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sabato, Aprile 20, 2024
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Interférences Cluj: Lamb, tra celebrazione religiosa e dissacrazione pop

Lux-Boreal-LAMB-4-DFRANCESCA GIULIANI | Se lo spazio della rappresentazione, quel luogo dove la scena prende corpo è straniero, fisicamente e socialmente lontano dall’ambiente in cui solitamente un gruppo d’artisti crea; se lo spettatore attraversa la loro performance che, oltre a essere “fuori luogo”, è culturalmente lontana dal suo immaginario culturale; se in più il festival, oltre a non inserirla nella giusta situazione scenica, decide di presentarla senza dichiararne la scelta e senza contestualizzarla. Cos’accade alla ricezione? La percezione visuale, sentimentale, porta all’incertezza di senso, rendendo possibile sia una significazione sia il suo contrario. Dallo sconcerto allo stupore, dall’apologia religiosa alla critica sociale.

Nello Studio dell’Hungarian Theater, Interférences ha presentato Lamb, spettacolo nato dalla combinazione artistica tra il coreografo Phillip Adams (Australia) e Lux Boreal (Messico), compagnia di danza tijuanense, che si distingue per un’estetica coreografica atta a innescare la riflessione sulle questioni sociali e culturali che attraversano questa difficile terra di confine. Nel silenzio di un bianco accecante si raccoglie la scena. Tentando di ricreare il loro spazio abituale – la compagnia lavora il più delle volte in spazi urbani tra Messico e California – i performers inseriscono, senza dichiararlo apertamente, cinque spettatori sul palco. Su un lato della scena, posti davanti a dei pianoforti giocattolo, dall’intenso colore rosso, questi diventano parte integrante della ritualità musicale della performance.
Anche gli spettatori in platea – almeno nella ripetizione dello spettacolo, alla prima non è accaduto – sono spesso chiamati in causa. Come partecipanti dello stesso rito, alla stregua di testimoni oculari, sono invitati non solo a osservare ma a partecipare, diventando ben presto parte del rito più sacrilego, una solenne messa cattolica che si trasforma ben presto in asta pubblica. L’officiante della cerimonia è una regina-sposa che si scopre, dal centro palco, per raggiungere con una leggerezza non usuale a quel corpo, i sei agnelli sacrificali di bianco vestiti. Coperta da un vestito rosso, occhiali da sole e un grottesco cappello con veletta che le scende sul volto, la pura e santa vergine mostra ben presto la sua violenta perfidia che, invece di diminuire la venerazione, accende l’adorazione nei seguaci prescelti.

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La narrazione coreografica segue figurativamente le tracce dell’agnello d’oro. La storia, d’ispirazione biblica, intrecciata alla sproporzione ironica dei gesti e delle immagini che questi producono, diventa il mezzo per criticare, attraverso l’imitazione improvvisata dei riti, i sentimenti religiosi che complicano la società e la vita messicana, offuscata, il più delle volte, dal timore di Dio. Sulla scena, la colpa e la punizione, l’adorazione della vergine crudele e l’autoflagellazione con fasce colorate portano al sacrificio finale per il sogno di una resurrezione. Questa danza espressiva, legata al gesto quotidiano e rituale, crea nello spettatore una sorta di spaesamento fisico e temporale. Le potenti immagini coreografiche, fatte di gesti che richiamano le danze cultuali messicane, come lo sbattere ripetuto dei piedi a terra, trascendono il più delle volte in un’esagerazione così grottesca da rendere il rito surreale, ai confini tra una comicità blasfema e una violenta tragicità.

La festa dell’imperatore: Mozart e la furia ceca di Karromato

karromatoVINCENZO SARDELLI | Non è bello che sale che hanno fatto la storia del teatro milanese siano in difficoltà economiche. Il Verdi, con la compagnia del Buratto ormai al quarantesimo anniversario, continua a proporre begli spettacoli, a dispetto degli introiti a volte languidi. Tanto più ci sentiamo in dovere di parlare di un artigianato di qualità, che meriterebbe più attenzione dal pubblico e dalla critica.

La festa dell’imperatore della compagnia ceca Karromato, secondo appuntamento stagionale di If Festival, è uno spettacolo di marionette che tocca l’immaginazione grazie a personaggi in legno di tiglio piccoli come gattini, dai visi grotteschi, che giganteggiano nella scenografia barocca. Il gioco di spazi, profondità e luci dilata le proporzioni. Il movimento particolare delle marionette si accompagna alle suggestioni del teatro d’ombre e colpisce per la forte ironia.

Un’arte vecchia duecento anni. Una compagnia di Praga (qui a Luis Montoto e Pavla Srncova si affianca l’italiana Francesca Zoccarato) che dal 1997 propone la sua poetica da Taiwan al Sudamerica, cercando sempre di attualizzare e internazionalizzare il linguaggio.

La festa dell’imperatore s’ispira a un episodio della vita di Mozart. Nel 1786 il compositore sta lavorando a Vienna alle Nozze di Figaro. Nel vicino palazzo di Schonbrunn, l’imperatore Giuseppe II riceve la lettera dalla sorella Maria Carolina (sposa al re Ferdinando IV) che gli annuncia la sua prossima visita da Napoli. Stiamo parlando del fratello e della sorella di Maria Antonietta. La Rivoluzione Francese è alle porte.

La scena iniziale è per l’imperatore nudo in vasca da bagno: mostra festoso le natiche impudiche e il regal arnese. L’igiene doveva essere vezzo asburgico altrove disdegnato: nella reggia di Caserta i Piemontesi vincitori inventariarono un bidet appartenuto a Maria Carolina come «oggetto sconosciuto a forma di chitarra».

Atmosfere fiabesche e toni ilari si rincorrono in questa rappresentazione. L’imperatore decide di organizzare una festa per l’arrivo di Maria Carolina: incarica Mozart di comporre un’opera breve secondo un libretto da lui proposto. Mozart, alle prese con Le nozze di Figaro, accetta malvolentieri. Ma in prossimità della prima tutto si complica: le cantanti discutono costantemente durante le prove, la scenografia non è pronta.

Una fine parodia. Uno sguardo comico che fornisce una visione anche da dietro le quinte. Soprattutto, una riflessione attualissima sulla difficoltà dell’artista, obbligato a cercare il compromesso tra libertà creativa e bisogno di guadagnarsi la vita.

Lodevole quest’arte che usa il montaggio in parallelo, e sfrutta in verticale tre livelli: estemporanee e sgrammaticate didascalie in alto; le ombre cinesi (con escursioni nella graphic novel) al centro; le marionette in basso.

Le scene esilaranti attingono alla comicità, alla clownerie da circo e ai cartoni animati. Si susseguono salti mortali e balzi felini, capitomboli e martellate in testa. Mogli arcigne colpiscono con padellate, bimbi-bruchi minacciano col pianto fragoroso o più abbondanti e impudichi effluvi. Abbiamo un imperatore dal naso spropositato, una cantante lirica che asseconda i rimbombanti acuti con il movimento negletto dei poderosi seni, personaggi vari, ognuno che combina un disastro diverso.

Le marionette rafforzano il linguaggio del corpo in maniera straordinaria. Creano da sole l’espressività comica tipica del mimo. Hanno un’anima, espressioni che farebbero concorrenza a Buster Keaton. È la cifra, buffa ed essenziale, di questo teatro gentile, semplice, che libera la fantasia ed esorcizza la dilagante tecnologia contemporanea.

Gyohei Zaitsu e la danza butoh / La videointervista _Da dove sto chiamando 14

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ph: Luca Fadda

RENZO FRANCABANDERA | Kairòs è la personificazione e divinizzazione del tempo opportuno, il dio legato al precipuo concetto di occasione propizia.
Gyohei Zaitsu, danzatore e coreografo butoh, nel suo lavoro insieme al trio The Art of Improvisation (voce, tromba, percussioni) ha scelto di titolare proprio con “Kairos” la performance site-specific, che nasce di volta in volta dall’incontro artistico di queste parti e si nutre di una costante tensione verso quel fugace attimo in cui azione e tempo si fondono.
Il coreografo giapponese, parigino di adozione, è ritornato in Italia per la quinta volta, sempre ospite di Autunno Danza (da 3 edizioni in sinergia con Signal per “Da Dove Sto Chiamando”) , e ha modellato la sua performance sugli spazi di Palazzo di Città, a Cagliari.

La nostra Giulia Muroni ha parlato con lui della sua ricerca e del suo approccio nella danza butoh.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=zE1KxsljS-c]

Rosso Angelico, la danza ultraterrena del Teatro Tascabile

ph: Alessandro Brasile.

FRANCESCA CURTO | Rosso “Angelico” è la sfumatura di colore del sipario che apre l’ultima creazione del Teatro Tascabile.
Un sipario che emette voci e danza verso lo spettatore, mentre attende che un viaggiatore, incuriosito, venga a dare una sbirciata all’aldilà.
A invogliare il viaggiatore c’è la Morte, scheletrita e incappucciata, che si muove in sella a un monociclo e convince un incauto Giuseppe Chierichetti ad entrare nel suo palazzo sospeso e ad infilarsi la giacca rosso “angelico” per prepararsi a un viaggio mistico e inquietante.
Ed è sulle note di Bob Dylan che quest’uomo all’inizio della sua vecchiaia, forse alla ricerca di un perduto amore, parte in cerca della sua Euridice, ma si troverà a fare i conti con se stesso e con le mille sfaccettature della Morte.

Questo viaggio un po’ dantesco comincia all’esterno del palazzo, dove sei Morti vestite da monaco, ma con ancora qualche aspetto di umanità, leggono il breviario, annaffiano i fiori del giardino, giocano a palla con lo spettatore e producono musica con qualsiasi cosa: forbici, colpi di tosse, libri.
Ad interpretarle Silvia Baudin, Rosa Da Lima Iannone, Antonietta Fusco, Ruben Manenti, Alessandro Rigoletti e Caterina Scotti, che, trasformandosi con naturalezza da monaci ad angeli bianchi per guidare il viandante nei corridoi labirintici della reggia, sopperiscono al problema di dare continuità alle stanze e di unire interni, a luce gialla, ed esterno, illuminato in blu.
I costumi rispecchiano con precisione l’iconografia medievale, così come gli oggetti di scena e gli strumenti musicali, che, tra piccoli timpani, trombe e campane tibetane, contribuiscono a creare l’atmosfera rarefatta del palazzo.

L’interesse del TTB verso il curioso binomio danza-morte trae origine dalla danza macabra, tema iconografico nord europeo, che ha riguardato anche il territorio bergamasco e che è stato riproposto con “Rosso Angelico. Danza per un viaggiatore leggero” il 28, 29 e 30 novembre al Teatro Tascabile di Bergamo, in occasione della rassegna “Il teatro vivo 2014”.
Il tema della morte, strettamente intrecciato alla biografia del gruppo, era già stato da loro affrontato nel 2009 con lo spettacolo di teatro di strada “Amor mai non s’addorme”, rivisitazione post-mortem di Giulietta e Romeo in chiave tragi-comica, dove i protagonisti sono giovani scheletri che ballano Rock and Roll.

Tra monaci giardinieri e angeli dervisci, il viaggiatore di “Rosso Angelico” arriva a banchettare con La Morte ed i suoi singolari servitori ed essa, da padrona di casa, in bianco e col turbante, si rivela una seducente danzatrice. La Morte trionfa in casa propria ed offre al suo ospite non-morto cibo, vino e, per dessert, una ballata d’amore tra Eros e Thanatos che riecheggia la caccia infernale boccacciana e regala un attimo di pura sensualità alla performance.
Le “danze” non possono che chiudersi nella sala da ballo, dove il viandante viene invitato a ballare dall’abate Morte, che, dopo avergli negato il suo bacio, lo espellerà, senza giacca rossa, da quella visione privilegiata in cui era stato accolto e gli permetterà di tornare al presente, a Bob Dylan, a quella dimensione in cui la Morte livellatrice, col monociclo, tornerà a riprenderlo più avanti.

Per il suo aspetto formale, estetico e metodologico, “Rosso Angelico” assomiglia a una bella poesia che non deve essere spiegata. È un lavoro volto a suscitare domande nello spettatore e che mantiene qualche segreto anche per i suoi stessi attori.
Non avendo alle spalle una vera e propria drammaturgia, Tiziana Barbiero, coordinatrice artistica del lavoro, alla conferenza “La musica delle ossa” del 29 novembre alla galleria Gamec, invita il pubblico ad assistere alla performance come ad un lauto banchetto e ad assaporare, senza pregiudizi, stimoli e suggestioni…se non si vuole rimanere a bocca asciutta.
Perché quando uno spettacolo diventa il risultato di sperimentazioni, un viaggio alla ricerca di una drammaturgia, dove il significante predomina sul significato, lo spettatore non ne esce educato ma soddisfatto.
E allora la metafora del viaggio, che si sposa bene con quella della morte, diventa anche quella di una compagnia che si è ricostruita dopo la perdita della sua testa, Renzo Vescovi, e che ha finito per spingersi «nel mare aperto della creazione; un viaggio che si fa senza bussola, senza carta geografica, in cerca di un’isola, di una terra, che non si sa neppure se esiste» (cit.Tiziana Barbiero).

Interférences International Cluj: simulacri di memoria nel Paysage di Nadj

10685450_962727810408863_8771452123367452608_nFRANCESCA GIULIANI | Le tracce di una memoria, le sue visioni e i suoi fantasmi, compongono la scena di Paysage Inconnu, il nuovo lavoro che il coreografo e performer serbo, trapiantato in Francia, Josef Nadj, ha messo in scena sul palcoscenico dell’Hungarian Theater di Cluj, durante Interférences International Theater Festival. I due musicisti, Akosh Szelevényi e Gildas Etevenard, creano un paesaggio sonoro che attraversando diverse culture musicali, dal jazz ai ritmi africani, dà vita a uno spazio dove i confini tra un continente e l’altro, tra Oriente e Occidente, tra uno spazio reale e uno spazio immaginario, non esistono più.
Due performer in nero, Josef Nadj e Ivan Fatjo, volto celato, entrano sulla scena e, appollaiati su due sedie di ferro, si fanno indistinguibili. Il ritmo si fa intenso, i tamburi e la batteria risuonano creando uno spazio che si espande dalla vivacità comica, quasi circense, all’intensità rituale.
In questa danza, a tratti macabra, le due figure, ora corvi in combattimento, ora anatre che si rincorrono tracciando passi di chapliniana memoria, ora vecchi amici che bevono per creare pitture a gesso su una lavagna alle loro spalle, ora arlecchino e pulcinella che litigano fino alla morte, creano attraverso la viva gestualità extra-quotidiana del loro corpo un immaginario dove il reale si trasfigura nell’immaginario. Se l’ispirazione di Nadj per la coreografia è partita dal ricordo dei luoghi dell’infanzia, il piccolo villaggio di Kanjiza, in Vojvodina, una provincia della Repubblica di Serbia e del Montenegro, ai confini con l’Ungheria e la Romania, qui ciò che si mostra è questo e non solo.
La sua storia, la sua formazione, le sue visioni, i paesaggi altri sono messi in scena. 300_53f728ecc8164_d30_4238_bd_paysage_severine_charrierC’è l’insegnamento di Etienne Decroux visibile su quei corpi, c’è l’immaginario beckettiano che li accompagna, c’è la gestualità della commedia dell’arte e ci sono i passi di Charlie Chaplin a dargli un ricordo. Poi ci sono gli oggetti a spezzare il quadro, a riportarlo in quel villaggio. Un albero tronco in mezzo al palco, una vecchia vasca da bagno scolorita e un’accetta dilatano lo spazio e si fanno quasi prolungamento dei corpi dei performer. E c’è la musica, il più delle volte discorde al movimento ma che lo accresce, dandogli forza. I performer, vere e proprie marionette di questo “teatro dell’immagine”, danno forma attraverso i loro corpi, assenti nel volto ma ricchi di segni ben riconoscibili su ogni gesto anche minimo delle dita di una mano, a quella storia del corpo che il direttore del festival rumeno,  Gàbor Tompa, ha voluto tracciare come filo conduttore di questa quarta edizione del festival.

Nr 1 – All’amico critico, in risposta alla sua su: Filippo Timi e lo Skianto

ELENA SCOLARI | 01-Foto-di-Neige-De-BenedettiFreak Antoni, leader demenziale dell’irripetibile gruppo Skiantos, cantava Sono uno skianto. Scherzava.
Al Teatro Franco Parenti di Milano vediamo l’ultimo spettacolo di Filippo Timi, Skianto, e il giorno dopo leggiamo volentieri il parere di Diego Vincenti su milanoinscena, il critico trova che dopo l’ingorda scorpacciata del Don Giovanni Timi sia tornato più pulito, si parla anzi di “purificazione” e di un ritorno allo stile de La vita bestia. Anche noi ritroviamo alcuni elementi di allora: la parlata umbra, le gite scolastiche alla cartiera di Fabriano, le note biografiche di una vita periferica e regionale, ma ci sembra che questi umili e rispettabili racconti siano fortemente a disagio in questo contesto scenico che mescola luci color degli Sguish, videospezzoni di Candy Candy, videospaccate di Heather Parisi, terrificanti videogattini da youtube, versioni eleganti di brani di Britney Spears, apparizioni di Timi in guisa di Miominipony rosa.

Lo spettacolo racconta di un bambino nato handicappato che non riesce a parlare e si muove a fatica, il personaggio però ci parla, ci dice cosa pensa e soprattutto cosa pensavano, erroneamente, di lui che non poteva esprimersi. Lo fa con ironia, eccome, la tragedia è mitigata, troppo e dove non lo è rimane una riflessione solo abbozzata, per non appesantire le risa di un pubblico che manco gli One direction. Abbiamo il sospetto che Timi, un bravo attore, sia risucchiato dalla propria macchietta. Questo lavoro è ancora una mariconada, siamo giusti. Forse un po’ meno del solito? Forse. Comunque una mariconada.
Le prove della bravura e della misura recitativa le abbiamo dal cinema, dove Timi si lascia dirigere e arginare, a teatro le briglie e le trecce sono sciolte come a un miominipony brado.

Ci vien fatto di pensare a Daniele Timpano, un altro bravo attore quarantenne e al suo Ecce robot (2008) che ci piacque meno dei suoi spettacoli successivi e che si reggeva su un generazionale richiamo ai supereroi anni ’80 dei cartoni animati giapponesi. Mazinga, Goldrake e Jeeg robot ne erano i perni, premessa dichiarata e usata per fare brillante autocritica sui ragazzi cresciuti davanti alla tv. L’affinità anagrafica tra i due non è ininfluente, segna quello che tutti i nati nei ’70 ricordano, inevitabilmente, ma da cui forse vorrebbero, adulti, affrancarsi.

Timi compare su una cyclette, appeso a fili come il burattino Pinocchio (poi vuole anche spiegarcelo) in una scena arredata con attrezzi da vecchia palestra seminterrata e chiude dialogando con la fata turchina in una richiesta di morte liberatrice.
Vincenti gli consiglia di non buttarla in caciara, noi di non buttarla, la bravura.

Quanta amarezza nella lunga giornata teatrale degli autori romani

UnknownLAURA NOVELLI | Una città ruvida, arrabbiata, intollerante, violenta, degradata. Una città che pullula di malesseri, storture, ambiguità. Una città misteriosa, notturna, respingente. Eppure sempre e disperatamente bella. Di quella bellezza antica e un po’ ruffiana che ti strega e ti imprigiona, ma che oggi fa fatica a nascondere le sue macerie. Roma come emerge dalla complessa materia drammaturgica di Ritratto di una capitale, spettacolo-fiume ideato da Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri e andato in scena al teatro Argentina nei giorni scorsi, è un vero e proprio pugno allo stomaco. Un coacervo di contraddizioni che le diverse ventiquattro scene scritte ad hoc da altrettanti autori (cui si aggiungono i contributi di Corrado Augias, La capitale mancata, e Franca Valeri, L’insaziabile imperatrice) declinano in immaginari e linguaggi assai diversi, accomunati però da un diffuso senso di disfatta, cedimento, catastrofica decadenza.

E se da una lato tale esito non era ovviamente prevedibile in fase progettuale, dall’altro esso ci suggerisce una constatazione importante, e cioè che di questo pugno allo stomaco forse avevamo tutti bisogno. Per meglio comprendere, come cittadini, una realtà che ci tiene volentieri sospesi tra abitudinaria sopportazione e sentimentale utopia e per confrontarci, come spettatori, con la molteplicità di uno sguardo letterario capace di tradurre quella stessa realtà in una suggestione artistica coesa, in un respiro unico, in un “sovratono” significativo.

Ovvio che in dodici ore di spettacolo (tanto è durata la lunga maratona programmata il 22 novembre che, scandita in blocchi di circa due ore ciascuno al termine dei quali era possibile entrare in sala o uscirne, ha messo insieme la prima e la seconda parte del lavoro favorendo un’esperienza di visione personalizzata) ci siano momenti meno felici, brani meno incisivi, tematiche ripetute, tentazioni bozzettistiche, cedimenti del ritmo o della teatralità, ma queste criticità “fisiologiche” non compromettono la riuscita di un’iniziativa davvero coraggiosa. E non parlo di coraggio puramente produttivo. Parlo semmai del coraggio di accostare autori molto distanti tra loro come, tra gli altri, Giancarlo De Cataldo (Bello come un Dio), Eleonora Danco (Squartierati), Elena Stancanelli (Angeli Cacacazzi), Ascanio Celestini (Kiss Me), Francesco Suriano (Elegia per due sconosciuti), Letizia Russo (Crossroads), Tommaso Pincio (Il film sbagliato), Fausto Paravidino (Flaminia bloccata), Anna Foa (Il ghetto, monologo con fantasmi), Andrea Rivera (Scritti Corsarivera), Emanuele Trevi (Opinioni di una zanzara tigre a Roma), Ricci/Forte (Raw, Reluctant and Rome), Timpano/Frosini (Alla città morta).

Parlo del coraggio di puntare su una regia semplice, sobria ma limpidamente efficace (a firma dello stesso Arcuri), messa a servizio di folgorazioni drammaturgiche affidate tanto ai testi quanto all’importante colonna sonora dei Mokadelic (gruppo post-rock/psicadelico noto soprattutto per aver scritto le musiche della serie tv Gomorra) e all’avvolgente set virtuale di Luca Brinchi, Roberta Zanardo (entrambi dei Santasangre) e Daniela Spanò.

Unknown-1Parlo poi del coraggio di impegnare un cast numerosissimo, mescolando (anche qui) attori di generazioni e formazioni diverse, nomi conosciuti (da Anna Bonaiuto a Sandro Lombardi, da Leo Gullotta a Milena Vukotic, da Danilo Nigrelli a Maddalena Crippa) e personalità artistiche più acerbe o, in alcuni casi, più inclini ad una attorialità autoriale costruita su una lingua espressiva propria e ben riconoscibile (basti citare la Danco o Rivera). Sebbene in alcuni casi la resa interpretativa non sia del tutto convincente, c’è da dire che l’insieme, la coralità di queste voci, ora impastate di dialetto, ora di cadenze giovanilistiche, ora di ombreggiature straniere, restituisce in pieno l’atmosfera di una Roma indurita, losca, provinciale, smarrita.

Sono infatti i temi della prostituzione, dell’intolleranza razziale, del degrado periferico, della violenza notturna ad attraversare la maggior parte dei contributi (montanti secondo la scansione cronologica di una giornata). Non di meno, però, è nella poesia di certe vibrazioni che si insinua lo struggimento più forte e caparbio. Alludo, per esempio, allo splendido brano della Stancanelli, fatto volare alto da un Sandro Lombardi in stato di grazia e da un misurato Roberto Latini: due angeli persi nel vuoto di un luogo-non luogo che (forse incarnazioni poetiche di Victor Cavallo e del ballerino Lery Johnson) inciampano nel loro passato, confondono la vita e la morte per poi scivolare altrove, scendendo dentro la botola che si apre al centro del palcoscenico. E sospeso nel mistero resta anche il tremore della donna che la Bonaiuto interpreta con pregevole mutevolezza espressiva in Odioroma di Mariolina Venezia, così come si muove in raffinate alchimie linguistiche e storiche il bel testo di Suriano, ambientato sulle sponde lunari di un Tevere minaccioso. C’è poi la Roma delle baby-squillo raccontata da Celestini, quella degli ingorghi gravidi di dis-umanità immaginata da Paravidino, quella baldracca e scandalosa di Ricci/Forte, quella violata dall’antisemitismo della Foa, quella nostalgica e popolare della Danco.

C’è, ancora, la Roma delle periferie incazzate, dei centri SerT, degli anziani soli, dei romani che hanno lasciato la capitale ma ci tornano. E infine c’è la città morta, quella gravida di macerie, detriti, residui catastrofici, toni acidi che – siamo alla chiusura di Timpano/Frosini, apocalittici epigoni della loro stessa Zombitudine – finiscono col contagiare anche la versione rock di Arrivederci Roma suonata dai Mokadelic. Un pugno allo stomaco, sì. Ma anche un’opera che possiede la forza di “un’operazione” culturale (prima che teatrale) importante. Non è più tempo di commedie buoniste e sornione. L’Italia è altro (e mi viene in mente il bel film di Salvatores Italy in a day). Roma è altro. Lo dice bene Franca Valeri nella sua epistola d’apertura: garbata, ironica, sarcastica visione di una città eterna (ripresa video sulla home-page del sito www.teatrodiroma.net) in cui le statue parlano di gloria passata, mentre le strade dissestate e sporche di oggi gridano uno scempio ormai osceno. E neppure la nostalgia può bastare a consolarle. E a consolarci.

Brutto: l’essenziale macchina scenica di Fornasari

lolloRENZO FRANCABANDERA | Marius von Mayenburg (Monaco di Baviera, 1972) è drammaturgo di grande talento che nella Germania del postdrammatico finisce per sembrare finanche old fashion con il suo interesse tutto centrato sulla trama e i personaggi, ma queste caratteristiche così poco in linea con l’universo teatrale teutonico contemporaneo, ne fanno l’autore tedesco più rappresentato nei paesi di lingua inglese, oltre che il drammaturgo in residenza presso la Schaubühne am Lehniner Platz in Berlin di Berlino, uno dei templi del teatro contemporaneo, dove lavora con Ostermeier alla direzione artistica.

Parliamo dunque di “Der Häßliche”, “Brutto”, un testo del 2007 scelto da Bruno Fornasari, regista residente presso il Teatro Filodrammatici di Milano, per un allestimento felice, che ha debuttato l’anno scorso e ripreso quest’anno con successo.

E parliamo delle tre ragioni per cui questo allestimento funziona.
Il primo, banale ma essenziale è proprio il testo, che è un incastro narrativo efficace, che guarda alla tradizione ma sa ammantarla di attualità, che parte quasi come commedia degli equivoci, ma diventa poi amara riflessione sul contemporaneo. Ad un uomo brutto vengono cambiati i connotati. Questo originerà una serie di occorrenze, dalla fulminea ascesa sul posto di lavoro, al ritrovato desiderio della donna amata. Ma la fulminea ascesa sarà anche l’inizio del baratro, quando il suo successo viene minato alle basi dalla stessa tecnica che lo ha generato. Quanto la tecnologia ci rende replicabili? Quanto ci rende replicanti? Rischiamo un futuro privo di identità, sia individuale che collettiva? Una storiella divertente capace poi di prendere una piega davvero inquietante e non comune.

Il secondo è nelle scelte registiche di Fornasari, che si conferma capace di leggere con intuito non solo lo spazio scenico ma l’intersezione creata da testo, attori e scelte registiche, continuando a lavorare con un gruppo di interpreti con cui affronta un certo tipo di contemporaneità drammaturgica, legata ad una meccanica del testo che sa avvincere, ma porta sempre oltre il già noto, il già battuto. E questo è un merito, se confrontato con teatri che si affannano ad amletare stagioni teatrali, infarcite di divi tv in libera uscita e classici di vulgata, pur di portare a teatro la ggente. Qui la compagine di attori, pur con qualche sbavatura e imperfezione, si mostra all’altezza senza dover ricorrere al alchimie da tubo catodico, e questo perché il testo e le scelte di regia permettono al tutto di svolgersi senza orpelli, lasciando proprio al recitato il compito di dialogare con lo spettatore. Cosa che avviene.

La terza e ultima è una riflessione che parte da quello che l’autore della drammaturgia diceva a proposito della stesura: “Una delle cose con cui ho voluto giocare è quel trucco, quella magia del teatro dove uno dice “Questo è il re” e l’attore sul palco diventa il re. Se uno dice “Adesso quello non è più il re”, allora quello non è più il re. Nella nostra versione avevamo scelto per Lette (il protagonista) un attore molto bello e ha funzionato. La gente credeva davvero che fosse orrendo.”
Fornasari di fatto usa la stessa tecnica, completamente antinaturalistica, spingendo gli interpreti al bordo del cabaret, ma compiendo interessanti percorsi di anti-teatro, facendo in modo che al cambio di volti, di identità e di ruolo, i personaggi non mutino il loro sembiante, come la didascalia avrebbe voluto. Sono e restano se stessi, diversi, ma tragicamente uguali, come il nostro tempo ci spinge ad essere. Quindi l’uguaglianza, sembra suggerire il regista, non è nell’uguaglianza orwelliana e da incubo di inizio Novecento di volti uguali usciti da una infernale macchina plasma-uomini, ma nella riduzione della nostra identità a pochi tratti, replicabili in forma meccanica, dopo l’appiattimento delle personalità. Che è una morte un po’ peggiore.

Videointervista a Francesca Foscarini – Da dove sto chiamando 2014

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ph: Luca Fadda

RENZO FRANCABANDERA | Fra le danz-autrici contemporanee Francesca Foscarini rappresenta una personalita’ di spicco. Interprete talentuosa, dotata di una forza espressiva magnetica, Foscarini ha portato di recente a Cagliari, nell’ambito del festival Da Dove Sto Chiamando, due assoli: “Gut Gift” e “Kalsh”.
Il primo nasce dalla collaborazione con la drammaturga Jasmine Godder, a seguito della vittoria del Premio Equilibrio nel 2013 e si cimenta in un’indagine corporea di processi e impulsi ancestrali in rapporto all’alterità dello sguardo, impersonato dal pubblico.
“Kalsh”, opera prima, quello con cui l’abbiamo conosciuta e premiata ancora giovanissima a Kilowatt Festival ormai cinque anni fa, muove dai concetti di abbandono e rinuncia attraverso il percorso ambivalente della volontà: lasciarsi sprofondare o rialzarsi?

A Cagliari, a fianco dell’Antico Palazzo di Città, la nostra Giulia Muroni ha chiacchierato con Francesca Foscarini a proposito dei due assoli. Ma anche riguardo allo sguardo del pubblico, il ruolo della drammaturgia nella danza e altro ancora.

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Ranuncoli#14/1 Il diavolo veste Prada ma il potere preferisce Burda

illustrazione di Federico MaggioniEsistono l’alta moda, il prêt-à-porter (di diversi prezzi e qualità) e il prodotto dozzinale a basso prezzo. Queste le tre grandi categorie, poi ci sono i falsi, i resti di magazzino (outlet), l’usato (vintage), il fatto a mano, il fatto a mano etico, bio, organico e santo e il fatto a mano burda e simili.

Ingeborg Bachmann pensava che fosse molto meglio comprarsi un vestito di alta moda ogni tre anni che tre vestiti all’anno dai grandi magazzini. Credo che avesse ragione. Un cappotto di dior probabilmente dopo dieci anni sarà ancora bello, un cappotto di zara verrà voglia di buttarlo dopo due anni e un cappotto ‘altro’ non arriverà alla primavera. Per non dire delle scarpe!

Nel campo della moda non ci sono equivoci: paghi molto un buon prodotto e poco un prodotto di bassa qualità.  Qualche volta può capitare di pagare poco un prodotto di ottima o buona qualità perché è un pezzo rimasto unico, perché una signora l’ha regalato a qualcuno che lo ha rimesso sul mercato, e così via. Qualche volta può capitare di pagare troppo qualcosa perché è un falso non dichiarato o perché qualche acquirente sprovveduto si trova sempre.

A  teatro non è così: costa tutto uguale o quasi. La maggior parte delle volte lo spettatore, quando compra un biglietto, non sa se sta comprando un cappotto di zara o un cappotto di dior o un cappotto della merceria in zonasarpi (fatto da operai sottopagati) o, infine, un cappotto fatto a mano, in casa, grazie ai cartamodelli di burda.

Il teatro costa poco e se qualche volta ti fanno vedere uno spettacolo bruttino (merceria zonasarpi), o di teatro amatoriale (burda) spacciandolo per uno spettacolo bello e fatto da professionisti, in genere, se te ne accorgi, non ti arrabbi. Gli spettatori tendono a perdonare gli inganni. In fondo è come pagare per una falsa borsa di prada il prezzo di un’autentica borsa carpisa. Certo, se riesci a pagare un falso prada, che sembra un vero prada, quanto un autentico orrore in plastica sei più felice (anche se dovresti sentirti in colpa).

I soldi sono importanti per dare un valore alle cose e se tutto costa uguale è più difficile giudicare, soprattutto se sei uno di quelli che non nota se le asole della manica di una giacca sono vere (cioè aperte) e non sai cosa è la vicuña.

Sono una donna frivola e questi pensieri mi sono passati per la testa dopo aver visto, una sera dopo l’altra, tre spettacoli sul potere. In uno c’era un Hitler più dalla parte di Sokurov (Moloch – 1999) che da quella di Hirschbiegel (La caduta – 2004). Nell’altro c’era un imperatore romano, femmina e poi neonato. Nel terzo c’era un re, anzi tre…

Uno dei tre spettacoli era un vestito di antoniomarras (alta moda), non perfetto, un prototipo mai arrivato sulla passerella, ma era un abito di marras che qualsiasi persona avrebbe il piacere di indossare. Il secondo era un vestito di chiaraboni (prêt-à-porter), une petite robe sbagliatissima, che ti faceva venire voglia di andare a cercare la stilista per urlarle: cosa ne hai fatto del tuo talento? perché hai sciupato questa occasione usando materiali scadenti? Il terzo era un vestito fatto a mano, in casa, con i cartamodelli di burda e che l’indomani mattina, dopo la festa, finirà nel sacco della Caritas.

Mi piacerebbe essere meno frivola e non prendermela se non tutti sono capaci di riconoscere la qualità di un vestito.

Ah! volete sapere i titoli dei tre spettacoli? Forse domani, o più tardi.