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mercoledì, Aprile 24, 2024
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Vader: la vecchiaia secondo Peeping Tom

RENZO FRANCABANDERA | Peeping Tom torna in Emilia, a Reggio, nell’edizione 2014 del Festival Aperto dedicato alle arti e allo spettacolo dal vivo, in prima nazionale con Vader. È successo dieci giorni fa al Teatro Ariosto per il debutto in Italia del primo elemento di un trittico drammaturgico dedicato alla famiglia. Quello del nucleo familiare è uno dei primi temi attorno a cui ha lavorato la creatività di Franck Chartier, quando in Salon, esattamente dieci anni fa nel 2004, ritraeva un interno familiare con un bambino che passava di mano fra i genitori, nei loro voluttuosi abbracci.
Era una casa vista da dentro (sia architettonicamente che nell’indagine dei rapporti interpersonali),l’esatto contrario dell’esterno notte angosciante di 32 rue Vandenbranden, fatto di esterni notte, o dell’interno onirico, surreale di For rent, visto in Italia a Torino per Teatro a Corte.

Gabriela Carrizo nel 2004 era in scena; oggi, dieci anni dopo, firma l’assistenza registica e la drammaturgia, mentre alla danza e alla creazione pensano Leo De Beul, Tamara Gvozdenovic, Hun-Mok Jung, Simon Versnel, Maria Carolina Vieira, Brandon Lagaert, Yi-Chun Liu.

Dove siamo? In un ambiente chiuso, comunicante in modo indiretto con l’esterno, uno stanzone abbastanza triste con due tavoli lunghi ai lati, mentre sul fondo un palcoscenico piccolo. È l’interno di una balera di terz’ordine decaduta, un’aula magna di una scuola di vent’anni fa, di un circolo del popolo. E ad abitare questo ambiente, dopo un inizio un po’ fuorviante, sono effettivamente ben presto degli anziani.
Una voce dall’esterno, da un altoparlante, introduce ben presto un’ambientazione emotiva orwelliana. Si obbedisce, si ascoltano ordini, mentre una tristissima band di ottuagenarie intona una canzoncina assai poco allegra.

Irrompe un cinquantenne che deposita suo padre in comodato d’uso in questo poco felice consesso, andando via ben presto. Tornerà a trovarlo un paio di volte, senza che mai questo cambi alcun equilibrio fattuale. Il vecchio decide di non rassegnarsi alla reclusione solitaria, e si aggrappa non ad altri esseri umani ma al pianoforte, elemento di vitalità e manifestazione di un sé che nonostante la sedia a rotelle su cui è costretto, continua a battere forte, a vivere un impeto vero.

La seconda parte dello spettacolo, più leggibile e concentrata sulla vicenda dell’anziano, riesce a raggiungere una verità, una dinamica scenica di massa, che alterna finte aggregazioni e profonde solitudini, fino al finale dell’uomo, inghiottito dalla morte nelle sembianze del pianoforte stesso. È follia? Distacco dalla vita reale? Sogno? Incubo?

Peeping Tom non ci dà una risposta e lascia al pubblico il compito di rileggere in forma personale e interiore queste angosce che sommano il contemporaneo e l’epico, l’ospizio lager in cui la nostra società relega il disfacimento del vivere e il mito di Lear, nell’atmosfera equivoca e sospesa delle sue creazioni in contorsione, media res fra danza e teatro. L’abbandono filiale, l’esatto contrario dell’accudimento, ancorché fastidioso e fetido, di Castellucci, sotto lo sguardo mite e ieratico di dio.

Qui non c’è divinità: l’aldilà, un purgatorio sospeso e senza cielo, è già nel presente. È già ora. Mentre la vita trascorre. E l’anziano muore, non fra le braccia dei familiari, come la letteratura classica avrebbe raccontato, ma inghiottito, abbracciato da un oggetto, unico elemento di senso, di un vivere che ha smesso da tempo di avere a che fare con la vita.

Primo pannello di una trilogia della famiglia, cui seguirà Moeder (Madre) e Kinderen (Figli), Vader è una realizzazione certamente interessante dal punto di vista concettuale e di resa scenica, anche se forse meno compiuto di altri lavori recenti. La sua rilettura all’interno del trittico potrà forse aggiungere ulteriori elementi di riflessione come accade per un’opera che va inquadrata all’interno di un’ispirazione più ampia e poligonale.

 

VADER

Direction Franck Chartier
Directorial assistance and dramaturgy Gabriela Carrizo
Creation and performance Leo De Beul/Jef Stevens, Marie Gyselbrecht, Hun-Mok Jung, Brandon Lagaert,Yi-Chun Liu, Simon Versnel en Maria Carolina Vieira, with the aid of Eurudike De Beul
Artistic assistance Seoljin Kim, Camille De Bonhome
Sound composition and arrangements Raphaëlle Latini, Ismaël Colombani, Eurudike De Beul, Renaud Crols
Sound mixing Yannick Willox
Light design Giacomo Gorini & Peeping Tom
Costume design Peeping Tom & Camille De Bonhome
Set design Peeping Tom & Amber Vandenhoeck
Set construction KVS-atelier, Filip Timmerman, Amber Vandenhoeck
Technical direction Filip Timmerman

Production Peeping Tom
Co-production Theater im Pfalzbau (Ludwigshafen), KVS- Royal Flemish Theatre (Brussels), Festival GREC (Barcelona), HELLERAU – European Center for the Arts Dresden, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, Théâtre de la Ville (Paris), Maison de la Culture (Bourges), La Rose des Vents (Villeneuve d’Ascq), Le Printemps des Comédiens (Montpellier), with the support of Sommerszene, Szene Salzburg (Salzburg).
Theater Im Pfalzbau (Ludwigshafen) and Taipei Performing Arts Center (Taipei) are acting as key partners in the creation of the trilogy ‘Vader’ – ‘Moeder’ – ‘Kind’.

Sales Frans Brood Productions
Peeping Tom wishes to thank Héloïse da Costa, Blandine Chartier, Emiliano Battista, Diane Fourdrignier and Seniorencentrum Brussel vzw

Volontariato critico: il teatro appaga ma non paga

"Frattura critica" @Rosanna Mattossovich
“Frattura critica” @Rosanna Mattossovich

MATTEO BRIGHENTI | Scrivere sul web è scrivere per il web. E il tuo primo lettore è Google. Se non stai alle sue regole sei destinato all’oblio e a lavorare gratis in eterno. La schiettezza di Andrea Esposito di FanPage (quasi 3 milioni di fan su Facebook) arriva come un macigno di realismo nel cerchio dei critici teatrali online convocati da Interno 5 al Teatro Bellini di Napoli per “Frattura critica – La necessità di un cambiamento: etica, innovazione e professionalità”. L’importante occasione di confronto ha chiuso “Turn Over – più spazio per crescere” ovvero cinque giornate (13-17 ottobre) in cui si è parlato anche di distribuzione, opportunità di finanziamento pubblico e privato, spazi occupati e autogovernati, nuove forme di produzione.

La geometria non è una metafora, è una condizione condivisa. Siamo seduti l’uno a fianco all’altro perché comune è il campo di azione, pur nella diversità di sguardi e prospettive: la critica è diventata un “non lavoro” che però dà lavoro, contribuendo, hanno confermato i presenti, all’incontro di offerta e domanda tra artisti e operatori teatrali, soprattutto i piccoli, fuori dai circuiti. Questa è la nostra “frattura critica” più urgente, per riprendere il titolo dell’incontro a cura da Michele di Donato e Alessandro Toppi (Il Pickwick), Emanuela Ferrauto (Dramma.it) e Napoleone Zavatto (Cinque Colonne Magazine), con la collaborazione di Rete Critica, di cui fanno parte anche PAC e Teatro e Critica, presente a Napoli con Simone Nebbia e Marianna Masselli. Il lavoro gratis è il granello da cui nasce la valanga delle questioni sull’etica, la funzione, la professionalità e l’affidabilità del critico teatrale sul web.

Andare online non è una scelta, è un obbligo. A causa, in breve, dei mutamenti di direzione del sistema economico e di politica editoriale di giornali, radio, tv e relativi siti, oggi chi vuole far critica teatrale (soprattutto donne, stando ai primi dati della ricerca di Margherita Laera della University of Kent) salvo rare eccezioni non ha altro luogo in cui esprimersi all’infuori di riviste di settore, magazine e portali su Internet, un bulimico impenitente che accumula, accumula, accumula. Qui tutto si crea, tutto si trova e niente si distrugge. Chiunque può svegliarsi critico, una mattina, e aprire un blog. La democratizzazione ha comportato un abbassamento generale della qualità, per via dell’assenza di filtri in entrata, come le vecchie redazioni, e ha dettato il passo al lavoro gratis. Solo il tempo riesce a dare la misura delle reali capacità di ognuno nel raccontare il mondo sulla scena. Chi resiste di più, tendenzialmente, vale di più, perché ha qualcosa in più da dire attraverso quello che vede. Capita così di entrare in contatto con la comunità dei critici sopravissuti alla selezione naturale del tempo, con i quali si crea una sorta di ‘redazione diffusa’ per la condivisione reciproca di link e punti di vista e la pianificazione di incontri, convegni, momenti di studio e riflessione.

Ma la cura della qualità dei contenuti può dialogare anche con le tecniche per ottenere un miglior posizionamento sui motori di ricerca e magari una qualche forma di retribuzione: aumentare la visibilità per aumentare i click per intercettare la pubblicità. Sul web bisogna saper ottimizzare la propria presenza su Google, cioè fare la SEO (Search Engine Optimization), è ancora il pensiero di Andrea Esposito di FanPage. Secondo Francesco Margherita, uno dei massimi esperti napoletani, significa “imparare qualcosa che non si può comprendere”. Questo però è semplice: di un titolo Google indicizza solo le prime tre parole, escluse le stop words, come le congiunzioni. Più si usano parole ricercate di frequente più l’articolo sarà in cima ai risultati del motore di ricerca. Questo è altrettanto facile: su un argomento Google privilegia la completezza, non la sintesi. Seguire tali regole di grammatica online permette di salvaguardare la libertà e l’indipendenza del discorso critico, dandogli in più gambe di sostenibilità economica o è puro asservimento alla Rete padrona come la chiama Federico Rampini nel suo ultimo libro?

Per ora la risposta al volontariato critico l’abbiamo trovata nel farci a pezzi. Una “generazione trattino” che per sostenere la propria identità non lavorativa la congiunge con quelle lavorative. Un po’ organizzatori, studiosi, artisti, comunicatori. Un altro po’ critici. Una frattura composta di vite ben rappresentata dall’immagine scelta per la cinque giorni di “Turn Over” al Teatro Bellini: una testa “unisex” (non si distingue se di uomo o donna), disegnata di profilo, rasata, che mostra il cranio ritagliato, sezionato, suturato. Sopra c’è scritto: “Più spazio per crescere”. Senza strappi sarà impossibile.

Il carnevale arcaico della «Vita cronica» per i 50 anni dell’Odin Teatret

odinVINCENZO SARDELLI | Uno spettacolo di grande fascino per celebrare i cinquant’anni di una compagnia multiculturale tra le più importanti d’Europa. Un teatro etico e artigianale che usa la metafora per sfumare gli aspetti drammatici della vita.
È un’umanità composita quella che l’ensemble dell’Odin Teatret di Eugenio Barba propone all’Elfo Puccini di Milano in La vita cronica fino al 25 ottobre. Ognuno è in fuga da qualcosa, in preda a un’inquietudine forse senza uscita. Ognuno brama quella normalità che per tanti è routine, qui un miraggio.
Una madonna nera (Iben Nagel Rasmussen). La vedova di un combattente basco (Kai Bredholt). Una rifugiata cecena (Julia Varley). Una casalinga rumena (Roberta Carreri). Un avvocato danese (Tage Larsen). Un capelluto musicista rock delle isole Faroer (Jan Ferslev). Un ragazzo colombiano che cerca suo padre scomparso in Europa (Sofia Monsalve). Una violinista di strada italiana (Elena Floris). Due mercenari (Donald Kitt, Fausto Pro). E un manichino, sola presenza stabile in scena.
La vita cronica è uno spettacolo sul dolore. Lo capisci subito dalla sala smembrata. Il palco è un rettangolo. Fanno da cornice, ai lati corti, da una parte ganci da macelleria; dall’altra tende nere: l’ignoto, il baratro. Ai lati lunghi stanno gli spettatori, assiepati come ai bordi di un’arena. Gli attori attraversano la scena. La riempiono in lungo e in largo, persino in verticale.
Le figure sembrano materializzarsi dal nulla. Ci proiettano in uno scenario postbellico futuribile non così remoto. L’azione si svolge in Danimarca e in altri paesi europei. Uomini come zattere confluiscono in un non luogo. Sono rifugiati vessati dalla fame, esiliati, deportati.
In questa babele di figura ognuno parla la propria lingua. Voci, canti, nenie e cantilene. Ballate struggenti. Lingue diverse, genti diverse. Manca la chiarezza del linguaggio, eppure si capisce tutto.
Potere della relazione. Eugenio Barba crea un melting-pot coreografico denso di sentimenti e suggestioni. Ciascuno espone la propria appartenenza. Battute delicate, parole centellinate È la storia individuale a creare i personaggi. I quali tessono, poi, il corale mosaico drammaturgico.
Assistiamo alla frammentazione-ricomposizione di esseri che provano a liberarsi delle inquietudini che li trattengono. Sono figure sospese, colte nel tentativo di ridefinirsi. Ecco perché li vediamo in scena ciechi o bendati, brancolanti zombie disarticolati, scossi da un vento senza misericordia né pietà: «Gli altri volano, e volano, e fra poco rimangono solo le ali». «Sono arrivata nel paese delle meraviglie»: «attenta a dove metti i piedi».
Vediamo stelle filanti e piogge di monetine. Tarocchi, rose e un candelabro a sette bracci: la vita è sorte, trucco, albero della luce. Vediamo costumi pieni di colori, oppure di un nero disperato. Parrucche da ballo in maschera che neppure Quentin Tarantino. Bicchieri in cocci e ghiaccio in frantumi: l’acqua è origine della vita, ma è oro in tempi di guerra. Un angelo fissa le ali azzurre ai ganci da macelleria. Strumenti musicali sono appesi come cetre alle fronde dei salici. Sorrisi nascondono la quotidianità e la banalità della tragedia. Una bandiera immensa fagocita dei corpi, simulacri immolati a una patria matrigna.
Le luci intime immortalano dettagli di visi o di oggetti. Proiettano lo spettacolo su un piano metafisico.
Un barile di petrolio rotola sulla scena: guerra ed economia sono i motori della storia. Una porta rimane chiusa: conduce, forse, verso l’abisso. La morte incrocia fantasie e incubi.
Eppure nulla sembra perduto in questo rito magnifico. Finché c’è arte, c’è vita. Come la vita anche la musica è zibaldone: qui mixa inno alla gioia, marcia nuziale e marcia funebre. Fa capolino persino un giro di pizzica: l’arte è follia.
Trapelano spiragli di luce. La fuga ha lo stridore avvolgente dell’archetto sulle corde di un violino. Gli attori esorcizzano la disperazione aggrappandosi, nel magma buio, al filo incorporeo della musica. Che guida anche noi fuori della sala. Con qualche certezza in meno, qualche pensiero in più. Ed emozioni a frotte.

La forma circolare della violenza e l’Antigone: intervista a Gigi Gherzi

Antigone 2RENZO FRANCABANDERA | Uno spettacolo che è un volo pindarico di cui fino a pochi metri dall’atterraggio non si vede la pista, perché molte tracce sono annodate. Ma alla fine sorprendentemente, le luci appaiono, l’aereo si mette in posizione e le ruote toccano, riportando lo spettatore su una pista di arrivo in cui i segni si riuniscono in un punto d’arrivo concettuale chiaro, comprensibile e che giustifica l’operazione.
Parliamo di Antigone nella città spettacolo diretto e interpretato da Gigi Gherzi, in scena con Lorenzo Loris, in replica al teatro Out Off di Milano fino al 2 novembre.
Una riscrittura? In parte, in piccola parte.
Un ragionamento sulle arti sceniche? Si anche, ma non solo.
Una riflessione sulla società? Sicuramente, come Antigone in fondo è.
Tante cose assieme, tanti personaggi, veri e finti della Storia, come il monaco cristiano Almachio, fra i primi martiri della cristianità, morto lapidato in un circo nel tentativo di fermare lo spettacolo crudele della violenza. E la corrida anomala di Pedrito in Portogallo, dove non si uccide il toro, e che invece nel 2001 aizzato dalla folla finì l’animale (cosa per cui è stato multato poi 100mila euro), fino ai salotti televisivi, agone mediatico, circo delle violenze del nostro tempo dove la violenza ritrova minuziose ricostruzioni maniacali. Società e violenza, rito e dinamiche di massa, legge e potere. E più di un rimando a Contro Ismene, testo interessante dello psicanalista Zoja che ha ispirato molte delle considerazioni di questo allestimento.
Antigone sa ancora essere tutte queste cose? Ne parliamo con Gigi Gherzi.
L’idea dello spettacolo si sviluppa intorno a quello che il teatro (e la società) era nella Grecia classica e quello che è nel nostro tempo. Sei davvero così convinto della differenza o è un pretesto drammaturgico?
No, non è un pretesto. Senza retorica, l’arte cambia, sempre, rito, funzione, senso, posto che trova all’interno di un mondo. Nel teatro greco dell’età aurea della tragedia, in quei pochi decenni, davvero si sperimenta un rapporto sconcertante tra teatro e città, teatro e polis. Il teatro non è visto come “arte”, nel senso che normalmente diamo al termine. E’ uno straordinaria punto d’incontro tra rito, festa e spettacolo. Nessuna nostalgia per quei tempi. Ma fascino per un’indicazione che ci porta a immaginare futuro, che si collega con le pratiche tutte, a livello teatrale e performativo più in generale, che cercano di ritessere fili tra arte e città, arte e vita, arte e festa.
Se davvero questa differenza esiste, perché Sofocle ha sentito l’esigenza di sottoporre questo dilemma fra etica e legge già ai suoi coevi? Forse che la questione che già interessava loro?
La discussione su questo è aperte, anche tra gli storici del teatro e gli studiosi della classicità. Ti posso dare una mia risposta, senza avere la presunzione che sia “oggettivamente” la giusta. Il conflitto che Sofocle indica non é tra “legge” ed “etica” in generale. E’ conflitto con la legge nata all’interno del sistema di potere retto dai “tiranni”. Sofocle era terrorizzato da quel modello di città e di potere, Atene stessa si stava staccando con forza da quel modello, nel terrore di un possibile ritorno dei “tiranni”. Antigone segnala quel conflitto, non con la “legge”, ma con un potere autoritario, arrogante, che andava contro tutte le leggi non solo dell’etica, ma anche del “sacro”, per come lo intendeva la cultura greca del quinto secolo. Antigone si presenta alla città di Atene, e la sua storia è un antidoto a ogni tentazione di tornare indietro, di distruggere il faticoso sforzo d’invenzione di una prima democrazia, nella città di Atene.
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foto Agneza Dorkin

Perché la dualità di interpreti che ha poi portato alla scelta di Loris?

Perché i protagonisti dello spettacolo sono due uomini di cultura, di teatro, radicalmente innamorati e impegnati nella loro arte. Un po’ come, diversi come siamo, io e Loris. C’è una tensione grande, in tutti i due personaggi, a trovare risposte, non sul ruolo del teatro in astratto, ma sul rapporto tra spettacolo e mondo, spettacolo e civiltà. Quelle parole ci è sembrato bello assumerle su di noi, recitarle noi, farle scontrare col nostro vissuto di uomini di teatro e di spettacolo, non affidarle a un attore esterno, ma radicarle nella nostra concreta esperienza di vita. Abbiamo fatto spesso, pur nel grande rispetto e amore reciproco per il nostro lavoro, un teatro differente, io e Loris. Questo spettacolo ci ha rimesso felicemente in gioco, come attori, come uomini. E’ stato un innamoramento artistico condiviso, che credo abbia portato a uno spettacolo sorprendente, atipico, fuori dai canoni.
Una nota su costumi e scene
Anche lo spazio teatrale che utilizzava la tragedia greca è sorprendente. Quel grande spazio semi circolare, dove il coro agiva davanti e gli attori dietro, il contrario di quello che si vede oggi a teatro! Il coro come ponte tra spettacolo e spettatori, ponte garantito dalla presenza dei “coreuti”, cittadini, non attori, che parlano ad altri cittadini. Quando in Grecia arriva la dominazione romana quel teatro viene spesso distrutto, o meglio cambiato nella forma. Dal semicerchio si passa al cerchio, il cerchio del Circo, al cui interno si fanno combattimenti e sfide mortali tra gladiatori, inaugurando così la stagione del teatro crudele, della pornografia del sangue, Così abbiamo deciso di annullare quasi totalmente lo spazio scenico dell’Out Off, utilizzando un grande schermo semicircolare e una piccola pedana, anch’essa semi-circolare, di lasciare l’azione scenica vicinissima agli spettatori, quasi proiettata su di loro. Da tutto il testo ci torna continuamente l’immagine che parlare di teatro è anche parlare di rapporto con la guerra, la violenza, per questo i personaggi hanno costumi astratti, un po’ da antichi sacerdoti, un po’ da guerrieri post moderni, con tanto di ginocchiere e di protezioni.
Antigone e Ismene. Davvero la nostra società ha scelto la seconda o è in fondo sempre stato così, ovvero che chi è disposto a compiere scelte radicali è sempre un po’ minoranza nei consessi sociali?
Antigone non è un personaggio storico! Però indica con il suo gesto un orizzonte, che va contro la legge costituita, che ne denuncia la sua storicità, il suo basarsi spesso su un delitto. Antigone è una visione, mette in discussione anche la vita, così come noi la conosciamo, con le sue paure, le sue furbizie, i suoi compromessi. Dialoga con la dimensione della morte, più collegata ai temi del sacro e dell’etica, combatte perché nessuna morte sia profanata, nemmeno quella dei “nemici” dello stato, indica un’orizzonta paradossale, per la sua epoca e per la nostra, quello di “non essere nata per condividere l’odio, ma l’amore”. E questa frase di Sofocle, che a molti di noi può sembrare retorica, oggi, ai tempi fondava un’altra idea di rapporto tra i cittadini, un’altra etica di rapporto con il mondo. E oggi, la nostra Antigone si chiede: “V’interessa ancora la mia storia? C’entra ancora qualcosa con voi o siete diventati tutti ormai troppo civili? Io v’interesso ancora, o sono solo ormai una citazione letteraria”. La nostra risposta è sì, c’interessa. E la sua storia racconta e interroga i buchi neri e le fratture della nostra vita, del nostro stare al mondo, e mette in discussione le leggi scritte e non scritte che governano il nostro agire.
Il vostro ragionamento finisce poi sulla morbosa sete di violenza, di sangue, a cui l’uomo pare non saper resistere. E’ un connotato tipicamente metropolitano? Perché la necessità nel titolo di specificare la questione della città?
Antigone, già in Sofocle, è un Antigone nella città. Antigone è la tragedia della polis per eccellenza, chiede alla città di schierarsi, si discute sul rapporto con la legge e il tiranno. La nostra Antigone è nella città di oggi, si chiede cosa succede quando i demoni fuori controllo dell’odio e del rancore invadono la vita. Nello spettacolo il contemporaneo cola sullo schermo attraverso le immagini girate e rimontate delle rivolte di Atene contro la crisi e le misure di “austerità” attraverso le immagini del crollo delle Torri Gemelle, che inaugura nel mondo una nuova stagione di odi e di vendette, attraverso la morbosità nel trattare il dolore e i corpi morti, tipica di molti talk show televisivi, a partire dall’ormai famoso plastico della casa di Cogne gentilmente offerto da Bruno Vespa ai suoi spettatori. Immagini che ci portano al nocciolo della questione: Antigone chiede rispetto per il corpo ucciso, anche quello del nemico, chiede non sia profanato. Oggi la profanazione è ovunque, è diventata industria dell’intrattenimento crudele, la profanazione fa spettacolo, audience. Antigone chiede una misura nel trattare il tema del dolore, un rispetto, proprio come tutta la tragedia greca in cui era proibito mostrare l’uccisione di un personaggio in scena, far vedere le viscere, il sangue, perché era considerato empio, una violazione delle leggi del ”sacro”. Oggi il dolore non viene più né rispettato né compreso, il più delle volte viene messo ai margini delle vite, o silenziato, quando riappare, riappare spesso come pornografia del dolore, business, intrattenimento. Insomma: “il nostro occhio feroce, belva, che vuole lo spettacolo!”. Ma Antigone aveva un’altra idea di spettacolo. E anche noi.

Ranuncoli#13 Wurm und Drang, per non parlare di Gina

illustrazione di Federico Maggioni promessi sposi - CopiaCOSIMA PAGANINI | Ora capisco cosa intendeva Gina, l’infermiera che assisteva mia madre ma si rifiutava di leggerle Orgoglio e pregiudizio, quando diceva: io le sorelle Brontë le odio. Presentano un mondo in cui le donne sono tutte stupide. Ed io le rispondevo: ma guarda che Orgoglio e pregiudizio l’ha scritto Jane Austen. Gina: E allora! Non è una scrittrice pure lei? Io: Austen è intelligente e non è stata infettata dal cattivo romanticismo. In tutti i suoi romanzi prende in giro quel mondo di sublimi sciocchezze sull’amore, l’amore oltre la morte, la bellezza del sacrificio d’amore, amore come unica verità, ecc., creato da donne, e uomini, che non conoscono ‘donne’ e ‘uomini’. La puoi leggere! Lei: …non voglio rischiare, sai quanti anni ci ho messo a liberarmi di Heathcliff e Kate?

E adesso parliamo di Intrigo e amore, “classico dramma romantico di Schiller”, visto al Piccolo Teatro.

 

Ragione di stato contro ragione del cuore? Con i presupposti che abbiamo: due giovani innamorati, Luise e Ferdinand (ma che amore è quello che soccombe alla gelosia?) separati dal censo, un padre aristocratico che non vuol perdere i suoi privilegi, anzi vorrebbe aumentarli (fino a prendere il posto del Duca?), una favorita di origini oscure (o per lo meno senza altre referenze che le proprie), le ‘ragioni del cuore’ sono destinate a perdere e anche perdersi. Perché deboli, provvisorie, poggiate sul vuoto… e la sconfitta dell’amore può far piangere moltissimo e farci annegare nel melodramma.

Lev Dodin però ha voluto evitare i toni del melodramma. Ha messo in scena un dramma ‘moderno’ in cui emerge la difficoltà di raggiungere la felicità per i troppi conflitti di genere, di classe, politici. E davanti alla scelta: la morte come sublimazione o come esito tragico, se Schiller, come Wagner e Verdi, sembra scegliere la prima, Dodin, grazie a una lettura più attenta, alla luce della “decadenza”, a me sembra porre in primo piano la seconda. Quindi c’è romanticismo e romanticismo.

Il senso del romanticismo è tragico in quanto coglie nell’umanità un paradosso irrisolvibile. L’uomo e la donna devono riconciliarsi con se stessi, con le proprie inclinazioni e con la propria natura “divina”. In questo senso devono amare anche se il loro amore li pone contro le convenzioni sociali e le opportunità politiche. La dismisura e la nobiltà dell’uomo e della donna, la loro infinità, non avrebbero senso se obbedissero ad un mero impulso utilitaristico. Ma la natura divina ama nascondersi e noi, pieni di impulsi non sempre puri, siamo ignoti a noi stessi. Solo un “genio”, un eroe puro, riuscirebbe nell’intento di vedere dentro di sé, ma un tale eroe è possibile? Non credo, in giro (vedi Ferdinand) si vedono per lo più caricature del genio.

Perché allora, nonostante i tentativi di Dodin di sfuggire al ‘cattivo’ romanticismo, continuo a pensare a quanto poco mi abbia convinto Intrigo e amore? Forse la risposta è che non credo che esista un romanticismo ‘buono’. O forse perché credo che Dodin non sia riuscito a evitare le trappole dell’iper romanticismo del tipo ‘amore e morte’.
Le storie di ispirazione romantica, nel migliore dei finali, portano alla morte prematura dei due amanti e, nel peggiore, alla catastrofe (magari sublime ma catastrofe). L’idiota atto assassino di Ferdinand vanifica ogni manifesto d’amore. Dodin avrà pure adattato il testo di Schiller per portarlo dalla sua parte, quella giusta, ma il pubblico quella doppia morte finale l’ha vissuta come sublimazione e come affermazione della verità (che molti scriverebbero con la v maiuscola), l’ha vista, quindi, alla maniera di Schiller.
In quanto a me: ho contato i candelabri della scena finale, che non erano innumerevoli come ha scritto qualcuno, ma solo 16 con 5 candele per uno e ho pensato: toh! Ecco la Russia. Ho seguito le smorfiette coreografate di lady Milford, incredibile (e un po’ non credibile) nel ruolo di chi vorrebbe spodestare dal cuore di Ferdinand, tutto sturmunddrang, la pura Luise. Ho sorriso all’altezzosa rivendicazione di Wurm del suo essere borghese (Wurm=verme: e si perdona alla giovane età di Schiller la scelta di un nome tanto evocativo quanto cretino). Ho visto il bacio, anzi i baci, quello iniziale e quello finale e tutti e due mi hanno lasciato alla mia domanda: perché non mi piaceva quello spettacolo “che sfiora la perfezione”?
Infine, mentre guardavo le persone intorno a me, plaudenti e felici, seppure in lacrime, mi sono convinta che nel ‘terribile’ romanticismo siamo ancora totalmente immersi e mi sono sentita sola in questo sentire. Ho rimpianto allora il tempo in cui leggevo Jane Austen e parlavo con l’infermiera Gina, cristallizzata nel suo ‘illuminismo’, e immaginavo un futuro in cui il sentimento sarebbe stato illuminato dalla ragione.

Lucia Calamaro e la condanna dei giorni senza peso

DIARIO DEL TEMPO. foto di alessandro carpentieri.03LAURA NOVELLI | L’ultimo – atteso – lavoro di Lucia Calamaro si intitola Diario del tempo: l’epopea quotidiana; arriva dopo la felice intuizione del “polittico” messo a segno ne L’origine del mondo: ritratto di un interno, premiato con ben tre Ubu; dura circa tre ore e preannuncia successivi sviluppi che in un certo qual modo andranno a comporre un’opera-fiume simile alla precedente. Simile in cosa? Anche in questa sua nuova produzione, la cui prima parte in due atti ha debuttato al teatro India di Roma nei giorni scorsi, l’autrice e regista romana, impegnata in scena insieme con una straordinaria Federica Santoro e con Roberto Rustioni, fotografa un’umanità disperatamente alle prese con nevrosi e fragilità contemporanee.

Stavolta però l’intento è quello di puntare l’obiettivo sulla dimensione del tempo: un tempo dilatato, vuoto, perso, speso a colmare l’apnea del non-sapere-cosa-fare. Un tempo tiranno proprio perché privo di azione e di senso. Un tempo da combattere, da annullare perché abbondante, da disinnescare in quanto minaccia quotidiana all’equilibrio personale. L’avere-tempo-libero sembra essere infatti la condanna principale della protagonista, Federica (la Santoro), una disoccupata che si mantiene affittando le camere dell’appartamento in cui vive e che cerca di riempire la sua esistenza a furia di corse e terapeutiche sedute di giardinaggio urbano. Tuta gialla, giubbottino arancione, scarpe da ginnastica e piantina in mano, questa quarantenne deprivata della riconoscibilità sociale ascrivibile ad un lavoro fisso (o perlomeno ad un lavoro qualsiasi), trema e vibra come un animale impaurito sulla cresta di un dirupo. I suoi oggetti – un materasso gonfiabile, un tapis roulante acquistato on-line, una finestra che non c’è ma che immaginiamo esserci – circoscrivono lo spazio limitato del suo agire (e, tanto meglio, del suo non-saper-poter-agire) e assorbono le ambivalenze di una personalità depressa, che barcolla continuamente tra l’intenzione di fare-correre-sudare e la tentazione di stendersi immobile a pensare la sua stessa stasi.

L’interprete è bravissima nel dare credibilità, spessore, mutevolezza al personaggio e il suo dire/raccontare (il dire proprio di un diario che è già di per sé un organizzatore di tempo) innesca sin da subito un gioco grazie al quale il linguaggio stesso – e dunque la scrittura – sfida la tirannia psicologica di questo tempo vuoto provocando, drammaturgicamente, un tempo lento, dilatato, ripetuto, persino esausto. Qualcuno del pubblico, all’uscita o nell’intervallo, diceva di aver avvertito una certa noia. Ma la noia è proprio l’esito voluto di questa provocazione estetica (prima che ideologica) che l’autrice architetta per far percepire allo spettatore quella stessa agonia del quotidiano, divenuta un’epopea che dalla necessità fatale del mito classico si sposta alla fluidità spaesante di un flusso di coscienza quasi joyciano, patita dai personaggi. Oltre a Federica soffrono, infatti, dello stesso malessere anche Roberto (Rustioni), un impiegato pubblico costretto al part-time con il quale Federica ha imbastito un rapporto di fraterna amicizia e un’insegnante di ginnastica incontrata alla stazione (siamo nel secondo atto della pièce, laddove lo spazio scenico si apre ad una profondità vuota e allusiva di chissà quanti altrove) che, interpretata dalla Calamaro, cerca di ingannare l’angoscia per il tempo-che-passa esperendo rilassanti training autogeni in posizione yoga e studiando filosofia (guarda caso proprio Jacques Lacan) all’università.

Certamente non c’è e non può esserci evoluzione in queste tre icone dell’oggi, perché la loro non è una rivoluzione sociale, non è una denuncia storica (per quanto l’attanagliante crisi dei nostri tempi funzioni qui da fertile terreno ispiratore), non è un j’accuse alla politica e alle istituzioni. Federica, Roberto e Lucia semplicemente urlano sottovoce la loro incapacità di consistere. Anche le loro parole somigliano più a pensieri che ad affermazioni. Anche i loro gesti, spinti all’eccesso della corsa, del tango e dello yoga, raccontano più una ricerca interiore che una stabile consapevolezza. Bisogna ascoltarli, accompagnarli, capirli, sopportarne le ripetizioni, le lentezze, le ansie, le nevrosi per non rischiare di annoiarsi. Bisogna percepire il tempo come lo percepiscono loro (e mi viene in mente un capolavoro di Bob Wilson, Deafman Glance, in cui il grande regista americano sperimentava sul pubblico proprio una particolare dimensione del tempo e dello spazio) per assaporare l’estrema teatralità e la spigolosa verità di una testo davvero ben scritto, che conferma la Calamaro una delle voci migliori della nostra drammaturgia e regala alla Santoro l’opportunità di una prova superba.

VIE Festival Modena: segnali dall’aldiquà del teatrodanza

Bidefono vie
Disegno Renzo Francabandera

RENZO FRANCABANDERA | E’ un’edizione, quella 2014 di VIE, storico festival che si svolge ogni anno in Emilia sotto la guida di direzione artistica di Emilia Romagna Teatro, che pur non avendo un focus specifico, continua ad attraversare la contemporaneità, cercando di intercettare nuove identità e soggettività nell’ambito dello spettacolo dal vivo.

E queste identità, mai come in quest’ultimo biennio, paiono focalizzare l’attenzione su quello che più la nostra società ha rimosso negli anni, ovvero il rapporto con la malattia, la morte, la crisi dell’individuo. Ma non si pensi a spettacoli struggenti di tono decadente, perché la sensazione mal si coniugherebbe, ad esempio con Au-delà (Aldilà), la coreografia di DeLaVallet Bidiefono, collettivo di danzatori neri che sulle musiche eseguite dal vivo da Morgan Banguissa e Armel Malonga, e con una testualità non meno sonora, recitata roca e a tratti quasi heavy metal da Athaya Mokonzi su testo di Dieudonné Niangouna, andato in scena nel primo week end allo Storchi di Modena. Lo spettacolo nasce a Brazzaville in Congo dove lo stesso Bidiefono racconta di come fare danza in quel luogo lo abbia avvicinato all’esperienza dell’aldilà, dopo giornate intere passate senza mangiare e bere. “Con Au-delà voglio raccontare la storia del mio incontro con la morte, e di come la mia gente l’affrontata. Spero anche di riuscire a raccontare quanto la mia relazione con ‘l’aldilà’ abbia nutrito il mio impegno artistico e politico”. Lo spettacolo mostra un’Africa viva, piena di un’energia quasi mitica, e spesso soggiogata all’idea della morte violenta quasi come retaggio di un colonialismo che a volte come tutte le forme di schiavitù, trova criminali interpreti in loco. Il rapporto fra valore della vita e potere è un altro dei sentimenti che lo spettacolo è capace di indagare con profondità.

Se dal punto di vista coreografico lo spettacolo resta su stilemi già praticati dal contemporaneo, la combinazione con la musica dal vivo e il rapporto con l’energia vitale primordiale offrono, all’interno di un disegno luci (Stéphane ‘Babi’ Aubert) assai sofisticato, ai danzatori Flacie Bassoueka, DeLaVallet Bidiefono, Destin Bidiefono, Ingrid Estarque, Ella Ganga e Nicolas Moumbounou uno spazio d’azione intenso fatto di scene e sequenze composte di testo, movimento, musica. Una musica fatta di sola sezione ritmica, batteria e basso, con qualche ulteriore ingegnoso e suggestivo escamotage sonoro.

Deposizione Sieni Francabandera
Disegno Renzo Francabandera

Un ritmo, un suono e un movimento diversissimo da Crocifissione e Deposizione di Virgilio Sieni, spettacolo-polittico ispirato al Vangelo secondo Matteo da cui sono tratti questi due quadri coreografici, progetto speciale di formazione di Biennale College Danza avviato da Virgilio Sieni nel dicembre 2013, e il cui debutto mondiale è avvenuto a luglio nell’ambito del 9. Festival Internazionale di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia, con la regia e coreografia di Virgilio Sieni. Parliamo senza dubbio di una delle sue realizzazioni più alte e poetiche degli ultimi anni, e che si fa forte di quel percorso avviato in tutta Italia di via sociale alla danza.

Da Giuseppe Comuniello, performer già interprete de l’Atlante del bianco, ospite alcuni anni fa proprio qui a Vie, e interprete di Deposizione, allo straordinario gruppo di cantori corali e neo danzatori interpreti di Crocifissione, arriva un’emozione grandissima al pubblico. I venti spettatori ammessi per replica si trovano davvero ai bordi di un’emotività fragile e intensa, come il respiro che i cantori si passano l’un l’altro, gli ultimi di un uomo che si muove lentamente e con sofferenza fra piccoli assi e oggetti di legno. Una danza fragile, che si spegne lentamente.

Crocifissione è realizzato con la partecipazione di quarantatré elementi della Corale G. Saviani di Carpi, che Sieni ha avuto modo di conoscere lo scorso anno in HOME_quattro case, lavoro ideato appositamente per VIE, che danno quest’anno corpo e voce al momento dell’avanzare lento della croce e del condannato al Golgota. Nessuna scenografia e le abituali luci neutre, quasi fredde a cui Sieni ci ha abituato, che portano l’atmosfera in una dimensione di atemporalità e atopicità assoluta. La coreografia rivendica e manifesta la potenza della coralità teatrale, unita alla soavità straziante di un Requiem che viene eseguito sia da una parte dei 43 disposti a coro sullo sfondo che dai circa 20 interpreti dell’azione teatrale. Uomini e donne maturi che compongono e scompongono quadri viventi in movimento di rara icasticità, trascinando gli spettatori verso un Golgota emotivo da cui non si riesce a prendere distanza. Un pezzo di storia del teatrodanza di cui occorre far menzione come uno degli esiti più alti di questo tipo di ricerca scenica.

Coppia aperta, quasi spalancata? Oyes, va tutto bene!

coppiaVINCENZO SARDELLI | Alienazione, crisi dell’io. Senso di vuoto, che ogni tanto diventa vertigine. Acuto bisogno d’amore. Di fondo, una fortissima ironia salvifica. E un umorismo gentile, che è sguardo leggero sulla vita.

La crisi di coppia può essere affrontata in vari modi. Nel confronto paritetico, che magari degenera in conflitto. Oppure nella fuga. Che proprio quando prelude al distacco, offre una chance a umanità e perdono.

Due pièce teatrali, di scena alla Cooperativa e al Tertulliano di Milano, propongono spunti plurimi sull’amore. Storie e generi dissimili. Attori dai percorsi artistici antitetici. Eppure lo spettatore trova il modo di scrutarsi. E riflettere su temi forti.

Vai alla Cooperativa, e capisci che cosa sia la professionalità in questo mestiere. Coppia aperta, quasi spalancata, regia di Renato Sarti, con Alessandra Faiella e Valerio Bongiorno, è uno spettacolo del 1982. Ma gli autori, Franca Rame e Dario Fo, entravano con puntiglio in un rapporto a due sclerotizzato dal maschilismo. Anche dopo le lacerazioni su aborto, divorzio e delitto d’onore, in Italia resisteva una morale ipocrita. L’apertura era intesa in modo unilaterale. Era viatico a un machismo ridicolo. Il mito dell’eterna giovinezza valeva unicamente per il maschio. Che si sentiva autorizzato, lui solo, a tradire.

La regia sobria di Renato Sarti rispetta un testo sferzante, ricco di dialoghi serrati e colpi di scena. Qualche anacronismo attualizza il copione, rendendolo ancora più graffiante. La scena interno casa (di Carlo Sala) attrezzata come una palestra irride il mito odierno della perfetta forma fisica. Gli attrezzi si riempiono di significati simbolici (un manubrio diventa propaggine priapea). Creano movimento scenico.

Sarti, accompagnato alle musiche da Carlo Boccadoro e alle luci da Luca Grimaldi, asseconda la verve comica degli attori. Alessandra Faiella accende l’ilarità con naturalezza disarmante. Padroneggia i tempi della comicità. Non esaspera i toni. L’espressività le appartiene come una cicatrice. Faiella interpreta sfumature variegate dell’animo femminile. Le donne in platea s’identificano con il personaggio. L’incontro rivela persino lati nascosti della loro personalità.

Nel connubio artistico, Valerio Bongiorno ritrova lo smalto migliore. Supera la caratterizzazione bizzosa, esteriore, da commedia dell’arte. Si lascia andare. Dà spessore e complessità al ruolo di marito.

Se l’intelligenza del testo caratterizza Coppia aperta, quasi spalancata, la fantasia scenica è il punto di forza di Va tutto bene, che la compagnia Oyes ha messo in scena allo Spazio Tertulliano.

indexLo spettacolo ideato e diretto da Stefano Cordella (aiutato alla regia da Umberto Terruso, Daniele Crasti e Francesco Meola) tratteggia con delicatezza un’umanità fragile ma mai alla deriva, ossessionata dal bisogno di relazione.

Sullo sfondo di temi universali come la famiglia, l’amore, l’amicizia, il sesso e la morte, emergono figure tragicomiche: Attilio, diciottenne in disarmo alla ricerca di esperienze che lo traghettino tra gli adulti; un giovane amico che gli dà buoni consigli non potendogli dare cattivo esempio; una madre nevrotica, sfatta dai mestieri di casa, sedotta dalla banalità televisiva; un marito assente che la tradisce con Lilly, misterioso angelo biondo (i costumi e le scene sono di Mara De Matteis) motore della vicenda.

Tra balli grotteschi e risa garbate, paradossi, canti eterei e un casto striptease, questo lavoro valorizza le buone abilità recitative di Vanessa Korn, Dario Merlini, Alice Francesca Redini, Umberto Terruso e Fabio Zulli. Le musiche accompagnano i momenti struggenti, intimi e buffi della pièce. La drammaturgia è ironica, mai frivola. C’è catarsi. Forse mancano momenti di genio creativo che facciano esclamare «caspita, non ci avevo mai pensato». Qualche passaggio appare sottotono. Le luci da candelabro di Christian Laface segnano passaggi chiaroscurali tra caldo e freddo. Nascondono però l’espressività facciale, lasciandola irrisolta.

Va riconosciuta, in ogni caso, la capacità di osare di questa compagnia. Che sa mettersi in gioco su temi e generi diversi. Che continua a mescolare i ruoli, e sperimenta. Qualcosa di buono ne esce sempre. Come crescita artistica, ed emozioni da condividere con il pubblico.

L’uomo e le cose: primi passi di Archivio Zeta oltre Archivio Zeta

Archivio Zeta1RENZO FRANCABANDERA | E’ ispirandosi ad un testo abbastanza sconosciuto di Goffredo Parise che Archivio Zeta torna in scena dopo le tradizionali date estive al Cimitero della Futa: una drammaturgia ricavata da due brevi racconti pubblicati nel 1969 e poi totalmente rimossi dalla cultura italiana, mai più ripubblicati e attualmente fuori catalogo.
Invece questi due testi diversi ma prossimi per argomento e concetto sono secondo gli artisti “una meditazione lucidissima sulla barbarie in atto, sulla violenza che regola i rapporti, una diagnosi spietata della nostra tecnocrazia, della nostra discarica morale e materiale”.

Fotografie in formato gigante, alte tre metri e larghe cinque, scattate da Franco Guardascione in una discarica a cielo aperto nel sud Italia delimitano uno spazio quadrato di sette metri per sette. Il pubblico è disposto negli angoli del quadrato. Massimo 20 persone per volta. Seduta al centro di questo spazio geometrico, ridelimitato al suo interno da una pavimentazione di ugual forma in plexiglass lucido, Enrica Sangiovanni si gira su se stessa su di una sedia girevole, mentre Gianluca Guidotti le gira attorno, iniziando un dialogo che ha un che di platonico.

Si parla infatti delle accuse (e ovviamente della difesa) mosse ad un assassino autore di crimini e stragi di massa. Lui l’accusa di strage, lei argomenta in modo paradossale e filosofico, quasi che il cecchino non abbia in animo l’omicidio volontario ma una sorta di malata e totalmente preterintenzionale sfida con il fato. Anzi, la strage sublimerebbe l’intenzione di non scegliere questa o quella vittima, ma di esaltare un compito le cui responsabilità sono esternalizzate spesso in una volontà altrui.

Non casuale dunque il sottotitolo di questo spettacolo, ceneri di logica e morale dal crematorio di Vienna, diretto e interpretato dai due componenti e fondatori di Archivio Zeta in un dialogo che finisce per avvicinarsi ai più famosi paradossi di Zenone che, come scopo, avevano quello di argomentare contro il divenire.

Come nel paradosso della freccia, secondo cui una freccia scoccata dall’arco sarebbe ferma in ciascuno dei luoghi in cui viene a trovarsi, perciò da una somma di stati immobili non si può produrre movimento, così l’etica del cecchino e la casualità nella non scelta delle vittime lo manleverebbe da responsabilità morali, in un susseguirsi di attimi discontinui nell’intervallo fra i quali la morale viene sospesa.
Lo spettacolo fa parte del programma delle Commemorazioni Ufficiali per il settantesimo anniversario degli eccidi di Monte Sole ed è prodotto in collaborazione con la Fondazione Scuola di Pace di Monte Sole-Marzabotto.

La surrealtà dello scambio appare modernissima e interessante. La durata dello spettacolo breve e fulminante. E’ il primo tentativo di Archivio Zeta di andare oltre l’impalcatura di tecnica attorale che finora ha sorretto le creazioni artistiche del duo, per aprirsi ad un mare sicuramente più pericoloso ma dal punto di vista teatrale molto più interessante e fecondo.

Il passo, infatti, vale proprio il riconoscimento di una nuova centralità dell’autore rispetto all’interprete, con quest’ultimo che prova a fare un passo indietro rispetto ad una cifra più “di mestiere” per andare a cercare il suono, il riverbero che è dello specifico drammaturgico. E’ un tentativo dunque centrale per Archivio Zeta, e come tale, in un percorso di crescita dell’intenzione artistica va segnalato come momento fondante e discontinuo. Come tutti i tentativi di cambiamento, ha in sé le tracce di quello che Archivio Zeta è stato finora e quello che può diventare, oltre quanto già fatto.

E’ il vero e grande sforzo di chi fa arte, e per questo L’uomo e le cose, con le sue piccole ma efficaci trovate sceniche, il proiettile come la freccia di Zenone fermo sulla traiettoria fra la pistola del carnefice e il corpo della vittima, merita di essere visto.

Brendulo, il teatro senza paura di Silvia Frasson

Stefania Nanni e Silvia Frasson
Stefania Nanni e Silvia Frasson

MATTEO BRIGHENTI | La rivoluzione è il sacrificio di una vita combattuta con amore. L’unione dà la forza alle parole per diventare frasi: “la terra è di chi la lavora”. E Brendulo, figlio di contadini che non conosce il suo compleanno, è venuto al mondo e ha aperto gli occhi quando l’amico Giulio, figlio di conti, gli ha fatto scoprire i libri. Ma più dell’ignoranza può il timore, giorno e notte, del padrone. È “una triste storia” (e vera) Brendulo – Ovvero il Che Guevara delle colline, monologo di e con Silvia Frasson e le musiche eseguite da Stefania Nanni, andato in scena a Buti (provincia di Pisa) nella bella rassegna “Piccoli fuochi in villa” diretta da Dario Marconcini, vincitore del premio “Nico Garrone” al Radicondoli Festival 2014. Triste, non per questo arresa alla propria tristezza. Silvia Frasson la racconta, infatti, con passione determinata a cambiare il finale. Dei mezzadri di ieri come dei precari di oggi.

Siamo attorno al 1870, nel senese, nel borgo d’origine della stessa Frasson, a Chiusi, arrivata quest’estate alla ribalta della scena artistica nazionale grazie al rinnovato Festival Orizzonti. Vittorio, detto Brendulo per via dei vestiti ‘sbrendoli’, che in toscano significa pressappoco ‘a brandelli’, è un folletto del bosco, un ragazzo che si arrampica sugli alberi per cambiare aria e prospettiva sulle cose. Un contadino rampante. Vive in una Fortezza di proprietà di ricchi conti dove la famiglia lavora a mezzadria. Giulio è rapito dalla destrezza di Brendulo, vorrebbe imparare a salire in alto come lui, agile e svelto, anche se è molto, molto più grasso. I due riconoscono la loro diversità, sociale per l’uno, fisica per l’altro, e ne fanno terreno d’incontro, di uguaglianza. Insieme si arrampicano sull’albero della vita e su quello della conoscenza: Giulio, in cambio della mano tesagli dall’amico, insegna a Brendulo a leggere e a scrivere.
In scena, Silvia Frasson è quell’albero, lo stesso che, molti anni dopo, vedrà Brendulo e Caterina uniti sotto il cielo stellato della prima vittoria sui padroni: ha le radici nella Storia e le fronde nel cielo dell’utopia. Le parole per lei non sono semplice suono, sono muscoli, ossa, giunture di una mimica irresistibile, in concerto continuo con Stefania Nanni che non la perde di vista un attimo e con la sua fisarmonica, discreta e concreta, schizza la scenografia fuori dall’inquadratura del respiro della Frasson, il vento, i pensieri, le cadute.

Nella sala centrale della villa medicea di Buti i nobili se la ridono, perché allora non vedevano più in là del pittore che li ritraeva. Ma il loro tempo stava per finire. Aver allontanato dalla Fortezza l’indisciplinato Brendulo, che ha osato entrare nella biblioteca padronale, non è servito a nulla: una decina di anni dopo lo ritroviamo ventenne a istruire i contadini alla rivolta contro i padroni che li vorrebbero tutti ignoranti come bestie.
Così, il 20 maggio 1901 sono proprio le bestie il centro del primo sciopero. Concentrandosi sui dettagli, sui particolari, per rendere la scena visibile dal di dentro, come se fossimo lì presenti, Frasson racconta la nuvola di polvere alzata da zoccoli e zampe come avvisaglia che quella mattina succederà qualcosa di nuovo. Alla testa di questa fattoria degli animali in marcia c’è Brendulo, che ha dato azione alle idee socialiste del suo nuovo amico, Piero. La notte sarà senza sogni perché la realtà supererà ogni immaginazione: nuovi diritti per i contadini e per Brendulo una futura moglie, Caterina.

Brendulo – Ovvero il Che Guevara delle colline è dunque un alto monologo civile che scuote dal torpore dell’indifferenza. Le parole di Silvia Frasson sono miniere di libertà, sono paesi dove si lascia aperta la porta di casa perché la strada non fa paura, casa e strada conducono entrambe alla ricchezza dell’incontro con l’altro diverso da noi. La realtà, infatti, riprende presto il sopravvento tragico: i diritti non sono acquisiti una volta per tutte, sono un percorso, un processo, una conquista di posizioni. Per questo non si lascia sradicare dall’irruenza e dalla compassione, che talvolta la portano a confondere gli spettatori con i nobili da abbattere, quando invece anche loro sono lavoratori da risvegliare. Frasson resta in piedi fino alla fine, fino a raccontare le sorti di Brendulo “esattamente come andarono” per lottare ancora, lottare sempre. E poter chiamare liberi i figli che avremo e non avremo. La Storia non si può cambiare, il futuro sì.