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giovedì, Aprile 25, 2024
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Interférences International Cluj: simulacri di memoria nel Paysage di Nadj

10685450_962727810408863_8771452123367452608_nFRANCESCA GIULIANI | Le tracce di una memoria, le sue visioni e i suoi fantasmi, compongono la scena di Paysage Inconnu, il nuovo lavoro che il coreografo e performer serbo, trapiantato in Francia, Josef Nadj, ha messo in scena sul palcoscenico dell’Hungarian Theater di Cluj, durante Interférences International Theater Festival. I due musicisti, Akosh Szelevényi e Gildas Etevenard, creano un paesaggio sonoro che attraversando diverse culture musicali, dal jazz ai ritmi africani, dà vita a uno spazio dove i confini tra un continente e l’altro, tra Oriente e Occidente, tra uno spazio reale e uno spazio immaginario, non esistono più.
Due performer in nero, Josef Nadj e Ivan Fatjo, volto celato, entrano sulla scena e, appollaiati su due sedie di ferro, si fanno indistinguibili. Il ritmo si fa intenso, i tamburi e la batteria risuonano creando uno spazio che si espande dalla vivacità comica, quasi circense, all’intensità rituale.
In questa danza, a tratti macabra, le due figure, ora corvi in combattimento, ora anatre che si rincorrono tracciando passi di chapliniana memoria, ora vecchi amici che bevono per creare pitture a gesso su una lavagna alle loro spalle, ora arlecchino e pulcinella che litigano fino alla morte, creano attraverso la viva gestualità extra-quotidiana del loro corpo un immaginario dove il reale si trasfigura nell’immaginario. Se l’ispirazione di Nadj per la coreografia è partita dal ricordo dei luoghi dell’infanzia, il piccolo villaggio di Kanjiza, in Vojvodina, una provincia della Repubblica di Serbia e del Montenegro, ai confini con l’Ungheria e la Romania, qui ciò che si mostra è questo e non solo.
La sua storia, la sua formazione, le sue visioni, i paesaggi altri sono messi in scena. 300_53f728ecc8164_d30_4238_bd_paysage_severine_charrierC’è l’insegnamento di Etienne Decroux visibile su quei corpi, c’è l’immaginario beckettiano che li accompagna, c’è la gestualità della commedia dell’arte e ci sono i passi di Charlie Chaplin a dargli un ricordo. Poi ci sono gli oggetti a spezzare il quadro, a riportarlo in quel villaggio. Un albero tronco in mezzo al palco, una vecchia vasca da bagno scolorita e un’accetta dilatano lo spazio e si fanno quasi prolungamento dei corpi dei performer. E c’è la musica, il più delle volte discorde al movimento ma che lo accresce, dandogli forza. I performer, vere e proprie marionette di questo “teatro dell’immagine”, danno forma attraverso i loro corpi, assenti nel volto ma ricchi di segni ben riconoscibili su ogni gesto anche minimo delle dita di una mano, a quella storia del corpo che il direttore del festival rumeno,  Gàbor Tompa, ha voluto tracciare come filo conduttore di questa quarta edizione del festival.

Nr 1 – All’amico critico, in risposta alla sua su: Filippo Timi e lo Skianto

ELENA SCOLARI | 01-Foto-di-Neige-De-BenedettiFreak Antoni, leader demenziale dell’irripetibile gruppo Skiantos, cantava Sono uno skianto. Scherzava.
Al Teatro Franco Parenti di Milano vediamo l’ultimo spettacolo di Filippo Timi, Skianto, e il giorno dopo leggiamo volentieri il parere di Diego Vincenti su milanoinscena, il critico trova che dopo l’ingorda scorpacciata del Don Giovanni Timi sia tornato più pulito, si parla anzi di “purificazione” e di un ritorno allo stile de La vita bestia. Anche noi ritroviamo alcuni elementi di allora: la parlata umbra, le gite scolastiche alla cartiera di Fabriano, le note biografiche di una vita periferica e regionale, ma ci sembra che questi umili e rispettabili racconti siano fortemente a disagio in questo contesto scenico che mescola luci color degli Sguish, videospezzoni di Candy Candy, videospaccate di Heather Parisi, terrificanti videogattini da youtube, versioni eleganti di brani di Britney Spears, apparizioni di Timi in guisa di Miominipony rosa.

Lo spettacolo racconta di un bambino nato handicappato che non riesce a parlare e si muove a fatica, il personaggio però ci parla, ci dice cosa pensa e soprattutto cosa pensavano, erroneamente, di lui che non poteva esprimersi. Lo fa con ironia, eccome, la tragedia è mitigata, troppo e dove non lo è rimane una riflessione solo abbozzata, per non appesantire le risa di un pubblico che manco gli One direction. Abbiamo il sospetto che Timi, un bravo attore, sia risucchiato dalla propria macchietta. Questo lavoro è ancora una mariconada, siamo giusti. Forse un po’ meno del solito? Forse. Comunque una mariconada.
Le prove della bravura e della misura recitativa le abbiamo dal cinema, dove Timi si lascia dirigere e arginare, a teatro le briglie e le trecce sono sciolte come a un miominipony brado.

Ci vien fatto di pensare a Daniele Timpano, un altro bravo attore quarantenne e al suo Ecce robot (2008) che ci piacque meno dei suoi spettacoli successivi e che si reggeva su un generazionale richiamo ai supereroi anni ’80 dei cartoni animati giapponesi. Mazinga, Goldrake e Jeeg robot ne erano i perni, premessa dichiarata e usata per fare brillante autocritica sui ragazzi cresciuti davanti alla tv. L’affinità anagrafica tra i due non è ininfluente, segna quello che tutti i nati nei ’70 ricordano, inevitabilmente, ma da cui forse vorrebbero, adulti, affrancarsi.

Timi compare su una cyclette, appeso a fili come il burattino Pinocchio (poi vuole anche spiegarcelo) in una scena arredata con attrezzi da vecchia palestra seminterrata e chiude dialogando con la fata turchina in una richiesta di morte liberatrice.
Vincenti gli consiglia di non buttarla in caciara, noi di non buttarla, la bravura.

Quanta amarezza nella lunga giornata teatrale degli autori romani

UnknownLAURA NOVELLI | Una città ruvida, arrabbiata, intollerante, violenta, degradata. Una città che pullula di malesseri, storture, ambiguità. Una città misteriosa, notturna, respingente. Eppure sempre e disperatamente bella. Di quella bellezza antica e un po’ ruffiana che ti strega e ti imprigiona, ma che oggi fa fatica a nascondere le sue macerie. Roma come emerge dalla complessa materia drammaturgica di Ritratto di una capitale, spettacolo-fiume ideato da Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri e andato in scena al teatro Argentina nei giorni scorsi, è un vero e proprio pugno allo stomaco. Un coacervo di contraddizioni che le diverse ventiquattro scene scritte ad hoc da altrettanti autori (cui si aggiungono i contributi di Corrado Augias, La capitale mancata, e Franca Valeri, L’insaziabile imperatrice) declinano in immaginari e linguaggi assai diversi, accomunati però da un diffuso senso di disfatta, cedimento, catastrofica decadenza.

E se da una lato tale esito non era ovviamente prevedibile in fase progettuale, dall’altro esso ci suggerisce una constatazione importante, e cioè che di questo pugno allo stomaco forse avevamo tutti bisogno. Per meglio comprendere, come cittadini, una realtà che ci tiene volentieri sospesi tra abitudinaria sopportazione e sentimentale utopia e per confrontarci, come spettatori, con la molteplicità di uno sguardo letterario capace di tradurre quella stessa realtà in una suggestione artistica coesa, in un respiro unico, in un “sovratono” significativo.

Ovvio che in dodici ore di spettacolo (tanto è durata la lunga maratona programmata il 22 novembre che, scandita in blocchi di circa due ore ciascuno al termine dei quali era possibile entrare in sala o uscirne, ha messo insieme la prima e la seconda parte del lavoro favorendo un’esperienza di visione personalizzata) ci siano momenti meno felici, brani meno incisivi, tematiche ripetute, tentazioni bozzettistiche, cedimenti del ritmo o della teatralità, ma queste criticità “fisiologiche” non compromettono la riuscita di un’iniziativa davvero coraggiosa. E non parlo di coraggio puramente produttivo. Parlo semmai del coraggio di accostare autori molto distanti tra loro come, tra gli altri, Giancarlo De Cataldo (Bello come un Dio), Eleonora Danco (Squartierati), Elena Stancanelli (Angeli Cacacazzi), Ascanio Celestini (Kiss Me), Francesco Suriano (Elegia per due sconosciuti), Letizia Russo (Crossroads), Tommaso Pincio (Il film sbagliato), Fausto Paravidino (Flaminia bloccata), Anna Foa (Il ghetto, monologo con fantasmi), Andrea Rivera (Scritti Corsarivera), Emanuele Trevi (Opinioni di una zanzara tigre a Roma), Ricci/Forte (Raw, Reluctant and Rome), Timpano/Frosini (Alla città morta).

Parlo del coraggio di puntare su una regia semplice, sobria ma limpidamente efficace (a firma dello stesso Arcuri), messa a servizio di folgorazioni drammaturgiche affidate tanto ai testi quanto all’importante colonna sonora dei Mokadelic (gruppo post-rock/psicadelico noto soprattutto per aver scritto le musiche della serie tv Gomorra) e all’avvolgente set virtuale di Luca Brinchi, Roberta Zanardo (entrambi dei Santasangre) e Daniela Spanò.

Unknown-1Parlo poi del coraggio di impegnare un cast numerosissimo, mescolando (anche qui) attori di generazioni e formazioni diverse, nomi conosciuti (da Anna Bonaiuto a Sandro Lombardi, da Leo Gullotta a Milena Vukotic, da Danilo Nigrelli a Maddalena Crippa) e personalità artistiche più acerbe o, in alcuni casi, più inclini ad una attorialità autoriale costruita su una lingua espressiva propria e ben riconoscibile (basti citare la Danco o Rivera). Sebbene in alcuni casi la resa interpretativa non sia del tutto convincente, c’è da dire che l’insieme, la coralità di queste voci, ora impastate di dialetto, ora di cadenze giovanilistiche, ora di ombreggiature straniere, restituisce in pieno l’atmosfera di una Roma indurita, losca, provinciale, smarrita.

Sono infatti i temi della prostituzione, dell’intolleranza razziale, del degrado periferico, della violenza notturna ad attraversare la maggior parte dei contributi (montanti secondo la scansione cronologica di una giornata). Non di meno, però, è nella poesia di certe vibrazioni che si insinua lo struggimento più forte e caparbio. Alludo, per esempio, allo splendido brano della Stancanelli, fatto volare alto da un Sandro Lombardi in stato di grazia e da un misurato Roberto Latini: due angeli persi nel vuoto di un luogo-non luogo che (forse incarnazioni poetiche di Victor Cavallo e del ballerino Lery Johnson) inciampano nel loro passato, confondono la vita e la morte per poi scivolare altrove, scendendo dentro la botola che si apre al centro del palcoscenico. E sospeso nel mistero resta anche il tremore della donna che la Bonaiuto interpreta con pregevole mutevolezza espressiva in Odioroma di Mariolina Venezia, così come si muove in raffinate alchimie linguistiche e storiche il bel testo di Suriano, ambientato sulle sponde lunari di un Tevere minaccioso. C’è poi la Roma delle baby-squillo raccontata da Celestini, quella degli ingorghi gravidi di dis-umanità immaginata da Paravidino, quella baldracca e scandalosa di Ricci/Forte, quella violata dall’antisemitismo della Foa, quella nostalgica e popolare della Danco.

C’è, ancora, la Roma delle periferie incazzate, dei centri SerT, degli anziani soli, dei romani che hanno lasciato la capitale ma ci tornano. E infine c’è la città morta, quella gravida di macerie, detriti, residui catastrofici, toni acidi che – siamo alla chiusura di Timpano/Frosini, apocalittici epigoni della loro stessa Zombitudine – finiscono col contagiare anche la versione rock di Arrivederci Roma suonata dai Mokadelic. Un pugno allo stomaco, sì. Ma anche un’opera che possiede la forza di “un’operazione” culturale (prima che teatrale) importante. Non è più tempo di commedie buoniste e sornione. L’Italia è altro (e mi viene in mente il bel film di Salvatores Italy in a day). Roma è altro. Lo dice bene Franca Valeri nella sua epistola d’apertura: garbata, ironica, sarcastica visione di una città eterna (ripresa video sulla home-page del sito www.teatrodiroma.net) in cui le statue parlano di gloria passata, mentre le strade dissestate e sporche di oggi gridano uno scempio ormai osceno. E neppure la nostalgia può bastare a consolarle. E a consolarci.

Brutto: l’essenziale macchina scenica di Fornasari

lolloRENZO FRANCABANDERA | Marius von Mayenburg (Monaco di Baviera, 1972) è drammaturgo di grande talento che nella Germania del postdrammatico finisce per sembrare finanche old fashion con il suo interesse tutto centrato sulla trama e i personaggi, ma queste caratteristiche così poco in linea con l’universo teatrale teutonico contemporaneo, ne fanno l’autore tedesco più rappresentato nei paesi di lingua inglese, oltre che il drammaturgo in residenza presso la Schaubühne am Lehniner Platz in Berlin di Berlino, uno dei templi del teatro contemporaneo, dove lavora con Ostermeier alla direzione artistica.

Parliamo dunque di “Der Häßliche”, “Brutto”, un testo del 2007 scelto da Bruno Fornasari, regista residente presso il Teatro Filodrammatici di Milano, per un allestimento felice, che ha debuttato l’anno scorso e ripreso quest’anno con successo.

E parliamo delle tre ragioni per cui questo allestimento funziona.
Il primo, banale ma essenziale è proprio il testo, che è un incastro narrativo efficace, che guarda alla tradizione ma sa ammantarla di attualità, che parte quasi come commedia degli equivoci, ma diventa poi amara riflessione sul contemporaneo. Ad un uomo brutto vengono cambiati i connotati. Questo originerà una serie di occorrenze, dalla fulminea ascesa sul posto di lavoro, al ritrovato desiderio della donna amata. Ma la fulminea ascesa sarà anche l’inizio del baratro, quando il suo successo viene minato alle basi dalla stessa tecnica che lo ha generato. Quanto la tecnologia ci rende replicabili? Quanto ci rende replicanti? Rischiamo un futuro privo di identità, sia individuale che collettiva? Una storiella divertente capace poi di prendere una piega davvero inquietante e non comune.

Il secondo è nelle scelte registiche di Fornasari, che si conferma capace di leggere con intuito non solo lo spazio scenico ma l’intersezione creata da testo, attori e scelte registiche, continuando a lavorare con un gruppo di interpreti con cui affronta un certo tipo di contemporaneità drammaturgica, legata ad una meccanica del testo che sa avvincere, ma porta sempre oltre il già noto, il già battuto. E questo è un merito, se confrontato con teatri che si affannano ad amletare stagioni teatrali, infarcite di divi tv in libera uscita e classici di vulgata, pur di portare a teatro la ggente. Qui la compagine di attori, pur con qualche sbavatura e imperfezione, si mostra all’altezza senza dover ricorrere al alchimie da tubo catodico, e questo perché il testo e le scelte di regia permettono al tutto di svolgersi senza orpelli, lasciando proprio al recitato il compito di dialogare con lo spettatore. Cosa che avviene.

La terza e ultima è una riflessione che parte da quello che l’autore della drammaturgia diceva a proposito della stesura: “Una delle cose con cui ho voluto giocare è quel trucco, quella magia del teatro dove uno dice “Questo è il re” e l’attore sul palco diventa il re. Se uno dice “Adesso quello non è più il re”, allora quello non è più il re. Nella nostra versione avevamo scelto per Lette (il protagonista) un attore molto bello e ha funzionato. La gente credeva davvero che fosse orrendo.”
Fornasari di fatto usa la stessa tecnica, completamente antinaturalistica, spingendo gli interpreti al bordo del cabaret, ma compiendo interessanti percorsi di anti-teatro, facendo in modo che al cambio di volti, di identità e di ruolo, i personaggi non mutino il loro sembiante, come la didascalia avrebbe voluto. Sono e restano se stessi, diversi, ma tragicamente uguali, come il nostro tempo ci spinge ad essere. Quindi l’uguaglianza, sembra suggerire il regista, non è nell’uguaglianza orwelliana e da incubo di inizio Novecento di volti uguali usciti da una infernale macchina plasma-uomini, ma nella riduzione della nostra identità a pochi tratti, replicabili in forma meccanica, dopo l’appiattimento delle personalità. Che è una morte un po’ peggiore.

Videointervista a Francesca Foscarini – Da dove sto chiamando 2014

foscarini ph L.Fadda
ph: Luca Fadda

RENZO FRANCABANDERA | Fra le danz-autrici contemporanee Francesca Foscarini rappresenta una personalita’ di spicco. Interprete talentuosa, dotata di una forza espressiva magnetica, Foscarini ha portato di recente a Cagliari, nell’ambito del festival Da Dove Sto Chiamando, due assoli: “Gut Gift” e “Kalsh”.
Il primo nasce dalla collaborazione con la drammaturga Jasmine Godder, a seguito della vittoria del Premio Equilibrio nel 2013 e si cimenta in un’indagine corporea di processi e impulsi ancestrali in rapporto all’alterità dello sguardo, impersonato dal pubblico.
“Kalsh”, opera prima, quello con cui l’abbiamo conosciuta e premiata ancora giovanissima a Kilowatt Festival ormai cinque anni fa, muove dai concetti di abbandono e rinuncia attraverso il percorso ambivalente della volontà: lasciarsi sprofondare o rialzarsi?

A Cagliari, a fianco dell’Antico Palazzo di Città, la nostra Giulia Muroni ha chiacchierato con Francesca Foscarini a proposito dei due assoli. Ma anche riguardo allo sguardo del pubblico, il ruolo della drammaturgia nella danza e altro ancora.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=Zsayo44m0n0&w=560&h=315]

Ranuncoli#14/1 Il diavolo veste Prada ma il potere preferisce Burda

illustrazione di Federico MaggioniEsistono l’alta moda, il prêt-à-porter (di diversi prezzi e qualità) e il prodotto dozzinale a basso prezzo. Queste le tre grandi categorie, poi ci sono i falsi, i resti di magazzino (outlet), l’usato (vintage), il fatto a mano, il fatto a mano etico, bio, organico e santo e il fatto a mano burda e simili.

Ingeborg Bachmann pensava che fosse molto meglio comprarsi un vestito di alta moda ogni tre anni che tre vestiti all’anno dai grandi magazzini. Credo che avesse ragione. Un cappotto di dior probabilmente dopo dieci anni sarà ancora bello, un cappotto di zara verrà voglia di buttarlo dopo due anni e un cappotto ‘altro’ non arriverà alla primavera. Per non dire delle scarpe!

Nel campo della moda non ci sono equivoci: paghi molto un buon prodotto e poco un prodotto di bassa qualità.  Qualche volta può capitare di pagare poco un prodotto di ottima o buona qualità perché è un pezzo rimasto unico, perché una signora l’ha regalato a qualcuno che lo ha rimesso sul mercato, e così via. Qualche volta può capitare di pagare troppo qualcosa perché è un falso non dichiarato o perché qualche acquirente sprovveduto si trova sempre.

A  teatro non è così: costa tutto uguale o quasi. La maggior parte delle volte lo spettatore, quando compra un biglietto, non sa se sta comprando un cappotto di zara o un cappotto di dior o un cappotto della merceria in zonasarpi (fatto da operai sottopagati) o, infine, un cappotto fatto a mano, in casa, grazie ai cartamodelli di burda.

Il teatro costa poco e se qualche volta ti fanno vedere uno spettacolo bruttino (merceria zonasarpi), o di teatro amatoriale (burda) spacciandolo per uno spettacolo bello e fatto da professionisti, in genere, se te ne accorgi, non ti arrabbi. Gli spettatori tendono a perdonare gli inganni. In fondo è come pagare per una falsa borsa di prada il prezzo di un’autentica borsa carpisa. Certo, se riesci a pagare un falso prada, che sembra un vero prada, quanto un autentico orrore in plastica sei più felice (anche se dovresti sentirti in colpa).

I soldi sono importanti per dare un valore alle cose e se tutto costa uguale è più difficile giudicare, soprattutto se sei uno di quelli che non nota se le asole della manica di una giacca sono vere (cioè aperte) e non sai cosa è la vicuña.

Sono una donna frivola e questi pensieri mi sono passati per la testa dopo aver visto, una sera dopo l’altra, tre spettacoli sul potere. In uno c’era un Hitler più dalla parte di Sokurov (Moloch – 1999) che da quella di Hirschbiegel (La caduta – 2004). Nell’altro c’era un imperatore romano, femmina e poi neonato. Nel terzo c’era un re, anzi tre…

Uno dei tre spettacoli era un vestito di antoniomarras (alta moda), non perfetto, un prototipo mai arrivato sulla passerella, ma era un abito di marras che qualsiasi persona avrebbe il piacere di indossare. Il secondo era un vestito di chiaraboni (prêt-à-porter), une petite robe sbagliatissima, che ti faceva venire voglia di andare a cercare la stilista per urlarle: cosa ne hai fatto del tuo talento? perché hai sciupato questa occasione usando materiali scadenti? Il terzo era un vestito fatto a mano, in casa, con i cartamodelli di burda e che l’indomani mattina, dopo la festa, finirà nel sacco della Caritas.

Mi piacerebbe essere meno frivola e non prendermela se non tutti sono capaci di riconoscere la qualità di un vestito.

Ah! volete sapere i titoli dei tre spettacoli? Forse domani, o più tardi.

Talk show politici: roba da uomini per una drammaturgia in declino

gruber

ALESSANDRO MASTANDREA | Se la televisione fosse un libro giallo, uno dei modi per valutarne la caratura potrebbe essere quello di capire, col senno del poi, quale peso abbiano avuto nell’equilibrio dell’intreccio particolari ritenuti insignificanti. Ora, pare proprio che in TV qualcuno abbia commesso un delitto. Questo delitto, sebbene smentito da addetti ai lavori del calibro di Michele Santoro, ha lasciato riversa sul pavimento una vittima illustre: il talk show politico.
Spetta a Lilly Gruber, Giulia Innocenzi e al quasi dimenticato terzetto estivo Ceran-Aprile-Margonari (le tre presentatrici del fu Millenium), prendere sulle spalle lo scomodo ruolo del particolare nascosto, indicandoci l’identità dell’assassino.
Che il talk show politico di prima serata fosse roba da uomini, lo si dava un po’ tutti per scontato, ma è stata la momentanea scomparsa dagli schermi di Lilly Gruber, che taluni credevano sacrificata a maggior gloria di Giovanni Floris, a riproporci con forza il problema. Tale genere (contraddistinto da pubblico in studio, diretta e ospiti di rilievo) ha visto andare in onda le proprie stagioni migliori allorquando gli animi si scaldavano, la contrapposizione dialettica si faceva muscolare e le parole esplodevano infuocate come olio bollente, mentre le regie faticavano non poco a correr dietro alle performance dell’uno o dell’altro ospite, alle invettive reciproche, agli stati d’animo del pubblico in studio. Erano i bei tempi dell’arena televisiva, in cui giornalisti e ospiti politici se le davano di santa ragione, con gusto coreografico impeccabile, e dove, all’occorrenza, non si disdegnava l’insulto. Un po’ come nei migliori buddy film il ritmo era incalzante, il dramma si alternava alla risata, l’invettiva allo spirito di corpo, l’insulto all’ammiccamento. Le donne, naturalmente, non potevano che ricoprire ruoli marginali all’interno dello spettacolo, poiché eventuali intemperanze, dettate da un’interpretazione sopra le righe, mal si adattavano a una conduzione femminile. La parità di genere, dunque, sacrificata per ragioni di bon ton.
I dati auditel sembravano premiare, quelli elettorali anche, e tanto bastava.
Poi, un po’ come accadde con la comparsa dell’homo sapiens, che soppiantò nel processo evolutivo gli ominidi che lo precedettero, due nuove specie di ospiti hanno cominciato a fare capolino nei salotti che contano: i montiani prima e i renziani poi. Togliendo di scena la figura del berlusconiano al governo, l’antagonista per antonomasia, costoro hanno distrutto dall’interno e in modo irreversibile il rodato meccanismo narrativo dei talk show, snaturandone i canoni di genere. Da allora gli autori non hanno più saputo che pesci pigliare, illudendosi che qualche pannicello caldo (una copertina satirica o un sondaggio in apertura piuttosto che in chiusura, l’ospite in piedi o seduto, il pubblico sulle gradinate o in piccionaia) avrebbe potuto ridestare un interesse evidentemente sopito.
Se non ora quando, avranno pensato la scorsa estate gli spiriti più riformisti della televisione italiana, coloro che con una certa lungimiranza avevano da tempo compreso l’andazzo, mettendo insieme gli indizi. Quale momento migliore per rottamare la vecchia guardia di presentatori uomini, proponendo una nuova sensibilità di approccio, tutta al femminile.
Col senno di poi, appunto, esperimenti come Anno Uno, ma soprattutto Millenium non hanno affatto sortito gli effetti sperati. Ci vuole qualcosa di più di una semplice crisi di ascolti, per far si che la folta schiera dei presentatori di talk show ceda cavallerescamente il posto a una donna. D’altro canto, per farlo, avrebbero dovuto seguire gli indizi, col rischio di scoprire proprio in se stessi i colpevoli del tremendo delitto. Proprio ora che qualcuno, il Matteo che non t’aspetti, per esempio, sembra deciso ad abbracciare l’eredità di B. e dei suoi, restituendo ai media il proprio antagonista, salvando questo peculiare genere televisivo e qualcuna di quelle comode poltrone da salotto televisivo.

“Zombitudine”, la non morte ti fa teatrale

Foto di Manuela Giusto
Foto di Manuela Giusto

MATTEO BRIGHENTI | Il palcoscenico è la tomba d’aspetto di una volontà sconfitta. Quelli che non vanno a teatro sono più di quelli che ci vanno, come i morti crescono più dei vivi. Sempre di più. A teatro non si riesce a fare niente, non si può smuovere nulla, si può solo immaginare il coraggio di addormentarsi e cercare il giorno anche nella notte degli occhi sbarrati. Essere zombi diventa quindi una ragione di vita, un cammino dondolante di conoscenza, una speranza che Elvira Frosini e Daniele Timpano praticano in Zombitudine con la forza e la disperazione degli ultimi tentativi di massaggio cardiaco su un corpo morente. La pagina chiara e inconfondibile di una grande prova d’attori. Per filo, per segno, per gesto.
Visto un anno fa in prima nazionale alla Tosse di Genova, lo spettacolo scritto, diretto, prodotto e interpretato dal duo romano, coppia di fatto teatrale e di diritto matrimoniale, si conferma anche al suo recente debutto all’Orologio di Roma, all’interno di Romaeuropa Festival, un lavoro adulto fatto da due adulti, con la freschezza, la spontaneità e la rabbia autodistruttiva dei giovani più giovani.
Il tema è di genere, da film di serie B o anche B-movie: l’Italia è al centro della conquista degli zombi. Tutta apparenza, da scartare come un regalo di Natale, una finta, un doppio passo per stordire i pregiudizi sulla distanza dal gusto del presente di chi fa teatro per vivere. Frosini e Timpano, infatti, non scelgono un luogo qualsiasi dove rifugiarsi e, nel frattempo, raccontare l’invasione, si trovano in una sala, dove sono pagati per essere attori e il pubblico paga per essere spettatore. Recitano, ognuno dalla propria posizione, il limbo confortevole e atroce di scelte che non possono cambiare, perché non sanno cosa prendere in cambio. Non avere scelta è il punto fermo della Zombitudine.
La durata di uno spettacolo è l’unico progetto di vita possibile, oggi, per un teatrante? Frosini e Timpano, allora, si rappresentano reclusi dalla scenografia in palcoscenico, artisti girovaghi con la valigia in mano, messi spalle a un grande sipario fané (le scene e i costumi sono di Alessandra Muschella). Lì, dietro quella tela, premono gli zombi, cioè la fissità dei ruoli, in definitiva l’istituzione stessa del teatro. Per spaventarli puntano tre dita verso il nulla e urlano “bang, bang!”, niente di più, niente di diverso le loro pistole, nonostante il gesto ricordi le P38 che sparavano pallottole vere come il piombo in quel nostro terrore ’70. La loro bravura sta nel procurarsi un rimpallo sempre favorevole tra l’illusione in pubblico e lo sconforto nel privato, riescono a tenere insieme la vista sul particolare e quella opposta sul generale, come certe iguane che muovono gli occhi l’uno indipendentemente dall’altro. Spesso incitano la platea alla rivolta, ma è coercizione, sono slogan forzati, senza convinzione: gli spettatori si aspettano di vedere l’azione, non di agire.
Il dopo non c’è e il prima passa. Fin qui, dunque, possiamo dire che i due hanno provato a scappare dalla loro scelta obbligata, hanno costruito lo spettacolo sull’attesa di uno spettacolo. Una volta, però, che anche il fuoco d’artificio dei finti zombi che invadono la platea si è spento, non possono più rifiutarsi di calpestare tutto il palcoscenico e non soltanto il proscenio, non possono più rigettare il vincolo inscindibile tra scena e attore: il personaggio.

Foto di Manuela Giusto
Foto di Manuela Giusto

Calano le luci in sala, tenute accese dall’inizio per marcare la ricerca di un protagonismo della platea, si apre il sipario e comincia la Zombitudine propria di Frosini e Timpano. Illuminati da un taglio spettrale, forse dello stesso colore verde che Pirandello avrebbe voluto per il finale dei Sei personaggi in cerca d’autore (l’ideazione e la realizzazione tecnica delle luci sono di Marco Fumarola e Daniele Passeri), i due recitano le parti di zombi e si stringono, si sorreggono l’un l’altro. Ripartono da una dichiarazione disperata all’amore e all’unità dei corpi e degli intenti, stare ed essere insieme, contemporaneamente. Solo così possono mettersi in scena, restando se stessi. E tenendosi per mano riusciranno pur a sbucare felici da qualche parte nel futuro. Anche se il desiderio è sotto sfratto di uno Stato di cose che non trova requie alla decomposizione.

Kings: Alberto Oliva e il logorio del potere

kinVINCENZO SARDELLI | «Il potere logora chi non ce l’ha», sentenziava Talleyrand in un aforisma poi scippatogli da Andreotti.

Forse Shakespeare, più fine conoscitore dell’animo umano, si sarebbe limitato a dire: «il potere logora». Per riflettere sulle tante verità di una sua opera, basta una riduzione che non assomigli a un Bignami. Come lo spettacolo Kings. Il gioco del potere, fresco di repliche e sold out allo Spazio Tertulliano di Milano.

Kings, regia di Alberto Oliva, avvia sul potere una riflessione “al cubo”. Siamo tra Autunno del Medioevo e un Rinascimento proiettato verso la modernità. Vediamo sfilare tre sovrani inglesi: Riccardo II, unto del Signore di fine Trecento; Enrico IV, che ne usurpò il trono; Enrico V, figlio di quest’ultimo, che dopo un’adolescenza libertina scavalcò a destra il padre rinnegando i giovanili furori.

Ci ha preso la mano, Oliva. Che nel 2014 si è già occupato di monarchi declinandoli prima secondo il rapporto inscindibile con la follia, nel pirandelliano Enrico IV; poi al femminile con Le regine di Schiller (di ritorno a dicembre al Teatro Oscar).

Michelangelo Zeno riduce la shakespeariana quadrilogia Enrieide a un dramma di novantacinque minuti. Una sintesi snella, al netto di aneddoti e ridondanze onanistiche.

Lo spettacolo si fa seguire, malgrado l’estro a tratti sottotono degli attori Enrico Ballardini, Federica D’Angelo, Martino Palmisano e Paolo Grassi. Convince Angelo Donato Colombo nei ruoli di Enrico V e Bagot. Brillano i due protagonisti meno acerbi: Piero Lenardon, maschera da commedia dell’arte, credibilissimo nei panni del guascone Falstaff; e un Giuseppe Scordio classico nelle vesti di Enrico IV, ben calato in un gioco oscillante tra registri lievi, elegiaci e solenni.

Drammaturgicamente, si fa strada un climax discendente: se il Riccardo II è il più tragico dei drammi shakespeariani, l’Enrico V assomiglia a una commedia. C’è un paradosso concettuale: se il potere, dal primo al terzo re, perde il fondamento divino e si radica nel consenso popolare, non per questo diventa più democratico e trasparente.

Kings ha andatura garibaldina. Leggera è anche l’impalcatura reticolare di antenne e travi, tubi, giunti e innesti che fa da scenografia.

Potrebbe sembrare un work in progress da rifinire questo spettacolo, con una scenografia poco adatta all’ argomento d’alto lignaggio (gli stessi costumi senza orpelli di Sartoria Streghe & Fate si orientano verso la contemporaneità). Ma Oliva, con le scene realizzate da Giuseppe Scordio e Saverio Assumma, s’aggrappa filologicamente un’essenzialità elisabettiana che si affidava totalmente al discorso del poeta, incarnato dall’attore.

Affiorano due altre possibilità circa la scenografia: quella simbolica di un potere che si rivela scheletro vuoto ed esercizio sgraziato; quella tecnica, che sfrutta gli spazi a vista, di volta in volta, come prigione, botola, passerella, labirinto, balcone, patibolo.

Una voce fuori campo dà il la allo spettacolo: fa molto film. Un feretro si rianima: inizia il valzer delle beffe.

Kings è un palinsesto senza orpelli né didascalie, con citazioni azzeccate (sul finale, il Nerone di Petrolini) e un ritmo adatto a ogni tipo di spettatore. Smascheriamo logiche del potere fatte di narcisismo, calcolo e populismo. Nei personaggi affiora la complessità: vittime di un gioco più grande di loro; esseri avidi, ma con quel po’ d’umanità.

Le luci di Alessandro Tinelli scavano nei volti, scelgono dettagli. Scindono azioni ed emozioni. Inchiodano i personaggi al muro, o li circoscrivono in una nicchia di bagliore. C’è spazio anche per una danza d’ombre incappucciate.

I suoni avviano cambi di scena. Dal power metal degli Edguy al classico postmoderno di Penderecki; dalla ritualità psicoacustica di Fabio Vacchi alla carica ritmica dei Rolling Stones, la litania del potere è sempre la stessa: alchimia grottesca, tragedia che non commuove. Resta uno sguardo incerto sul male e sul disgusto che permea le vicende umane. Un sorriso sardonico accompagna la sensazione che i rapporti sociali siano comunque intrisi di violenza e inganno.

Nessi, intimità e inclinazioni: un nuovo soggetto

bergonzoniNICOLA ARRIGONI – Perché partire da Alessandro Bergonzoni? Perché nel suo ultimo spettacolo, Nessi l’attore e autore bolognese mette in atto e in racconto poetico le esigenze del nostro contemporaneo. Eh sì, Alessandro Bergonzoni aspira alla filosofia, anzi è da sempre pensatore che gioca con le parole e in Nessi vive di uno stato di grazia sia per quanto riguarda l’aspetto teatrale, ma soprattutto per il pensiero che sottende. Nessi è una riflessione mai banale sulla necessità di riattivare la nostra capacità connetterci con l’altro e non a livello informatico, ma nell’elaborazione e nella coltivazione delle relazioni interpersonali e affettive. Nessi racconta della necessità di «fare nesso, senza preservarci, non serve il preservativo», ironizza Bergonzoni in scena con tre incubatrici, in cui l’attore mette le mani, quasi a curare la nascita prematura del pensiero. Questa urgenza di ‘fare nesso’ parte da una riflessione sulla vita e sulla morte, dalla consapevolezza che la morte è interruzione di nesso ma al tempo stesso parte di vita, forse non è interruzione ma passaggio.
arton67014Della morte e della vita, del divenire e della necessità che il nostro ‘io’ si metta in relazione con l’altro, di questo e molto altro racconta il fluire verbale e semantico di Alessandro Bergonzoni intercettando le necessità e le urgenze di una contemporaneità in cui si teme – come scrive Antonio Alberto Semi in Psicoanalisi della vita quotidiana. L’umanità è in pericolo?, edito da Raffaello Cortina Editore: «vada perduto (o negato) il senso dell’avventura umana, quella che tutti gli individui compiono, volenti o nolenti. Ri-ordinare in questo senso, è anche ritornare a considerare la situazione ordinaria dell’essere umano, stretto tra il suo destino e il suo personalissimo desiderio». Attraverso la quotidianità non necessariamente patologica – per rifarsi al celeberrimo testo di Freud – Antonio Alberto Semi va alla ricerca delle strategie con cui l’io può affrontare non solo le incertezze dei nostri tempi, ma la possibilità di fare del cambiamento e della sua necessità non un motivo di frustrazione o fobia, ma piuttosto una risorsa nella consapevolezza che «uno degli aspetti fondamentali della vita psichica sia anche quello di costruire delle situazioni nuove, di individuare soluzioni nuove alle richieste pulsionali, di riconoscere gli altri comprendendo che da un lato le loro rappresentazioni (e gli effetti connessi) sono dentro di noi collegate a tutti cloro i quali fanno parte della nostra galleria di esseri umani, dall’altro però sono anche – e fortunatamente – diverse, nuove, mai conosciute prima». La Psicoanalisi della vita quotidiana di Antonio Alberto Semi ha il pregio di coniugare prassi e teoria, esempi di vita vissuta con l’esperienza dello sguardo dell’analista e di fotografare una quotidianità che non è solo dei casi analizzati dall’autore, non è necessariamente patologica, ma è irrequieta, indefinibile e complessa e per essere compresa e vissuta appieno abbisogna di una ridefinizione dei nessi che legano l’io, il soggetto al mondo.
L’attenzione all’alterità come risorsa e confronto, come occasione di crescita e bisogno di relazione incoraggia l’inclinazione verso e in merito vale la pena confrontarsi con il bel lavoro di Adriana Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine. Il saggio propone una disanima del termine ‘inclinazione’ partendo da Kant, passando per il pensiero di Hannah Arendt e posando l’occhio sulle rappresentazioni della Madonna con Bambino come exemplum di una inclinazione non solo del corpo, ma anche dello sguardo e dell’anima verso chi è inerme. Insomma il saggio di Adriana Cavarero lavora smontando smontando stereotipi negativi rispetto al termine inclinazione spesso riferito a vizi e atteggiamenti immorali, rispetto al termine ‘rettitudine’ che ha un richiamo forte. Orizzontale e verticale, laddove la rettitudine è postura retta dell’uomo, l’inclinazione è spesso della donna, incline al peccato, ai sensi… Ed è proprio nella frequentazione dell’inclinazione che la saggista Cavarero scardina l’idea di un soggetto chiuso in sé ed autoreferenziale, individuando nel chinarsi verso l’altro, nell’inclinazione appunto la strategia di un nuovo umanesimo della relazione; scrive infatti l’autrice «Demolire il soggetto, autonomo e chiuso e affermare una soggettività aperta e relazionale non significa per Lévinas solo impegnarsi in un’operazione epistemologica e neanche, come pur sarebbe giusto dire, rifondare l’etica sul primato dell’altro, ma anche e soprattutto contrastare la violenza di cui il soggetto egocentrico è portatore».

jullienInsomma l’inclinazione verso l’altro è il punto da cui partire per una nuova umanità, è l’invito all’intimità, laddove il termine si pone Lontano dal frastuono dell’Amore per citare il sottotitolo di un altro contributo: Sull’intimità di François Jullien sulla necessità e urgenza di ricostruire relazioni, fare nesso, direbbe Alessandro Bergonzoni. Mobilitando Omero e Sant’Agostino, Stendhal e Simenon Jullien afferma che mentre l’amore , con le sue dichiarazioni e le sue furie, rischia continuamente l’impostura, l’intimità è lo spazio della nostra autenticità e permette di costruire un ‘noi’ perenne: il più profondo di ciascuno non si rivela che grazie a una relazione, a un uscire da sé. E non a caso scrive François Jullien: «Ciò che l’intimità ci fa quindi scoprire, ma discretamente e senza metterci in guardia, è il fatto che, d’un tratto, attraverso la possibilità che essa apre, sovverte la concezione di un Io-soggetto bloccato nel suo solipsismo – proprio quello contro cui la filosofia contemporanea è, come sappiamo, insorta con forza. Solo la proiezione e astrazione a partire dall’io, ci diceva la psicologia, posso rapportarmi all’Altro, al fuori, e posso avvicinarlo». L’io-soggetto diventa dunque una ‘rivelazione’, una rivelazione che si coglie nell’inaudito dell’intimità «tanto più inaudito quanto discreto, per aprire di nuovo, tirando un filo, un cammino verso l’umano e verso la morale, per sondare quel noi che essa ci rivela». E allora eccoli i Nessi di Alessandro Bergonzoni, la necessità di uscire da noi stessi e cercare relazioni vere e reali, di inclinarsi verso l’altro per condividere un’intimità che aiuta a costruire, insieme, un mondo in cui morte e vita sono un divenire fluido, naturale, sostenuto da una comune humanitas che ha il suo cuore nell’intimità con l’altro.
Nessi di e con Alessandro Bergonzoni, regia di Alessandro Bergonzoni e Riccardo Rodolfi, produzione Allibto Srl, al Municipale di Piacenza, 18 novembre 2014
Antionio Alberto Semi, Psicoanalisi della vita quotidiana. L’umanità è in pericolo?, Raffaello Cortina Editore, 2014, 14 euro.
Adriana Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Raffaello Cortina Editore, 2014, 15 euro.
François Jullien, Sull’intimità. Lontano dal frastuono dell’amore, Raffaello Cortina Editore, 2014, 14 euro.