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Nessi, intimità e inclinazioni: un nuovo soggetto

bergonzoniNICOLA ARRIGONI – Perché partire da Alessandro Bergonzoni? Perché nel suo ultimo spettacolo, Nessi l’attore e autore bolognese mette in atto e in racconto poetico le esigenze del nostro contemporaneo. Eh sì, Alessandro Bergonzoni aspira alla filosofia, anzi è da sempre pensatore che gioca con le parole e in Nessi vive di uno stato di grazia sia per quanto riguarda l’aspetto teatrale, ma soprattutto per il pensiero che sottende. Nessi è una riflessione mai banale sulla necessità di riattivare la nostra capacità connetterci con l’altro e non a livello informatico, ma nell’elaborazione e nella coltivazione delle relazioni interpersonali e affettive. Nessi racconta della necessità di «fare nesso, senza preservarci, non serve il preservativo», ironizza Bergonzoni in scena con tre incubatrici, in cui l’attore mette le mani, quasi a curare la nascita prematura del pensiero. Questa urgenza di ‘fare nesso’ parte da una riflessione sulla vita e sulla morte, dalla consapevolezza che la morte è interruzione di nesso ma al tempo stesso parte di vita, forse non è interruzione ma passaggio.
arton67014Della morte e della vita, del divenire e della necessità che il nostro ‘io’ si metta in relazione con l’altro, di questo e molto altro racconta il fluire verbale e semantico di Alessandro Bergonzoni intercettando le necessità e le urgenze di una contemporaneità in cui si teme – come scrive Antonio Alberto Semi in Psicoanalisi della vita quotidiana. L’umanità è in pericolo?, edito da Raffaello Cortina Editore: «vada perduto (o negato) il senso dell’avventura umana, quella che tutti gli individui compiono, volenti o nolenti. Ri-ordinare in questo senso, è anche ritornare a considerare la situazione ordinaria dell’essere umano, stretto tra il suo destino e il suo personalissimo desiderio». Attraverso la quotidianità non necessariamente patologica – per rifarsi al celeberrimo testo di Freud – Antonio Alberto Semi va alla ricerca delle strategie con cui l’io può affrontare non solo le incertezze dei nostri tempi, ma la possibilità di fare del cambiamento e della sua necessità non un motivo di frustrazione o fobia, ma piuttosto una risorsa nella consapevolezza che «uno degli aspetti fondamentali della vita psichica sia anche quello di costruire delle situazioni nuove, di individuare soluzioni nuove alle richieste pulsionali, di riconoscere gli altri comprendendo che da un lato le loro rappresentazioni (e gli effetti connessi) sono dentro di noi collegate a tutti cloro i quali fanno parte della nostra galleria di esseri umani, dall’altro però sono anche – e fortunatamente – diverse, nuove, mai conosciute prima». La Psicoanalisi della vita quotidiana di Antonio Alberto Semi ha il pregio di coniugare prassi e teoria, esempi di vita vissuta con l’esperienza dello sguardo dell’analista e di fotografare una quotidianità che non è solo dei casi analizzati dall’autore, non è necessariamente patologica, ma è irrequieta, indefinibile e complessa e per essere compresa e vissuta appieno abbisogna di una ridefinizione dei nessi che legano l’io, il soggetto al mondo.
L’attenzione all’alterità come risorsa e confronto, come occasione di crescita e bisogno di relazione incoraggia l’inclinazione verso e in merito vale la pena confrontarsi con il bel lavoro di Adriana Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine. Il saggio propone una disanima del termine ‘inclinazione’ partendo da Kant, passando per il pensiero di Hannah Arendt e posando l’occhio sulle rappresentazioni della Madonna con Bambino come exemplum di una inclinazione non solo del corpo, ma anche dello sguardo e dell’anima verso chi è inerme. Insomma il saggio di Adriana Cavarero lavora smontando smontando stereotipi negativi rispetto al termine inclinazione spesso riferito a vizi e atteggiamenti immorali, rispetto al termine ‘rettitudine’ che ha un richiamo forte. Orizzontale e verticale, laddove la rettitudine è postura retta dell’uomo, l’inclinazione è spesso della donna, incline al peccato, ai sensi… Ed è proprio nella frequentazione dell’inclinazione che la saggista Cavarero scardina l’idea di un soggetto chiuso in sé ed autoreferenziale, individuando nel chinarsi verso l’altro, nell’inclinazione appunto la strategia di un nuovo umanesimo della relazione; scrive infatti l’autrice «Demolire il soggetto, autonomo e chiuso e affermare una soggettività aperta e relazionale non significa per Lévinas solo impegnarsi in un’operazione epistemologica e neanche, come pur sarebbe giusto dire, rifondare l’etica sul primato dell’altro, ma anche e soprattutto contrastare la violenza di cui il soggetto egocentrico è portatore».

jullienInsomma l’inclinazione verso l’altro è il punto da cui partire per una nuova umanità, è l’invito all’intimità, laddove il termine si pone Lontano dal frastuono dell’Amore per citare il sottotitolo di un altro contributo: Sull’intimità di François Jullien sulla necessità e urgenza di ricostruire relazioni, fare nesso, direbbe Alessandro Bergonzoni. Mobilitando Omero e Sant’Agostino, Stendhal e Simenon Jullien afferma che mentre l’amore , con le sue dichiarazioni e le sue furie, rischia continuamente l’impostura, l’intimità è lo spazio della nostra autenticità e permette di costruire un ‘noi’ perenne: il più profondo di ciascuno non si rivela che grazie a una relazione, a un uscire da sé. E non a caso scrive François Jullien: «Ciò che l’intimità ci fa quindi scoprire, ma discretamente e senza metterci in guardia, è il fatto che, d’un tratto, attraverso la possibilità che essa apre, sovverte la concezione di un Io-soggetto bloccato nel suo solipsismo – proprio quello contro cui la filosofia contemporanea è, come sappiamo, insorta con forza. Solo la proiezione e astrazione a partire dall’io, ci diceva la psicologia, posso rapportarmi all’Altro, al fuori, e posso avvicinarlo». L’io-soggetto diventa dunque una ‘rivelazione’, una rivelazione che si coglie nell’inaudito dell’intimità «tanto più inaudito quanto discreto, per aprire di nuovo, tirando un filo, un cammino verso l’umano e verso la morale, per sondare quel noi che essa ci rivela». E allora eccoli i Nessi di Alessandro Bergonzoni, la necessità di uscire da noi stessi e cercare relazioni vere e reali, di inclinarsi verso l’altro per condividere un’intimità che aiuta a costruire, insieme, un mondo in cui morte e vita sono un divenire fluido, naturale, sostenuto da una comune humanitas che ha il suo cuore nell’intimità con l’altro.
Nessi di e con Alessandro Bergonzoni, regia di Alessandro Bergonzoni e Riccardo Rodolfi, produzione Allibto Srl, al Municipale di Piacenza, 18 novembre 2014
Antionio Alberto Semi, Psicoanalisi della vita quotidiana. L’umanità è in pericolo?, Raffaello Cortina Editore, 2014, 14 euro.
Adriana Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Raffaello Cortina Editore, 2014, 15 euro.
François Jullien, Sull’intimità. Lontano dal frastuono dell’amore, Raffaello Cortina Editore, 2014, 14 euro.

Da dove sto chiamando: fra danza e performance in Sardegna

unnamedRENZO FRANCABANDERA | Per il secondo anno di seguito AUTUNNO DANZA e SIGNAL FESTIVAL, due manifestazioni storiche dell’arte coreutica contemporanea e dell’arte prerogativa a Cagliari si sono fuse per dar vita ad una rassegna che inglobasse in modo originale e inclusivo le necessità artistiche che le due direzioni già da anni autonomamente proponevano. E’ nato così il progetto DA DOVE STO CHIAMANDO.

La vicinanza delle istanze artistiche che da un lato Momi Falchi e Tore Muroni di SpazioDanza Cagliari per la danza e Alessandro Olla di TiConZero per le arti performative proponevano al loro pubblico, si sono combinate in modo intelligente, con una logica rara da vedere in Italia, che mette a fattor comune risorse, pubblici, idee per creare uno spazio nuovo e ulteriore, condiviso e originale.

Ne abbiamo parlato in un’intervista circolare con i tre promotori, che ci hanno risposto con una logica unitaria, chiedendoci di fatto di riconoscere come un’unica voce quella a cui devono riferirsi le risposte alle nostre domande, ovvero quella della direzione artistica di DA DOVE STO CHIAMANDO.

– Come è stata studiata quest’anno la rassegna e quali idee guida la animano?
Il punto di partenza è sempre quello di indagare le forme artistiche legate ai linguaggi della contemporaneità, cercando di abbattere le barriere fra i generi e mettere in relazione i differenti codici espressivi. Questo è il principio comune da cui siamo partiti nella collaborazione con Ticonzero iniziata già da qualche anno. Inoltre abbiamo operato la scelta di uscire dai luoghi deputati allo spettacolo e individuato nell’Antico Palazzo di Città, nel quartiere medievale di Castello, un contenitore articolato, grazie alla sua specifica partizione architettonica e alla stratificazione dei vissuti storici che l’hanno caratterizzato. E’ un ambiente capace di influenzare in maniera determinante le proposte artistiche delle compagnie ospiti, che lo abitano modificando sostanzialmente la relazione fra i corpi, gli spazi, i suoni e l’insieme visivo.

– L’organizzazione del Festival conta su risorse molto scarse. Potete dirci più o meno come si costruisce il budget di un evento pure così importante per il sud dell’isola come il vostro?
La contrazione dei contributi pubblici alle manifestazioni culturali, ci impone una riflessione sulle modalità di programmazione e spesa delle risorse. E’ stato necessario costruire una rete di collaborazioni fra compagnie attente alla contemporaneità per abbattere i costi della logistica, coinvolgere nuove associazioni di giovani e supportarle nelle loro proposte, proporre laboratori nella scuola pubblica, avere il sostegno del Consorzio dei trasporti e infine raggiungere degli sponsor privati ai quali non si sono chieste risorse economiche ma scambi di servizi e visibilità. Inoltre si è creato un vasto staff di giovani volontari che hanno prestato il proprio impegno in cambio di attività laboratoriale, partecipazione agli eventi e della possibilità di sviluppare importanti esperienze e tessere relazioni.

– In che modo ritenete il festival dialoghi con le altre istituzioni italiane e non solo? Cosa si può fare di più e meglio per rafforzare questo dialogo?
Il problema della relazione fra le attività culturali che nascono in Sardegna con il resto dell’Italia è antico e mai del tutto risolto. Proviamo a creare dei nessi che non siano unidirezionali ma che permettano di mostrare quanto di buono si progetta e realizza nell’isola ed evidenziare il percorso già fatto. Il nostro festival ha una buona risonanza nazionale, è riconosciuto dal Mibac, che di anno in anno va aumentando il sostegno. Tuttavia ci rendiamo conto che ancora molto c’è da fare per superare le difficoltà dell’isolamento e di alcuni preconcetti che vedono la Sardegna più legata a una cultura identitaria tradizionale piuttosto che alla progettazione contemporanea.

– La Sardegna molto spesso è un’isola che si compone al suo interno di altre isole, anche culturali. Quale network sarebbe possibile nel vostro mondo ideale, e quale ruolo (più o meno forte) dovrebbe avere il decisore pubblico?
L’opportunità della candidatura a Capitale europea della cultura, benché Cagliari non abbia raggiunto l’obiettivo, ha attivato una sperimentazione progettuale fra operatori e istituzioni pubbliche. Se è vero che non tutto ha funzionato al meglio, si deve però rilevare che è stato avviato un processo e un confronto prima del tutto inesistente. Speriamo che ciò conduca a superare delle barriere di diffidenza reciproca e permetta di mettere a regime differenti capacità, saperi e creatività. Il decisore pubblico deve realizzare un programma di intervento ben definito nei tempi, nelle modalità di controllo non solo burocratico, per garantire e supportare l’attività artistica e culturale libera e indipendente.

– A quale idea di festival siete più affezionati e in che modo questo percorso congiunto vi avvicina a questa idea?
Siamo affezionati all’idea di festival esattamente uguale a come lo stiamo realizzando: articolato, ricco, inclusivo e espressione di libera creatività! Vogliamo un festival intelligente, raffinato nelle sue proposte, attento al presente e insieme coinvolgente, spettacolare, capace di emozionare, incuriosire e far pensare. Nonostante tutto crediamo che nel valore sociale, politico e liberatorio dell’esperienza artistica

– Quanto pubblico avete avuto l’anno scorso? E che obiettivi avete quest’anno?
Non puntiamo ai grandi numeri! Sappiamo che i linguaggi contemporanei spesso spaventano gli spettatori e rischiano di essere escludenti. Cercando di opporci a questa visione, apriamo soprattutto ai giovani e sperimentiamo che le paure di incomprensione risultano spesso infondate. L’anno scorso il festival ha raggiunto complessivamente circa 1500 persone. Ci auguriamo quest’anno di incrementare il nostro seguito.

Dal cantiere alla scena: Big Action Money in Kislorod (Ossigeno).

ph. Ilaria Scarpa

FRANCESCA GIULIANI | All’interno della rassegna Il cinema racconta il teatro, il TTV22 Festival ha ospitato quest’anno la giovane compagnia riminese Big Action Money con la performance Kislorod (Ossigeno), azione scenica sul film dell’artista russo Ivan Vyrypaev. Sia sceneggiatura cinematografica sia testo teatrale, Kislorod è stato allestito per la prima volta in Italia da Teatrino Clandestino nel 2007.

ph. Ilaria Scarpa
ph. Ilaria Scarpa

La forma drammaturgica è molto originale: è la partitura musicale di uno spettacolo che sta in bilico tra teatro e concerto techno, di un film che si muove tra cinema pulp e video musicale. L’azione si apre con un dj che presenta un album: Ossigeno (i dieci comandamenti). Due attori/speaker radiofonici, attraverso dieci brani dialogici, svelano le problematiche delle nuove generazioni russe, e del mondo contemporaneo più in generale, intessendo la narrazione su due strutture bibliche: il sermone che Gesù rivolge ai suoi discepoli, Il discorso alla montagna, e il Decalogo contenuto nell’Esodo e nel Deuteronomio. A Riccione, all’interno di una sala del Cinepalace, il regista Teodoro Bonci del Bene è in scena. Come orchestrando un concerto da camera, dà il via all’azione, sincronizzando le entrate e uscite vocali dei due attori sulle scene del film che scorre alle loro spalle. Dialogando “in presa diretta” con le immagini in movimento sul grande schermo, Emanuele Valenti e Kristina Likhacheva danno voce ai loro doppi virtuali. Al centro del dramma non c’è l’azione ma il racconto. La narrazione, accompagnata dalla colonna sonora del film che fa da sfondo, traccia le linee di una storia d’amore tra due ragazzi. Già nella recitazione dal vivo dei due attori/speaker, di origini russe lei, napoletane lui, è ricalcata la differenza territoriale e culturale che distanzia i personaggi sullo schermo. Sono molto diversi, lui viene dalla provincia, lei dalla città, ma entrambi si oppongono con rabbia alla malattia che li annienta, quell’asfissia che è mancanza di ossigeno, di stimoli vitali, di libertà in una società moralmente violenta e corrotta come la Russia post-sovietica. Gli attori non s’identificano con i loro personaggi, anzi se ne distaccano narrando le vicende in terza persona. Il dramma si sviluppa nel continuo andirivieni degli attori dai personaggi a loro stessi, al loro essere, mentre sono intenti a illustrare l’inapplicabilità delle leggi bibliche nel mondo odierno. Il fondale, smisurato alle loro spalle, non li soffoca, anzi, la loro potente presenza e precisa interpretazione aumentano quelle immagini che scorrono fino a confondersi all’interno dello stesso meccanismo che Vyrypaev crea. “Non posso dire così, perché tu non mi hai scritto il testo apposta”, pronuncia Likhacheva facendo cadere ancora più fortemente lo spettatore nel vortice di questo teatro, dove è spesso il linguaggio a generare menzogne e illusioni, oppressioni e violenze.

ph. Ilaria Scarpa
ph. Ilaria Scarpa

Alla dichiarata mancanza di libertà degli attori virtuali, che rivendicano all’autore il diritto di parola, nel Kislorod di Big Action Money si aggiunge un ulteriore livello di costrizione, il doppiaggio guidato dal regista, che amplifica quel meccanismo che Vyrypaev ha creato. Quest’azione scenica è all’interno di una ricerca più ampia che la compagnia sta portando avanti intorno all’opera di Ivan Vyrypaev. Traduzioni di testi, visioni di opere filmiche, reading, messe in scena si sono susseguite in questi mesi all’interno del “Cantiere Vyrypaev”, vere e proprie giornate di studio che Big Action Money sta proficuamente affiancando al suo percorso artistico.

Sgorbani, Frau Goebbels e la fenomenologia nazista dei sette nani

ELENA SCOLARI | magda4Frau Magda Goebbels è a colloquio con Herr Adolf Hitler. Imbastiscono una conversazione dotta sui sette nani e sul loro significato simbolico. Che Biancaneve e i sette nani fosse uno dei film preferiti del Führer insieme a Via col vento è ormai risaputo, in Magda e lo spavento, visto al Teatro i di Milano per la regia di Renzo Martinelli (coadiuvato da Francesca Garolla), si offrono alcune ardite interpretazioni del perché.

Massimo Sgorbani, autore del testo (terza parte del progetto Innamorate dello spavento, sulle donne legate a Hitler) propone una vera e propria esegesi del film di Disney, che concederà anche ad altri personaggi del fumettista americano, non verranno trascurati né Topolino né Minnie né Pluto.

Federica Fracassi e Milutin Dapcevic compaiono in scena allo spegnersi di un grande ventilatore stile cinema anni ’50, lo sbatacchiare delle pale lentamente finisce e gli attori sono dietro a un telo di garza bianca, forse a dire che assistiamo a qualcosa di sfumato come un sogno, o meglio come fossimo alla proiezione di una vecchia pellicola, consumata dal tempo, ma i nomi Hitler e Goebbels non sfumeranno mai, saranno sempre tormentosamente presenti nella Storia, e così anche le parole messe loro in bocca assumono un valore che ha qualcosa a che vedere con l’eternità.
Bisogna stare attenti con i nazisti, e anche con le loro mogli, non è gente da portare a teatro senza la giusta toilette. Qui il testo e la regia vestono Hitler di un po’ di inquietante cretinaggine, costume che gli abbiamo già visto indossare, asservito all’abito di prepotente arguzia vestito da Frau Goebbels, che sciorina con scioltezza ritmata i nomi dei sette nani a memoria (in tedesco) e illustra con padronanza il senso nascosto e disgustoso della teoria nanofobica, che esponiamo: i nani ci vengono subdolamente mostrati come “carini”, sono in realtà esseri deformi, che vivono sotto terra e custodiscono – temporaneamente – la bellezza di Biancaneve fino all’arrivo del principe, più ariano che azzurro. Pertanto si suggerisce che la mostruosità sia ancella della bellezza ma la possa solo conservare, il vero intervento salvifico e rivitalizzante è quello della razza superiore. Apprendiamo anche dell’inferiorità intellettuale dei nani espressa nel fatto che si rechino a lavorare cantando, atteggiamento da considerarsi abnorme, dettato dalla volontà di riscattarsi con l’unico mezzo per loro possibile, il lavoro, appunto.
Tutto ciò viene esposto in un dialogo dal tono filosofeggiante tra la moglie del gerarca – in un aereo e roseo abituccio – e il Führer, in frac, i due accennano continui passi di danza, ricordano i ripetitivi ballerini dei carillon, condannati a una melodia crudele e stolida, tanto quanto le loro riflessioni.
La perfidia è continua, la Goebbels racconta dell’avvelenamento nel sonno dei suoi sei figli, i cui nomi in fila fanno una filastrocca come quelli dei nani, e via raccapricciando.

La fenomenologia disneyana recita anche che quando Mickey Mouse si reca a trovare Minnie porta con sé Pluto perché corteggerà la cagnolina di Minnie operando così un atto di transfert da topi a cani, una storia d’amore tra i roditori umanizzati sarebbe stata sconveniente mentre la sublimazione canina è lecita. Hitler si stupisce che il personaggio di maggior successo di Walt Disney sia un topo, l’animale più disprezzato dall’uomo, una prolusione sulla loro prolificità e sulle tecniche di sterminio topicida induce a un parallelo tra ratti ed ebrei.

Ci siamo documentati e abbiamo trovato numerose interpretazioni riferite ai sette nani nella celebre fiaba: dalla più attendibile che li vede servitori addetti al culto di una divinità legata alla terra a quella più stupefacente che li vuole ognuno rappresentante un diverso effetto della cocaina.
Noi ci siamo sinceramente sforzati di cedere all’incanto in salsa cartoon della spiegazione di un Male che spiegabile non è, ma con tutta la cattiva volontà non ci siamo riusciti. Molto forte è l’impressione che il testo di Sgorbani sia insuperabilmente pretestuoso, che turbi gli animi convenzionali desiderosi di choc. E cosa è più chic che interrogarsi sull’olocausto usando l’ermeneutica di un fumetto, per di più americano?
Se nello spettacolo Eva il parallelo tra Eva Braun e Rossella o’Hara già ci era sembrato incerto, questa lettura malefica dei beniamini disneyani ci lascia ancora meno convinti. Pur provando a considerarla una formidabile presa in giro. La regia di Martinelli è discreta benché presente ma l’ora e quaranta di spettacolo, soprattutto nella parte centrale, la rende piatta.

Il vero peccato è che Federica Fracassi e Milutin Dapcevic sono bravi, molto bravi, la loro capacità è fuori del comune teatrale, ma non basta: la bellezza del loro talento è al servizio di una teoria che un principe saggio lascerebbe addormentata.

Perché la realtà non è come su Sorrisi e Canzoni: la Letizia secondo Palazzolo e Nocera

letizia-foreverRENZO FRANCABANDERA | Il teatro ha alcune regole ben precise; e sono nell’arte stessa, almeno nella sua declinazione più ordinaria, in cui il rapporto cruciale si ha fra spettatori e attore, per il tramite di un testo. Si vabbè, la performance, tutto quello che si vuole.
Il primo teorema della sincerità teatrale dice che se hai un testo che funziona, un attore capace di porgerlo con coraggio e intensità e un regista con un’idea forte su come far dialogare testo e attore, si crea un elemento magico che si approssima al poetico quanto più il pubblico diventa partecipe dell’emozione collettiva.

È quanto succede con Letizia Forever, testo e regia di Rosario Palazzolo, che si affida per la protagonista della sua storia alla carnalità femminile e vera di un potentissimo Salvatore Nocera; la storia di una sottoproletaria analfabeta siciliana che spera di fuggire, diciassettenne, ad un destino di infelicità, con la classica “fuiùta”. Con il ragazzo, che poi sposerà già incinta, fuggono a Milano. Lui diventa autista ATM. Lei sforna due figli, vivendo in un casermone all’Ortica. In serbo un destino di infelicità che resta in agguato fino al finale che lo rivela.
La macchina testuale, costruita con cadenze e intervalli, si affida ad una corrispondenza scenica che ovviamente l’autore ha già di suo calibrato nella scrittura, fra pause e diritto e rovescio del tessuto testuale, utilizzando nella messa in scena una colonna sonora di classici pop degli anni Ottanta che, come l’euforia di quegli anni, narcotizzavano un’Italia che sperava di cambiare molto più di quanto poi non sia cambiata veramente.
E così la confessione di Letizia ha una parte sociale e una intima e personale, l’una affidata a una luce fissa e chiara, l’altra a una rossa con la musica pop e lo stroboscopio (disegno luci di Toni Troia). La vita scorre fra le due modalità narrative, e una serie di voci off, di Giada Biondo, Floriana Cane, Chiara Italiano, Rosario Palazzolo, Chiara Pulizzotto, Giorgio Salamone.
La scena di Luca Mannino è semplice e valorizza il rapporto diretto fra spettatori e interprete, con i primi che circondano e sono vicinissimi al secondo. Meno incisivi e forse inutili alcuni elementi appesi al soffitto e che nel rapporto di attenzione che si crea fra pubblico e interprete, di fatto spariscono e non si fanno vettori di un messaggio ulteriore.

Pur riportando alla memoria, come inevitabile, la presenza scenica di La Ruina e i suoi testi sulle donne meridionali affidate nell’interpretazione ad un uomo, lo spettacolo sa trovare una sua vena peculiare, ironica, più vicina, rimanendo in vena di paragoni, seppur con le dovute semplificazioni della trama, a un Mimì metallurgico al femminile, dove codice d’onore, radici proletarie e desiderio di emancipazione dalla miseria si intrecciano in modo grottesco e satirico, fino all’inevitabile sconfitta dell’antieroe. Per il quale nel frattempo abbiamo preso a tifare.

In scena al Teatro della Contraddizione di Milano, e prodotto da T22 e Teatrino ControversoLetizia Forever è un piccolo gioiello di autoproduzione, uno di quegli spettacoli che funzionano a qualsiasi latitudine perché capaci di risvegliare sentimenti e partecipazione sincera.
Poi si potrebbe discutere su alcune perfettibilità della drammaturgia, che magari lascia qui e lì nella seconda parte, quella per così dire metropolitana, alcuni passaggi non del tutto risolti e svolti  un po’ velocemente, allungandosi invece su alcune cadenze forse meno pungenti e ricche, ma il complessivo funziona in modo egregio ed è il classico spettacolo che se avessi un teatrino e la voglia di far emozionare il pubblico semplicemente con un testo, un attore e un’idea registica, programmerei certamente.
Fra le dieci migliori produzioni indipendenti viste nella stagione.

Un mese di teatro alla radio: intervista a Laura Palmieri

2 BergamascoLAURA NOVELLI | Una casa. Una scogliera. Un padre. Una madre. Un figlio. Una donna. Un passato che riemerge (forse). Un evento tragico. Un futuro già bruciato che toglie ai giovani ogni slancio idealistico. Si muove in questa geometria misteriosa e spiazzante di temi e presenze il radiodramma The testament of this day del grande drammaturgo britannico Edward Bond che è stato trasmesso live dagli studi di Radio3 qualche sera fa all’interno della ricca vetrina “Tutto esaurito!”. E’ la prima volta che quest’opera, andata in onda lo scorso aprile alla BBC, approda da noi, e lo fa (su traduzione di Tommaso Spinelli) per voce di pregevoli interpreti quali Elio De Capitani, Marco Foschi, Manuela Mandracchia e Francesca Mazza, guidati dall’intenso sguardo registico di Lisa Ferlazzo Natoli e chiamati ad una prova indubbiamente non facile. Eppure riuscitissima, che conferma quanto il linguaggio radiofonico sia prossimo al teatro e quale importante ruolo divulgativo la radio possa svolgere se si connette con la cultura presente, se intercetta le tensioni più urgenti della scena (e dunque della società) contemporanea, se provoca essa stessa progetti capaci di una ricaduta artistica concreta.
Nasce d’altronde da queste premesse il festival di teatro che, curato anche quest’anno da Antonio Audino e Laura Palmieri, monopolizza il palinsesto serale di Radio3 per l’intero mese di novembre, con una scaletta di eventi – ora trasmessi in diretta dalle sale di via Asiago, ora registrati ad hoc per la rassegna, ora ripescati nel corposo archivio radiofonico del terzo canale Rai – che hanno attraversato e attraverseranno nelle prossime sere territori espressivi molto diversi e però complementari tra loro, affini, sempre e comunque significativi del nostro presente. “Innanzitutto – ci racconta la stessa Palmieri – abbiamo voluto affiancarci ad alcuni progetti già esistenti che ci sono sembrati particolarmente emblematici.
a serata dedicata ad Edward Bond nasce, ad esempio, da una collaborazione con il Teatro di Roma, che in futuro realizzerà una serie di iniziative importanti intorno a questo autore, e dal 4 dicembre la stessa Ferlazzo Natoli presenterà al teatro India il suo Lear di Edward Bond – Parole Nude. In questa scrittura così sottile, così razionale, e tuttavia così spiazzante, vibrano pulsioni che sono un vero pugno allo stomaco. Bond ci parla di noi, pone domande estreme e non dà risposte. E’ davvero un grande autore contemporaneo”.

Altrettanto taglienti le opere dei tre drammaturghi austriaci, Peter Handke, Elfriede Jelinek e Thomas Bernhard, che vanno a comporre un articolato focus arricchito da alcune proposte inedite. “Abbiamo voluto puntare uno sguardo specifico sulla drammaturgia di lingua tedesca (in programma anche un’opera di Heiner Müller, ndr) e sull’Austria perché in questa cultura, in questo teatro, si agitano tensioni che riflettono bene i nostri tempi. Per quanto riguarda Handke, un autore fin troppo trascurato qui da noi, abbiamo lavorato in consonanza con il progetto La terra sonora – Il teatro di Peter Handke curato da Valentini Valentini e, oltre a ripescare nei nostri archivi Insulti al pubblico con la regia di Fabrizio Arcuri, abbiamo realizzato due opere inedite in Italia: Il Blues della metropolitana, andato in onda qualche sera fa in diretta con l’interpretazione di Maurizio Donadoni e Veronica Cruciani, e I bei giorni di Aranjuez, allestito da Daria Deflorian ed Attilio Scarpellinin e registrato appositamente per noi all’Argot”.
Coraggioso anche il progetto relativo a Francamente ne me infischio di Antonio Latella: “come è noto, questo lavoro ispirato a Via col vento è stato concepito da Latella in cinque episodi; noi lo abbiamo riadattato per la radio grazie al prezioso lavoro di Franco Visioli e lo abbiamo trasmesso a puntate per quattro sere successive, in modo da ricreare proprio l’idea di soap-opera popolare sottesa allo spettacolo. Debbo riconoscere che tanti radioascoltatori ci hanno scritto entusiasti. E’ stata una scommessa. E credo che nel complesso abbia funzionato. Segno che c’è un pubblico di ascoltatori amanti del teatro che non va trascurato e che anzi va stimolato con idee nuove”.
E le idee nuove in questo cartellone 2014 di “Tutto esaurito!” non mancano. Oltre ad intercettare il lavoro di alcune delle compagnie di ricerca più interessanti della nostra scena contemporanea, quali Babilonia Teatri (Jesus) e Fratelli Dalla Via (Mio figlio era come un padre per me); oltre a mettere insieme autori come Carlo Emilio Gadda, Luigi Pirandello, Gianni Celati e interpreti che non hanno bisogno di presentazioni (Roberto Latini, Claudio Morganti, Elena Bucci, per citarne alcuni); oltre a progettare una sezione specifica di radiodrammi e un contenitore di proposte collaterali (il ciclo Eduardo a trent’anni dalla scomparsa, a cura di Antonio Audino, l’Archivio Eduardo e le quattro lezioni-spettacolo di Dimore di suoni) ascoltabili sul sito di Radio3 (www.radio3.rai.it), questo festival mette in campo anche una novità teatrale destinata a tradursi presto in spettacolo: L’uomo seme di Violette Althaud, che sarà trasmesso in diretta dalla sala A di via Asiago mercoledì 26. “Si tratta di un progetto – riprende Laura Palmieri – al quale tengo molto.
Il testo, tradotto da Monica Capuani, è un diario poetico e intimo scritto ad inizio ‘900 che racconta, con uno sguardo molto femminile, i rapporti tra i due sessi dando voce a tre donne di età e temperamento differenti. Noi lo proponiamo in forma di lettura scenica, curata da Sonia Bergamasco, con Piera Degli Esposti, la stessa Bergamasco e la giovanissima Beatrice Fedi. Ma l’intenzione è quella di farne uno spettacolo vero e proprio”. Completano il cartellone, due serate-omaggio dedicate rispettivamente a Eduardo e a Umberto Orsini, e un lavoro ispirato ai Diari di Etty Hillesum già debuttato quest’estate all’interno della stagione festivaliera. Deve trattarsi di autentico amore per la vita il titolo di questa pièce scritta da Giluia Calligaro che, adattata per la solo voce di Laura Marinoni, verrà trasmessa il 30 novembre. Giorno in cui la Hillesum morì.
E serata conclusiva del festival. “Ci sembrava giusto chiudere con questo importante ricordo. Nel lavoro originale recitano anche Maddalena Crippa e Federica Fracassi; qui invece abbiamo solo la voce, straordinaria, della Marinoni. Nel passaggio dalla scena alla radio intervengono necessariamente degli aggiustamenti e dei cambiamenti. La radio ama l’essenzialità. Le parole non possono essere più di quelle necessarie. Eppure non c’è dubbio che radio e teatro siano felicemente connessi tra loro. Che l’una faccia bene all’altro. E viceversa.”

Stanza di Orlando: Macelleria Ettore nell’anima di Virginia Woolf

ettoreVINCENZO SARDELLI | Si potrebbe definire romanzo psicologico contemporaneo, ma nasce da opere pubblicate circa un secolo fa. Si potrebbe definire saggio sulle nostre identità multiple, ma ha un impianto narrativo con tanto di dialoghi interiori. Si potrebbe definire allora una biografia, ma non è la storia di una vita: piuttosto, è la storia di una non-vita questo straordinario andirivieni dentro l’anima di Virginia Woolf.

L’idea motrice di Stanza di Orlando di Macelleria Ettore evoca un pensiero pirandelliano: la vita o si vive o si scrive. Virginia Woolf la sua vita decise di scriverla. Rinunciò a viverla del tutto per l’ostinazione di scriverla. Di fatto, tra un’esistenza totalmente vampirizzata dalla scrittura e la scrittura stessa non può esserci soluzione di continuità.

È un fiotto di pensieri questo monologo datato 2011, appena tornato in scena a Milano al Teatro di Ringhiera. Stanza di Orlando firmato Carmen Giordano (testo e regia) con Alice Colla (luci e fonica) rende in maniera avvincente quel “flusso di coscienza” di cui la Woolf fu forse dopo Joyce l’interprete più acuta.

Lo spettacolo precede altre due esibizioni di Macelleria Ettore a Milano: Elektrika, in scena sabato 22 e domenica 23 novembre, sempre al Ringhiera; e Amleto? dal 3 al 7 dicembre allo Spazio Tertulliano.

L’installazione di Maria Paola di Francesco (giostra, girandola, gabbia, lanterna magica) racchiude tra elastici, specchio e candelabro l’esibizione di un’ispirata Maura Pettorruso.

Viaggio nella testa di Virginia Woolf: è nel sottotitolo la chiave di questa performance. Pensieri e parole della scrittrice inglese. Crisi. Fugaci accessi di squilibrio mentale. Amori, amicizie, suggestioni: un destino diventato opera. Oscillazioni, all’interno della passione-repulsione, per la letteratura. Affiora la presenza-assenza dell’essere pieno, totale, androgino. Emerge il desiderio di definire i rapporti tra il mondo esterno e la vita interiore, la meditazione intorno alla bellezza.

Quella di Maria Paola di Francesco non è una semplice installazione. È il cerchio della vita che prosegue uguale a se stessa con poche varianti di facciata. Gli spiragli di fuga vanno e vengono. L’installazione è galera, ma anche stabilità. È viaggio ritmico nella vita interiore.

Quando la scena si muove, quell’intermittenza rappresenta il fluire delle cose. Corrisponde alla fugacità dei momenti di luce, seguiti da oscurità e ambiguità.

La protagonista, ingabbiata anche dalla propria vitalità sexy in corsetto di pizzo e tulle, non può considerarsi ferma: la sua coscienza genera un succedersi di impressioni, sogni, riflessioni: atomi di personaggi che piovono sugli spettatori.

Maura Pettorruso dà corpo e voce, sfumature, pause, urti, al divario tra tempo cronologico e tempo interiore. La sua rappresentazione polifonica connette i frantumi dell’esistenza e li chiude in un cerchio destinato a rifrantumarsi nell’istante successivo. Attraverso quest’installazione-carillon, attraverso il gioco di specchi e di luce proiettata in ogni dove dai cristalli, osserviamo la protagonista da varie angolazioni, che corrispondono alle coscienze dei vari personaggi che la animano.

La drammaturgia di Carmen Giordano è lapidaria. Procede per flash, anche sul piano sintattico. Rende tangibile la semplificazione del linguaggio fino alla rarefazione. In fondo anche la recitazione ora fredda e trasparente, ora roca, calda e graffiante, è in sintonia con l’astrattezza e insieme con la profonda originalità di Virginia Woolf.

Il disegno di questo progetto, la cura dei dettagli e dei movimenti, rivela una filigrana classica. La scenografia circolare risolve il problema di connettere i frammenti dell’esistenza entro il cerchio d’acciaio della poesia e della memoria. Macelleria Ettore raggiunge un rischioso e affascinante equilibrio tra chiarezza intellettuale, intensità d’affetti e cura stilistica.

L’allontanamento finale della protagonista dall’installazione, il suo ritorno, sono scelte di libertà. L’armonia è ristabilita. Il monologo è un pretesto per parlare di ciò che è l’arte. Con perfetta sintonia, il silenzio dell’attrice in scena coincide con il compimento dell’opera d’arte. Allora a tutti gli spettatori sono concessi alcuni “momenti di visione” in cui cogliere gli aspetti profondi della realtà. Tutti diventiamo, cioè, lo sguardo dell’autrice sul mondo.

Davide Lorenzo Palla e l’incontro con Shakespeare al bar

foto Massimo Volontè
foto Massimo Volontè

RENZO FRANCABANDERA | L’incontro con Davide Lorenzo Palla non arriva nel foyer o seduti dentro comode poltroncine teatrali. Capita tipicamente nei bar e locali della città, dove lui vestito in abiti civili si trasforma in Otello in poche mosse, con un cappello in stile antico e una giubba scura. Poi lui fa tutto: da Otello a Desdemona, e Iago ovviamente.

La ricerca sulla materia popolare dei testi del bardo e sulla sua accessibilità è una delle cose più interessanti del lavoro che l’attore porta avanti da alcuni anni e che si sta risolvendo in una trilogia di cui è in preparazione il prossimo Giulietta e Romeo.

Pur con qualche ovvia concessione alla leggerezza, l’operazione è di sicuro interesse, perché permette due cose che negli anni si erano un po’ perse, ossia il teatro accessibile fuori dal teatro ma in spazi e luoghi di ritrovo, e l’altro era la dimensione più orale, drammaturgica del lavoro shakespeariano.

Andando al merito tecnico della proposta, Davide Lorenzo Palla, accompagnato dal polistrumentista Tiziano Cannas, sviluppa fin dall’inizio un rapporto fedele con il testo: il suo è proprio l’Otello, non un remake moderno, una riscrittura. Ovviamente vengono scelti alcuni passaggi essenziali, semplicemente riassunti i gangli narrativi o più accessori della trama.

All’inizio e poi con qualche ripetuta (e più facile, diciamo così) modalità di coinvolgimento al pubblico viene chiesto di immaginare il teatro, il drappo rosso, scenografie milionarie. E la scena si popola di immaginazioni solo apparentemente centrifughe. Ma poi il resto è fedele rimando all’opera del Bardo, poggiata lì su un leggio a cui tornare con un fare quasi involontariamente liturgico, come il prete durante la celebrazione. E quasi ora, scrivendolo, ragiono sul fatto che effettivamente, pur nella dissacrante similitudine, davvero Palla sulle cassette della frutta e fra frizzi e lazzi, ha un tempo scenico da celebrazione, da rito, e nel finale, come il prete che solleva l’ostia che è simbolo di altro in un rigoroso silenzio, lui fa vibrare sulla punta delle dita una fiammella che è anche una vita.
Nel frattempo, a Shakespeare è riuscito il miracolo di far tacere la chiassosa platea dei bar o luoghi di ritrovo in cui Palla porta la sua laica predica. Che ovviamente diverte e commuove, fa partecipare e fa star zitti. A volte viene in mente che è un leggero divertimento, altre che è una piccola genialata, di quelle che solo il teatro, per fortuna, riesce ancora a raccontare. Senza bisogno di molto. Al solito, un buon testo, una buona idea per raccontarlo, l’attore officiante il rito. E via, al cuore dell’emozione!

OOOOOOO: freschezza postmoderna di D’Anna e Fattoria Vittadini

fattoriaVINCENZO SARDELLI | Il teatro come esperienza assertiva, momento epifanico della propria identità. Autenticità e naturalezza sono la cifra di Fattoria Vittadini, gruppo di scuola Paolo Grassi che ha portato in scena, al Teatro dell’Arte di Milano, il musical postmoderno OOOOOOO.

Mix di danza, canto e recitazione, OOOOOOO è una sorta di brainstorming del “pensiero debole” che passa al vaglio la generazione Y, giovani intorno ai trent’anni o giù di lì. A scatenare questo cortocircuito sociologico e artistico è l’incontro tra Fattoria Vittadini e l’artista italo – olandese Giulio D’Anna.

Lo spettacolo è l’occasione per sette giovani performer (Mattia Agatiello, Chiara Ameglio, Cesare Benedetti, Noemi Bresciani, Maura Di Vietri, Riccardo Olivier, Francesca Penzo) di creare nuove dinamiche relazionali. Tutti si mettono a nudo. Svelano il proprio essere, agire, pensare. È un outing collettivo che rivela scelte e inclinazioni riguardo ad amicizie e sentimenti, sesso e religione, verità, menzogna, felicità, vita, morte, letture. Fino ai rapporti più personali con se stessi, genitori e partner. Molta intimità, nulla di sconvolgente. Ma proprio quest’autenticità, in fondo elementare, offre allo spettatore appigli per riconoscersi.

Rivelarsi per identificarsi. Scoprirsi per relazionarsi. I sette protagonisti sono elementi di un’architettura che si decompone e ricompone, rimodellandosi continuamente. Come oggetti di cera pongo, esplorano l’io e il mondo. Si separano, si confondono. Entrano ed escono dalle vite altrui. OOOOOOO è uno spettacolo proteiforme. Le note di Feelings di Alan Morris introducono una riflessione corale sul tema delle relazioni fallite. I curriculum lavorativi dei performer si liquefanno in percorsi esistenziali e psicologici. S’intersecano con dati statistici più generali.

La fisicità declina memorie ed emozioni, riflessioni e progetti. È una danza sofisticata, plastica, che crea scogli e montagne, sentieri, intrecci di corpi e di pensieri.

Quest’umanità qualunque si libra attraverso il gesto. Movimenti soft accompagnano le parole, pronunciate o proiettate sullo sfondo, in una performance mai didascalica. Gli attori mettono in scena un’individualità non autoreferenziale, inserita in un contesto collettivo. La dialettica d’incontri non degenera. Mira all’accettazione e all’armonia. Il contatto è reciprocità senza invadenza. La compenetrazione nasce dalla condivisione. I personaggi si sorreggono. Si camminano addosso senza calpestarsi.

I gesti hanno una musicalità. I muscoli diventano casse di risonanza per le mani, con qualche migliaio di schiaffi autoinflitti, ripetuti, ritmati, che segnano (forse) la via per il risveglio.

La musica scelta da Marcello Zempt crea atmosfere sopite: spirituali, senza derive esoteriche.

Ogni performer è parte di un organismo totale. Gli estemporanei strappi rispetto a questa dimensione d’integralità, di totalità, determinano perciò un incedere sgraziato, anchilosato. I corpi cadono, gli sguardi si perdono nel nulla. Se la solitudine contingente è sopportabile, l’assenza imposta dagli altri diventa devastante. Privi di sostegno, cadiamo, ci rialziamo a fatica, in un vuoto a perdere che conduce al nichilismo.

OOOOOOO è un’opera scanzonata, giovane, che presuppone la massima libertà espressiva di tutti i protagonisti. È un inno alla tolleranza e alla leggerezza, che ripudia ogni accesso moralistico. Sembra la perfetta incarnazione del metodo Stanislavskij, che crea una sottile relazione tra il mondo interiore del personaggio e quello dell’attore, e dà sfogo al sottotesto delle emozioni e dei bisogni personali e collettivi.

Danio Manfredini o della Vocazione teatrale

218304-thumb-full-vocazione_di_danio_manfrediniNICOLA ARRIGONI – Danio Manfredini è teatro, è corpo e anima scenica, non è solo un attore, è egli stesso teatro e poesia incarnata.
Danio Manfredini ha scritto nel volto, nel corpo le parole che recita, le storie che racconta, il coro che lo segue, lo applaude, condivide con lui una disperata vitalità.
Danio Manfredini è l’attesa che il miracolo della rosa di compia, è la speranza mai morta che in quella crocifissione triplicata ci possa essere una qualche redenzione, è il cielo che si squarcia in un cinema di periferia, è il vivere presente e intensamente, senza rete di protezione, è semplicemente Danio Manfredini.
Per questo si va a vedere uno spettacolo di Manfredini come ci si accosta alla messa, con la voglia di sentirci riproporre il miracolo di una resurrezione laica, con la fiducia che in quella sera, in quel racconto Manfredini regalerà l’epifania massima del suo essere teatro che vive e pulsa e forse ci svelerà il perché continuiamo a credere in lui, nel suo offrirsi sera dopo sera al nostro sguardo di spettatori. E’ questo sentimento di fedeltà teatrale, di affetto all’artista e all’attore che si respira fra il pubblico – di addetti ai lavori ma non solo – che risponde alla con-vocazione di Manfredini, perché non si può non andare a vedere uno spettacolo di Danio, come tutti lo chiamano con una familiarità forse eccessiva, ma certo protettiva e sincera.
E allora un po’ impudicamente, sempre più spesso ma sempre con un peso di sincerità commovente Danio Manfredini dice di sé, delle sue difficoltà, dell’enigma del teatro e lo fa con la voglia di mettersi alla prova, non per mettere un punto o una definizione al suo essere artista e attore, ma per poter continuare la sua ricerca che altro non è che il tentativo di rendere accettabile la vita con la finzione del teatro. Per questi motivi, per queste emozioni è difficile dire che uno spettacolo di Danio non sia riuscito, anche se magari non lo è riuscito, perché in nuce, nascosto – più sperato che reale – c’è la convinzione che malgrado tutto la prossima volta sappiamo che la nuova convocazione lanciata da Danio Manfredini sarà accolta con la speranza di sempre, con la fiducia incrollabile in quella figura dinoccolata che dice del buio dell’anima dell’umanità.
Così in Vocazione – inevitabilmente e costantemente – Danio Manfredini mette a nudo se stesso, si interroga sulla poesia del teatro, racconta dell’umanità derelitta a cui appartiene e di cui si nutre il suo teatro. In Vocazione Manfredini inanella una serie di citazioni drammaturgiche da Lear di Shakespeare al Gabbiano di Cechov, da Servitore di scena di Ronald Harwood a Minetti. Ritratto di un artista da vecchio di Thomas Bernhard, all’Amleto di William Shakespeare. Su questo centone drammaturgico Danio Manfredini, affiancato da Vincenzo Del Prete, costruisce una serie di azioni fisiche di dolente malinconia, di angosciosa fame di vita e solitaria disperazione; pezzi che appartengono al suo repertorio ma appaiono nuovi, incontri ripetuti e già visti che non mancano di commuovere e stupire, malgrado tutto, malgrado ciò a cui si assiste non corrisponda alla semantica di un teatro compiuto e riuscito.
vocazione_danio-manfredini_foto-di-Manuela-Pellegrini-L’utilizzo della maschera in lattice che annulla l’espressività mimica del volto dell’attore contribuisce a svuotare d’umanità e ad accrescere di disperata vitalità l’agire in scena di Manfredini che non si vergogna nel chiedere perché si fa teatro, cosa spinge un attore ad andare in scena sera dopo sera; un interrogativo la cui risposta è affidata allo spettatore. Si assiste a Vocazione con l’attesa di quello che il peso specifico dell’humanitas di Manfredini potrebbe dare, forse tutte le attese non sono soddisfatte, anzi si esce con un senso di incompiuto, con la consapevolezza che quel discorso sulla ‘vocazione’ è parola segreta, intima, è incertezza d’artista, disorientamento creativo, mancanza di senso, urlo di disperata sopravvivenza. C’è il suggerimento di una parabola discendente, di una fatica dell’esistere e non solo in scena che Manfredini consegna al suo pubblico. Questo è il dato: l’attore e performer Manfredini vive di una sua sacralità, è feticcio coccolato, è creaturina fragile amata dallo sguardo dei suoi spettatori che tutte le volte convengono nella speranza di un’illuminazione. Che questo sia il segreto del teatro di Danio Manfredini, un miracolo sempre postposto ad ogni spettacolo perché la forza dei miracoli sta nel credere che possano accadere, magari nella bassa emiliana, a Rubiera e alla Corte Ospitale dove Manfredini ha trovato casa. In questa condizione gli spettatori si fanno pellegrini che cercano ristoro alla Corte ospitale sulla via del teatro, per un viaggio laico nel cuore dell’uomo con guida sfuggente e poetica Danio Manfredini, artista di miracolosa umanità.
Vocazione, ideazione e regia di Danio Manfredini, con Danio Manfredini e Vincenzo Del Prete, assistente alla regia Vincenzo Del Prete, progetto musicale Danio Manfredini, Cristina Pavarotti e Massimo Neri, disegno luci Lucia Manghi, Luigi Biondi, collaborazione ai video Stefano Muti, produzione La Corte Ospitale, coproduttori Sotto Controllo, Elsinor Teatro Stabile di Innovazione, Varsiliadanza, Collettivo di ricerca teatrale Vittorio Veneto, visto al Teatro Herberia di Rubiera, il 10 ottobre 2014.