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venerdì, Marzo 29, 2024
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Biologia del racconto: intervista a Spregelburd

13_7_1_spregelburd_1ANDREA CIOMMIENTO | Rafael Spregelburd torna in Italia in occasione di “Spam”, l’opera che ha visto come protagonista l’attore Lorenzo Gleijeses al Napoli Teatro Festival e alle Colline Torinesi 2013, una produzione caratterizzata al debutto da divergenti critiche sulla buona riuscita dell’allestimento (una versione dello stesso lavoro è prevista anche oltreoceano, questa volta con Spregelburd attore al Colón di Buenos Aires in ottobre). Un nuovo passo italiano dell’autore argentino a seguito della conduzione in qualità di maestro dell’École des Maîtres 2012, il progetto itinerante d’alta formazione europea dedicato alla “conversione graduale degli attori in pensatori dell’impreciso”, più complessi di ogni personaggio da portare in scena.

Abbiamo seguito la prima fase dell’École nella sua tappa italiana antecedente al tour europeo. Quali sono state le evoluzioni progettuali?
 Nel lavoro svolto la condizione era quella di poter parlare inglese nonostante le origini di ognuno: gli attori francesi non parlavano inglese, gli attori di origine belga e italiana non sapevano bene le altre lingue e i portoghesi, invece, le parlavano tutte. Un po’ come gli argentini. La sensazione è sempre quella di stare al limite del sistema per integrarsi in esso così apprendendo le lingue delle altre culture. Mi sono chiesto come costruire un racconto e perché costruirlo in inglese, la lingua del grande impero, considerando il fatto che lo spettacolo mai si sarebbe mostrato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, paesi in cui il teatro straniero poco interessa. Lo spettacolo creato insieme agli attori dell’École era una specie di telenovela, una soap opera ai suoi ultimi capitoli in cui gli attori erano disperati perché si erano accorti che non avrebbero più lavorato dal momento che la soap stava per finire. Da qui l’intero sviluppo. Era importante comprendere cosa facessero gli attori di quattro distinti paesi europei con un regista argentino alla ricerca di un senso condiviso.



Uno sviluppo integrato dalle rielaborazioni sulla “teoria del caos”? 
Sì, una ricerca per la costruzione di una narrazione caotica, complessa e autosimilare. Penso questo sulla biologia del racconto: quando un racconto è vivo genera temi biologici che descrivono bene la teoria del caos, al contrario di quando un racconto è morto con la conseguente segnalazione dell’esteriore ovvero l’opinare sulla realtà invece di costruirsi come oggetto reale in scena.

In queste settimane ha debuttato a Napoli e a Torino il tuo nuovo spettacolo “Spam”, una composizione drammaturgica tra musica e teatro…
 È un’opera parlata (Sprechoper). Un contesto musicale non narrativo: un genere che m’interessa molto. Non è l’opera lirica che mi sembra morta nel suo classicismo. Non m’interessa tanto quello ma la relazione tra musica e teatro: c’è un attore e un musicista. L’attore a volte è un personaggio, a volte racconta e fa altri personaggi. Poi ci sono alcuni video, falsi documentari e materiali di spam. Tutta l’’opera è immondizia virtuale, frammenti di realtà quotidiana pop. È un’opera apocalittica, triste e ridicola. Molto divertente. C’è un professore che inizialmente si nega come relatore di tesi a un’alunna. Non si sa il perché all’inizio, soltanto poi lo scopriremo. Nel mondo virtuale possiamo osservare come lo spam sia produzione di cose non necessarie. Vediamo molto chiaramente come la produzione d’immondizia occupi e soffochi la produzione di alimenti, di cultura, di vita, di spazi ecologici più ragionevoli.

Anche in quest’ultimo lavoro affronti la messa in crisi del sistema o quantomeno la percezione che abbiamo della messa in crisi del sistema…
 Questo è il nostro tempo: stiamo vivendo la crisi del sistema bancario. Sembra la crisi di tutti i paesi con una cultura che sta andando a picco perché abbiamo deciso di intitolare questo periodo “crisi”. Un prodotto di mala gestione e di speculazione finanziaria enorme. Quando gli artisti vogliono parlare della crisi e la rappresentano, pensano di denunciarla ma di fatto diventano complici della costituzione della crisi stessa come qualcosa di vero. In realtà è il contrario: serve concentrarsi sulla voce dei giovani che sono nati nel sistema di crisi e in realtà hanno diritto a vivere in un mondo dove percepire le possibilità di un progetto futuro. Nel nostro caso specifico, anche la situazione dei giovani italiani che vogliono fare teatro mi sembra molto difficile. La difficoltà sta nel fatto di riuscire a gestire spazi di produzione teatrale autonomi dal momento che tutto viene già fissato dalla generazione precedente.

È soltanto un fatto di autonomia produttiva o anche d’identità?
 Quando tutto si taglia gli unici che hanno accesso sono quelli che già sono in cima con un’identità forte che riflette e ripete solamente se stessa, generando così un fenomeno teatrale che si distanzia dalla novità e dall’originalità. L’originalità non sembra più essere un tema dell’arte contemporanea in Italia. L’originalità in altri momenti della storia dell’arte è stata sopravvalutata. Per apparire come artista dovevi fare qualcosa di molto differente dagli altri, anche se poi il lavoro di artista è sempre stato per tutti un lavoro di ricerca e di rischio. Quando il sistema va in crisi il denaro viene dato ai pochi che non rischiano mai e che solamente ripetono ciò che esiste come modello. I giovani non hanno speranza così perché dovranno formarsi al gusto di un sistema a cui non appartengono.

Ci sono convergenze tra Nuovo e Vecchio Continente?
 In Argentina, quando mi formavo, c’erano i teatri ufficiali che producevano testi classici con attori giovani dal gusto tradizionale senza la necessità di nuovi creatori, come qui da voi. L’unica differenza è che, non avendo sussidi di nessun tipo a Buenos Aires, ci sono nuovi creatori che generano i loro spazi. Dicono quello che vogliono dire così il pubblico li conosce, li riconosce e li ama molto. Tutto è più facile quando non esiste una dipendenza economica.

Nello specifico italiano, l’esperienza del Teatro Valle potrebbe rappresentare una possibilità di scardinamento delle porte regali del sistema?
 Il Valle è un’esperienza fantastica. Il rischio è che si trasformi in un simbolo e non in un motore di produzione. È fantastico perché mostra un’eccezione alla regola ma le regole continuano a esistere. Il denaro continua a essere in mano alle grandi istituzioni statali. Si possono fare le stesse cose ma è solo un’eccezione. A Buenos Aires la regola è invertita: c’è teatro in qualsiasi luogo si possa fare teatro e il pubblico lo guarda come qualcosa di divertente, intellettuale e crescente. Non un’eccezione.

Il cuore della creazione può pulsare portando al centro il fatto artistico e non solo la produzione economica… 
Il motore è far teatro, produrre teatro. Il concetto di produzione economica non è priorità da noi. Tutto quel che costa molto denaro è quasi sempre disprezzato a Buenos Aires. In Italia la tradizione produttiva porta ad avere spettacoli con una struttura scenografica e video carissima e importante. A Buenos Aires preferisco concentrarmi sulla creazione artistica ovvero il testo, l’interpretazione e la tecnologia narrativa. L’unica vera tecnologia è solo una: la capacità dell’attore di creare racconto.

Vivere al buio: gli homeless di Roma si raccontano ai giovani attori dell’Accademia

I GIORNI DEL BUIO di gabriele lavia - foto di tommaso le pera .14LAURA NOVELLI | Mentre gli allievi attori del primo e del secondo anno dell’Accademia “Silvio D’Amico” sbarcano a Spoleto per partecipare ad una serie di eventi festivalieri molto interessanti (l’allestimento del testo “Lungs” di Duncan Macmillan diretto da Massimiliano Farau, il progetto “” che fino al 13 luglio li metterà in contatto con colleghi e registi internazionali e l’happening “Madness” condotto da Lorenzo Salveti), i neodiplomati del terzo anno hanno concluso il loro percorso formativo con un “saggio” finale andato in scena al teatro Argentina qualche sera fa.

Mi sono spesso chiesta cosa si aspettino dei giovani attori freschi di studi dallo spettacolo, per così dire, di “maturità”, e cosa soprattutto tesaurizzino, in termini di crescita artistica e personale, grazie ad un’esperienza che il più delle volte non li spinge oltre la soglia di quanto già precedentemente sperimentato. Ma se in passato, pur riconoscendo il valore di certe operazioni sceniche, le risposte a queste domande non sempre sono riuscita a trovarle, stavolta le cose stanno molto diversamente. Il saggio dell’Accademia, su regia di Gabriele Lavia, mi ha sorpreso. E sono convinta che ciascuno dei diciannove interpreti coinvolti in questo “I giorni del buio” abbia avuto modo di capire qualcosa di più del teatro e di se stessi. Lavia (pure drammaturgo) li ha infatti chiamati in gioco anche come co-autori, come reporter, come cronisti del reale, mentre Enzo Cosimi, curatore delle coreografie, li ha obbligati ad un uso del corpo fortemente consapevole e inconsueto nella pedagogia attorica di tradizione italiana (quella, per intenderci, che discende dall’Ottocento e che dimentica la maestria fisica esercitata dai nostri comici del Cinque e Seicento).

Il tentativo più audace del lavoro è quello di raccontare la condizione dei senzatetto romani affidandosi a testimonianze dirette raccolte dagli attori stessi in alcuni quartieri della capitale: Pina trascina la sua vita nei paraggi di Porta Metronia, Susy a piazza di Spagna, Karim alla stazione Termini, Mira davanti al teatro Argentina, Tiziana a via Catania, Vincenzo a piazza Navona. E, insieme con loro, altri barboni induriti dal dolore che compongono una geografia di lacerazioni, mancanze, nostalgie attraversate da assurde fatalità e altrettanto assurde contraddizioni. Prima fra tutte, quella che separa miseria e società dei consumi, estremo bisogno ed estremo spreco. Basti vedere la prima emblematica immagine: aggrovigliati su un grande carro/pageant formato da numerosi carrelli di supermercato incastrati tra loro, gli attori ballerini arrivano in scena come fossero anime dannate di un girone dantesco. Si notano i corpi quasi nudi, palpitanti e in disequilibrio, la pelle grigia e incipriata, la musica ad alto volume, il caparbio tentativo di restare attaccati a quella montagna di ferro che li fa sembrare animali in gabbia. In sottofondo, un rumore assordante di metropolitana con i fari sparati in faccia al pubblico. Poi, da questa massa informe e sofferente, si distaccano le prime esistenze: basta un cappotto infilato sul momento, un cappellaccio largo, un ombrello e l’anima si riempie di un corpo, la voce dà vita al racconto, ad una vicenda ne segue un’altra. Per l’intera durata, lo spettacolo segue questo andamento corale e insieme monologante, senza tuttavia stancare né scadere nella didascalia. Anzi, fa davvero un bell’effetto vedere questi giovani attori muoversi con tanta armonia e omogeneità sulle coreografie non sempre semplici di Cosimi, esprimendo con il corpo ciò che le parole non possono riferire e, al contempo, dando ad ogni singola storia il suo valore, la sua tragica dignità. Ne derivano diciannove “giorni di buio”, appunto, che restituiscono in modo incisivo – anche grazie alla bella regia di Lavia e all’ottima prova recitativa dell’intero cast – l’idea di una notte intesa, paradossalmente, come unica possibilità di vedersi, di sentirsi esistere. “Se nessuno ti vuole bene – ripetono più volte – non esisti. Sei un fantasma”. C’è chi ha lasciato la patria in cerca di fortuna, chi è uscito di galera, chi non ha trovato scampo ad un errore, chi ha scelto la strada per rivolta. Donne e uomini disperati. Eppure pieni di umanità. Di luce.

Mondocane#12 – Il compleanno di Gianfranco Zola (o dell'espulsione)

vecchio teatroMARAT | Io ci ho pensato subito. A Gianfranco Zola. Che se si parla di espulsione, si corre subito lì, al diciottesimo della ripresa di Italia Nigeria, ottavi di finale ai Mondiali del 1994. Entra Zola. È il suo compleanno. L’ltalia è sotto di un gol e lui si è messo in testa di salvare la patria. Il progetto dura dodici minuti. Fino a quando riconquista in maniera regolare un pallone, il nigeriano fa una sceneggiata da Premio Ubu, l’arbitro ci casca e lo espelle. Zola s’inginocchia a braccia conserte. Come un bambino. Piange, si ribella. Che la vita è ingiusta, figurarsi il calcio. Ci penserà Baggio all’ultimo minuto, con un tiretto che neanche Rivera nel 1970. Roba da infarto. Come l’embolo partito a Zidane. Che secondo me ha fatto benissimo. Che quando ti toccano la sorella non c’è Coppa del Mondo che tenga. E una testata a Materazzi dev’essere un piacere sottile. Questo per dire come ci siano ambiti nella società in cui qualcuno, saltuariamente, è autorizzato a darti un calcio in culo. Con motivazioni valide o pretestuose a seconda dei casi. Ma sempre calcio in culo rimane. Succede nelle aziende, nelle industrie, nei giornali. Ogni tanto succede in politica. Succede più spesso ai poveracci, ma capita anche a chi cade sul morbido. Succede in un gruppo se ti fai troppo (Syd Barrett), in una scuola se fai rissa, in un centro sociale se arrivano i celerini. Succede perfino a teatro. Ma devi essere categoria non protetta, tipo organizzatore, ufficio stampa, tecnico, attore. Succede spesso. Troppo. Eppure se vuoi stare sereno, è proprio a teatro che devi andare. Solo che devi fare la scuola per diventare direttore artistico. Io non la conosco, ma esiste. E lì non succede mai. Mondo Xanax. Nessuno ti darà mai un calcio in culo. Tranquillo. Che tu sia alla direzione da decenni non frega niente a nessuno. Figurarsi poi star lì a spulciare come lavori, chissene. Nel malaugurato caso ti tolgano il palcoscenico, due lacrime e uno spazietto te lo si trova in un amen. Si spostano due pedine perché nulla cambi. E se proprio proprio ormai hai superato la novantina ma senti ancora quel friccicorio tardo adolescenziale, un posticino da commissario straordinario di qualcosa te lo si trova. Una società di mutuo soccorso (per privilegiati), il teatro. Che grande famiglia. Non lascia mai indietro nessuno. Al limite ti arriva un’ammonizione. Ma in Italia anche quella fa curriculum.

Disegno Renzo Francabandera

Nomadi di Parole: dal libro al palcoscenico

Un Fantastico Viaggio locandinaVINCENZO SARDELLI | Evaporare dal virtuale e materializzarsi nello spazio-tempo. Uscire dalle pagine fresche, profumate di cellulosa di un libro e rinascere, carne, trucco e costumi da parata, nella realtà tangibile. Bella l’idea dei Nomadi di Parole: i personaggi di un romanzo diventano persone e riempiono di coreografie, con inventiva picaresca, la compassata, tradizionale, presentazione dei libri. Come domenica 23 giugno, allo Spazio Scatola Magica del Piccolo Teatro Strehler. Presentazione di Io che amo solo te, di Luca Bianchini. Prima domenica d’estate, temperature e pubblico su di giri. Già l’occasione era tutt’altro che formale. Il Piccolo ospitava la consueta rassegna di cinema gaylesbico Mix Milano, con tanto di costumi variopinti, coloratissimi drink e immancabile distribuzione di preservativi. Che ti veniva voglia di aprirli, gonfiarli d’acqua e gavettonare il primo che ci provava (a distribuirteli). Tanto per essere controcorrente.

Noi tutti abbiamo idea dell’uscita di un libro come qualcosa di rituale. L’autore, con il patrocinio della casa editrice, lo presenta in biblioteca, in libreria, in un club. Davanti a un pubblico di amici, familiari, appassionati. In questa o in quella città. Possibilmente con l’introduzione di un accademico o di un giornalista. Con quel codazzo di domande facete, colte, stupide, che regalano anche all’ultimo degli avventori quel minuto di celebrità. Lo Smartphone scatta.

«No, no, il dibattito no» piagnucolava Nanni Moretti. E allora giù con intermezzi musicali, slide in Powerpoint, aperitivi con tanto di brindisi. E montagne di copie da vendere. Senza scontrino ma con lo scontino. E strizzata d’occhio dell’autore. E come-ti-chiami, e che-bel-nome. E tanto di dedica personale. Stereotipata. Sennonché ti chiami Evaristo, o Genoveffa, arrossisci pure stavolta, ma almeno puoi dire che quella dedica è proprio per te. E stretta di mano e il piacere è tutto mio! E tanti saluti alla sorella. E alla prossima, anzi: al prossimo. E li ho letti tutti, ma il primo resta il più bello.

E adesso, tadà, nuova idea. Finisce la presentazione, inizia la rappresentazione. I personaggi escono dal libro e arrivano a far baldoria, gigioneggiando e maramaldeggiando. Come dopo Io che amo solo te di Luca Bianchini, appena uscito per Mondadori. Lasciamo perdere la sardonica e insulsa presentazione curata da Radio Dj, con il povero Moni Ovadia, chiamato a fare da sparring partner, che provava invano a dire qualcosa d’intelligente nella stupidità dilagante.

Il libro di Bianchini racconta un fastoso matrimonio guastato dalla tramontana celebrato a Polignano, paesino del barese noto per le candide case a strapiombo sull’Adriatico, e soprattutto perché ci è nato Domenico Modugno. Ed ecco i Nomadi di Parole, nei panni della sposa, della sorella, del testimone, del Re delle patate (che in tale contesto ci sta alla grande).
Bravi e allegri gli attori, capaci di trasformare il Piccolo in uno stralunato banchetto nuziale. Su tutti il proteiforme Simone Gerace e l’ammaliante Giulia Telli, scuola Quelli di Grock, nell’occasione accompagnati da Yuri Casagrande Conti, Suzette Pirozzi, Claudia Marsicano e Gianluigi Guarino. Fantasmagorica armata Brancaleone.

Normalmente a curare la parte “intellettuale” della performance sono Christian Mascheroni, scrittore e autore televisivo, volto noto del programma Ti racconto un libro in onda su Iris (digitale terrestre) e Alice Cimini, da più di dieci anni dietro le quinte del mondo della comunicazione e dell’organizzazione di eventi culturali. Sapranno far meglio degli irriverenti conduttori di Radio Dj, capaci di scavalcare a destra mamma Tv con gli scontatissimi cenni alle sputtanate nozze di Valeria Marini? C’è da giurarci. Non tanto perché fare peggio è pressoché impossibile. Ma perché amici di cui ci fidiamo assicurano che sono proprio bravi. Gli crediamo sulla parola. Fino a prova contraria.

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(Info: Facebook:https://www.facebook.com/NOMADIdiPAROLE?fref=ts)

Sempre Nomadi…
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L’amore è una cosa meravigliosa…
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Manuale di espulsione per politici dabbene

la regina e la borsettaALICE CANNONE | I politici italiani  dovrebbero imparare  l’ABC del bon ton comunicativo dalle più alte sfere balsonate. Chè se di cacciata bisogna parlare, senza dover scomodare Masaccio e Paradisi terrestri, basterebbe l’eleganza dei monarchi della perfida Albione. Suggeriamo quindi a Grillo,  in vista di una possibile monarchia teocratica a cui potrebbe ispirarsi, di rifarsi ai dettami la Regina Elisabetta II, quanto meno per  regole che riguardano gli ospiti sgraditi. Se è vero che “La banalizzazione è il prezzo della comunicazione” (Nicolás Gómez Dávila), la mancanza di eleganza è lo scotto che un politico dabbene non dovrebbe pagare mai.

Pare infatti che la canuta incoronata usi, per comunicare con il suo staff, la sua borsetta, fedele quanto pleonastico accessorio: per tradizione, una regina non riempie la sua Chanel con denaro contante, tanto meno con carte di credito o assegni, o di chiavi della macchina o passaporto (che non ha). E se le signorine dabbene hanno imparato col tempo ad usare pochette gonfie a mò di panzerotto (anche come) arma contundente, le vere regine (e naturalmente i veri leader) hanno fatto di queste protesi delle mani un vero e proprio codice cifrato per chi gli sta intorno. Infatti: se posarla sul tavolo sta ad indicare che il pranzo o la cena finiranno nel giro di pochi minuti, appoggiarla a terra è indice di una conversazione poco interessante e con quel gesto Elisabetta II chiede l’intervento della dama di compagnia, che si materializzerà al suo fianco in una manciata di secondi.

E se proprio l’idea di lasciare una borsetta accanto al microfono, quando il comizio inizia ad essere troppo noioso, può non convincere troppo sul piano dello stile, suggeriamo al Grillo nazionale di affinare comunque le sue capacità di comunicazione meta verbali. Lo  stecchino in bocca, a fine pranzo, farà pure un po’ cafone ma servirebbe, chessò, a riportare all’originario mantra dell’ “uno vale uno”. O impugnare con aria elegante ed indifferente un apriscatole quando i parlamentari, pardon i cittadini, iniziano a mostrare segni di cedimento sul rispetto dello statuto “riferito come non Statuto” (Cfr. Codice di comportamento eletti MoVimento 5 Stelle in Parlamento). Ma soprattutto a tal proposito la regola aurea, prevista dal galateo per  politici dabbene è il prezioso insegnamento di Winston Churchill: “Ho dato le mie dimissioni, ma le ho rifiutate.”

Doppio punto di vista su: La Classe di Garella al Napoli Teatro Festival

LACLASSEALESSANDRO VOLTA E ASSUNTA PETROSILLO | Degli spettacoli visti quest’anno al Napoli Teatro Festival, «La classe» − diretto da Nanni Garella e interpretato dalla compagnia Arte e Salute − è largamente il più bello; ispirato all’opera di Tadeusz Kantor «La classe morta», ne mantiene intatto lo spirito. In questo lavoro, infatti, i personaggi mettono in scena le ossessioni delle persone che sono state o che avrebbero voluto essere da vivi, e dalle quali non riescono a liberarsi: la donna che desiderava un figlio e non ha potuto averlo, quella che ha sbirciato tutta una vita dalla finestra sputando sentenze sulle vite altrui, quella che ha sopportato la nomea di donna facile, lo scienziato che si è lasciato raggirare, l’uomo di grande cultura.
Donne e uomini che non hanno avuto pace in vita ma, non essendo riusciti a risolvere i conflitti dell’esistenza, anche da morti ripropongono, in una sorta di coazione a ripetere, i gesti che li hanno identificati in vita. Tutto questo viene coagulato nello spazio di una classe, che dà impulso a un’ulteriore ossessione, più innocente e collettiva: un esame, un’interrogazione, il primo giorno affidati ad un insegnante che è assente, o a una bidella spaventosa che evoca la morte che incombe.
Gli scarni elementi di scena (vecchi banchi, uno spazzolone per pavimenti, sussidiari polverosi) e una luce tenue ma fredda amplificano il senso d’inquietudine per questa ansimante oscillazione fra passato e presente, sottolineato dalla presenza di fantocci che affiancano i protagonisti come presenze che emergono direttamente dall’infanzia, la sola età felice della vita. Una stagione in cui ancora tutte le strade erano possibili e percorribili, fino all’arrivo inaspettato di una rottura – un evento, una malattia, una necessità – che imprime un cambio di rotta all’esistenza; una drammatica cesura che introduce uno spartiacque tra un prima e un dopo non recuperabile.
Nel gioco delle parti che il teatro del Novecento continuamente ripropone, occorre domandarsi se anche gli spettatori non facciano parte della stessa classe, uniti ai protagonisti della scena in un doppio legame fatto di vita e morte, di malattia e sanità della psiche, di ripetizione ossessiva e libertà d’azione. In fondo in quel piccolo spazio del ridotto del Teatro Mercadante personaggi e spettatori erano egualmente di fronte, ognuno per quel che si è disposto a partecipare, all’assenza di significato delle proprie esistenze.
Ognuno per quel che ha inteso partecipare e comprendere: perché tra i presenti c’era anche chi ha preferito conversare per tutto lo spettacolo, chi era occupato a registrare col telefonino la bella colonna sonora, chi intento a frugare rumorosamente in una busta di carta. Quanta intollerabile maleducazione si sperimenta anche a teatro.
Allora lo spettacolo assume anche la valenza di ricordare che il “noi” e il “loro” non sono confini definitivi che fissano una differenza, ma le facce di una stessa medaglia, uno specchio spietato in cui riflettersi ed interrogarsi su come sia possibile dare senso alla vita per poter riposare in pace almeno da morti. (A. Volta)

*     *     *

La classe GarellaSiamo seduti al cospetto di una classe di scolari-zombie, dal viso incipriato di cerone, dallo sguardo fisso, muti dietro i loro banchi impolverati di legno: cinque uomini e cinque donne, vestiti di nero con pantaloni troppo corti, giacche abbondanti e gonne troppo strette. Gli uomini si nascondono sotto piccole bombette, le donne sotto parrucconi grigi. Sulla sinistra dietro uno strano sedile di legno, di spalle al pubblico, immobile, en travesti una strana figura.

Gli scolari ci guardano, con gesti scattanti si alzano dai banchi per poi risedersi. Qualcuno alza un braccio, altri si contorcono e si toccano la pancia quasi come a voler chiedere il permesso per andare in bagno.
Si ritrovano tutti in piedi, escono. Al rientro quasi come in una presentazione da circo, portano con sé pupazzi di pezza, rappresentazione feticcia di un mondo ormai lontano, ma incantato, rarefatto. Si rifugiano nell’infanzia, quella perduta, cristallizzata. Con scatti fulminei ballano un valzer con i loro alter ego di pezza, ci fanno a pugni, come a voler esorcizzare un malessere subdolo, strisciante. Ci troviamo di fronte ad una specie di marionette umane intrappolate in un labirinto onirico, senza vie di uscita.

Il remake de La classe morta di Kantor è un felice esito cui Nanni Garella porta gli attori della compagnia Arte e Salute dell’Asl di Bologna, attori-pazienti che danno vita ai mostri della mente, alla loro stessa dolorosa esperienza, al loro sentirsi ‘esclusi’ in un mondo che ama catalogare e ghettizzare la società: Nicola Berti, Giorgia Bolognini, Luca Formica, Pamela Giannasi, Maria Rosa Iattoni, Iloe Mazzetti, Fabio Molinari, Mirco Nanni, Lucio Polazzi, Deborah Quintavalle, Moreno Rimondi, Roberto Risi, non devono fingere, sono se stessi, ma coscienti.
E come in un film muto riannodano le loro trame camminando all’indietro, col viso rivolto al presente, ricominciando dalla fine e per poi ritornare alla loro unica dimensione ancorata tra l’altrove e l’oblio.  Due di loro si prendono per mano e come Chaplin e la sua compagna riavvolgono la pellicola del loro film, come in una sorta di rewind, ma dalla fine.
Quella strana figura – relegata in un angolo −  si staglierà su di loro con un’enorme scopa/falce e li farà cadere uno dopo l’altro, senza alcuna pietà. Era lì con loro, nella stessa classe, ma non l’avevano riconosciuta, si mascherava sotto sembianze femminili, in un corpo mascolino, nerboruto.
Si ricompongono e si siedono tra i banchi insieme ai loro fantocci, si interrogano tra loro sulla storia di re David, Salomone e come in una cantilena ripetono parole, numeri, versi, suoni. Si ergono a professori, drizzandosi in piedi su quel sedile di legno che di volta in volta diviene scranno, latrina, sedia. Parlano, si agitano per poi crollare su se stessi e su quei banchi lividi. L’annuncio dell’assassinio dell’arciduca d’Austria a Sarajevo li desta dal sonno. Un giovane uomo con un lungo cappotto e un fucile fuori misura entra in classe e prendendo la mira spara su tutti. Una donna seduta sul banco in prima fila, a ritmo incalzante, mima nascite senza figli, con culle dondolanti, ma vuote. Si sentono ninne-nanne ululate, versi strazianti.
Qualcuno scappa, qualcuno scruta da una finestra portatile ciò che accade, altri si nascondono e alla fine restano solo i fantocci di pezza mentre quel giovane straniero sventola un’enorme bandiera nera su quei banchi ormai occupati da fantasmi di pezza.
L’urlo straziante che pare arrivare al pubblico è “Voi potete, io non posso!”, il grido disperato di chi è immobilizzato in una ‘forma’ plasmata da altri. È questo il grido di chi sa di non poter cambiare il percorso della propria esistenza e rimane imbrigliato in una ragnatela invisibile di soffocante sofferenza che porta con sè anche oltre la morte, e che gli attori restituiscono con una forza straordinaria. Rimane attualissima e non può non coinvolgere anche il pubblico la riflessione sul limitare dell’esistenza come confine labile e proiezione al di qua e al di là di questo ideale segno di ansie e impossibilità che già l’al di qua rende tangibili ed esperibili. E la domanda se si sia liberi in vita, se davvero si possa, o si riesca a potere rimane dilemma esistenziale che Kantor ancora a trent’anni di distanza propone. (A. Petrosillo)

Scontro di civiltà in cucina: ovvero dell’etica protestante nello spirito di Masterchef

hamburger offensivoALESSANDRO MASTANDREA | “Questo hamburger è offensivo a me e a tutti i cittidini americani. Fa schifo, è una merda”, e giù il piatto nella pattumiera. Se mai il lancio del piatto di porcellana divenisse specialità olimpica, Joe Bastianich avrebbe buone possibilità di vittoria. Figlio d’arte e migrante di ritorno, il Moriconi Nando della ristorazione internazionale, forma assieme a Carlo Cracco e Bruno Barbieri il trio più temuto d’Italia, secondo solo – per rimanere in ambito cinematografico- alle “tre madri” della famosa trilogia di Dario Argento. Pur avendo ben poco di atletico, Masterchef ha tutti i connotati di una vera e propria gara, disseminata di insidie e ostacoli dietro ogni angolo, una lotta contro il tempo e contro i climi torridi di una “cucina infernale”.
Non c’è spazio per perdenti e “dilusioni”, nella master class dei tre famosi giudici si gareggia per vincere, perché alla fine “ne rimarrà uno solo” ad accaparrarsi il “malloppo”.

E’ lo spirito dell’autoaffermazione e del primato a ogni costo che innerva i talent show, e MasterChef in particolare. Evoluzione e superamento dei vecchi format che hanno costellato l’esperienza televisiva dello scorso decennio, questi “reality 2.0” rifuggono come la peste “l’uomo senza qualità”, allora così ricercato, per qualcuno che invece si faccia portatore del saper fare. Tanto caro a questa fase politica di “larghe intese”, “il fare” assurge a vera e propria categoria dello spirito, mezzo imprescindibile per la vittoria finale e il primato, segno di appartenenza all’elite dei vincenti e predestinati. Da dove provenga questa richiesta incessante di cucina non è dato sapersi, eppure, a dispetto di ritmi di vita sempre più serrati che con la cucina mal si conciliano, l’arte culinaria è al centro di un’offerta mediatica tra le più intense, con il talent suddetto quale punta di diamante. Il cibo e la cucina –inteso come luogo fisico- in Mastechef assumono un doppia valenza: quello di ambiente familiare, caldo e inclusivo, e di cibo come elemento accomunante legato al piacere e alla sussistenza, ma anche luogo in cui la temperatura da tiepida e familiare vira al calor bianco. Dove, a suon di cucchiarelle in legno, si consumano le più accese rivalità, la lotta per il primato si gioca senza esclusione di colpi e le strategie si fanno spietate. Ambiziosi e determinati i concorrenti di Masterchef volano alto con le ricette, così come i tre giudici con le metafore: “il tuo foie gras è come macchina d’epoca, spande olio dappertutto”.

Ma il format ideato dal britannico Franc Roddam riflette anche un altro tipo di metafora, che difficilmente riusciremmo a cogliere senza guardare a Tiziana Stefanelli, vincitrice della seconda edizione. Avvocato di successo, moglie e madre di famiglia, da subito conquista il cuore di pietra dello chef Cracco, forse per le sue indubbie doti di angelo del focolare: “Io e Andrea siamo rivali, quindi lo squarterò”; “ A mia figlia dico sempre che l’importante è partecipare, ma noi tutti sappiamo che l’importante è vincere”. Ma si sa, i sani principi da soli non bastano a dar conto di una vittoria, e nel caso specifico potrebbe essere necessario scomodare nientemeno che Max Weber. Sbaglieremmo poi tanto se affermassimo che M-Chef riflette quella stessa etica protestante, di matrice calvinista, che nel famoso saggio del sociologo tedesco è individuata quale causa dello sviluppo capitalistico occidentale? In quest’ottica il successo non risulta più fine a se stesso, ma diviene anch’esso il segno della grazia divina operante su colui che alla vittoria è stato predestinato. E le parole della vincitrice si caricano quindi di nuove sfumature: “qualsiasi cosa si può fare nella vita, basta crederci tanto e avere determinazione”; “A vincere mi sento nel mio”. Per l’ignaro semifinalista Andrea, la sorte aveva già deciso. Le aspirazioni a un cambiamento, a una svolta nella propria esistenza, non potevano che infrangersi contro la coscienza della predestinazione, di un’appartenenza alla stessa elite dei tre chef -giudici che tutti ammirano.

scabin terra cuochiGrazie alla forza omologante dei format, l’etica protestante di cui Weber parla, pare aver trovato il proprio luogo ideale in cucina, contagiando perfino noi italiani, popolo fiero delle proprie tradizioni gastronomiche e dalla cultura cattolica. In questo clima di contrapposizione tra riforma e controriforma culinaria, che molto occhieggia al passato, quella che qui definiamo l’etica cattolica non poteva non abbozzare una contromossa, affidandosi alla veterana dei fornelli raccontati, Antonella Clerici e al superchef Davide Scabin. Ne la loro Terra dei cuochi, all’aria spietata tipica dei talent, si sostituisce il più nostrano clima alla “volemose bene”. E la differenza si vede, soprattutto nella sorte riservata ai non meritevoli. Se nel format anglosassone sono sottoposti a una vera e propria espulsione dal “corpo” della trasmissione, attraverso un angusto corridoio che tanto assomiglia a un budello, ne La Terra dei cuochi, il perdente, pur nella sconfitta, è comunque riammesso in studio dalla puntata successiva, sorta di perdono ricevuto dai due sacerdoti officianti. Scabin diviene il difensore della tradizione gastronomica italiana, mentre il manto di giudici implacabili è vestito nientemeno che dai familiari dei concorrenti, chiamati a deciderne le sorti. A completare il quadretto familiare, vi sono gli assistenti-padrini. Dall’indubbio blasone televisivo, costoro si caricano della stessa valenza religiosa di coloro che accompagnano i novizi verso i sacramenti più importanti, oppure, più pragmaticamente, di introdurre i concorrenti nel difficile mondo del madia televisivo, consiglieri e raccomandatori al contempo.
D’altro canto nella cattolicissima Italia è così che funziona: senza raccomandazione non si va da nessuna parte. Neanche in cucina.

Origami di banconote per mazzi di fiori della contemporaneità

Camille HenrotSABRINA VEDOVOTTO | Di tempo ne è passato a sufficienza per poter fare una analisi lucida e il più possibile oggettiva. Mai come quest’anno si è attesa tanto la preview della Biennale di Venezia. Già, perché è di questo che ci accingiamo a parlare. Una Biennale dalle aspettative incredibili, vuoi per il nome del curatore italiano, Massimiliano Gioni, vuoi per la sua giovane età, ma soprattutto per la mole di personaggi invitati, non tutti artisti. Ma di questo si è già detto. Il palazzo enciclopedico, questo il titolo della grande mostra, non tutti artisti, non tutti vivi, molti artigiani, molte persone al di fuori di ogni contesto artistico etc etc.
Non è necessario entrare nel particolare della grande mostra, già è stato fatto ampiamente, vorrei però sottolineare qualche particolare, qualche elemento di riflessione. La mostra di Gioni ha la caratteristica di poter essere letta con una duplice chiave, in maniera piuttosto superficiale, veloce e senza soffermarsi troppo, oppure invece cogliendo ogni piccolo particolare, ogni minimo segno di possibile riflessione. Come già scritto da molti, e da lui stesso affermato, è una mostra che racconta una intimità propria, un desiderio di conoscenza talmente vasto che appare impossibile a chiunque. Uno scibile tanto ricco, un numero così ampio di partecipanti, un numero di opere incredibile, e oltretutto opere enciclopediche appunto. Una mostra che richiama ad una introspezione, che fa l’occhiolino all’irrazionale, al supposto, a quello che si definisce l’onirico. Ma non solo. In questa enciclopedica visione del mondo, si osservano quelle che potremmo definire delle paranoie di questi cosiddetti artisti. Un lavoro estenuante, lungo, laborioso e a volte assurdo, ma perfettamente in tema con la mostra.

Nel voler leggere i lavori presenti con un atteggiamento approfondito, bisognerebbe avere la possibilità di vedere la mostra forse per dieci giorni, con interruzioni almeno di una settimana, per poter assorbire, digerire, e avere dei pensieri che abbiano un senso logico. Vederla in pochissimo tempo ti dà solo la possibilità di assaggiare, di percepire quello che potrebbe dire, gli insegnamenti che potrebbe dare o anche i paradossi che si potrebbero scoprire. È dunque, volendo essere davvero banali, tutto e niente, dipende appunto da come si vuole leggerla. I capolavori si intuiscono immediatamente però, anche solo vedendola in due ore; ed è così che il video di Camille Henrot, e la performance di Tino Sehgal (rispettivamente Leone d’argento e Leone d’oro alla Biennale) sono due lavori che i miei occhi hanno subito recepito come opere con la O maiuscola. Il mio debole per Sehgal forse mi ha impedito di essere obiettiva, ma il video della giovane artista francese, da me mai sentita prima, aveva un qualcosa di molto particolare, e non è un caso che la stanza dove veniva proiettato fosse stranamente piena (stranamente perché di solito, nei casi di grandi mostre i lavori video purtroppo vengono fruiti in maniera superficiale).

Charles RayUna volta usciti dalle sale della grande mostra, tutto ciò che è stato appena detto perde di senso e significato, perché i padiglioni non sono solo intimi e riflessivi, ma sono soprattutto molto proiettati verso la realtà contingente. Chi con opere dirette, chi con discorsi edulcorati, molti artisti hanno infatti scelto di raccontare cosa sta succedendo. Hic et nunc.

Sbilanciandomi direi che il premio come miglior padiglione forse sarebbe dovuto essere assegnato alla Grecia, per un lavoro incisivo, intenso coraggioso forte, ma soprattutto contemporaneo. Tre video di rara bellezza, in cui le storie di altrettante persone si intrecciano, in modo sottile ma inequivocabile. Lo sfondo è una triste Atene, desolata abbandonata, deserta quasi.

C’è un immigrato che raccoglie ferrivecchi nei cassonetti, ma che poi all’interno di uno di questi trova un mazzo di fiori realizzato con origami di banconote, c’è un giovane che va in giro a filmare la città con il suo ipad fino a che non trova i ferrivecchi abbandonati dall’immigrato, e poi infine c’è una vecchia e sola collezionista, che nelle sue tediose giornate trascorre il tempo a fare forgiami con banconote vere, anche da cinquecento euro. Un paradigma della società contemporanea, che Stefanos Tsivopoulos sottolinea e ci sbatte in faccia.

Incisivo è anche il padiglione inglese, con il lavoro intenso di Jeremy Deller, considerato però dal The Guardian troppo mainstream, o ancora il padiglione russo, o quello spagnolo, con un immenso lavoro di Lara Almarcegui. Detriti di cemento, tegole e mattoni occupano la sala centrale, altre montagne di detriti più piccole fatte di segatura vetro nelle sale perimetrali, dove il pubblico può camminare intorno. Una camminata triste e desolante intorno, ma non sopra, ai detriti del mondo.

Buenos Aires e la fotografia

baires2ANTONELLA POLI | « Regarder parfois voir », ci dice Jacques Borgetto durante il nostro incontro dell’11 giugno scorso. Parigi é la sua citta. Ma lui  é  il fotografo dei viaggi, dei paesaggi e degli animali. La fotografia é stata da sempre il suo mestiere come lo stesso autore afferma. Quest’arte gli dà la possibilità di concretizzare in immagini la sua sensibilità verso gli esseri umani, di cogliere le luci e la forza della natura , di scrutare al di là degli sguardi di un semplice cane. Di origine italiana, (suo nonno paterno era piemontese), ha cominciato a viaggiare molto presto per mettere al servizio del suo “occhio” acuto la sua caméra. Fedele alla tecnica tradizionale dell’argentique, oggi Jacques Borgetto si é aperto anche al digitale, senza che il suo stile sia cambiato. L’Argentina, il Cile, il Tibet, il Mali sono state le sue mete importanti che gli hanno permesso di descrivere con un realismo acuto queste parti del mondo lontane dalla sua Francia mettendone in rilievo gli aspetti più nascosti, inconsueti e soprattutto fotogrando e immortalando l’anima delle popolazioni che incontrava sul suo cammino. Viaggi esplorativi, pieni di carica umana, di cui oggi Jacques Borgetto ne riconosce tutto il valore per l’arricchimento che gli hanno fornito. Le sue collezioni permanenti alla Maison de la Photographie européenne testimoniano il suo percorso d’artista.

Dopo pubblicazioni come L’autre versant du Monde, Nous avons fait un Beau Voyage et Terres Foulées (Ed. Filigranes), oggi appare nella collana Portraits de villes[1] delle edizioni Be-Pôle, Buenois Aires. Il primo incontro del fotografo con questa città era avvenuto anni fa quando spinto dal desiderio di ritrovare i suoi parenti paterni si era recato laggiù. Grazie alla loro esperienza, aveva potuto cominciare a conoscerne gli usi e costumi, a coglierne gli aspetti più contradditori, a frequentare le milonga, ascoltare e vedere il tango e a entrare in contatto nei bistrot con la popolazione la più eterogenea della capitale sudamericana. L’occasione del progetto di  questo nuovo Portrait de ville  ha ricondotto Jacques Borgetto a Buenos Aires.

Ancora più che la prima volta, ha identificato questa città come ville de nuit , gioiosa, architettonicamente diversa nei suoi stili con i suoi grattacieli e le case abbandonate, e contraddittoria per le differenze sociali esistenti. Non esistono classi intermedie, si passa dai quartieri più poveri e sporchi ove gli sguardi della gente esprimono il disagio e l’umilità a quelli più ricchi ove si vive agiatamente. Questo é uno dei temi delle fotografie di questo libro,  che possono essere lette secondo tre filoni principali : il contrasto stilistico dell’architettura, i bistrot e il tango, i paesaggi.

Baires4L’elemento umano, che é sempre messo in risalto, le arricchisce donandole l’anima. Sguardi comuni e sorpresi s’incrociano nei bistrot, passionali nei duo di tango, e nei paesaggi in cui la popolazione locale é ritratta nei loro aspetti quotidiani. Prevale il bianco e nero, il colore appare nelle foto scattate nel Delta del Tigre ( questo nome proviene dall’appellazione data dai primi colonizzatori europei ai giaguari del Sud America), zona che fa parte di Buenos Aires e che é situata all’estremità  sud del Rio Paranà. In particolare, ne viene ritratta la natura rigogliosa con le sue luci e ombre, le sue costruzioni caratteristiche, come delle palafitte, che ospitano gli indigeni del luogo. Il contrasto appare tra la semplicità di vita degli abitanti del luogo e  le tinte forti della vegetazione che risaltano vigorose dappertutto.

Due fotografie di questo libro suscitano curiosità: sono quelle in cui il fotografo gioca con l’infinito, aprendo degli spazi di lettura al limite dell’inganno. Come credere che si tratti di un cavaliere che attraversa la sommità di una scalinata quando in realtà é solo una statua ? E come immaginare che l’uomo che si pensa si stia gettando nel vuoto in realtà é anch’esso solo un bronzo? Basta trovarsi di fronte a queste due foto per crederci e riconoscere le doti fotografiche dell’artista. Questo libro dà un ritratto di Buenos Aires che va al di là dei luoghi comuni che si conoscono e ci apre una panoramica a trecentosessantagradi su questa capitale del Sud America.

« Il faut qu’une cause sentimentale devienne une cause formelle pour que l’œuvre ait la variété du verbe, la vie changeante de la lumière » scriveva Bachelard, e l’arte di Jacques Borgetto ne é un esempio.


[1] Della stessa collezione fanno parte Roma, Napoli, New York, Brasilia, Sarajevo, Parigi per citarne alcune

Mondocane#11 – Il Professore dimezzato

fotoMARAT | Nove e mezza del mattino. Piena notte. Mi svegliano i bassi di uno stereo. E mi accorgo che il vicino sta ascoltando Branduardi. Sì, Branduardi. O tu ciellino sovraeccitato che rompi i coglioni senza neanche un valido motivo… Allora mi alzo e bevo il caffè, che tanto non è cosa. E osservo. Il caseggiato di ringhiera che mi avvolge. In fondo a destra c’è la gabber. Fanciulla delicata di anfibi e bestemmie. Che in un indimenticabile Natale accolse i doni del Signore sparando techno hardcore in cortile. Roba da 180 battiti al minuto. Che ognuno c’ha le sue tradizioni. In fondo a sinistra l’anziano vetraio. Vive sul mio stesso fuso orario. Di notte è al suo tavolo di lavoro, la finestra aperta, gli occhiali sulla punta del naso. È una figura rassicurante, qualcosa tipo “casa”. Sotto invece intravedo la sciura Maria, sul balcone con il ventaglio a rinfrescarsi in mezzo alle cosce. E tutti insieme si sta qui, si sta bene. E mentre mi accendo la prima sigaretta, penso invece a quella strana convivenza del Crt. Il contrappasso del reinventarsi con l’aiuto dei nemici di un tempo: Crt Artificio e Triennale. Che fuoco e fiamme fece per avere indietro il Teatro dell’Arte, scoprire di non sapere cosa farsene e ora ridarlo in gestione alla neonata fondazione dei “Crt”, dall’età media elevata assai. Questa la soluzione trovata da Quaglia, supermanager (e politico) chiamato a risanare un teatro sommerso dai debiti, fioriti sotto la monarchia del Professore. Tanti debiti. Pochi margini d’intervento. Allora, vieni a vivere con me, come cantava Luca Carboni. Che la vita è troppo corta e non possiamo perdere tempo, o forse è proprio il tempo che non può perdere noi. Ma qui non c’è cuore. E mi viene il dubbio che sia questo il gusto amaro che sento in bocca. La scelta è giusta. Forse l’unica. Ma la sensazione di avere di fronte un governo tecnico, mi spiazza. Sano? Sano. Ma in due ore di conferenza, neanche mezza parola di teatro. Teatro vero. Ci saranno dei curatori al posto di un direttore artistico. Uno spazio ancora da rendere agibile a iniezioni di denaro pubblico. Attenzioni ministeriali da conquistare, debiti da pagare, i pochi dipendenti rimasti da assorbire (loro sì, tutto cuore). Insomma, strategie aziendali per i tre nemiciamici. Come Red & Toby. Eppure… Eppure da qualche parte ci devono ancora essere le foto. Di Kantor. Del Living. Della Mnouchkine. Forse in qualche baule.