetta piena di cassette a nastro e di fili elettrici, davanti a sé un sottile tavolino metallico tondo, girevole. Sul tavolino indistinti materiali inquadrati dalla telecamera-microscopio che rimanda a noi ciò che riprende attraverso un video-proiettore. Il tavolino è un microcosmo materico: ruota e sulla sua superficie si hanno eventi magnetici e reazioni chimiche, studiate (nonché provocate) dal ragazzo astronauta, meticoloso osservatore-demiurgo di un universo primordiale i cui segni non sono mai simboli riconoscibili ma incognite che si imprimono sulla retina. Eventi magnetici, chimici, elettrici creano vibranti composizioni di materia viva e inanimata, incuriosiscono lo spettatore straniato dalla visione di forme di vita di cui non capisce i connotati, offrono uno strano ed unico universo che sembra nascere dal logico flusso che segue la materia mentre si trasforma.
Sono visioni particolarissime di un universo parallelo. Visioni, sì, ma perfettamente materiche. Assistiamo alla materializzazione delle visioni del piccolo uomo venuto dallo spazio, operata dalle sue stesse mani di demiurgo: a chiudere l’esplorazione è infatti l’ inquadratura ravvicinatissima del suo occhio. “I am interested in ways we try to explain the world: metaphysics and creation myths. My own approach to the mystery is to experiment with how materials behave, to get a better understanding of them. From these I construct collections of objects which come together into ideas for possible universes.”
Terminata la performance l’artista invita a dare un’occhiata ai suoi lavori che sono esposti lungo le pareti della sala. Vi sono piccolissime sculture materiche, frutto di un ingegneristico assemblaggio di piccole parti dei più svariati oggetti, legnetti, vetrini, brandelli di palloncini, frammenti di oggetti irriconoscibili. Altre sono creazioni su carta e cartoncino, cartoline dipinte, disegnate o realizzate con la tecnica del collage in cui vige lo stesso principio di frammentazione e riposizionamento di parti, di figure. Il tutto è minuziosamente composto. Colpisce il lavorio tanto cerebrale quanto spontaneo ed interiore che s’ intravede in ogni lavoro. Notevole è il sistema di illuminazione pensato per porre in luce le piccole opere, formato da microscopiche lampadine sistemate su sottili impalcature metalliche a diverse inclinazioni collegate le une alle altre da neri fili elettrici a vista. Un’esposizione curata ma essenziale che trasporta lo spettatore nel curioso mondo dell’artista venuto dallo spazio.

http://www.tspooner.co.uk/

Intervista a Sergio Bustric – Le opinioni di un clown

Sergio BustricFRANCESCA CURTO | “Io non faccio cabaret, il cabaret è una forma di teatro comico dove le battute si leggono, si raccontano e fanno ridere. Benigni mi diceva che «Far ridere con le barzellette è un po’ come vincere una partita ai tiri di rigore».”

Sergio Bini, in arte Bustric, una combinazione scenica fra comicità e poesia, lo abbiamo incontrato a Bergamo dove portava “Questa sera grande spettacolo”, andato in scena il 13 dicembre al Teatro Sociale di Città alta, in occasione della rassegna “Il Teatro Vivo 2014”.
Bustric è attore, clown, illusionista, mimo. Un artigiano del teatro o un “filosofo domestico”, come si definirebbe lui. Ha recitato in sceneggiati televisivi e film da Oscar come “La vita è bella” ed è anche regista.
Però è nel teatro che ci confessa di aver ottenuto le maggiori gratificazioni, infatti il cinema dura nel tempo, ma a volte un ricordo confuso è qualcosa di più di una memoria vera perché, sottolinea Bini, «Il cinema non ti appartiene, una volta fatto è finito quindi non sono più io».
Ma in teatro Sergio/Bustric si sente se stesso e ci ha svelato un poco del suo io.

Qual è la genesi di “Questa sera grande spettacolo” ed il Suo approccio alla drammaturgia di uno spettacolo comico?

“Questa sera grande spettacolo” l’ho fatto due anni fa ed io lo chiamo il mio “Best of” in cui ho messo insieme le cose più belle dei miei spettacoli per farne un punto di arrivo da cui ripartire. Quando scrivo seguo un pensiero, un gioco. Trovo una storia, un elemento, a volte più letterario, come nel caso del mio ultimo spettacolo, “Shakespeare e le nuvole”, in cui voglio cercare i segreti di Shakespeare e cerco di incontrare lui.
In “Questa sera grande spettacolo” l’elemento è flebile, è semplicemente il desiderio di trovare il tesoro, un tesoro. Ma sempre di più i miei spettacoli sono un viaggio, perché il viaggio mi permette di introdurre vari elementi, c’è proprio un bisogno tecnico di ricorrere ad una metafora come quella del viaggio per unire generi diversi.

Il teatro aiuta spesso a far emergere sul palco il proprio Io nascosto. Quanto c’è di Sergio Bini in Bustric?

Sicuramente c’è molto, Bustric e Sergio Bini si sono confusi per molto tempo. Bustric si avvicina sempre di più a Sergio Bini, è sempre più quello che io sono, però che io sono in quel momento, mentre esercito quel ruolo.
Poi nella mia vita privata io sono molto diverso, sono anche molto solitario, non sono molto presenzialista e non amo essere sempre al centro dell’attenzione.
Mi piace vivere la mia vita tranquillo, anche per i fatti miei. Quindi sono due cose molto diverse, se vado a una cena e uno mi chiede di fare un gioco io non lo faccio. Mi soddisfa il mio lavoro nel momento in cui lo faccio e, quando non lo faccio, non faccio altro.

Lei è abituato a lavorare da solo nei suoi spettacoli. Questo perché il mondo degli attori è in realtà un mondo di interpreti solitari?

No, è che semplicemente io ho fatto un istituto d’arte, vengo da una formazione di decorazione pittorica e lì si faceva da solo. E poi uno che scrive, scrive da solo. Legge, guarda, scopre, cerca, non è che fa il lavoro a livello di gruppo.
Non ho predisposizione a lavorare da solo, è un po’ il frutto della situazione;
Poi quando si lavora in gruppo va anche bene, mi piace. A lavorare da soli però ci si gestisce meglio.

Il genere comico è quello che ha riscontrato meno cambiamenti nella storia del teatro. Secondo Lei c’è stata un’evoluzione del comico rispetto agli inizi della sua carriera?

Purtroppo il teatro comico è poco scritto. Il comico letto non è comico quindi questo genere ha una difficoltà di trasmissione proprio perché la battuta comica è fatta di tempi, di silenzi, di azioni che non possono essere scritti e dettagliati. Il vecchio teatro comico non si conosce proprio perché il teatro comico è poco scritto.
Ci sono dei pezzi che possono essere ancora considerati comici, per esempio per me un testo come “Aspettando Godot” sarebbe molto comico se lo si recitasse come è scritto.
In questo caso non credo che il comico sia uno spettacolo che non abbia avuto una sua evoluzione. La comicità ha tanti aspetti e io ho un’idea della comicità che nasce non tanto dalla battuta ma quanto dalla situazione drammaturgica, dietro il comico per me c’è sempre un elemento drammatico di drammaturgia proprio, non di battuta.

A proposito del rapporto tra comico e drammatico, perché il linguaggio comico è solitamente svalutato rispetto al drammatico?

Il comico mette in discussione, fa diventare ridicole delle presunzioni di verità. Il comico per sua natura deve dare lo sberleffo, deve invertire e sovvertire le cose, è qualcosa di pericoloso e sovversivo. Quindi è chiaro che il comico non piace. È più facile che un giornalista parli di uno spettacolo in cui si è rotto le scatole tutta la sera che magari parli benissimo di uno spettacolo che l’ha fatto divertire.

A che punto della sua carriera di attore si sente arrivato in questo momento? Corrisponde alle sue aspettative iniziali?

Arrivati, non si arriva mai! Però sono in un momento in cui il mio pensiero corrisponde alla mia azione, mi sento abbastanza libero, la mia vita privata è serena, quindi sto bene è un periodo bello.
Quando uno comincia non sa mai dove andrà. Io penso che ognuno arriva dove può e si può sempre fare di più o anche meno, meglio ma anche peggio.
Adesso mi sento leggero, devo fare una cosa che non mi annoi quindi faccio quello che mi fa piacere fare. Trovo i gesti e le azioni per raccontare le storie che voglio raccontare e racconto solo ciò che mi fa piacere raccontare.

Gi Ubu? Ecchiliqqua’. Che dite?

20141215-154015.jpgREDAZIONE | Ecco i premi. Che ne diciamo?

“Migliore spettacolo dell’anno”, e come “Miglior regia” Le sorelle Macaluso scritto e diretto da Emma Dante

“Miglior progetto artistico o organizzativo” e la volpe disse al corvo. Corso di linguistica generale. Il Teatro di Romeo Castellucci nella città di Bologna (realizzato da Comune di Bologna e Socìetas Raffaello Sanzio) curato da Piersandra Di Matteo

“Miglior progetto sonoro o musiche originali” G.u.p. Alcaro per i live electronics di Quartett, diretto da Valter Malosti

“Miglior attore o performer” e “Miglior attrice o performer” rispettivamente: Roberto Latini per Il servitore di due padroni diretto da Antonio Latella e Arianna Scommegna per Il ritorno a casa diretto da Peter Stein

“Miglior attrice under 35” Licia Lanera (fondatrice del gruppo Fibre Parallele e recentemente vista in Celestina, per la regia di Luca Ronconi)

“Premi Speciali” Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli e a Michele Sambin e il Tam Teatromusica

Peter Morgan per Frost/Nixon come “Miglior novità straniera” rappresentata per la prima volta in Italia e lo svizzero Christoph Marthaler per Glaube Liebe Hoffnung di Ödön von Horváth.

“Migliore novità italiana o ricerca drammaturgica” il lavoro di Daria De Florian e Antonio Tagliarini Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni

“Miglior allestimento scenico” ad Alessandro Marzetti, Silvia Bertoni e Armando Punzo per Santo Genet Commediante e Martire della Compagnia della Fortezza

 

Latella, Cupiello e i fan del dado classico per la broda culturale

Natale in casa Cupiello-LatellaEMANUELE TIRELLI | Esiste un cofanetto dvd del “Natale in casa Cupiello” di Eduardo De Filippo. Esiste ed è ancora in vendita. Contiene la versione del 1962 e quella del 1977, due registrazioni preziose di una delle commedie più conosciute che Eduardo abbia mai firmato, diretto e interpretato. Anzi, da decenni è oramai un vero e proprio classico di Natale, così come è indimenticabile la famosa battuta che dà inizio allo spettacolo: “Lucarie’… Lucarie’… Scétate, song’ ‘e nnove”.

Dal 3 dicembre, al Teatro Argentina di Roma, sta andando in scena una versione di “Natale in casa Cupiello” diretta da Antonio Latella. E ci resterà fino al 1 gennaio.
Latella è famoso in tutta Europa per le sue regie che reinterpretano i testi con chiavi e spunti e slanci e terreni nuovi sui quali confrontarsi. Che poi dovrebbe essere il mestiere del regista un po’ in generale. Lui stesso sostiene che il teatro italiano debba essere svuotato per accogliere un pubblico meno saldamente ancorato alle tradizioni e più disponibile al nuovo e alla riflessione. Ed è inoltre assolutamente plausibile che un titolo così muscoloso come “Natale in casa Cupiello” attiri moltissimi spettatori nella prima sala dello Stabile capitolino.

A questo punto, tralasciando lunghe riflessioni e analisi dal sapore di recensione su una pièce che risulta comunque di grande impatto, carica di significanti e significati, ricca di spunti, impregnata della vena eduardiana più crudele e pure della sua presenza ingombrante… Ecco, scavalcando tutto questo, è anche possibile muovere una o più critiche allo spettacolo, ma solo dopo aver allontanato l’assurda tentazione di dire che non è la versione di Eduardo.

Domenica 7 dicembre, il signore non più virgulto seduto accanto a me ha detto un po’ infastidito alla moglie che non capiva “questa necessità di prendere i classici e farne delle cose contemporanee per i giovani”. Di contro, la giovane signorina accomodata davanti a me ha abbandonato la nave durante l’intervallo al grido di “se avessi saputo che era così, non ci sarei mai venuta”. E, per continuare sulla scia dei commenti, due uomini decisamente più attempati del mio vicino si confrontavano, invece, incuriositi in fila per la toilette su alcuni significanti dello spettacolo e sul concetto di mattanza.

Naturalmente, no, non è la versione di Eduardo, ma è quella di Latella. Lo dice anche la locandina.
Naturalmente, la recita alla quale ho assistito non è stata l’unica farcita da commenti di quel tipo. Qualche giorno fa, dalla platea, c’è stato chi ha addirittura gridato agli attori di vergognarsi e andare a casa, mentre altri spettatori chiedevano invece il silenzio perché lo spettacolo continuasse.
È quindi un errore del Teatro di Roma?
È merito del Teatro di Roma aver dato spazio a una nuova versione che affrontasse Eduardo senza imitarlo?
È quindi necessario informarsi prima di andare a teatro?
È invece apprezzabile l’idea di spingersi in una sala senza aver raccolto notizie sullo spettacolo?
È ancora più interessante affidarsi alla programmazione del teatro, indipendentemente dalla proposta?

Allo Stabile di Roma e al suo direttore artistico Antonio Calbi va il merito di aver prodotto e messo in cartellone per un mese intero uno spettacolo di tale sostanza e suscettibile di malumori.
Tutto questo, e in particolare le ultime due risposte, vorrebbero però una disponibilità reale ad assistere a qualcosa di diverso dal proprio solito. Un’apertura a sviluppare una critica costruttiva o anche di parte, ma almeno distante dal concetto “Non è la versione di Eduardo”. Non lo è perché Eduardo è morto nel 1984 e il teatro e la regia per fortuna continuano ad esistere, e devono continuare ad esistere soprattutto per il pubblico. Non lo è perché Eduardo è stato regista e attore, ma anche autore. Quindi il suo testo è soggetto alle interpretazioni di altri registi che analizzeremo uno o più punti del copione in modo differente tra loro. Un po’ come dire che l’Amleto che vediamo oggi non ci piace perché, seppur rispettando il copione, non è la versione originale.

Insomma, è vero che “Natale in casa Cupiello” è ancora impresso nella mente di molto pubblico con il suono degli zampognari, la camera da letto, Eduardo sotto le coperte nei panni di Luca Cupiello e Pupella Maggio-Concetta che gli porta il caffè. Ma è altrettanto vero che bisogna difendere a testa alta la necessità di continuare a fare teatro e regia, di sperimentare, rileggere, confrontarsi, produrre nuove idee e andare avanti. Anzi è una difesa che dovrebbe partire direttamente dal pubblico. Per tutto il resto, invece, c’è il dvd.