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martedì, Aprile 23, 2024
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Mondocane#15 – Il Rosso e il Nero

allarmeMARAT | Il Gianni ce l’aveva nello sguardo la bandiera rossa. Quando entravi nel suo seggio, ti fissava come una madre che ci crede ancora. “Fa la cosa giusta, Marat!”, mi diceva perso in quel maglione troppo grande e troppe volte rammendato. E gli occhi suoi me li sentivo sulle spalle. Quando sbagliarono i compensi per gli scrutatori, si fece festa. Per un paio d’ore. Lo Stato aveva pagato il doppio e se ne accorse tardi. Il Gianni era corso alla Coop a spendere quello che aveva guadagnato. A noi toccò soltanto metter le gambe sotto il tavolo. Non diede mai indietro quei soldi perché non aveva una moneta in tasca. Ma ancora mi commuove il pensiero che pur di non mentire, s’era andato a spendere tutto. Questione di stile. Quello che non ti fa chiedere una sigaretta, anche se arrotoli la lanella dei pantaloni. Che devi aspettare che l’orgoglio si distragga per fargli scivolare un mezzo pacchetto nella giacca. E poi… E poi noi tutti in piazza col pugno chiuso, quando se ne è andato.

Chissà che avrebbe detto il Gianni del concerto dei nazisti qui a Milano. La Milano Medaglia d’Oro della Resistenza. Qualche tempo fa. Che io mi ricordavo ci fosse tipo un reato di apologia di fascismo. Che certe lezioni si imparano. O forse no. Vista poi la città tappezzata di commossi ricordi dell’Almirante. E di nazivolantini neanche fossero pubblicità di un nuovo kebab. Quando sono andato da Paolo Conte a Gardone, mentre cantava “libertà e perline colorate, ecco quello che io ti darò”, ero disturbato dal pensiero di quanto il bar in piazza fosse grasso di paccottaglia col mascellone. Lì, dove ero appena andato a bermi una cedrata. E gli accendini dal tabaccaio dove non vado più, e il calendario alle spalle del pizzaiolo… C’è un’emergenza neofascista. E c’è un’emergenza da codardia culturale. Nessuno dice niente. Siamo solo bravi a indignarci nei salotti e sui social network, incitare alla resistenza di Istanbul, sconvolgerci per la cronaca, sentirci rivoluzionari postando una canzone. Cose così, militanti d’accatto. E poi… E poi ci disegnano una svastica sotto casa e ci passiamo via, veloci veloci. Chissà che avrebbe detto il Gianni. Sicuramente qualcosa di più della gran parte della gente del mio teatro. Tutti rossi. Ma solo sul palco.

Podcast con Loris Seghizzi (Scenica Frammenti)

imagesIntervista a Loris Seghizzi (Scenica Frammenti) in apertura del Festival Collinarea 2013. Podcast a cura di Andrea Ciommiento

Capossela presenta La Banda della posta

Poster-70x100-2-210x300venerdì 19 luglio ore 22.15 – Tenuta Agricola – Torre a Cenaia Crespina
Vinicio Capossela presenta La Banda della Posta
“Primo ballo” –

con Giuseppe Caputo Matalena – violino; Franco Maffucci Parrucca – chitarra e voce;
 Giuseppe Galgano Tottacreta – fisarmonica
; Giovanni Briuolo – chitarra e mandolino
; Vincenzo Briuolo – mandolino e fisarmonica
; Giovanni Buldo Bubù – basso
; Antonio Daniele – batteria; Crescenzo Martiniello Papp’lon – organo
; Gaetano Tavarone Nino – chitarre
; Vito Tuttomusica – strumenti
; Vinicio Capossela – voce; Asso Stefana
 – chitarre; Taketo Gohara-  suono

prima tappa del tour

Lo sposalizio è stato il corpo e il pane della comunità. Il mattone fondante della comunità. Veniva consumato con il cibo e con la musica. Una specie di eucarestia in cui la nuova coppia veniva ingerita dalla comunità che gli si stringeva intorno avvolgendola di stelle filanti nell’ultimo, infinito ballo dei “ziti” (che così si chiamano tanto gli sposi quanto la pasta). La musica aumentava vorticosamente di ritmo fino ad assorbire la coppia che finiva per girare avvolta come uno spiedo in una girandola colorata di fili di carta. A quel punto era digerita e pronta per generare e rinnovare la comunità.

Questa musica che accompagnava il rito era musica umile, da ballo, adatta ad alleggerire le cannazze di maccheroni e a “sponzare” le camicie bianche, che finivano madide e inzuppate, come i cristiani che le indossavano.

Un repertorio di mazurke, polke, valzer, passo doppio, tango, tarantella, quadriglia e fox trot, che era in fondo comune nell’Italia degli anni ‘50, ‘60, e che si è codificato come una specie di classico del genere in un periodo nel quale lo “sposalizio” è stato la principale occasione di musica, incontro e ballo. Poi le tastiere elettroniche hanno preso il sopravvento e gli sposalizi sono diventati matrimoni. L’aria condizionata è entrata in un altro genere di ristorazioni in cui la musica è diventata una specie di dessert più parente del liscio che dell’epoca mitica dei mantici, dei violini e delle farfisa.

A Calitri, in alta Irpinia, negli anni in cui è esistita una comunità, che è poi finita frantumata nelle migrazioni che sono state il sangue vivo dello sviluppo, questa comunità si è rinnovata e celebrata in un luogo cardine del paese: la “casa dell’Eca”. Nei racconti della mia infanzia si è trasformata in “casa dell’Eco”. La casa dove nasceva l’eco. Eco della musica, degli schiamazzi, delle burle, delle feste, luogo del pantheon dei personaggi mitici che fanno una comunità in cui si viene ribattezzati e realmente ri-conosciuti, nel soprannome che la comunità stessa impone, in luogo della chiesa.

Da qualche decennio la casa dell’Eco tace, e l’unico eco che si spande è quello dei racconti. Se ci si appendessero dentro le fotografie di tutte le coppie sarebbe un sacrario di guerra. Giovani con la divisa nuziale che andavano ad affrontare, sparacchiando, la vita, dopo la sparecchiatura dei tavoli della casa dell’Eca.

Qualche anno fa, un gruppo di anziani suonatori di quell’epoca aurea non priva di miseria, ha preso l’abitudine di ritrovarsi davanti alla posta nel pomeriggio assolato. Avevano l’aria di vecchi pistoleri in paglietta. A domandargli cosa facessero appostati davanti a quell’ufficio postale, rispondevano che montavano la guardia alla posta, per controllare l’arrivo della pensione. Quando l’assegno arrivava, sollevati tiravano fuori gli strumenti dalle custodie e si facevano una suonata.

Il loro repertorio fa alzare i piedi e la polvere e fa mettere a ammollo le camicie sui pantaloni. Ci ricorda cose semplici e durature. Lo eseguono impassibili e solenni, dall’alto del migliaio di sposalizi in cui hanno sgranato i colpi. Hanno nomi da gloria nella polvere: Tottacreta, Matalena, il Cinese, Parrucca. Il più impassibile di loro non aveva nemmeno bisogno di un soprannome, tanto era lapidario il nome originale: Rocco Briuolo. Ora Rocco è andato a suonare “due Paradisi” tra i santi che ha dipinto come fossero suoi compari. Tra santo Canio e santo Liborio. Ora può, come nella vecchia canzone, dire a san Pietro guardando giù, che “il Paradiso nostro è questo qua”. E con ragione, perché la sua umanità, il suo violino e il suo pennello, hanno portato un poco di divino in noi, che l’abbiamo conosciuto. La sua “Banda della Posta” lo accompagna con la filosofia nella quale è vissuto: un lavoro ben fatto, che non si prende mai sul serio.

A lui è dedicato questo disco fatto di racconti in musica, cic’ tu cic’ e bottaculo.

A quadriglie, a cinquiglie, fino all’incontrè.
Biglietto18 euro Prevendite Boxoffice Toscana – Via Delle Vecchie Carceri, 1 – 50122 – Firenze – www.boxol.it – See more at: http://www.collinarea.it/vinicio-capossela-presenta-la-banda-della-posta/#sthash.T7fYV7T8.dpuf

Dalla voce di mamma e papà al tablet (e ritorno): la fiaba per i nativi digitali

mammaepapaVINCENZO SARDELLI | L’immaginazione e la fantasia, sprigionate da quel breve respiro che è il racconto, animano il progetto web Ti racconto una fiaba. Un format tutto italiano. La più completa collezione di fiabe, con più di 1.500 testi, video e audio, nata dalla passione di più di 500 autori, coinvolti su contenuti classici e originali.

Chi, oltre trent’anni fa, paventava che il video avrebbe ucciso la stella della radio, dovrebbe dare un’occhiata al portale www.tiraccontounafiaba.it. La redazione diretta da Manuel Ronzoni, mente dell’iniziativa, vi inserisce le fiabe classiche; utenti di tutte le età condividono la propria creatività inviando fiabe nuove e originali. Le app ufficiali iOS e Android ne permettono la diffusione a più di 300 mila utenti che hanno eseguito il download (gratuito) dell’app.

La tecnologia, spesso demonizzata come killer della fantasia, diventa qui volano di diffusione dell’antichissima fiaba. Di quel mondo magico e meraviglioso popolato da fate, principi, orchi e draghi, dove sono normali le trasformazioni e gli incantesimi.

Che la tecnologia avrebbe rafforzato, non frenato, il potere immaginifico delle fiabe era del resto dimostrato dai tanti film che hanno incantato l’infanzia di tutto il dopoguerra: dai teneri cartoni di Walt Disney agli effetti speciali ormai vintage della Storia Infinita e di ET, fino alle saghe tridimensionali di Harry Potter e del Signore degli Anelli.

Ti racconto una fiaba è un progetto gratuito per tutti gli utenti. Un esempio di condivisione sociale di contenuti, nel rispetto dei diritti d’autore, con l’intento di fornire un supporto educativo e d’intrattenimento ai soggetti che “raccontano le fiabe”: genitori, insegnanti, educatori, nonni. La possibilità di condividere i propri testi è anche uno stimolo alla creatività di piccoli e grandi autori: un’offerta di visibilità unica e gratuita, per rendere il gioco interattivo.

La versione 2.0 dell’applicazione Android mira a rendere l’app ancora più coinvolgente. L’utente può registrare le fiabe durante la lettura, per consentire al proprio bimbo di riascoltarle quando vuole. La voce del genitore rende la fiaba ancora più caratteristica. La funzione educativa della fiaba è esaltata dal ruolo di chi la racconta. L’utente può condividere il proprio racconto audio con la funzione di invio al portale. Queste particolarità distinguono il progetto di Ronzoni da tanti altri siti che abbiamo visto, anche stranieri, che per lo più si limitano a riportare il testo delle fiabe, con uno spazio in genere insignificante alla multimedialità, e talvolta monografie ed apparati enciclopedici più adatti alla fruizione di un accademico che di un bambino.

Innovazione e folletti vanno dunque a braccetto in un mondo dove i nativi digitali possono recuperare nella tecnologia contenuti con radici nella narrazione orale più tradizionale. Ti racconto una fiaba permette di trasmettere la cultura popolare nella nuova era, rivitalizzando contenuti che altrimenti andrebbero dispersi nella rivoluzione hi-tech. La diffusione tramite social network sta affermando www.tiraccontounafiaba.it e www.itellyouastory.com come riferimenti per tutti gli appassionati e per quanti fossero alla ricerca di fiabe originali o classiche, in versione testuale o multimediale.

La versione anglofona I’ll tell you a story (www.itellyouastory.com) e la relativa app Android sono nati nell’aprile 2012 con l’idea di replicare il modello italiano, con il supporto del British Council. I riscontri sono positivi, anche ai fini dell’insegnamento della lingua inglese.

Un buon esempio di Made in Italy, dunque. Hai visto mai che insegniamo ai nostri bimbi che con la cultura (e la fantasia) si può anche mangiare?

Un unico suggerimento: inserire sempre tag e link alla fine di ogni fiaba: faciliterebbe il lavoro degli insegnanti nel costruire percorsi tematici e mappe concettuali.

Disegno Renzo Francabandera

I link

www.tiraccontounafiaba.it
www.itellyouastory.com
APP Android: https://play.google.com/store/apps/details?id=it.tiraccontounafiaba.android https://play.google.com/store/apps/details?id=com.itellyouastory.android
APP iOS: https://itunes.apple.com/it/app/ti-racconto-una-fiaba/id576918839 https://itunes.apple.com/us/app/english-bedtime-stories/id595458766
Fiabe: i colori della fantasia…
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=1L7ZBYORnBY&w=420&h=315]
…e quelli della natura!
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=vR1LmE5NjRE&w=560&h=315]

Programma

manifesto Collinarea_

Dal 19 al 28 luglio la piattaforma web PAC/PaneAcquaCulture.net seguirà tramite focus scritti e multimediali il Festival Collinarea 2013 di Lari (PI) a cura di Scenica Frammenti in collaborazione con Pontedera Teatro.

FESTIVAL COLLINAREA 2013 – LARI
Genius Loci
19 luglio > 28 luglio 13 

venerdì 19 luglio ore 22.15 – Tenuta Agricola – Torre a Cenaia Crespina
Vinicio Capossela
presenta
La Banda della Posta
“Primo ballo”
con Giuseppe Caputo Matalena – violino; Franco Maffucci Parrucca – chitarra e voce;
 Giuseppe Galgano Tottacreta – fisarmonica
; Giovanni Briuolo – chitarra e mandolino
; Vincenzo Briuolo – mandolino e fisarmonica
; Giovanni Buldo Bubù – basso
; Antonio Daniele – batteria; Crescenzo Martiniello Papp’lon – organo
; Gaetano Tavarone Nino – chitarre
; Vito Tuttomusica – strumenti
; Vinicio Capossela – voce; Asso Stefana
 – chitarre; Taketo Gohara-  suono
prima tappa del tour 
mercoledì 23 luglio ore 14.30-18.30/ sabato 20 luglio ore  9.30-15 / domenica 22 luglio  ore 9.30-15  / lunedì 22 luglio ore  14.30-18.30 / martedì 23 luglio ore 14.30-18.30
Circolo Arci di Usigliano
Workshop con Teatro dell’Oppresso
A chiusura, mercoledì 23 luglio ore 19.15 – Forum Teatro dell’Oppresso
Costo: 150 €
Info e iscrizioni: gabriele@scenicaframmenti.com – 3482602993
sabato 20 luglio ore 19.15 – Teatro di Lari
domenica 21 luglio ore 19.15 – Teatro di Lari
Teatri Minimo
Il Guaritore
di Michele Santeramo
testo vincitore della 51a edizione del Premio Riccione per il Teatro
regia Leo Muscato
con Vittorio Continelli, Simonetta Damato Gianluca Delle Fontane Paola Fresa, Michele Sinisi
produzione Teatro Minimo e Fondazione Pontedera Teatro
coproduzione Riccione Teatro, Festival Internazionale Castel dei Mondi di Andria
in collaborazione con Bollenti Spiriti – REGIONE PUGLIA, Assessorato alle Politiche Giovanili e alla Cittadinanza Sociale, Assessorato alla cultura del Comune di Bitonto
produzione e organizzazione Luca Marengo per Teatro Minimo, Angela Colucci per Fondazione Pontedera Teatro
anteprima nazionale
sabato 20 luglio ore 20.30 – Castello di Lari
Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards
Open Program
Una dedica in azione
con Mario Biagini, Davide Curzio, Robin Gentien, Agnieszka Kazimierska, Felicita Marcelli, Ophelie Maxo, Graziele Sena, Suellen Serrat
diretto da Mario Biagini
sabato 20 luglio ore 21.15 – Castello di Lari
Carullo – Minasi
Conferenza tragicheffimera sui concetti ingannevoli dell’arte
libera interpretazione da La situazione dell’artista di T. Kantor, L’arte del Teatro di G. Craig  e  Ione di Platone
scritto, diretto ed interpretato da Cristiana Minasi
coregia Domenico Cucinotta
produzione Carullo-Minasi
coproduzione Fondazione Campania dei Festival e E45 Napoli Fringe Festival
Spettacolo Vincitore del Premio  E45 Napoli Fringe Festival 2013
sabato 20 luglio ore 22.15 – Teatro di Lari
Scenica Frammenti
Il Sogno del Marinaio
da Il Marinaio di Fernando Pessoa
con Iris Barone, Alice Giulia di Tullio, Giulia Vagelli
regia Loris Seghizzi
collaborazione alla regia Gabriele Benucci
prima nazionale
domenica 21 luglio ore 17
sabato 27 luglio ore 17, partenza da Lari, piazza Matteotti
Percorsi d’incanto
Trekking con Giovanni Balzaretti
Evento a prenotazione con minimo 15 partecipanti
Costo: 15 euro
Info e iscrizioni: gabriele@scenicaframmenti.com – 3482602993
domenica 21 luglio ore 21.15 – Castello di Lari
Teatro dei Venti
InCertiCorpi
con Francesca Figini
regia Stefano Tè
produzione Teatro dei Venti
anteprima
domenica 21 luglio ore 22.15 – piazza Vittorio Emanuele
La Quiete Teatro
La roba finta
Spettacolo omeopatico con gocce di dolore / intima resistenza alla menzogna delle plastiche
di Rossella Cabiddu, Pietro Piva, Marta Sappa
con Rossella Cabiddu, Pietro Piva
testi di Pietro Piva
regia Marta Sappa
Compagnia vincitrice Premio Anteprima
lunedì 22 luglio ore 20.30 – Castello di Lari
Debora Mattiello
Κρíσις (Crisis)
Una fiaba popolare
Primo Studio
lunedì 22 luglio ore 21.15 – piazza Vittorio Emanuele
LeVieDelFool
Macaron
di e con Simone Perinelli
aiuto regia Isabella Rotolo
scene Leonardo Vacca
regia Simone Perinelli
consulenza artistica Isabella Rotolo
lunedì 22 luglio ore 22.15 – Teatro di Lari
Teatro dei Venti
Tremori
appunti per la nascita di uno spettacolo
con Francesco Bocchi, Oksana Casolari, Beatrice Pizzardo, Antonio Santangelo
drammaturgia Michele Pascarella
regia Stefano Tè
produzione Teatro dei Venti
primo studio
martedì 23 luglio ore 21.15 –  Ponsacco (località Camugliano)
Guascone Teatro
Insalata con dita
di Jiga Melik (alias Alessandro Schwed)
con Andrea Kaemmerle
produzione Guascone Teatro
martedì 23 luglio ore 22.15 – Castello di Lari
Compagnia Laboratorio SF
da mercoledì 24 a giovedì 25 luglio ore 9.30 -13.30 – Circolo Arci di Lari
venerdì 26 luglio, ore 9.30 – 13.30 – Teatro di Lari
Reliquiario 5: La lingua degli insetti
Workshop sul Nuovo Metodo di Approccio all’Arte Drammatica
con Andrea Cramarossa
Costo: 50 €
Info e iscrizioni: gabriele@scenicaframmenti.com
mercoledì 24 luglio ore 19.15 – Salone del Castello di Lari
Francoise Bougault
Sinfonia per Irma
La vera storia di X
di e con Françoise Bougault
luci e tecnica Lara Monterastelli
musiche originali Ilaria Carlucci e Franky Cosentino
si ringrazia Percorsi Rialto e Pav Roma
si ringrazia Roberto Latini
prima Toscana
mercoledì 24 luglio ore 21.15 – Castello di Lari
Berardi – Casolari
In fondo agli occhi
di Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari
regia César Brie
mercoledì 24 luglio ore 22.15 – piazza Vittorio Emanuele
Pierpaolo Capovilla
La Religione del Mio Tempo
Reading in tre atti su Pierpaolo Pasolini
alla voce Pierpaolo Capovilla
al pianoforte e “diavolerie elettroniche” Kole Laca
giovedì 25 luglio e venerdì 26 luglio ore 19.15 – Salone del Castello di Lari
Focused Research Team in Art as Vehicle
Workcenter of Jerzy Grotowski
Focused Research Team in Art as Vehicle
The Living Room
diretto da Thomas Richards
con Antonin Chambon, Tzu-Len Chen, Benoît Chevelle, Jessica Losilla Hébrail, Bradley High, Tara Ostiguy, Min Jun Park, Cécile Richards and Thomas Richards
giovedì 25 luglio ore 20.30 – piazza Vittorio Emanuele
Carrozzeria Orfeo
Thanks for vasellina…
drammaturgia Gabriele Di Luca
regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
con Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Beatrice Schiros, Alessandro Tedeschi, Francesca Turrini
produzione Carrozzeria Orfeo, Fondazione Pontedera Teatro
primo studio
giovedì 25 luglio ore 21.15 – Teatro di Lari
Kanterstrasse
Muro
vita di NOF4, astronautico ingegnere minerario nel sistema mentale
di Francesco Niccolini, Laura Montanari e Fabio Galati
con la collaborazione di Luigi Rausa e Filippo Quezel
con Marco Brinzi, Simone Martini, Ciro Masella, Riccardo Olivier
drammaturgia, regia Ciro Masella 
giovedì 25 luglio ore 22.15 – Salone del Castello di Lari
Compagnia Ragli
L’italia s’è desta
un piccolo [falso] mistero italiano
con Dalila Cozzolino
progetto Compagnia Ragli
testo, luci e regia Rosario Mastrota
spettacolo vincitore del Festival per monologhi UNO – Teatro del Romito, Firenze
da venerdì 26 a domenica 28 luglio – Arci
ore 16-18 con i bambini // ore 18-20 con gli adulti
Workshop con Roberto Kirtan Romagnoli
Gumaleti Drumming Lari
Ritmo, Vita E Percussioni
Corso di Pedagogia Musicale per bambini ed adulti attraverso la via naturale del Ritmo con le percussioni del mondo.
Un indimenticabile viaggio alla scoperta del proprio talento musicale
Costo: 30 €
Info e iscrizioni: gabriele@scenicaframmenti.com – 3482602993
venerdì 26 luglio ore 20.30 – Castello di Lari
We Were Monkeys
Falling apart
scritto e interpretato da Beatrice Vollaro
venerdì 26 luglio ore 21.15 – Castello di Lari
Fortebraccio Teatro
Noosfera Museum
di e con Roberto Latini
musiche e suoni gianluca misiti
luci max mugnai
produzione Fortebraccio Teatro
prima Toscana
venerdì 26 luglio ore 22.15 – Teatro di Lari
Scenica Frammenti
13 6 81
con Dimitri Galli Rohl e Carlo De Toni
regia Loris Seghizzi
produzione Scenica Frammenti
prima nazionale
sabato 27 luglio ore 20.30 – piazza Vittorio Emanuele
Lo Sicco – Civilleri
frammento da tandem
ideazione e regia Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco
con Manuela Lo Sicco e Veronica Lucchesi
testo di Elena Stancanelli
produzione UddU
anteprima nazionale
sabato 27 luglio ore 21.15 – Teatro di Lari
Teatrino Giullare
Finale di partita
di Samuel Beckett
allestimento da scacchiera per pedine e due giocatori
diretto e interpretato da Teatrino Giullare
produzione Teatrino Giullare
Premio Speciale Ubu
Premio Nazionale della Critica
Premio Speciale della Giuria 47^ Festival internazionale “Mess” di Sarajevo
sabato 27 luglio ore 22.15 – Castello di Lari
Andrea Cramarossa / Teatro delle Bambole
Kafka nel regno dei cieli
di e con Andrea Cramarossa
produzione Teatro delle Bambole
sabato 27 luglio e domenica 28 luglio ore 16 -19 – Giardino del Comune – Lari
workshop con Ammonia Danza Corrosiva
Urban contamination dance
diretto da Valentina Gallo
Costo: 50 euro
Info e iscrizioni: gabriele@scenicaframmenti.com – 3482602993
domenica 28 luglio – Lari dalle ore 20
INAREA
Bobo Rondelli
Presenta
A FAMOUS LOCAL SINGER
Il poetico live brass &roll di Bobo Rondelli e l’Orchestrino
Kirtan Romagnoli
Gumaleti Drumming Lari
Ritmo, Vita E Percussioni
Teatro Cinico
Fueye Milonguero
voce Deborah Chantal Cristinelli 
Bandoneon: Jeronimo Casas
Valeria Volpi
Blues in Red
Vino Tigre
progetto blues-acustico
con Matteo Sciocchetto – voce; Lorenzo Niccolini – chitarra
Rios en movimiento – Compagnia di Flamenco
Gaetano Ventriglia e Silvia Garbuggino
it’s my life
due attori – un musicista – questa vita
Ammonia Danza Corrosiva
Danceciclyng
con Vincenza Gallo
Nico Baixas
Guants Mans Show
Cantieri Osso del Cane
Cantieri Acustici Mediterranei

TEATRO
MUSICA
DANZA
LABORATORI
Tenuta Agricola di Torre a Cenaia, via Delle Colline 63 – Cenaia – Crespina
Teatro di Lari, via Dante – Lari
Circolo Arci, via Gramsci – Lari
Circolo Arci Usigliano, località Usigliano  – Lari
Giardino del Comune, Piazza Vittorio Emanuele II, 2 – Lari
Info e biglietti su www.collinarea.it Tel. 0587 350688 – info@collinarea,it
Biglietti
Biglietto unico per serata 12 euro
Vinicio Capossela Banda della Posta Musica per sposalizi: 18 euro – circuito BOX OFFICE TOSCANA
e on line su http://www.boxol.it

Bancarella, ma non il premio. Ivan Arnaldi e il Bisonte Bianco

gocce di scritturaCARIBALDI | Piccola precisazione riguardo al titolo, per evitare fraintendimenti. Non ho niente contro il Premio Bancarella, o almeno per ora, la mia attenzione non è mai stata catturata da tale evento, che poi, come tutti gli eventi di questo genere, si sta trasformando, (o è già avvenuto?), in presenzialismo di volti e nomi fritti e rifritti con alle spalle macchine da guerra di case editrici sempre più prolifiche dal punto di vista quantitativo anziché qualitativo, ma tant’è. Tanto poi è il tempo a definire la qualità. Per consolarmi penso spesso, tra lontane memorie universitarie all’esaustiva Storia della letteratura italiana di Giulio Ferroni, a due nomi, Prati e Aleardi, considerati nell’Ottocento poeti di chiara fama, ma dei quali oggi in pochi ricordano persino il nome. Ed a proposito di questa lunga introduzione non posso esimermi dal segnalare un breve saggio del sopra citato Ferroni, ovvero Scritture a perdere. La letteratura negli anni zero, che può fornire utili indicazioni ai lettori di romanzi e perché no, anche ai giurati del sopracitato premio.
Uso il termine “bancarella” nel senso di luogo in cui si possono trovare, spesso a bassissimo costo, perle rare, libri di cui negli anni si è persa notizia, autori che hanno preferito dedicarsi alla loro opera senza rincorrere festival e salotti televisivi e non. Così, nelle mie peregrinazioni, mi sono imbattuto in una libreria che all’esterno offre, mescolati tra generi e case editrici eterogenei, in una cassa di legno, che fa un po’ cassa da morto, mucchi di libri ad un euro. Ed io, pseudo Martin Eden di provincia, come sempre mi sono fatto abbacinare dal fascino dello struzzo e ho comprato quei pochi Nuovi coralli Einaudi (l’aggettivo Nuovi è quanto mai lontano dalla realtà). Tra questi, ho scovato un testo di Ivan Arnaldi, Il Bisonte Bianco (1989), che si è rivelato una sorpresa, soprattutto per la capacità dell’autore di mescolare vari generi, dal romanzo al saggio, in un incrocio tra Melville, l’Angelo Maria Ripellino di Praga magica e il Michele Mari di Tutto il ferro della Torre Eiffel. Tutti libri da leggere, questi tre, “che ve lo dico a fare?”.
Ma Il Bisonte Bianco è anche, o forse soprattutto, un atto di denuncia contro il massacro e il genocidio degli Indiani d’America, contro il sistematico espandersi del capitalismo protestante –tematica quanto mai attuale- che nel tempo ha affinato tecniche di affermazione spietate. Così, lo spunto narrativo di fondo, forse un po’ debole rispetto al resto, è solo occasione per una riflessione colta, ricca di rimandi –Melville e la sua Balena Bianca su tutti, il Leviatano, etc- sulla figura del bison, bisontis (per dirlo alla latina), così vicina all’ancestrale toro che già in epoca micenea rappresentava il mito, il simbolo della natura, con il quale l’uomo era costretto a confrontarsi e che poi si è perpetrata nel moderno rito della corrida.
Seguiamo il protagonista, Isacco Babel (ricordate Isaak Babel’?), che parte alla ricerca del bisonte bianco, accompagnato dal pistolero Shane, figura di cavaliere che molto ha in comune con le figure medievali del ciclo bretone di Chrétien de Troyes e si imbatte in vari personaggi, che hanno popolato e popolano universi contemporanei di fumetti e celebri lungometraggi.
Colpisce, nell’opera di Arnaldi, la finezza con cui analizza l’epopea della Frontiera, il mito dell’West, tra figure spietate di assassini di indiani e di cacciatori di bufali, protagonisti di una campagna sistematica di sterminio che ha permesso di estromettere e ridurre in minoranza i pellerossa. Così l’infanzia di noi adulti (absit iniuria verbis) assume un sapore amaro, capta un odore dolciastro di sangue e fa persino rabbia, vi dirò, riascoltare Buffalo Bill di De Gregori. Incontriamo Calamity Jane, David Crockett, Custer, Geronimo, figure che poi sono passate alla storia, grazie a un processo di mistificazione che ha teso a giustificare azioni inqualificabili, atroci, ma che hanno costruito e imposto miti e valori, che nel tempo hanno avuto la meglio sulla verità storica. La simbiosi tra gli Indiani e il bufalo è stata tranciata di netto ed è stata una delle cause principali che ha permesso la nascita e la colonizzazione di un territorio che, fino all’arrivo dei coloni, era regolato da ben altri equilibri.
Ma non intendo fare del semplice trito e ritrito antiamericanismo. Niente politica, s’il vous plaît. Che poi ci infarciamo di retorica e perdiamo il gusto di non prenderci sul serio, cosa fondamentale e cosa che ne Il Bisonte Bianco, è uno dei tratti distintivi dello stile e della narrazione. Voglio solo porre l’attenzione su un autore, Ivan Arnaldi, che meriterebbe maggiore attenzione. Così, soffermiamoci di più sulle bancarelle, che magari, in un mattino d’estate, per caso, vi mettono in mano pagine ingiallite ma che, se guardate bene, sono velate di polvere d’oro. In Italia, di questi tempi, ci sono anche quelle.

Disegno di Renzo Francabandera

Mondocane#14 – Tutti dicono “Non sono Stato io”.

paranoie di cimabueMARAT | Ma veramente c’è qualcuno che ci crede? E non dico agli angeli, alla reincarnazione, agli alieni, alla musica indie, al tabaccaio sotto casa aperto a quest’ora o che Armstrong non si dopasse. Libertà autonoma di abbindolamento. Ma che la spesa per gli F35 venga dirottata alla cultura è roba da professionisti dell'(auto)illusione. Come quando un giorno di maggio del 1973, mio padre all’estero, apre un quotidiano straniero e legge: Verona – Milan 5:3. Si consideri che era l’ultima giornata di un campionato dominato dalla squadra di Nereo Rocco e se proprio buttava male si poteva ancora rimediare con un pareggio, c’era già il Veuve Clicquot in fresco. A questo punto si può capire come mio padre, all’epoca bello, giovane, innamorato e un po’ dandy, abbia chiuso il giornale pensando a un refuso. Due cifre invertite. Beata illusione. Era la Fatal Verona… Comunque non sia mai, magari questa volta non è così. Ma per quanto mi riguarda, sono pronto a mangiarmi il cappello, come Rockerduck. E devo ammettere che un po’ rimango pure spiazzato che in tanti ci possano credere con tale leggerezza. E magari prenderne spunto in un pezzo, per riflessioni teatrali, precoci giudizi politici, assoluzioni di categoria. Per sottolineare anche come i teatranti quasi mai siano stati responsabili della crisi attuale, quasi mai colpevoli di cattive gestioni. Mah. Sarà. E sorvolo sull’appello retorico che qualcuno finalmente dica come noi si campi male. Che mi fa pensare che non solo non ci sia dialogo fra vecchi e giovani (e per me vecchio e anziano a teatro sono sinonimi, tranne rari casi a cui mando un abbraccio forte, fortissimo). Ma nemmeno fra colleghi coetanei. Tornando all’innocenza, credo sia sintomo di un difetto atavico del teatro e dei suoi protagonisti. Evidentemente anche dei suoi protagonisti più lucidi. Ovvero che il teatro sia buono e la politica sia cattiva. Che il teatro sia una cosa e il resto del mondo un’altra. Ben distinti. Tutti santi, tutti vittime. Ma i teatranti hanno eccome responsabilità nell’attuale crisi. Di settore e non. E penso a gestioni e furberie, alla non tutela dei lavoratori, all’ipocrita difesa dello status quo che diviene sistema. A (soprattutto) l’incapacità di proporsi come categoria. E piaccia o meno, anche i teatranti fan parte di una comunità. Votano, eleggono rappresentanti, hanno un governo da sostenere o a cui opporsi. Il considerarsi innocenti ed estranei al resto della società, sbandierare una illibatezza acritica, tradisce un senso di diversità (una snoberia) che molto ha da spartire con il complesso d’inferiorità. Ed è questa la distanza. Fra il lottare insieme per un proprio diritto e l’inseguire una regalia. Una chimera.

Vecchi e giovani. Ode e bestemmia a mio padre

san-gimignano-1300-1RENZO FRANCABANDERA | Che c’è bisogno che ce lo diciamo, che qui non ci parliamo. Che i figli non conoscono i padri e i padri neanche i nomi dei figli. Anzi, ancora ancora i figli conoscono i nomi e le gesta paterne. Ma molti di questi padri misconoscono i figli. Si celebrano in epoche che furono. Dove c’era il pre, il post, lo strutturalismo e il destrutturalismo, l’avanguardia, la post e la trans. Noi invece siamo transgender dalla nascita, crossmediali. Per loro c’era il partito. Per noi il partito è partito e rimaniamo ad aspettare in stazione un treno di cui non conosciamo orario e destinazione.
Ero a San Gimignano, dove per la seconda edizione del Festival Orizzonti Verticali, si è avuta la felice e disperante idea di avvicinare generazioni di interpreti, critici e appassionati di teatro. I vecchi non conoscevano neanche i nomi dei figli/nipoti. Che generazione terribile, quella di chi non riconosce il suo futuro, del nonno che scansa la guancia del nipote per guardare il telecomando e cambiare canale.
Si, vi ho odiati: voi che parlavate del mondo che con voi finisce. Di tutto quello che dopo di voi non sarà più. Di tutto quello che già ora non è più come prima. Di voi che per leggere correttamente il mio cognome di merda, lungo e insolito, dovete inforcare lenti bifocali, perchè ovviamente non sapete neanche come mi chiamo, dopo mezz’ora che siamo uno di fronte all’altro.
Eravamo in pochi, eppure le torri di pietra di San Gimignano erano metafora perfetta dell’isolamento in cui ognuno era chiuso, erto e irto nell’autorappresentazione del proprio potere, del proprio organo sessuale, di quell’erezione logorroica infantile, onanistica.
Non sarò mai abbastanza grato a chi mi ha invitato per avermi fatto comprendere alcune profonde verità sul fare arte e sul dialogo fra generazioni nell’arte e nel teatro oggi.
Perchè ha avuto il coraggio di mettere nella stessa gabbia la mangusta e il serpente. E mi è venuto di colpo in mente la lettera di Antonio a Delio, in cui lui dalla prigione gli chiede se ha letto la storia della mangusta Rikki-Tikki- Tawi. DI quando la lessi da bambino ne L’albero del riccio. A lui che pur distante si interessava di coltivare il futuro dei figli. Di segnarne il cammino. Anche solo per corrispondenza. Invece i nostri padri, i grandi vecchi del teatro stanno andando via uno dopo l’altro senza parlarci, senza voltarsi indietro, quasi come il padre di Zeno, e sul letto di morte, cadendo ci mollano persino uno schiaffo. Loro, che in alcuni teatri hanno avuto la poltrona fissa, sempre quella, per anni.
Noi, che a mala pena gli accrediti.
Loro che scrivevano in terza pagina con Montale e Malaparte. Loro che scrivono su giornali che ora non si stampano neanche più. Noi che non ci abbiamo mai scritto.
Loro, sempre ben elencati nelle rassegne stampa anche per trafiletti al pepe verde, in salsa addolcita da un invito a cena della compagnia, e poi la prefazione del libro, l’intervista al regista. Noi, che invece non fatichiamo a esser letti, ma a strappare qualche co.co.pro con qualche giornalino di provincia su cui raccontare un festival.
Loro che pure il padreterno gli rimborserà il viaggio all’oltretomba, manderà qualcuno in stazione a prenderne l’animaccia e si curerà di rimboccargli le coperte prima di andare a dormire e di mandarli al diavolo. Noi, che se un festival ci elemosina un rimborso spese e una branda quasi scodinzoliamo.
Ecco come siamo ridotti.
Chiamateci per nome. E provate a ricordarvene anche domani. Se vi riesce.

Il Nemico Pubblico. Arte e coscienza dietro le sbarre

copertina ennemi publicMARIA CRISTINA SERRA | Se l’arte contemporanea è anche una lente di ingrandimento che mette a fuoco le distorsioni del presente, quando entra oltre le sbarre del carcere, con le sue illuminazioni diventa testimonianza di smarrimento esistenziale. Uno sguardo dissacrante che scala gli alti muri di cinta fuori dai quali il mondo esterno si immagina al sicuro, separato da quello destabilizzante dei reati e delle pene. Un’immaginazione libera per raccontare gli abissi, dove le parole perdono senso e non pronunciarle può sancire la salvezza, per dilatare il non-spazio e misurare il non-tempo. Un tentativo di fissare con tensione emotiva quel microcosmo di vite perdute, intrecciate di solitudini e promiscuità per coglierne le speranze disattese e i desideri soffocati, sparpagliati e immiseriti lungo i labirinti dei corridoi sbarrati da cancelli insuperabili.

Più della cronaca, su ciò che avviene “dentro”, con il carico di violenza, sovraffollamento, suicidi e disperazione, sono le parole di Dostoevskij a farci riflettere: “Il grado di civiltà della società si misura dalle proprie prigioni”. Mentre in Italia scorre il film infinito sulle nuove misure detentive (dopo la condanna di Strasburgo), in Francia gli artisti si affidano alla concretezza delle loro visioni. “Era da molto tempo che pensavo di realizzare una mostra sulle prigioni”, ci dice Barbara Polla, scrittrice e gallerista d’arte a Ginevra e Parigi, “da sempre questa tematica è stata al centro della mia emozione politica, la mia prima ribellione contro l’assurdità  di ciò che gli uomini fanno agli altri  uomini. Sogno l’arrivo di un nuovo Basaglia che possa aprire quelle porte, così come lui ha fatto per i manicomi in Italia”. Così è nato il progetto sull’ “Ennemi Public”, con una  prima mostra alla galleria parigina di Magda Danysz, spazio affacciato sulla strada, ma “con delle sbarre a tutte le finestre, sulle quali sono state posti vasi pieni di fiori bianchi come omaggio a Jean Genet”. E poi, conferenze, performance, video, la pubblicazione del libro “L’Ennemi Public” (La Muette ed.) scritto insieme a Paul Ardenne con il contributo di artisti di fama mondiale, legati tra di loro dall’idea  “dell’arte come sollecitazione e azione politica” e dal comune desiderio di coniugare estetica ed etica. ”Sono artisti in costante lotta, non con un Public Enemy, ma con i loro nemici interni”, spiega Barbara Polla, che vivono pienamente  sia le assonanze  fra immaginazione e realtà sia le dissonanze del brutto per filtrare il bello. Come in un gioco di rimandi incrociati le opere escono delle gallerie ed entrano nelle pagine scritte; le soggettività tracciano parabole ardite per fondersi in oggettività dense di connessioni fra letteratura e filosofia.

l'ultimo pasto condannato a morteJoanna Malinowska modula la sua arte di “antropologa culturale”, in perenne dualità fra materia e spirito nella ricerca di un equilibrio fra diverse culture, per chiedere la grazia di Leonard Peltier (nativo americano, militante dell’AIM, sepolto in un carcere federale da 36 anni, condannato a due ergastoli senza prove certe), con una lettera a Obama e un cadeau di tabacco profumato per siglare la pace con i “First Nations”.

Le tonalità fiamminghe delle composizioni stampate su pelle di capra di Mat Collishaw (al museo Pascali di Polignano a Mare una sua personale) “Last Meals on Death Row”, riscrivono le nature morte seicentesche ispirandosi all’ultima cena dei condannati a morte nelle carceri USA con tocchi di “sublime orrore”. L’intreccio fra mondo letterario e artistico e quello dell’esperienza è declinato con rigore dal filosofo e storico dell’arte Paul Ardenne. “La prigione esiste, è un dato materiale, uno spazio, un perimetro di vita, un luogo di coscienza. Va visibilizzata, interrogata sul suo significato di rivelatore intimo, sociale, immaginario, simbolico”. Sfogliando le pagine si entra in un percorso circolare che libera la mente dal pregiudizio. Si colgono le intuizioni laiche e razionali e la consapevolezza di Foucault, i frammenti poetici di Genet e il suo “Chant d’Amour”, il crudo realismo della serie TV americana Prison Break, l’esistenzialismo di Heiddegger, le lacerazioni e le sconfitte dopo le illusioni di Kafka. Non si sfugge alla condanna nel “Processo”. E nella “Colonia Penale” è sempre certa la colpa. Compie un viaggio nella memoria Jean-Michel Pancin nella penombra della prigione Saint-Anne di Avignon, ricomponendo con la cura del dettaglio, simile a un affresco di Balzac, la vita dei suoi abitanti. La luce accecante entra come lamelle, a intermittenza, nel buio delle celle: “Ho fatto dialogare la luce solare, la libertà e la potenza dei muri, depositari delle storie dei detenuti”. Jhafis Quintero (ex-detenuto a Panama, artista alla Biennale di Venezia) abbatte le pareti della reclusione e delle tante solitudini: ”La creatività è essenziale per sopravvivere. Mi ha permesso di organizzare in maniera estetica il pensiero, mi ha fatto rappresentare la trasgressione che è parte di me”.

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Teatro dell’Arte, fucina multimediale con Schino, Studio Azzurro e Ikeda

schinoVINCENZO SARDELLI | Riapre il Teatro dell’Arte-Triennale come luna park intimistico. Porte aperte tra edifici architettonici: il pubblico si riversa negli spazi dell’edificio progettato ottant’anni fa da Gio Ponti. È un percorso inusuale, con attraversamento di generi e sperimentazione di nuove forme espressive. È un modo diverso di essere spettatore, un intreccio tra teatro, musica e danza con arti applicate, architettura e design, grazie agli strumenti offerti dalle nuove tecnologie digitali e dall’immagine elettronica.
Tre spazi, tre luoghi creativi. Si parte con il gruppo Opera, diretto da Vincenzo Schino, presente con l’installazione Il bosco / passaggio con respiro, su pitture di Pierluca Cetara. Si prosegue con Retroscena2 / memorie aeree di camera astratta di Studio Azzurro e Paolo Rosa. Si finisce con Test pattern del giapponese Ryoji Ikeda, con il suo linguaggio musicale e visivo totalmente generato da un computer.
Tre spazi, tre luoghi dell’anima. Un viaggio escatologico sfasato e senza lieto fine, verrebbe da dire: purgatorio, paradiso e inferno, senza ritorno.
Suggestiva la prima tappa, con dipinti su tela che raffigurano soggetti umani in preda a un sonno vicino alla morte. Occhi chiusi su quelle tele, visi animati dalla luce che sale, scende, sfuma, si spegne, accompagnata dal riverbero di note eseguite al pianoforte da Federico Ortica. La relazione crossmediale coinvolge lo spettatore, supera la percezione bidimensionale, crea una drammaturgia del respiro. È forse la parte più poetica del viaggio. La luce mostra l’intensità del colore, la forza delle pennellate, la corposità della materia creativa. Svela trasparenze. Questi dipinti-arazzi formano una foresta d’immagini e inquietudini, di spettri ed estasi. Sublimano nella seconda tappa del percorso.
Ci arriviamo lambendo i camerini, dove si preparano per la scena non attori o truccatori, ma corde e fasci di luce. Proprio corde pendenti, colpite a pois da fasci di luce, insieme a onde elettromagnetiche e suoni onirici, saranno protagoniste della Camera astratta. In questo spazio delle meraviglie si rimane a bocca aperta davanti ai caleidoscopici effetti luminosi. Si percepisce l’essenza dell’uomo, “misura di tutte le cose”. Non è l’arte in sé che ammiriamo, ma l’interazione tra arte e luce.
Dal paradiso all’inferno il passo è breve. Il celebrato Ryoji Ikeda, star giapponese dell’intreccio di musica e arte visiva, attende immobile. Sul maxischermo alle sue spalle, azionate dal computer, scorrono geometrie in bianco e nero come rettangoli di cruciverba sillabici e quadrati di scacchiere, nastri rullanti, e codici a barre. L’inganno pirotecnico s’accompagna a fischi assordanti, sibili e ronzii, rombi come locomotive e mitragliatrici. L’irreale disarmonia, squilibrio di luci e ombre, diventa alienante macchina tecnologica, catena di montaggio che fagocita e bombarda lo spettatore. I fuochi d’artificio elettronici diventano monotonia soffocante, martellamento dei timpani (e dei maroni). È una sequenza sferragliante senz’anima, né sentimento né pentimento. Se la musica di Mozart è euritmia, proporzione che stimola intelligenza e pensiero divergente, quest’esibizione, che dipende dai capricci del demiurgo, sortisce l’effetto di un impasticcamento d’ecstasy sotto i rumori devastanti di una discoteca techno-house. Con la differenza che non godi neppure un secondo e ti riempi il cervello di radicali liberi. Gli allucinanti effetti sonori di Ikeda, Hikikomori del palcoscenico, mettono alle corde il sistema nervoso.
È una prova di resistenza. Molti spettatori s’allontanano già dopo i primi minuti. Rimangono gli stoici. Alla buonora, dopo sessanta minuti di percussione autistica, Ikeda schizza via tra qualche applauso, silenzi esterrefatti e alcuni fischi.
Usciamo dalla sala con una gran voglia di gelato. Persuasi che, d’ora in poi, troveremo la poesia anche nell’alito pesante di un ultrà o in una barzelletta spinta di Berlusconi.
L’arte di Ryoji Ikeda (o le bizze della Tv degli albori)
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