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venerdì, Aprile 26, 2024
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A “Le vie dei Festival” le mille Napoli di Servillo

MARIA PIA MONTEDURO | Non una Napoli oleografica e scontata, non una cartolina “sole-mare-pizza-mandolini”, non un omaggio fine a se stesso alla città di Partenope, non un’invettiva veemente contro la camorra. È un’altra la Napoli che Toni Servillo racconta, leggendo, ma sarebbe più esatto dire interpretando, le parole di scrittori napoletani, accomunati principalmente dal fatto di essere uomini di teatro o molto vicini al teatro. Salvatore Di Giacomo (Lassamme fa’ Dio), Eduardo de Filippo (Vincenzo De Pretore, Nfunno), Ferdinando Russo (A Madonna d’e’ mandarine, E’ sfogliatelle), Raffaele Viviani (Fravecature, Primitivamente), Mimmo Borrelli (A sciaveca, Papule), Enzo Moscato (Litoranea), Maurizio De Giovanni (O’ vecchio sott ‘o ponte), Giuseppe Montesano (Sogno Napoletano), Michele Sovente (Cose sta lengua sperduta), Antonio De Curtis (‘A livella), Alfonso Mangione (autore delle parole della canzone ‘A casciaforte): quindi tradizione indiscussa, fama consolidata, ma anche nuovi nomi emergenti che non sfigurano accanto a mostri sacri. Questi gli ospiti che Servillo chiama a testimoniare e a illustrare una Napoli dove Paradiso, Purgatorio e Inferno coabitano e coesistono, dove il sacro va a braccetto con il profano e dove, anzi, il profano ha tante cose da insegnare al sacro. Una Napoli terragna, ctonia, ancestrale, puteolana e flegrea, come la definisce lo stesso attore-regista, in un Teatro Vascello di Roma affollato all’inverosimile per lo spettacolo che ha aperto la XX edizione de Le vie dei Festival.

Ci si può chiedere il perché di questo “tutto esaurito” in ogni ordine e grado: la fama meritatissima dell’interprete, l’interesse che il teatro napoletano ha sempre suscitato e continua a suscitare a Roma (e non solo), la serata “libera” da altri impegni teatrali (tradizionalmente il lunedì è giorno di riposo per le sale teatrali), l’apertura di una rassegna apprezzata sempre di più da critica e pubblico? Sta di fatto che la serata è risultata interessantissima, e non solo per aver ascoltato la gamma di interpretazioni vocali, facciali, mimiche con cui Servillo ha dato spessore alla lettura dei brani – e già questo sarebbe motivo soverchio di soddisfazione; ma perché ne è uscita appunto un’immagine non necessariamente prevedibile di Napoli, pur nella lettura di brani celeberrimi, quali ad esempio “A livella” di Antonio de Curtis-Totò. È una Napoli sofferente, che non comprende appieno il perché di tanta sofferenza e sembra che neanche l’al di là (con tutti i suoi illustri abitanti) lo comprenda appieno. Una Napoli che tiene quasi in scacco le regole del Paradiso, mettendo “in difficoltà” il Padre Eterno. Una Napoli che nelle “filastrocche” di Enzo Moscato e di Mimmo Borrelli (tourbillon di immagini della città, dei suoi drammi e delle sue gioie)  stordisce chi la osserva, ma tramortisce anche chi la vive, la conosce e, con rabbia dolente, la ama. E lo stesso dialetto napoletano si dispiega in una varietà veramente apprezzabile. È la lingua ironica e sorniona di Di Giacomo, la melanconica di de Filippo, ma è anche quella acre, violenta, spesso turpe, di Moscato, Borrelli, Sovente; è la lingua sognante di De Giovanni e quella sagace di Totò. Per ogni lingua, per ogni autore, Toni Servillo cambia registro interpretativo, pone l’accento su un aspetto, su un vizio sociale, su un dramma personale, senza cadere nello scontato, nel macchiettistico, nel déjà vu.

Napoli sembra contenere mille tranelli per chi la voglia veramente comprendere e ogni autore, consapevole di questo, offre “una” chiave di lettura, non “la” chiave. E così l’interprete, da grande attore qual è, presenta Napoli nelle sue diverse sfaccettature, perché in essa convivono, interagiscono e si compenetrano forze diverse, spesso antagoniste e contraddittorie. Uno spettacolo che si presenta come la classica serata di teatro da leggio – oggi particolarmente diffusa anche per la crisi economica – e che invece ha fatto sfilare sul palcoscenico spoglio, dalla scenografia essenziale (per non dire totalmente assente) una rassegna di autori, personaggi, mondi diversi, unificati nella figura, teatralmente parlando, carismatica di Toni Servillo.

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A "Le vie dei Festival" le mille Napoli di Servillo

MARIA PIA MONTEDURO | Non una Napoli oleografica e scontata, non una cartolina “sole-mare-pizza-mandolini”, non un omaggio fine a se stesso alla città di Partenope, non un’invettiva veemente contro la camorra. È un’altra la Napoli che Toni Servillo racconta, leggendo, ma sarebbe più esatto dire interpretando, le parole di scrittori napoletani, accomunati principalmente dal fatto di essere uomini di teatro o molto vicini al teatro. Salvatore Di Giacomo (Lassamme fa’ Dio), Eduardo de Filippo (Vincenzo De Pretore, Nfunno), Ferdinando Russo (A Madonna d’e’ mandarine, E’ sfogliatelle), Raffaele Viviani (Fravecature, Primitivamente), Mimmo Borrelli (A sciaveca, Papule), Enzo Moscato (Litoranea), Maurizio De Giovanni (O’ vecchio sott ‘o ponte), Giuseppe Montesano (Sogno Napoletano), Michele Sovente (Cose sta lengua sperduta), Antonio De Curtis (‘A livella), Alfonso Mangione (autore delle parole della canzone ‘A casciaforte): quindi tradizione indiscussa, fama consolidata, ma anche nuovi nomi emergenti che non sfigurano accanto a mostri sacri. Questi gli ospiti che Servillo chiama a testimoniare e a illustrare una Napoli dove Paradiso, Purgatorio e Inferno coabitano e coesistono, dove il sacro va a braccetto con il profano e dove, anzi, il profano ha tante cose da insegnare al sacro. Una Napoli terragna, ctonia, ancestrale, puteolana e flegrea, come la definisce lo stesso attore-regista, in un Teatro Vascello di Roma affollato all’inverosimile per lo spettacolo che ha aperto la XX edizione de Le vie dei Festival.

Ci si può chiedere il perché di questo “tutto esaurito” in ogni ordine e grado: la fama meritatissima dell’interprete, l’interesse che il teatro napoletano ha sempre suscitato e continua a suscitare a Roma (e non solo), la serata “libera” da altri impegni teatrali (tradizionalmente il lunedì è giorno di riposo per le sale teatrali), l’apertura di una rassegna apprezzata sempre di più da critica e pubblico? Sta di fatto che la serata è risultata interessantissima, e non solo per aver ascoltato la gamma di interpretazioni vocali, facciali, mimiche con cui Servillo ha dato spessore alla lettura dei brani – e già questo sarebbe motivo soverchio di soddisfazione; ma perché ne è uscita appunto un’immagine non necessariamente prevedibile di Napoli, pur nella lettura di brani celeberrimi, quali ad esempio “A livella” di Antonio de Curtis-Totò. È una Napoli sofferente, che non comprende appieno il perché di tanta sofferenza e sembra che neanche l’al di là (con tutti i suoi illustri abitanti) lo comprenda appieno. Una Napoli che tiene quasi in scacco le regole del Paradiso, mettendo “in difficoltà” il Padre Eterno. Una Napoli che nelle “filastrocche” di Enzo Moscato e di Mimmo Borrelli (tourbillon di immagini della città, dei suoi drammi e delle sue gioie)  stordisce chi la osserva, ma tramortisce anche chi la vive, la conosce e, con rabbia dolente, la ama. E lo stesso dialetto napoletano si dispiega in una varietà veramente apprezzabile. È la lingua ironica e sorniona di Di Giacomo, la melanconica di de Filippo, ma è anche quella acre, violenta, spesso turpe, di Moscato, Borrelli, Sovente; è la lingua sognante di De Giovanni e quella sagace di Totò. Per ogni lingua, per ogni autore, Toni Servillo cambia registro interpretativo, pone l’accento su un aspetto, su un vizio sociale, su un dramma personale, senza cadere nello scontato, nel macchiettistico, nel déjà vu.

Napoli sembra contenere mille tranelli per chi la voglia veramente comprendere e ogni autore, consapevole di questo, offre “una” chiave di lettura, non “la” chiave. E così l’interprete, da grande attore qual è, presenta Napoli nelle sue diverse sfaccettature, perché in essa convivono, interagiscono e si compenetrano forze diverse, spesso antagoniste e contraddittorie. Uno spettacolo che si presenta come la classica serata di teatro da leggio – oggi particolarmente diffusa anche per la crisi economica – e che invece ha fatto sfilare sul palcoscenico spoglio, dalla scenografia essenziale (per non dire totalmente assente) una rassegna di autori, personaggi, mondi diversi, unificati nella figura, teatralmente parlando, carismatica di Toni Servillo.

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Ranuncoli #4 – Hamburger culturale e un bamby rotto in cucina

elettrodomestici cucinaCOSIMA PAGANINI | La cultura è morta. Chi di voi non ha assistito ad almeno un funerale della cultura con noninvitati muniti di catafalchi  e  invitati che biasimano la mancanza di buon gusto dei necrofori, mentre altri invitati ne attribuiscono la colpa a quella pulsione di morte che funesta la civiltà da più di un secolo? Ma tant’è,  parafrasando la moda die Leiche ist das neue Schwarz (il tedesco funziona sempre se ci si deve mostrare colti). Un cadavere sta bene con tutto e poi lo puoi mettere nell’armadio se non ti serve più. Per ora, sarà  che si avvicina il giorno dei morti, si usa moltissimo. C’è il corpo del dittatore che svanisce davanti a 300 spettatori (e 300 la sera prima) ignari, chi di musica, chi di teatro, chi di tutto, e questi ultimi sono i migliori «‘ché sono riusciti a vedere lo spettacolo come un’opera totale senza sapere nemmeno chi era Wagner».  E c’è stato Wilson in quella fantomatica unica rappresentazione per pochi che ricordava un po’ il Corvo (il film), senza nessun effetto sorpresa, in quanto di vita il maestro non ne ha mai mostrata troppa; e poi la cantante italiana sorella dell’altra cantante italiana che si era sposata col dio del tennis, revenant per opera di uno scrittore italiano già apprezzato, chissà perché, in un’esibizione, che, ora possiamo definire in memoria, di un altro cantante famoso famosissimo. Americano come quella poetessa santificata che non potrà mai morire per volontà delle legioni di anoressiche, sorelle ideali dello scrittore-russo-nichilista-esteta che muore oscenamente in scena invece che spararsi in ‘osceno’. E c’è la famosa attrice morta forsesuicida forseuccisa che si è esibita in una festa privata (ma anche un po’ pubblica) nelle carni di una performer che non si capisce se canta male di suo o per fedeltà alla defunta (che in fondo così male non cantava).

cameriereAlla festa c’era comunque di peggio: camerieri che ti dicevano che il vino era finito e ti veniva in mente quel genere di feste di quand’eri bambino quando la fanta finiva subito a meno che non eri il figlio del notaio; e ancora, venditrici di bamby e gnometti che a Milano fanno una vita grama e ti attaccano un bottone per dirti che in provincia il bamby e lo gnometto ce l’hanno tutti perché lo regalano quando ti sposi, o ai figli universitari fuori sede, e chi ce l’ha lo fa vedere, mentre quei pochi che sono riuscite a piazzare in città giacciono nascosti nei ripostigli… E tu rispondi: bamby? È mainstream. Meglio kiiwood, il concorrente giappo-tedesco che costa anche 200 euro  in meno e che bamby proprio no, meglio addirittura un qualsiasi superfrullatore da centro commerciale del sabato pomeriggio (una così ci passa tutto il pomeriggio del sabato nei centri commerciali). Costa 10 volte meno e non fa provincia, e mica siamo casalinghe disperate che dobbiamo avere elettrodomestici che funzionano. Ma se tu piazzi bamby come mai sei a questa festa? E ti risponde: ma perché a volte vendo anche kiiwood… nella scatola dei bamby. E allora ti spiega che il problema è la scatola, che queste sciattone con le scarpe dal nome tedesco usano tutte delle belle scatole. E tu allora: bello? Ma Muccia docet: «La bruttezza è attraente ed eccitante. La ricerca della bruttezza, per me, è molto più interessante dell’idea borghese della bellezza».  Mentre dici questo ti guardi intorno e vedi che davvero di bellezza in giro non ce n’è troppa e le muccie sono ovunque.

E poi si è fatto tardi e mentre te ne torni a casa nella car-zucca ti domandi: come faremo senza la cultura (o meglio il suo cadavere) quando tra qualche giorno, passata la festa, dovremo rimetterla nell’armadio?

Quasi certamente non se ne accorgerà nessuno perché nel frattempo la scatola Qualità ha già sostituito il corpo morto Cultura. Sono diventati sinonimi come ai tempi di kultur e civilisation (che non è civilization di Sid Meier) e usiamo la parola Qualità quando ci vergogniamo troppo di nominare la Cultura, e un brivido ti percorre mentre un branco di ragazze col mal di luna e ragazzi lupo ci attraversano la strada e ti ricordano quando halloween non esisteva, ma è solo un brivido, pensando a domani.

I riferimenti stavolta trovateli voi, se volete.

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Ibsen-von Mayenburg-Ostermeier, terzetto d’eccezione

xxBRUNA MONACO | Che dire di uno spettacolo che dal 2005 a oggi non ha interrotto la tournée e ha ricevuto critiche d’encomio e ovazioni? Che dire di un regista che a quarantacinque anni ha firmato più di trenta regie, tutte pièces apprezzatissime, sei delle quali ancora vanno di teatro in teatro a raccogliere consensi? Il successo dell’Hedda Gabler vista al Teatro Argentina all’interno del Romaeuropa Festival è di per sé un commento eloquente a questo spettacolo che Thomas Ostermeier ha messo su in modo impeccabile. Come spesso accade agli spettacoli destinati a lasciare il segno, anche Hedda Gabler parte in sordina, a dispetto dell’imponente e glaciale scenografia. Su una piattaforma girevole circolare un’ampia vetrata dalle lastre scorrevoli divide due ambienti: il soggiorno col suo design moderno, una veranda. Il soffitto di specchi ci fa tenere d’occhio ciò che accade dentro e fuori dalla scena.

Sulle prime, il pubblico vive lo stesso disagio dei personaggi che si muovono nella nuova casa, algida, senza riuscire a riempirla; e lo proietta sulla scenografia inglobante che prende tanto spazio, troppo, nella loro attenzione. Ma presto l’interesse degli spettatori sarà tutto per l’azione, inizia a spiegarsi la vicenda sorretta dalla bravura degli attori. La regia è pulita, lucida. Ostermeier ha saputo leggere con perspicacia il dramma scritto da Ibsen oltre un secolo fa, traducendo in gesti, sguardi e respiri le sfumature e i non-detto del testo. La recitazione naturalistica è ornata accenti parodici che per contrasto rendono ancora più credibili i dialoghi e le situazioni.

Per l’operazione di rilettura del testo, Ostermeier si è lasciato aiutare da un drammaturgo di professione: Marius von Mayenburg suo storico collaboratore. Non si può parlare di adattamento in senso stretto, piuttosto di “aggiornamento”: il testo di Ibsen è riportato quasi integralmente dagli attori. Ma trattandosi di una Hedda contemporanea, von Mayenburg lo ha emendato degli elementi che lo legavano al contesto storico-culturale di fine ‘800. Mancano i riferimenti al differente status sociale degli sposi, mancano le cameriere, il pianoforte. Il passato di Hedda e le sue relazioni sono affrontati come un dato non problematico, senza particolari spiegazioni.

La trama è nota: l’unica cosa che riesca bene alla bellissima figlia del generale Gabler, Hedda, è annoiarsi a morte. Così, si stanca prestissimo del novello sposo, il promettente studioso Jörgen Tesman. La ricomparsa dello scrittore Eylert Lövborg, un suo amore giovanile, aumenta la sua irrequietudine, a cui si aggiunge l’invidia: Eylert da scapestrato che era, è diventato un uomo savio grazie a Thea, ex compagna di collegio di Hedda. Ma Eylert perde il manoscritto di un’opera geniale scritta proprio con l’aiuto di Thea. E purtroppo lo trova Hedda che per noia o per vendetta, lo distrugge. A Eylert, disperato per la perdita non dice nulla, anzi gli offre la sua pistola per compiere una “bella azione”, per regolare il “conto con se stesso”. Eylert però non si suicida, un colpo parte accidentalmente in casa di una prostituta e lo uccide. L’amico di famiglia e corteggiatore di Hedda, Brack, riconosce la pistola della donna e la ricatta. Forse per non subire il ricatto di Brack, forse definitivamente vinta dalla noia, Hedda si spara.

Tutto ciò è fedelmente rispettato da von Mayenburg e Ostermeier. Quello sul testo è stato un lavoro di finissima limatura che ha ben atteso l’obiettivo: fare un testo verosimile oggi quanto nel 1890.

C’è una sola vera deroga al rispetto del testo, nel finale. E con questa Ostermeier getta una luce diversa, del tutto autoriale, sul percorso scenico del personaggio di Hedda: dopo il suo colpo di pistola, nessuno “si precipita nel salottino” a vedere cosa le sia accaduto, come recita invece la didascalia di Ibsen. Tesman, Thea e Barack restano indifferenti. Intenti nelle loro attività recitano con tono disincantato, con una smorfia di sarcasmo, le battute che Ibsen aveva previsto fossero dette “gridando” da uno, “semisvenuto” dall’altro. La donna che, nel bene e nel male, era stata il polo d’attrazione della scena fin dall’inizio, nell’ansia di esercitare il proprio potere su qualcuno, ha piano piano svelato il proprio carattere, perdendo così l’ambiguità su cui si fondava la sua seduzione. In assenza di un contesto sociale che la schiaccia in quanto donna, e che quindi, in qualche modo la protegge, fungendo da alibi ai suoi comportamenti, l’Hedda contemporanea si mostra alla fine, solo vacua, e priva di interesse agli occhi dei suoi coprotagonisti, mossi tutti, invece, da una qualche passione.

Se qualcuno ha creduto di vedere nel gesto folle di Hedda (bruciare il manoscritto prima, indurre Eylert al suicidio poi) i prodromi dell’“atto gratuito” che vent’anni dopo André Gide avrebbe teorizzato e fatto compiere a Lafcadio ne I sotterranei del Vaticano, beh, quella è forse la Hedda di Ibsen, sicuramente non quella di von Mayenburg e Ostermeier.

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Emily: la reincarnazione. La Dickinson, fra il verso e l’icona

Dickinson_Elena Russo Arman
foto fabio mantegna

RENZO FRANCABANDERA | Un tavolo-scrivania, una scala che va verso il soffitto, due casette di tulle trasparenti ai lati del palco; e una cascata di lampadine pronte a diventare fioche stelle nella notte americana. Poco più.
Siamo nell’universo di auto reclusione della poetessa, quella casa-mondo, la stanza di color bianco purezza in cui la giovane, figlia di un notabile della provincia americana, trascorse, di fatto, tutta la sua esistenza. Vita e morte collassano in un’ora di spettacolo e attraverso i versi e frammenti dell’epistolario della Dickinson (di cui è possibile trovare tutto a questo link) rivivono, fra ansie, angosce, tormenti uterini e memorie infantili, con suggestioni che vanno da Carroll al codice iconico post punk.
Colorando di fantasie vivissime tutto quello che la circondava, la Dickinson un secolo e mezzo fa mise in versi di grandissima modernità l’ingenuità di una presenza semplice, di uno sguardo tanto fragile da sentire un piacere di potenza mortale nel ronzio di un moscone nella sua stanza. Una parola capace, nella rilettura enfatizzata, deframmentata, carica fino alla sovraesposizione della Russo Arman, di diventare materia contemporanea.

In quale humus nasce La mia vita era un fucile carico (being Emily Dickinson)?
Fra i fermenti culturali più interessanti e contaminanti di questi ultimi cinque anni a Milano non può tacersi la serie di incontri che hanno avvicinato le esperienze artistiche di Elena Russo Arman, attrice componente del gruppo dell’Elfo, la musicista polistrumentista Alessandra Novaga, la Fondazione Mudima, la presenza straordinaria del rimpianto Antonio Caronia, pensatore e saggista, fra i massimi esperti di cultura cyborg e post punk, Francesca Marianna Consonni, collaboratrice della MAGA di Gallarate, e il gruppo di appassionati e praticanti di arti sceniche riunito sotto il nome di Phoebe Zeitgeist Teatro.
Questo gruppo di persone, e probabilmente altre ancora che nel tempo si sono avvicinate e incrociate nel percorso di fecondazioni artistiche vicendevoli, sta dando vita ad un corpus di produzione culturale organico, che pur nelle sue diverse aree di approfondimento e sviluppo, trova alimento condiviso nei percorsi differenti.
A questo ambito va, infatti, fatta risalire la collaborazione della Novaga con Phebe Zeitgeist in alcuni spettacoli, la presenza della Russo Arman come interprete della rilettura del regista di Pheobe, Giuseppe Isgrò, dei blues di Tennessee Williams che ha debuttato l’anno passato al Tertulliano di Milano e che sarà in stagione al Teatro dell’Elfo quest’anno, e infine lo spettacolo dedicato dalla Russo Arman alla figura della grande poetessa americana Emily Dickinson, in scena in questi giorni sempre all’Elfo, con la presenza musicale dal vivo e fondante della Novaga, e al suono di Giovanni Isgrò, fratello del regista e componente di Phoebe, esperto di nuove sonorità digitali e fautore di un codice musicale fatto di interiezioni sonore capaci di creare intervalli logici che infatti anche in questo spettacolo in alcuni punti con precisione affiorano.

foto fabio mantegna
foto fabio mantegna

Per certi versi questa della Arman è un’operazione concettualmente affine a quella condotta da Isgrò sui blues di Williams, ma con filtri di altra natura, in cui prevale la sensibilità di genere, che vuole affermarsi in questo caso come caleidoscopio (anche sonoro, oltre che di luci).
Le luci sono a volte fioche a volte piene, abbacinando di bianco i versi, gli elementi in scena: sulla sinistra la postazione musicale della Novaga che suonerà prima la chitarra elettrica e poi, con l’archetto, trarrà dalla stessa suoni davvero straordinari, per poi applicare la trazione del vibrato ad un piatto crash di batteria e chiudere con una pioggia di note che inonderà i pensieri della poetessa. La Russo Arman ruota i suoi equilibri intorno ad una scrivania ed una scala posizionate a destra della scena, indossa il vestito bianco con cui la Dickinson è diventata icona. E dello studio sull’incona-Dickinson è testimonianza non solo la mostra che accoglie gli spettatori all’esterno della sala Fassbinder del teatro dell’Elfo, ma anche tutto il materiale raccolto sul sito http://beingemilydickinson.tumblr.com dove si racconta del viaggio della Russo Arman sui luoghi della vita della amata Emily.

L’allestimento, curato con un’attenzione maniacale degna della poetessa, si segnala e va visto come gesto artistico di continuità rispetto al movimento di cui si faceva cenno, come originale lettura della persona e dei personaggi che albergarono in Dickinson, della sua femminilità e del suo universo. Seppur cerebrale e un po’ denso in alcuni momenti (meglio meno), in altri l’operazione riesce a portare davvero la poesia in scena. E chi segue il teatro sa come i due codici siano davvero difficili da far coesistere senza che uno tragicamente soccomba.
Qui non succede, e dunque vale la pena vederlo, entrarci dentro, perdercisi anche a volte, fra parole e suoni che di tanto in tanto si confondono non lasciandosi spazio (volutamente?), si perdono, abbandonando il fruitore nella sdrucciolevole e scomoda condizione di dover esistere.

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Il libro di Giobbe e Vita di Galileo: la fame di Dio di E. Nekrosius

teatro olimpico 16-09-13NICOLA ARRIGONI | «L’intero valore del teatro è che tutto quello che è stato creato scompare immediatamente. Come accade per la nebbia cresce, cresce e poi improvvisamente svanisce. Questo è il valore del teatro: la raccolta e poi l’improvviso svanire», così Eimuntas Nekrosius definisce il teatro e ovviamente il suo modo di fare teatro in cui tutto vive nell’immagine, nell’emozione impalpabile che simboli e racconto, parola e gesto, attore e pubblico vivono in quell’istante. Ma questo si può dire del teatro in genere, ma in Nekrosius assume quasi un valore esegetico, aiuta a vivere il susseguirsi delle situazioni che il regista lituano racconta, mette insieme i tasselli di una felice creatività visionaria che cresce pian piano come la nebbia svanisce, ma poi è destinata a risorgere, germogliare come racconto che persiste nell’anima e negli occhi dello spettatore. In questo senso Il libro di Giobbe da un lato e la Vita di Galileo di Brecht dall’altro – entrambi gli spettacoli andati in scena all’Olimpico di Vicenza – raccontano di un’estetica, raccontano di una persistenza del maestro lituano nell’interrogare l’uomo, nell’indagare il suo rapporto con Dio, il suo spazio nel creato, demiurgo e fragile omuncolo al tempo stesso.

C’è una coerenza interna al teatro di Eimuntas Nekrosius che offre a chi lo frequenta con appassionata ostinazione e continuità di legare uno spettacolo all’altro, di trovare in ogni nuovo allestimento delle invarianti che sono il rafforzamento di un segno estetico e al tempo stesso il proseguimento di un pensiero/dialogo che il regista mette in atto col suo magistero teatrale. Questo accade nella Vita di Galileo di Brecht in cui l’interrogarsi sul mondo, sulle regole che lo governano, sulla possibilità che queste regole possano preannunciare lo sfratto di Dio sono un tutt’uno. Allora anche il workshop tenuto dal regista lituano a Vicenza in qualità di direttore artistico e artista residente del Ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico e dedicato a giovani attori in formazione è un’occasione per proseguire la ricerca sul rapporto col sacro, sul ruolo dell’uomo come elemento dell’universo, iniziato col Cantico dei Cantici, proseguito con la messinscena della Divina Commedia e ovviamente con l’elegiaco Libro di Giobbe, visto sempre all’Olimpico di Vicenza. C’è un chiedere senso, c’è un voler andare al cuore del creato con l’analisi, meglio col simbolo che tutto contiene e non tutto svela, che è sintesi e al tempo dilatazione del senso, immersione nel sema per coltivare la curiosità dell’uomo.

giobbe nekrosiusQuesta esigenza si ravvede in primis nella storia di Giobbe, nel suo interrogare Dio e chiedere il perché di tanto dolore. Giobbe che piega, ripone in un cassetto, poi riprende e reindossa la sua giacca e lo fa con pazienza e ostinazione, la stessa determinazione che non l’ha indotto a maledire il suo Dio anche di fronte alla perdita delle sue ricchezze, dei figli e della salute del suo corpo, la stessa determinazione con cui vorrebbe che Dio gli spiegasse perché tanto dolore. E’ l’immagine che commuove: Dio ridà a Giobbe i suoi averi, una mela divisa in due da cui poi attinge la nuova progenie del saggio timorato di Dio e coloro che sempre hanno avuto in Giobbe un punto di riferimento. Così come accadde nel Cantico dei Cantici, così come è accaduto ne Il Paradiso di Dante, ma in fondo come capita sempre con Nekrosius, il racconto in scena è pensiero, è gesto che tutto comprende, è recitazione viva, pulsante, è danza dello spirito, è parola incarnata, è l’incontenibile che c’è nel simbolo, nei grandi simboli che più che dire suggeriscono. Nel Libro di Giobbe Eimuntas Nekrosius parte alla grande con Dio che potente racconta la storia di Giobbe e subito si ha l’impressione che la parola detta, il suo ripetersi possa equivalere ad una sorta di canto accompagnato da musiche variate di poco che dicono dell’interrogarsi sul dolore e sul senso della sofferenza di fronte ad un Dio inconoscibile e iroso, come è quello dell’Antico Testamento. Pochi elementi scenici: alcuni scranni, una scrivania che rappresenta forse il banco degli imputati, il tribunale che giudicherà Giobbe, un corsetto di lampadine che scottano come le piaghe sul corpo del vecchio Giobbe, ma che sono anche sigaretta, simbolo di pensiero.

E se Giobbe interroga Dio e chiede il perché di tanto dolore, il Galileo di Brecht/Nekrosius è ben piantato a terra, quasi ‘crocifisso’ – uomo vitruviano – su una materasso che fa da giaciglio e da casa, inchiodato a terra ma con lo sguardo volto alle stelle, con il de-siderio di conoscere come si muove il mondo; immerso nel quotidiano del vivere eppure proiettato nel tempo/spazio del cosmo infinito. E’ uomo a confronto con il voler esperire, è lo sguardo gettato nel cannocchiale moltiplicato come volo fra gli allievi che dovrebbero servire al sostentamento di Galileo, ma che egli rifiuta per non togliere tempo alla sua ricerca. Nekrosius racconta il suo Galileo con pochi e intesi segni che si ripetono e si ricorrono, che sono gesti coreografici di danza, di abbracci e lotte, di lenzuola che assomigliano alle oche che un visitatore di passaggio offre allo scienziato prigioniero e ormai quasi cieco. Oche che sono carne da mangiare, ma anche il procedere con un’unica prospettiva dell’uomo che si accontenta dei canoni culturali in cui vive e non va oltre, non rompe le righe. E allora basta un ombrello aperto con un cima una croce di stagnola per simboleggiare la chiesa, un’immagine semplice e tanto maestosa che rende piccolo piccolo quell’uomo che sfida la visione culturale e teologica dell’universo per aprire l’universo allo sguardo analitico della scienza, ma alla fine abiura proprio perché uomo del quotidiano, abiura per non finire come Giordano Bruno, abiura per la paura che lo statu quo mette in atto per mantenersi potente.

Il libro di Giobbe messo in scena dalla compagnia di Nekrosius e Vita di Galileo frutto del workshop tenuto dal regista lituano in quel di Vicenza al termine del suo incarico di direttore artistico del Ciclo di Spettacoli Classici dell’Olimpico di Vicenza hanno peso specifico diverso, il primo si avvale di una potenza attoriale assoluta che ha finito col rendere intime, suggerite le grandi invenzioni gestuali e visive del regista, l’altro con un gruppo di attori necessariamente acerbi ha fatto crescere in potenza le immagini sceniche per dare corpo, spessore ad un gruppo di attori che bisognava sostenere con la poesia della regia, laddove nel lavoro di Giobbe gli attori erano parte integrante della poetica di Eimuntas Nekrosius, erano semplicemente lo strumento di una riflessione teatrale condivisa, portata avanti in stretta simbiosi col regista/maestro. Ma ciò che arriva dal teatro del demoniaco lituano è un senso di speranza e laica fiducia nel mondo o come ha detto il regista commentando la scena finale del suo Giobbe in cui l’umanità si ciba della mela divisa in due da Giobbe, donatagli dal Dio di cui i progetti sono inconoscibili: «una speranza vitale e umana. Avidità di mangiare, inghiottiendo la vita, forse afferma che nessuno da nessuna parte sparisce all’improvviso senza una ragione, niente passa senza un significato. Ogni cosa in questa vita ha un significato».

Il libro di Giobbe, regia di Eimuntas Nekrosius, scene: Marius Nekrošius, costumi: Nadežda Gultiajeva, musiche originali: Leon Somov, luci: Audrius Jankauskas, assistente alla regia: Tauras Čižas, suono: Arvydas Dūkšta, oggetti di scena: Genadij Virkovskij, assistente ai costumi: Lina Akstinaitė, con Remigijus Vilkaitis (Giobbe), Salvijus Trepulis, Vaidas Vilius, Darius Petrovskis, Vygandas Vadeiša, Marija Petravičiūtė, Beata Tiškevič, Teatro Olimpico di Vicenza, Vicenza, 19 settembre 2013, prima mondiale.

Vita di Galileo di Bertolt Brecht, esito del workshop a cura di Eimuntas Nekrosius, assistente alla regia e music designer Tauras Cizas, costumi di Carolina Cubria, con la partecipazione di Alessandro Lombardo e con gli attori selezionati per il workshop: Anna Bellato, Chiara Catalano, Sara Borghi, Federica Castellini, Emilia Verginelli, Valerio Mazzucato, Emanuele Piovene Porto Godi, Pinheiro Amandio, Luca Damiani, Vittorio Vaccaro, Luigi Maria Rausa, Lorenzo Marangoni, Francesco Aiello, Giuseppe Gandini, al teatro Olimpico di Vicenza, 4 ottobre 2013, prima nazionale.

Se anche sala e critica sono «Poveracce»

poverine

VINCENZO SARDELLI | Io di Poveracce non volevo parlarne. Non tanto perché questo spettacolo (soggetto di Scotti e Coletti, con Gianna Coletti, Beatrice Schiros e Vanessa Korn) è malriuscito. Neppure perché muovere rilievi decisi mi turba. Dante diceva che «perder tempo a chi più sa più spiace». Io sapiente non sono. Ma ci tengo a non precipitare.

Intendiamoci. Le poveracce non è un obbrobrio. Ho visto di peggio. E si sa che il pubblico, quando sceglie, un po’ guarda il portafogli, un po’ le presentazioni sui media. Se annusa che c’è da ridere rompe gli indugi. Tanto più se a teatro ci va con groupon. Della serie: «io a teatro voglio rilassarmi dopo una giornata di lavoro. Sennò m’addormento». Una volta ho visto gente che si sbellicava mentre Otello strangolava Desdemona. Aveva pagato per ridere.

La folla a teatro ci va per i volti noti. Megapubblico davanti ai comici di Zelig. Una volta mi sono avventurato anch’io al Nuovo per la La dodicesima notte. Con Paolantoni. Pienone. Una noia. La gente rideva. Sono uscito a metà spettacolo.

La folla va assecondata. Vent’anni fa me lo confidò il direttore del San Babila. Quello che proponeva non era teatro. Ma la gente vuol ridere. E allora giù con Feydeau. E con Salemme. Qualche anno dopo ne riparlai con Syxty. Dirigeva da poco il Litta. Gli chiesi perché non facesse più gli spettacoli belli dell’Out Off. Rispose ironico: «devo pur mangiare».

Il cattivo gusto impera. Colpa della famiglia o della scuola? Della tv o dei politici che dicono che «con la cultura non si mangia»? Corrado Accordino, direttore del Binario 7 di Monza, ha smesso di rodersi il fegato: «le scelte del pubblico sono incomprensibili». Per César Brie «chi è troppo bravo, fa paura nel deserto del teatro italiano».

Anche al cinema abbiamo sdoganato Giovannona Coscialunga, L’esorciccio e La polizia s’incazza. Boldi e De Sica (figlio) sono maître à penser, Habemus papam un filmone.

Io di Poveracce non volevo parlarne. Ma come si fa a tacere quando anche certa critica riesce a dire che è uno spettacolo «espressionistico», «un prezioso momento di autoanalisi collettiva», da cui sia gli attori sia il pubblico «traggono enorme giovamento»? E poi la prova delle attrici: la Korn che «cresce a vista d’occhio», la Schiros il cui talento «straripa, esonda in maniera incontenibile», la Coletti che svetta al punto che «senza paura di esagerare» si può osare «un parallelo con Franca Valeri».

Minchia… E intanto sold out, applausi, bene-brave-bis. Possibile?

Poveracce. Perché i personaggi sono inconsistenti, ripetitivi. Macchiette a partire dal nome: Fortunata Speranza patita di gioco d’azzardo; l’Avvocato delle Pene malata di “pene” (femminile plurale) d’amore; Zocco Lara malata della stessa roba di prima (stavolta maschile singolare). Tre monologhi che non fanno una storia. Che non superano i venti minuti ciascuno. Perché, gira e rigira, non hanno niente da dire. E allora che t’inventano? Appiccicano i monologhi con la saliva, li montano in sequenza alternata e arrivano al minimo sindacale di un’ora di spettacolo. Nessun intreccio, nessun epilogo. Regia zero, luci da oratorio, pubblico che ride, critica (una parte) che plaude.

Poveracce. Perché loro a recitare sono brave. Ed è vero che la Korn sta migliorando. E la Schiros se la cava sempre. E la Coletti, buttala via. Ma il teatro «è tutto un complesso di cose».

Poveracce quelle persone che fanno critica e si chiedono solo se l’attore entra nel personaggio con una buona gestualità. Perché la critica è anch’essa «tutto un complesso di cose».

Forse ha ragione Corrado d’Elia quando dice che la critica sta morendo. Perché se ci fermiamo alla didascalia, agli ammiccamenti, al «mi piace» (come stigmatizza Serena Sinigaglia) non siamo solo morti: puzziamo di cadavere. E di piaggeria. Capito l’eufemismo?

Mondocane#21 – Sad Sad Song

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Lour Reed segnato da Renzo Francabandera

MARAT | Pornografia. Giornalistica. Un uomo perde moglie e due figli in un incidente stradale. Me lo racconta il servizio di un tg. Che chiude dicendo che sto poveraccio non potrà più prendere il piccolo sulle sue ginocchia. E chiamarlo col nomignolo con cui l’ha sempre chiamato. Ecco, collega (per così dire). Io se ti avessi di fronte ti prenderei a ciaffoni, come un Mascetti incazzato. Perché tu mi devasti il paese. Facendo leva sulle emozioni più basse: la commozione, la paura, l’euforia, il senso di appartenenza. Fai pornografia. Giornalistica. Sperando di cogliermi con le difese basse. O senza strumenti. Quanto siamo oggetti e non più soggettivi attivi nella comunicazione? Finisco a leggere l’Irish News. Si racconta di una ragazzina tolta alla famiglia rom per dei controlli sul dna, dopo il caso saltato fuori in Grecia. Mi sorprende (tanto) la forma. L’origine straniera della famiglia è citata solo all’interno del pezzo. Il titolo si può riferire tranquillamente a una famiglia nata e cresciuta a Dublino, in Temple Bar. E il fatto specifico che siano rom non è menzionato. Ma noi a furia di leggere quotidianamente pornografia, abbiamo da tempo abbassato la guardia. E quando si abbassa la guardia si diventa fragili. Molto. Come George Foreman nel 1974 di fronte a Muhammad Ali. A Kinshasa, in Zaire. Con lui a menare come un fabbro per otto riprese, senza capirci niente. E poi crollare a terra stremato, nel momento decisivo. Incapace perfino di alzare i guantoni. Ci hanno sfiancato. E ora siamo alla mercé di chi è in grado di toccare le nostre corde. Con una risata, uno slogan, una lacrima, una speranza. Con la retorica di un intervento alla Leopolda. O portando sul palcoscenico un ragazzino down a far le mossette. Già, il teatro. Maestro di pupi quando si parla d’emozioni. Ma quanta responsabilità ci vuole nel maneggiare i sentimenti altrui? Confine labile. Eppure… Eppure me ne accorgo. Mi accorgo quando vuoi solo il mio applauso, con quella mentalità da bottegaio. O quando invece stai davvero condividendo qualcosa con me. Senza malizia, senza astuzie. Mi succede mentre ascolto Berlin di Lou Reed. Mille volte più una. E improvvisamente mi emoziono osservando che con me c’è chi lo sta ascoltando per la prima volta. Sorride e (non) capisce. Ci sono cuore e talento, nient’altro. Le uniche cose che cerchiamo, no? E allora noi Lou, lo rimettiamo di nuovo tutto da capo. Così, giusto per salutare.

La luce in fondo agli occhi di Gianfranco Berardi

tiresia

VINCENZO SARDELLI | Che cosa vedi, Gianfranco Berardi? Che cosa vedi sul palcoscenico mentre in mutande intoni un allucinante rap su un cubo, o quando, sferzante, cinico, scendi in platea e arringhi gli spettatori? E li inviti a deriderti, a intonare in coro «cieco di merda»?

Sei irriverente. Sei impudico. Sfidi il primo che ti capita. E magari la poltrona davanti a te è vuota. Affronti il rischio di parlare al vuoto. Male che vada ne esce una gag più esilarante.

Li vedi i nostri occhi spaesati? Che magari qualcuno del pubblico neppure ti conosce. Viene a teatro alla cieca. Anche lui. E se davvero non ti guarda negli occhi neppure si accorge che non ci vedi, tanto ti muovi bene, reciti bene. E danzi, salti, volteggi. Con quel tuo fisico sottile che si rimodella ogni giorno nell’arte.

Ci sei o ci fai? C’è più sentimento o risentimento quando ci rinfacci i nostri sciocchi eufemismi, “non vedente”, “disabile”, “diversamente abile”? C’è discrimine tra vita e arte? Che cos’è la finzione?

Metti subito le cose in chiaro. Con una ramazza spazzi via il pietismo, ogni residuo d’afflizione. È un rito liberatorio. Ci disorienti. Ci sbatti in faccia la nostra ipocrisia, il buonismo patetico. Ci insegni che si vede attraverso l’anima, piccolo principe del teatro. E puoi imprecare contro Dio. E maledirlo pure. Dio che ti ha dato una vista più aguzza. Quella che mostri in questo spettacolo con Gabriella Casolari, e siete una bella coppia.

E può darsi che In fondo gli occhi, che abbiamo visto al Cooperativa, non sia un capolavoro memorabile. Che la regia sobria di quell’altro zingaro del teatro che è César Brie serva soprattutto a contenere la tua esuberanza, la tua vitalità. Che la scena minimalista serva a non distogliere l’attenzione da voi. Tu che prendi il nome di un Tiresia in maglia azzurra col numero dieci. Quello dei fuoriclasse. Anche il nome è quello di un fuoriclasse, un asso della cecità, un veggente omerico. I Greci sapevano che i ciechi ci vedono meglio, da fare tutt’uno di passato, presente e futuro. E anche Gino Paoli quando intona Il cielo in una stanza gli occhi li deve chiudere, sennò la poesia che c’ha dentro la perde di vista. Qua Gabriella è la barista Italia, donna delusa abbandonata dal suo uomo, e tu, Tiresia, sei il suo socio e amante. Raccontate la vostra storia, i sogni mancati, debolezze e speranze in un bar che è metafora di un paese dove non è rimasto più niente. La tua cecità è filtro per analizzare l’oggi; per scudisciare un paese rabbioso e smarrito, che brancola verso una via d’uscita improbabile. Lasciano il segno anche dentro di noi le staffilate di Gabriella che percuote la tua schiena con quell’asciugamani, e ci mette dentro la sua energia femminile. L’energia del vostro sentimento, anche senza i segni della nostra quotidianità: salutare la persona amata da lontano, finché non diventa un puntino; riconoscerne gli occhi, tra mille altri, nella folla.

Uno spettacolo spiazzante all’inizio, crudo, un pugno in un occhio. Poetico e ironico nel suo dipanarsi, con qualche vena di realismo magico che si tiene alla larga da derive melense. Pochi elementi scenici, niente effetti speciali, tanto movimento, mai a vuoto.

Su quel palcoscenico scudisciate noi, la nostra malattia sociale. La nostra retorica. La nostra a rinuncia a sogni e prospettive. La nostra superficialità quando cediamo al vittimismo e ci rassegniamo alla crisi, incapaci di metterci in gioco. E ci insegnate a guardare con gli occhi dell’anima, di là del vociare confuso della folla, del frastuono di chi apre la bocca senza emettere suoni, e ascolta senza udire. Ci lasciate la vostra vista dolcemente rabbrividente, che vìola le pareti della notte e scalfisce i muri della nostra stupidità.

Trailer dello spettacolo

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Il podcast curato dal nostro Andrea Ciommiento
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I dubbi sull’informazione nel web. Ha ancora senso parlare di giornalismo?

Internet Festival 1VALENTINA SOLINAS | Si è conclusa da poco a Pisa la seconda edizione dell’Internet Festival, il cui focus è stato quest’anno sull’editoria digitale; l’obiettivo era portare alla luce altri aspetti dell’informazione online e offrire uno spazio per un confronto sui reali vantaggi e i problemi che stanno caratterizzando il mondo dell’editoria in questo passaggio storico.

Il presidente del Gruppo L’Espresso – Repubblica, Carlo De Benedetti nel suo Keynote Speech  alla Scuola Superiore di San’Anna, ha posto l’attenzione sulla forbice apertasi fra giornalismo tradizionale e informazione digitale, due  realtà che si trovano a coesistere nonostante la prima debba combattere sempre più seriamente contro il cambiamento delle abitudini dei lettori e la prospettiva di un ingresso nel mondo digitale, mentre la seconda è ancora alla ricerca di un ambiente stabile e sicuro che ne tuteli i contenuti e la credibilità.

Tema, quello della difesa dei contenuti digitali, cui è stato dedicato il dibattito “Muore il cartaceo, viva il re digitale? Gli editori europei e la transizione più drammatica”, con tre ospiti del giornalismo digitale europeo: Angela Wade Mills direttrice esecutiva presso l’European Publisher Council, Florian Nehm capo delle realazioni e delle politiche istituzionali di Alex Springer AG, e Nikos Gouraros presidente di Online Publisher Association Europe: hanno discusso della possibilità di trovare norme di protezione che tutelassero i contenuti delle testate online per evitare i furti di proprietà intellettuale che spesso danneggiano l’editoria digitale.

I tre, in piena sintonia, hanno portato esempi a sostegno del giornalismo del web, difendendone il bisogno e i vantaggi nell’era della connessione, tutti concordi sull’inevitabile avanzamento del giornalismo online, e l’urgenza di rendere unici i contenuti di ogni testata, per mantenere inalterato il rispetto della qualità da parte degli utenti.
Il problema ruota intorno alla pubblicità: gli articoli delle testate online vengono spesso rubati e inseriti nei blog e nei siti non autorizzati, con lo scopo di avere pezzi su cui inserire banner pubblicitari, fonti di guadagno per i motori di ricerca. Un esempio è google che gestisce uno dei più importanti circuiti pubblicitari del web. L’immaginario attuale pare essere poco rassicurante, giacché l’unico paese europeo che ha provveduto alla tutela delle testate digitali è la Germania; mentre a Bruxelles, ancora, si sta discutendo per trovare soluzioni a difesa del giornalismo online di tutta Europa.

In un ambiente in evoluzione, poco tutelato e precario, il giornalismo professionale resiste; l’ha confermato Lucia Annunziata, conduttrice della trasmissione di RAItre Mezz’ora e direttrice del Huffington post italiano, ha voluto portare il suo contributo elogiando le potenzialità dell’informazione digitale,  i vantaggi del web nella velocità della comunicazione, e menzionando come abbia tutto questo ri-valorizzato la scrittura: “Internet ha rivalorizzato la parola. Vi rendete conto di quanta intelligenza è necessaria per scrivere un pensiero o un’ultim’ora in 140 caratteri?”

Le parole dell’Annunziata rimandano ancora all’analisi sul presente del giornalismo, un presente dove la vendita e la produzione di Tablet e Iphone è in continuo aumento, e le app hanno incrementato a dismisura l’interesse dei lettori; tanto che parafrasando De Benedetti si potrebbe definire l’ultimo decennio come la miglior stagione del giornalismo.

Il fermento e l’interesse per l’informazione non manca, ma deve tornare la consapevolezza del valore del mestiere da parte del lettore. Il timore è che la notizia scritta si perda attraverso la rete, confondendosi con il dilettantismo, senza distinzione tra le testate online e i siti web privati, lasciando solo il ricordo di una professione, durata oltre 400 anni.