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Piemonte Movie gLocal Film Festival 2013: un’edizione “ridotta all’osso”

Piemonte Movie 2013-manifestoGIANCARLO CHIARIGLIONE | Nonostante il precedente annuncio della sospensione della manifestazione, il Piemonte Movie gLocal Film Festival si terrà anche quest’anno. Ma il tradizionale appuntamento volto a offrire uno spaccato sulla recente produzione del cinema piemontese, sulle speranze dell’intero movimento regionale, che dal 13 al 16 marzo 2013 si terrà presso la Sala Il Movie di Via Cagliari 42 a Torino, sarà un’edizione particolarmente asciutta, “ridotta all’osso”, come suggerisce l’emblematica immagine della locandina.

Il tentativo dell’Associazione Piemonte Movie di dare continuità al Festival sabaudo, seppur con un numero ridotto di opere e con le due sole sezioni competitive Spazio Piemonte e Panoramica Doc, rappresenta una sfida irrinunciabile, dall’alto valore simbolico; questa volta vinta anche grazie all’intervento del Comune di Torino.

Venendo ai film in concorso, la sezione Spazio Piemonte, ha selezionato i migliori cortometraggi dello scorso anno, provenienti da tutta la regione, di cui solamente 15 concorreranno per il Premio Miglior Cortometraggio (1.250 euro) assegnato dalla giuria presieduta dal critico cinematografico Steve Della Casa. L’altra sezione, Panoramica Doc, quest’anno propone solamente 5 documentari rispetto agli usuali 10 delle precedenti edizioni. Al Premio Miglior Documentario, assegnato dalla giuria presieduta dallo storico del cinema Franco Prono, verrà affiancato il Premio Maurizio Collino (1.500 euro). I migliori lavori di entrambe le sezioni riceveranno, inoltre, il Premio Torèt, la nuova statuetta ufficiale del festival che riproduce in miniatura (20 cm di altezza per 3,3 kg di ghisa) gli originali Toretti verdi realizzati proprio da La Fonderia Pinerolese che produce le celebri fontanelle per la città subalpina.

Si aggiungono inoltre due Premi del Pubblico (200 euro in prodotti Libera Terra), che saranno assegnati al cortometraggio e al documentario preferiti dalle persone in sala. Durante questi quattro giorni, saranno dunque proiettate 26 opere (con l’aggiunta dei 6 documentari fuori concorso) molto differenti per genere e tematiche affrontate: si passa dal thriller all’animazione, dal documentario artistico alla commedia, dalla videoarte al mockumentary. Inoltre, molti dei lavori in concorso provengono da festival partner (“100 Ore Torino”, “Muuh Festival”, “PDFF Piemonte Documenteur Film Festival” , “La Danza in 1 minuto”) o hanno partecipato e vinto premi a festival nazionali e internazionali. Notevole è l’unica anteprima assoluta in programma a Panoramica Doc, “L’ultimo chilometro. Vincere, perdere, lottare, fino all’ultimo chilometro” del regista cuneese Paolo Casalis: un documentario fuori concorso sul mondo del ciclismo che aprirà l’attuale edizione della kermesse torinese.

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WIP: il pensiero contemporaneo raccontato ai giovani

LAURA NOVELLI | “Un modo per sprecare tempo. Per rovistare nel retrobottega della creazione artistica. Per fermarsi sul pensiero interrogandosi su cosa ci sia dietro la scena contemporanea”. Così Roberta Nicolai, da anni alla guida della compagnia Triangolo scaleno teatro e del festival Teatri di vetro, introduce il progetto “W.I.P. Work in process” che, in sinergia con il portale Pensieri di Cartapesta (www.teatridivetro.it e www.pensieridicartapesta.it), propone un tirocinio formativo per gli studenti del Dipartimento di Filosofia e di Storia dell’Arte e dello Spettacolo dell’università “La Sapienza” al fine di ritracciare, con l’ausilio di docenti universitari e di artisti di diversa provenienza (dal teatro all’arte visiva, dalla musica alla danza), quei sentieri teorici che muovono la produzione culturale (ed intellettuale) odierna e soprattutto il senso profondo di una creatività giocoforza chiamata a ricostruire, oggi, i suoi linguaggi, le sue estetiche, le sue prospettive future e, perché no, le sue linee di fuga dalla tradizione e dalle certezze (mai certe del tutto d’altronde) del passato. E dunque quest’importante iniziativa, che si snoda fino al 12 aprile in diversi spazi del quartiere San Lorenzo di Roma e che ben si inserisce nella più ampia dimensione di riflessione sul contemporaneo sviluppatasi all’interno di C.Re.S.Co. (Coordinamento delle realtà della scena contemporanea, www.progettocresco.it), intende offrire a docenti e discenti occasioni di incontro per decifrare il presente uscendo anche da un’ottica settoriale delle diverse espressioni artistiche.

Perché è anzi proprio dal cortocircuito tra ambiti distinti del sapere (con affondi speciali, ad esempio, nella ricerca estetica, negli sconfinamenti della performance, nella musica elettronica) che può scaturire una mappatura dell’oggi davvero utile e un riposizionamento del ruolo dell’arte che risulti significativo a livello sociale e collettivo. Anche  quando – tanto più quando – l’arte mette a repentaglio modelli, cliché, forme che hanno cullato il nostro apprendimento culturale e il nostro gusto estetico per secoli o decenni. Particolarmente emblematico è stato a tal riguardo il primo incontro in scaletta, “Il gioco della rappresentazione”, condotto da Gianni Farina della compagnia Menoventi (due anni fa vincitrice del Premio Rete Critica, www.menoventi.com) e con la partecipazione di Roberto Ciancarelli, storico del teatro, e di Davide Valenti, artista visivo. Da polo generatore del dibattito, la rappresentazione si è trasformata in un fertile terreno di riflessione sull’antirappresentazione; o meglio sulla necessità di rompere le convenzioni, di confondere le “cornici” del fatto rappresentativo allo scopo di restituire sulla scena quella zona di confine per metà dentro alla struttura drammatica e per metà fuori che rimanda inesorabilmente alla fragile indeterminatezza dell’uomo contemporaneo.

Seguendo il filo di Arianna delle ultime produzioni del gruppo, Farina ha parlato ai giovani studenti di Hoffmann, di Lynch, di studi di ambito logico, percettivo e cognitivo, ha mostrato dipinti di Magritte, opere di Escher, raccontando un teatro che, in modo più complesso rispetto persino allo straniamento brechtiano, gioca con se stesso (e dunque con la sospensione del’incredulità e il patto immedesimativo del pubblico) per smontare la finzione, per metterla in bilico su un burrone, per agire su un’intelligenza percettiva nuova, diversa, che sia allenata al dominio dell’incertezza. Un paradosso, in definitiva. E in questo paradosso oggi, volenti o nolenti, ci siamo immersi fino al collo tutti, tanto che – ci sembra di poter concludere – non è più solo la rappresentazione a poter/dover decostruire se stessa partendo dalle sue cornici, ma la realtà nel suo complesso appare percepibile e vivibile solo se compromessa costantemente dall’idea di un suo ribaltamento.

Il discorso ovviamente non si ferma qui e certamente questi provocanti semi di pensiero troveranno modo di essere recuperati anche nei successivi incontri del progetto (“Sconfinamenti e confini” con Federico Bomba di Sineglossa, “Scrivere in scena” con Francesca Macrì, Andrea Trapani, Andrea Baracco e Andrea Cosentino, “L’immagine non indifferente con Daniele Villa, “E=Mc2 elettronica=mondo classico 2.0” con Simone Pappalardo, “Corpi reali, corpi lavorati” con Paola Bianchi). Agli allievi tirocinanti viene inoltre offerta l’opportunità di scrivere dei contributi personali che verranno pubblicati sul sito di Pensieri di Cartapesta, di frequentare un seminario sulla tecnica di scrittura di recensioni e interviste curato da questa stessa testata e di seguire la prossima edizione di Teatri di Vetro (dal 20 al 30 aprile al teatro Palladium e in diversi luoghi della Garbatella) per realizzarne il diario giornaliero. Motivo in più per rafforzare la convinzione che parlare dell’oggi, farsi un’idea del contemporaneo sia innanzitutto un atto di condivisione, di sinergia a più livelli, di innesti generazionali e culturali. E sia anche un atto di coraggio.

Perché a dire il vero ci si sente un po’ come dei funamboli sul filo: il reale sfugge (“siamo quasi all’Apocalisse”, diceva domenica scorsa Massimo Cacciari alla radio) e l’arte sembra incline ad un post-post-post-moderno furiosamente in cerca di raccontare questa fuga.

Codice Ivan: AAA, felicità cercasi

GMGS2bisVINCENZO SARDELLI | Zona K a Milano, quartiere Isola, nuovo luogo di scambio tra generazioni, arti e culture, è il palcoscenico ideale per uno spettacolo come “GMGS – What the hell is happiness?”, allucinata riflessione post-moderna sull’(in)felicità, tagliente fiaba darwiniana senza lieto fine.
È la contaminazione di linguaggi la cifra stilistica di Codice Ivan. Caratterizza questa compagnia l’intreccio di multiformi soluzioni visive e di eclettiche abilità fisiche, in cui suoni e luce svolgono un ruolo decisivo.
Start. Buio pesto e bagliore fluttuante s’alternano. Dal cono d’ombra nasce una creatura mostruosa, avvolta da una maschera diabolica, preludio a una sorta di rito iniziatico. All’indistinto subentra l’atto creativo, l’informe genera la bellezza. Dallo stordimento di rumori confusi affiora un’armonia di rituali amplificazioni corali, che sublima nel lirismo di “Casta Diva”, lunare preghiera di Vincenzo Bellini.
In questo show ortogonale introdotto dalle intense vibrazioni di chitarra dei Private Culture, la scena è un pavimento-lavagna di forma rettangolare. Su di esso si curva Anna Destefanis, scimmia e velina, bella e bestia. La performer sardo-britannica incide disegnini, parole e scarabocchi che una telecamera digitale proietta su una parete verticale, nella quale lei stessa finirà per immortalarsi, diventando, come Charlie Chaplin in “Tempi moderni”, meccanismo degli ingranaggi. È un’animazione live. Lo zoom della telecamera fonde l’infinitamente piccolo e il virtuale, ritagli di giornale e disegni.
Il Divertinglese didascalico della protagonista dialoga, illustrandoli, con i cartelli che alla rinfusa l’altro performer, Benno Steinegger, porta in scena. La sequenza dei cartelli post-it fissa una catena stravagante: “Un tempo ero una scimmia”; “ero libero”; “mangiavo solo banane”; “ed ero felice”; “vivevo in un mondo perfetto”.
L’afflusso di cartelloni è incessante, intasa ogni centimetro dello spazio scenico. Il teorema che si delinea è che nella Storia progresso e senso estetico equivalgono a corruzione. La corruzione reca infelicità. Tra implacabili riferimenti illuministici stile Rousseau e stranianti soluzioni brechtiane, Codice Ivan propone come irrazionale scissione quello che, alla mentalità corrente, appare normale e ragionevole. Proiettata alla parete, si snoda una trama d’immagini di successo dichiarato ma effimero e velleitario. Il palco diventa caos di cubitali slogan in bianco e nero, che inchiodano l’umanità ad alternative-ultimatum: è preferibile essere uomini o donne? È meglio un figlio o un cane? Un cane o una casa? Una macchina o un figlio? Stare con lui o con lei? Con lei o con un’altra?
“GMGS – What the hell is happiness?” traccia con leggerezza e ironia una visione paradossale della storia dell’umanità. Felice era la mitologica infanzia antropomorfa correlata a uno stato di natura spensierato e appagante, dall’estetica scimmiesca nutrita di banane. Il degrado, l’infelicità avviene quando si passa dall’allungato ricurvo frutto con buccia gialla degli ominidi alla mela dell’Eden, dall’irsuta disarmonia dei quadrumani alla platinata afrodisiaca avvenenza femminile in t-shirt. Il climax dell’inanità si raggiunge quando la protagonista si produce in un buffo ballo-karaoke sulle note de “La isla bonita” di Madonna, fino alla denuncia dell’ossessiva contemporanea dipendenza da medicine, gioielli, fiale, droghe e social media.
La nostra vita di bestie civilizzate degenera verso l’egoismo. Chiede di colmare un ossessivo senso di vuoto. Impone di decidere. Decidere, etimologicamente, significa tagliare. Ogni scelta è lacerazione. Ogni lacerazione risucchia l’umanità in un vortice vizioso. Non resta che il delirio distruttivo. Steinegger, come un posseduto, s’impossessa di un mazzo di fiori tramite cui scarica una veemente grottesca forza annientatrice, squarciando i cartelloni che lui stesso aveva portato in scena.
Codice Ivan si mantiene fedele anche con questo progetto al bisogno di analizzare le istanze della società. Interroga e scuote il pubblico. È un teatro a tutto tondo che preferisce la forza icastica del gesto al potere descrittivo della parola. È un percorso artistico multimediale che sottolinea l’importanza evocativa e simbolica del suono, il potere delle immagini che interagiscono in tempo reale col corpo.
Il gioco di Codice Ivan diventa attualità. Senza farlo pesare, senza prendersi sul serio, diventa riflessione, pensiero, politica. È condanna dell’onnivoro capitalismo che rigurgita una perenne insoddisfazione, fino a esplodere.
L’originale performance drammaturgica e scenica, che si vale dell’apporto di Leonardo Mazzi, ha tutta l’aria di un “work in progress” che non dà risposte o ricette. Procede per flash, in una sorta di partenogenesi che tutto mescola e ridefinisce, nella fusione dei vari linguaggi, alla ricerca di significati sempre nuovi.
[vimeo http://www.vimeo.com/28557787 w=400&h=300]

World Mobile Congress 2013: tra Social e crisi economiche

mwc-hola-300x225ALESSANDRO GUALANDRIS | “Vedi è questo il tuo problema. Tu immagini ci sia qualcosa quando invece non c’è niente. Tu immagini di avere una vita quando invece spacci solo pezzi di vita di altri e le parti frantumate della tua”

Strange Days, 1995 

Il World Mobile Congress 2013, tenutosi a Barcellona tra il 25 e il 28 febbraio, ha portato grandi novità nell’ambito della comunicazione mobile. I grandi colossi si sono sfidati a colpi di schermi dalle dimensioni sempre più elevate e dalla definizione impareggiabile. Alla domanda, meglio smartphone o tablet, molte case han risposto con la novità del momento, il Phablet. Questo dispositivo, che ha nella genesi del suo nome anche la sua natura, nasce infatti dal mix di “phone” e “tablet”, sembra soddisfare molto il pubblico indeciso tra un telefono dallo schermo limitato e un PAD dalle ingombranti dimensioni. Dotati di schermi che variano tra i 5 e i 7 pollici, capaci di combinare le caratteristiche di smartphone e tablet, i Phablet hanno portato in terra spagnola diverse novità. Per fare un esempio, Huawei, con il suo Huawei Ascend Mate, dotato di un processore quad core a 1.5GHz, 2GB di memoria RAM, punta molto sulla praticità, concependo il proprio prodotto in modo tale da garantirne l’utilizzo anche solo con una mano e addirittura con un touch screen talmente sensibile, che ci permetterà di usarlo anche con i guanti. Sembrano piccoli accorgimenti, ma quando la gara alla tecnologia migliore è troppo intasata, meglio puntare sulle praticità quotidiane, che alla fine sono alla base delle migliori vendite.

Windows, con il suo sistema operativo Windows Phone 8, punta ad allargare la sua fascia di vendita, cercando di raggiungere terminali più accessibili al pubblico, come il Nokia Lumia 520. Smartphone semplice, sottile e dai colori intercambiabili, il nuovo figlio della serie Lumia punta dritto a chi non vuole spendere un capitale per il proprio telefonino, ma nemmeno vuol restare escluso dal virale mondo dei social. Attestato al prezzo di lancio che non supererà i 200 euro, sicuramente darà del filo da torcere a molti suoi simili. Scelte come quelle di Nokia e Windows sono un segnale importante. Esiste ancora una grossa fetta di pubblico che appartiene alla vecchia generazione di telefonini, ancora legati ai phone e non agli smartphone, ma che alla fine, volenti o nolenti, dovranno cedere alle leggi di mercato. Tuttavia la crescita nel campo dei suddetti smartphone è stata tale, che arriveranno a confrontarsi con sistemi incomprensibili e costi da far rizzare i capelli. Coprire questa fascia di neo acquirenti potrebbe voler dire una nuova svolta commerciale.
Asus, invece, sembra non preoccuparsi della domanda che ci siamo posti all’inizio, portando l’ennesimo smartphone trasformato in tablet, il Padfone Infinity. Al di là delle sue caratteristiche, il prezzo non di certo competitivo, si parla di oltre 900 dollari, rischia di minarne la popolarità. Cosa che, al contrario, potrebbe essere l’arma vincente del FonePad un tablet/phablet da 7″ con piattaforma Intel in arrivo a 229 euro. Sony risponde con l’Xperia Tablet Z: un tablet con risoluzione Full HD resistente a polvere, sabbia e acqua. Di sicuro quest’estate ne vedremo diversi sulle spiagge più rinomate. Quindi ancora un certo connubio tra un prezzo abbordabile e una tecnologia che fornisca un comodo utilizzo.

Anche le piattaforme software rispondono sul piano dell’alta prestazione a prezzi accessibili. Finalmente il tanto atteso Firefox OS, che nella precedente edizione venne solo anticipato, sembra aver trovato un posto dove stare, il nuovo ZTE Open, primo telefonino a montare tale software. Se il risultato sarà quello annunciato, si potrà sperare di avere un dispositivo a costo relativamente basso ma che abbia un piattaforma agevole per i programmatori, garantendone longevità.

Si è molto discusso anche di LTE, la nuova tecnologia che dovrebbe rappresentare il futuro della banda larga. Uno dei tentativi migliori per introdurla nei nuovi terminali, sarà quella di integrarla con i servizi di rete già presenti. Ci prova Qualcomm, con i prodotti della linea xE910, sfornando sistemi che suddivideranno l’utilizzo tra LTE e 3G in modo da poter investire con molta più calma sul neo sistema senza perdere la consolidata esperienza esistente. La speranza è che tali tentativi siano abbracciati da più case possibili e che la banda larga abbia finalmente la possibilità d’espandersi anche in Europa (e soprattutto nel Bel Paese).
Se tanti prodotti si son visti, molti, invece han latitato. Al di là delle assenze clamorose, ma del tutto previste, Apple su tutte, ciò che molti attendevano era la possibilità di vedere nuovi smartphone e tablet, dotati di batterie più capienti. Infatti, uno dei più annosi problemi degli utilizzatori, sono proprio le cariche non certo infinite dei loro dispositivi. Sembra che, anche per quest’anno, sia d’obbligo portarsi sempre con sé il caro vecchio caricatore, per evitare di vedere comparire quella fastidiosa batteria rossa che decreta la fine di ogni attività, qualsiasi sia l’avanzatissimo prodotto che abbiamo tra le mani.
Altra domanda che in molti internauti si sono fatti è legata al processore NVIDIA Tegra. Dopo mesi di possibili spoiler e di anticipazioni, si pensava di vedere diversi dispositivi dotati di questo processore che, in teoria, dovrebbe migliorare di parecchio le prestazioni dei servizi, soprattutto dei giochi, sui nostri nuovi sistemi. Tuttavia la scelta ancora non sembra essere quella intrapresa dai demiurghi della telecomunicazione. Attenderemo speranzosi future news.
Dunque, questa 3 giorni nella città spagnola, ha mostrato al mondo che la necessità di social e di condivisione in rete, regola il mercato del Mobile, che a sua volta, impone nuove leggi e si pone limiti quasi imbarazzanti. L’idea è che in un mondo di concorrenza così spietata, tenersi l’asso nella manica per l’ultima mano, significhi sopravvivere.
Vi rimandiamo al sito ufficiale della convention per tutti i dettagli di tutti i prodotti presentati, mentre noi vi mostriamo un video di un prodotto molto atteso ma che al World Mobile Congress si è visto solo indossato da qualche dipendente Google, che si aggirava sornione tra gli stand: i Google Glass.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=V6Tsrg_EQMw]

Cose da fare per portare a cena una grillina

marta-grande1ALICE CANNONE | “[…] Prima una, due, tre, quattro, da altrettanti alberi/ poi dieci, venti, cento, mille, non si sa di dove,/ pazze di sole; poi tutto un gran coro che aumenta/ d’intonazione e di intensità col calore e col luglio, e/ canta, canta, canta, sui capi, d’attorno,ai piedi/ dei mietitori./ Finisce la mietitura, ma non il coro. Nelle fiere/solitudini sul solleone, pare che tutta la pianura/ canti, e tutti i monti cantino, e tutti i boschi cantino…”

Le cicale – Giosuè Carducci  

Sembra doveroso per ogni perfetto gentiluomo che si rispetti, davanti a siffatti scenari geopolitici, interrogarsi sulla strategia vincente da attuare per portare a cena una “grillina” dabbene in età da marito, in modo da garantirsi se non un ammazzacaffè quantomeno la sua “fiducia”, costituzionalmente parlando s’intende.

Il nostro gentiluomo ha il sentore che la scelta del ristorante potrebbe essere sin dal principio più difficile di qualsiasi altra trattativa sulla legge elettorale. Ma infatuato della bella temeraria, che sa affrontare la vita come le intemperie  a testa alta al grido di «Chiudete questi c…o di ombrelli!», il nostro gentiluomo non demorderà. Cinese? Una pizza? McDonald? E la riposta sarà sempre quella: un serafico “Decideremo di volta in volta, noi seguiamo le idee!” con tanto di braccia conserte e musettino un po’ arricciato. Nel plausibilissimo caso in cui vogliate smorzare l’atmosfera con una prima uscita di gruppo sappiate che comunque  non si scende a compromessi: nel caso di impasse naturalmente sono bandite tutte le coalizioni. Salvo poi riuscire a risolvere la questione con un voto on line dopo essersela tirata un po’.

Ed anche la scelta del menù sarà per il nostro giovane eroe un tribolato cammino, dovendo assecondare la fascinosa grillina in richieste azzardate come carbonarasenzauova, tacossenzaguacamole, pdmenoelle. Sembra quindi doveroso informare il nostro gentiluomo su una infallibile tattica che, all’insegna di un sano cerchiobottismo, eviterà figuracce e renderà felice la sua bella: il nostro gentiluomo l’acqua se la dovrà portare in brocca da casa, sciorinando ad alta voce un pippotto sul danno sociale generato dalle aziende che distribuiscono  acqua in bottiglia, salvo poi fare occhiolini e pollice sollevato ai camerieri che finalmente potranno tirare un sospiro per la furia scampata.

Il conto naturalmente sarà alla romana, reduce dell’insindacabile “Uno vale uno!”. Non sperate in gustosi programmi del dopo serata. “Tutti a casa!” vale per i politici fanfaroni quanto per gli amorazzi lumaconi. Ma  con un pizzico di infoiata sagacia si può improvvisare un cineforum sui video di Casaleggio, che vale quasi quanto un invito a vedere la collezione di farfalle.

Non ci si stupisce quindi, se alla luce di impervie traversie e lunghi tentennamenti si preferisce ad una grillina la cicala di Esopo.

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Nella caverna della mente: Ronconi rilegge Pirandello all’insegna di Matrix

in cerca d'autore. studio sui sei personaggi 02LAURA NOVELLI | Un’ossessione. Un’angosciante proiezione della Fantasia (la maiuscola è d’obbligo) che prende vita in uno spazio vuoto spogliato della sua identità di palcoscenico per diventare cornice onirica di una nascita tutta interna alla testa dell’Autore. Nel suo raffinato studio sui “Sei personaggi” di Luigi Pirandello, in scena fino al 28 marzo al teatro India di Roma, Luca Ronconi ancora una volta entra nelle fibre del testo e, lavorando con quindici giovani e bravissimi attori diplomati all’Accademia Silvio D’Amico, li guida ad un’analisi profonda sia dell’opera sia della sua celebre Prefazione (“[…]Quale autore drammatico potrà mai dire come e perché un personaggio gli sia nato nella fantasia? Il mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale […]”), al fine di tradurre in linguaggio contemporaneo quell’indeterminatezza e pluridimensionalità dell’atto creativo che oggi, bombardati come siamo da mondi paralleli e panorami virtuali, non può che rappresentare un’urgenza etica ed estetica. Ecco dunque questo “In cerca d’autore”, costruito in due anni di laboratorio al Centro Teatrale Santa Cristina e poi debuttato al Festival di Spoleto della scorsa estate, rincorrere il modello di Matrix per mostrarci uno sciame di ombre/automi costrette a posture, movenze e registri vocali lontani da accenti realistici che, strisciando o camminando attaccate alle pareti come fossero cavie da laboratorio, allontano la rappresentazione dai cliché del metateatro (ambito d’altronde già splendidamente esplorato nella messinscena di “Questa sera si recita a soggetto”, debuttata a Lisbona nel maggio del ‘98) e la spingono fuori dalle convenzioni teatrali, fuori dall’abusata contrapposizione tra la vita e le forma, fuori dalla riflessione pirandelliana sul binomio persona/personaggio.
Perché qui, a differenza per esempio dalla lettura comunque “post-pirandelliana”del dramma fatta nel 2003 da Carlo Cecchi, non è la (geniale) forzatura della forma drammatica operata dall’autore siciliano ciò che interessa al regista quanto la dimensione di pensiero “sul” pensiero (o, forse, “nel” pensiero) e l’oscillazione costante tra reale e iper-reale, norma e mostruosità, razionalità e libertà onirica che innervano il dramma. Con sconfinamenti in un immaginario robotico tanto moderno quanto irrimediabilmente angosciante.
E basti vedere a tal proposito la scena “ctonia” e terrigna dello sventato incesto, o anche la recitazione sovraesposta ed erotica della Figliastra (l’ottima Lucrezia Guidone), così come quella della languida Madre (Sara Putignano, immortalata in un grido muto che tanto ricorda “L’urlo” di Munch ma anche un passaggio della straordinaria Helene Weigel in “Madre coraggio e i suoi figli” di Brecht), e quella fugace ma incisiva di Madame Pace (Alice Pagotto). Persino l’apparente naturalezza del Padre (Massimo Odierna) lascia facilmente intuire una distanza enorme dal naturalismo – appunto – e dal dramma passionale di cui da sempre il personaggio si nutre. Tuttavia, questo mondo di ombre, forse proprio perché, senza più palcoscenico, la tessitura stessa del testo evidenzia le sue pieghe più teatrali, rimanda pure all’espressionismo di Marx Reinhardt (che dedicò a Pirandello un allestimento de “I sei personaggi” e uno, storico, di “Questa sera si recita a soggetto”) e dunque alla matrice tedesca della produzione pirandelliana, quella più moderna, più curiosa del futuro, più sperimentale e più psicanalitica.
Allora questi fantasmi sono certamente i fantasmi di una realtà confusa, di un reale che si riverbera e confonde nell’immaginario (e perciò figli legittimi dei nostri tempi), ma sono anche stracci di follia allucinatoria, sintomi di malattia. Il tutto contenuto, però, nella raffinatezza di un impianto recitativo  – perché si tratta proprio di uno spettacolo sull’attore e d’attore – studiato nei dettagli, che permette ad ogni singolo interprete di essere in perfetta sintonia con l’insieme. Spetta alla caparbietà raziocinante del capocomico di Davide Gagliardini (una bella prova per questo attore romano che seguiamo da anni e che ci è parso giunto a una maturazione espressiva davvero encomiabile) voler, per quanto possibile, ricostruire tale insieme. Egli rappresenta infatti l’alter ego dell’autore, il regista/mente, chiamato a mettere ordine in una materia che ordine non può avere. Lavoro da vedere e rivedere! In occasione, inoltre, delle repliche di “In cerca d’autore”, il Teatro di Roma ospita una retrospettiva video dedicata ad alcuni grandi allestimenti ronconiani, prima che il regista, simpaticamente coinvolto giorni fa all’Argentina in una conversazione con Gianfranco Capitta tesa alla presentazione del volume “Teatro della conoscenza” (Laterza), in cui il critico de “Il Manifesto” imbastisce una lunga intervista con il maestro e ne redige una dettagliata a appassionata teatrografia, torni nella capitale con “La modestia” di Spregelburd (in cartellone ad aprile).
Ovvero, con uno spettacolo anch’esso radicato nel contemporaneo che, proprio come questo laboratorio su Pirandello, scardina cliché e luoghi comuni per (tentare di) raccontarci qualcosa del nostro confuso, incerto, faticoso terzo millennio.

La via per la perfezione secondo Gordon

gordon ramseyALESSANDRO MASTANDREA | L’avvento, nell’orizzonte televisivo italiano, dei canali tematici e più in generale delle pay-tv ha posto – e continua a porre- domande di non facile risposta. Ci si domanda, infatti, se sia stata la nascita dei canali tematici a impoverire la TV generalista, oppure se i primi abbiano semplicemente effettuato una ricerca di forme e contenuti nuovi, oltre quei confini solitamente battuti dalle seconde.

Sia come sia, oggigiorno è impossibile negare quanto l’offerta dei palinsesti sia tutto un proliferare di nuovi canoni e format, che declinano in vario modo l’esperienza raggiunta dai reality. Il ventaglio delle nuove proposte, che anche gli squattrinati utenti della TV generalista possono apprezzare, racchiude tutto lo scibile delle umane esperienze e afflizioni. Ne sono un esempio le future spose alla disperata ricerca di, nell’ordine, un vestito, una torta, un’altra futura sposa, oppure i corsi di cucina ma anche di sopravvivenza nei quali, a seconda dell’abbisogna, è richiesta particolare abilità nel cucinare prelibate pietanze o deglutire, senza troppe storie,  polposi scarafaggi o croccanti scorpioni del deserto.

In  questo tourbillon di offerte, per distinguere l’una proposta dall’altra, la scelta dei nomi delle trasmissioni non può non tradire doti di guizzante fantasia. Si va dai sempreverdi “abito da sposa cercasi” e “abito per damigella cercasi”, ai più controversi “la guerra delle spose” e “grassi contro magri” (declinazione junk food del  nostrano “scapoli contro ammogliati”), fino al criptico “obesi”, variazione sul tema della mai troppo rimpianta TV del dolore. Una menzione a parte va fatta per il burtoniano “Tabatha mani di forbice”.

Real Time (canale 31 del digitale terrestre), per gli squattrinati utenti di cui sopra, è forse il rappresentante più emblematico di una nuova estetica che, sembrerà strano,  presenta molte affinità con la vita politica nostrana. Anzitutto, proprio come alcuni ben noti partiti, sono programmi “personali”, programmi cioè inscindibili dall’immagine della persona che li presenta, ben al di là del semplice concetto di identificazione programma-conduttore; in secondo luogo, queste star sono solitamente dei professionisti “prestati” alla televisione.

Sotto quest’ottica, non vi è dubbio che il principe di questo nuovo mood catodico sia Gordon Ramsay, personaggio che in Italia è solito frequentare i lidi mediatici sia di Real Time che di Cielo. Alla faccia del conflitto di interessi.

Chef di inveterata esperienza, Ramsay è persona incapace di risparmiarsi, disposto a offrire la propria personale opera salvifica a chiunque, disperato, ne faccia richiesta. Demiurgo del raviolo fatto a mano o del filetto al pepe rosa, la via verso la catarsi televisiva che egli propone passa – al pari di alcuni ordini monastici- attraverso il dolore e la rinunzia. Se necessario anche attraverso l’umiliazione; non la sua, naturalmente.

In questo tripudio di Ego e cucina d’autore, due sono le strade che egli propone per la scalata alla perfezione. La prima prevede che il sant’uomo si sposti di luogo in luogo per diffondere il verbo con fugaci permanenze non più lunghe di tre giorni. E’ il caso di “Hotel da incubo” e “Cucine da incubo”. In entrambe, Gordon è chiamato a imprese disperate, nel tentativo di risollevare le sorti di Hotel e Ristoranti sull’orlo del fallimento. Il lieto fine, la catarsi, è sempre garantito. Non prima però di aver sottoposto gli sfortunati proprietari all’estenuante fuoco di fila delle sue critiche. E in perfetto stile anglosassone, ama infierire preferibilmente su coloro che, pur nel disastro, dimostrano una certa alterigia; sebbene nei casi umani più problematici – questo gli va riconosciuto – dimostri doti di delicatezza inaspettate. Tuttavia, negli altri casi, non va certo per il sottile e nell’escalation dei suoi commenti la metafora non è mai contemplata: “Non sentite che puzza?”; “E’ un pastone insipido”; “E’ una schifezza calda”; “Ci hanno pisciato sopra?”.

Eppure, sembrerà paradossale, dopo il “trattamento Ramsay” i fortunati proprietari non possono fare a meno di ringraziare. La salvezza di un’attività, cui sono legati i destini di più di una famiglia, val bene qualche insulto, così come li vale una possibile carriera da chef di grido. O almeno è quel che sperano i concorrenti di Masterchef USA e Hell’s Kitchen, le due trasmissioni che hanno spostato decisamente in avanti l’asticella della rappresentazione televisiva del cucinare, e anche la seconda delle suddette strade per la perfezione.

Immaginate di fondere assieme il talent show più crudele con  La prova del cuoco , davanti ai vostri occhi non potrà non spalancarsi l’abisso. Un girone infernale, in cui i concorrenti sono stretti tra le fiamme dei fornelli e quelle ancor più calde dei giudizi del giudice fustigatore. Poiché “molti sono i chiamati ma pochi gli eletti”, solamente una manciata di concorrenti può aspirare ad arrivare alla fine del percorso, non prima però di aver ripetuto come un mantra le parole “Si, chef. Certo, chef. Grazie Chef”.

A Gordon Ramsay va dunque il merito di aver dato un taglio nuovo e inquietante alla cucina in TV, un nuovo tipo di esperienza, tuttavia già superata dal successo di Master Chef Italia. “Nuovi mostri” si stagliano all’orizzonte, ma di questo avremo modo di parlare prossimamente.

Gordon Ramsay racconta il format di Hell’s Kitchen
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Cucine da Incubo USA
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Hotel da incubo
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La strega e il gentiluomo

baciamano1ASSUNTA PETROSILLO | Sul proscenio, a sipario semiaperto, ad attendere e scrutare gli spettatori, quattro teschi in penombra adagiati su un baule carico di sogni infranti, di speranze evase. Sono i fantasmi della storia ad evocare la vicenda umana e sociale di un popolo alla deriva, in una città martoriata, violata nella sua parte più intima, segreta. La violenza quella cruda, brutale che rende gli uomini  vittime e carnefici dei propri egoismi e che annienta e divora i vinti e i vincitori, è protagonista della grande e particolare storia.

In una Napoli martoriata, offesa, vituperata – come quella a noi contemporanea – due ‘mondi’ si incontrano e scontrano tra silenzi e nenie di altri tempi. È il 1799, anno della rivoluzione partenopea, il sogno di una rinascita democratica si è infranto disseminando intorno a sé solo ‘il resto di niente’.

In una sala svuotata da sedie e poltrone, una giovane donna (Sonia Seraponte) vestita di stracci si dimena, si agita chiedendosi come cucinare la prelibatezza che suo marito le aveva portato in casa per sfamare i suoi figli. La giovane lazzara è madre di quattro bambini, ‘Quatto fistole, quatt’ogne ‘ncarnate, quatto male ‘e mola’, che piangono per la fame, la miseria. Lei che parla in un napoletano arcaico, più vicino alla sua ‘vera’ essenza, è vittima e carnefice della sua stessa storia, imbruttita e invecchiata dalla violenza di un padre prima e di un marito poi che  ‘Mbriaco, ‘ncazzato e ‘ngrillato, primma me scomma ‘e sanghe e po’ fa ‘e commde suoie!… E all’urdemo a tutto, a titolo ‘e cumplimento, me vommeca pure ‘ncuollo’. Una vita spezzata che la rende simile alle bestie in cattività, rude, rozza ma che nasconde nel suo sogno infantile, tutta la sua purezza di fanciulla, bambina.   

Il suo nome è Janara,  sinonimo di strega,  è  lei  il vero fulcro della storia, il motore che tutto muove e tutto decide, con il solo uso della parola e dei suoi gesti, decisi, netti. Lei con quelle mani ‘da vaiassa, chiene ‘e nùreche comme a ddoie peròccole…Mane cunzumate d’’a fatica, p’’o troppo scerià panne e lenzola ‘ncopp’’e pprete d’’a funtana… Mane sfreggiate pe’ tutte ‘e vote ca m’’e sso’ pigliate a muorze… Mane ca pogneno comme ‘a raspa d’’o masterascio’  tratteggia e scandisce il tempo, le azioni. Da contraltare un gentiluomo giacobino (Luca Iervolino) alto, dall’aspetto gentile, dal linguaggio forbito, suo prigioniero.

Ed è lui la cena da cucinare, lui la vittima sacrificale della fame nera. Il giacobino cerca di spiegare alla giovane che chi ha vissuto come lui  ‘evitando con estrema cura tutto ciò che di basso, di laido propone l’esistenza quotidiana, per votarsi con fede assoluta alle riflessioni alte… nella prospettiva di un mondo migliore.. in un mondo in cui la giustizia possa trionfare sulla prevaricazione… e la pace fraterna sul barbaro principio dell’”homo homini lupus”… non può finire i suoi giorni alla scapece o all’acqua pazza’.

Lui che cerca di condurre Janara attraverso discorsi filosofici sul senso della vita, della morte, del dolore e della giustizia, è destinato ad una fine inumana, bestiale. È l’incontro-scontro tra due classi sociali, tra due realtà lontane che s’incontrano nella fabula ben intrecciata nel racconto.

Il giacobino chiederà a Janara di raccontargli una storia antica che possa assopirlo per permettere alla donna di cucinarlo come meglio crede. Ed è proprio il cunto ‘e Ficuciello che trasporta i protagonisti e gli astanti in un mondo ‘altro’, rarefatto, suggestivo. Qui la forza espressiva della giovane attrice aiuta gli spettatori ad allontanarsi dalla brutalità del momento storico. Si tratta di un racconto antico che ricorda il linguaggio di Basile, arcaico, lirico. Ed è qui che la giovane attrice dà prova della sua bravura, valorizza ogni parola, e laddove il linguaggio si fa carico delle forme più antiche, sono i gesti a semplificare i significati.

Il racconto ‘e Ficuciello non aiuta il giacobino a conciliare il sonno e allora è lui a chiedere alla giovane di esprimere un suo desiderio. Ed è qui che la giovane cala giù la maschera e sogna ad occhi aperti di essere una principessa alla quale un gentiluomo di turno compie quel rito complesso de ‘il baciamano’.

Un sogno che il giovane giacobino realizza in un momento incantato, e dove lei, Janara,  ‘sente’ per la prima volta ‘migliara ‘e furmicule hanno pigliato a correre ‘ncoppo e sotto pe’ cuollo a me… ‘A pelle nu mumento m’abbruciava e ‘o mumento appriesso se faceva fredda fredda cchiù d’’a neve!… E po’ …na sensazione ca m’è arrivata fino ‘ncapa, e ca nunn’avevo mai provato ‘nfino a mmo’. Nemmanco ‘a primma vota ca Salvatore m’astrignette dint’’e bbraccia’. Ad enfatizzare il magico momento le musiche eseguite dal vivo da Antonio Perna. Una lettura registica, quella di Fabio Cocifoglia,  di estrema sensibilità e delicatezza, che non tradisce il testo santanelliano, ma che al contrario è fedele al significato più intrinseco della storia e dei personaggi.

Il baciamano
di  Manlio Santanelli
Regia di  Fabio Cocifoglia
Janara Sonia Seraponte
Giacobino Luca Iervolino
Musiche di Antonio Perna
Produzione Il Torchio

L'origine del mondo: non maschile singolare

daria defrrian calamaroRENZO FRANCABANDERA | Da tre settimane eravamo alla ricerca di uno spunto per formalizzare una riflessione su “L’origine del mondo – ritratto di un interno”, spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro e affidato per la gran parte delle tre ore di durata alle spalle di Daria Deflorian e Federica Santoro. L’avevamo visto in una prima versione a Longiano nel 2011 con la regista che, fiammeggiando come solo a lei riesce, inseguiva i giornalisti diffidandoli dallo scrivere alcunchè su quanto appena visto, che reputava ancora in fieri (come se raccontare un’ecografia non descrivesse in qualche modo la forma di vita che si affatica a prender forma, ma per carità, è comprensibile nel rapporto con la creazione artistica).
Si cercava uno spunto, dicevamo, per confutare dal nostro punto di vista o quanto meno mitigare quanto dalla regista stessa dichiarato in una recente intervista: “Ho deciso di non rispondere più a tutte le domande che hanno a che vedere con le espressioni ‘teatro al femminile’, ‘spettacolo al femminile’ eccetera. Non mi interessa il ghetto, niente di personale, la mia è resistenza ideologica” rispondendo così alla domanda se ritenesse il suo uno spettacolo al femminile, appunto.
Premettiamo ovviamente che anche noi riteniamo i temi di genere per moltissimi versi superati per il modo in cui vengono posti oggi e in un certo senso perfino fuorivianti rispetto al cuore delle questioni che attanagliano il nostro tempo, ma siamo anche convinti che esista uno specifico; che sia uno specifico più avanzato, indipendente, che si interroga di più, che osa di più, che porta libertà dove si agita.
E’ successo in molte nazioni del mondo arabo, è successo e sta succedendo anche in Italia. Le grandi rivoluzioni sono nate per questioni di genere. Finanche il cristianesimo nel III secolo si affermò sul mitraismo perchè il culto della prima religione era permesso anche alle donne, a differenza della seconda.
Insomma esiste un tema di accessibilità: le donne indirizzano. Ascoltano. Si interrogano e interrogano. Magari ci ripensano. E poi di nuovo. Si dibattono e dibattono fino a rimanere esauste. Ma c’è una tenacia femminile che all’uomo, al maschio, è sconosciuta. E secondo me ne L’origine del mondo tutto questo viene fuori perfettamente. Viene fuori in un bianco abbacinante, in quei colori dei vestiti delle interpreti che sono tinte di Morandi (il pittore, lo dico per gli uomini, ndr), di cui pure si parla nello spettacolo.

Tuttavia (e magari potrà la riflessione che vado a svolgere sembrar leggera e generica, ma chiedo licenza di esser seguito per qualche riga ancora) quello che veramente si può dire di questo spettacolo, indipendentemente dal fatto che sia o meno femminile, è che certamente non è uno spettacolo che racconta la maschiezza, la maschiosità. E ne ho avuto completa consapevolezza riflettendo recentemente in merito alla censura del corpo nudo sui social network in una foto d’arte. “Ecco!- ho detto fra me e me -questo è quello che manca ne l’origine del mondo”: le due donne in nessun modo raccontano di sé in modo maschile, evocando la dinamica fisica o sessuale, ad esempio, o il rapporto bestiale di istinto alla sopraffazione, la regola del branco che anima in fondo in fondo il maschio di ogni specie.
origine del mondo federica santoroDi converso lo spettacolo racconta in modo interessante la bestialità (compresa l’umanità) femminile in tutte le sue sfaccettate, dolcissime e crudeli forme, mentre quella maschile è presente per negazione.
Insomma, magari non sarà femminile, ma non è maschile, il lavoro che la Calamaro propone e che le due interpreti così bene incorporano. Daria Deflorian arriva ad una immedesimazione zelig con il Calamaro-pensiero, dando corpo, voce e intenzione a questa donna matura, l’alter ego per certi versi della drammaturga, in bilico sul filo degli interrogativi e del dubbio.
Da maschio, ovviamente, nelle tre ore di spettacolo, ho più volte spento il cervello mentre le due donne nuotavano a larghe bracciate nel loro fiume di parole (prove d’attrici straordinarie davvero, giustamente premiate), ho attivato la funzione di udizione senza ascolto, pensato alla domenica sportiva, alla birra che avrei voluto dopo il kebab, alla partita dell’Inter. Insomma a tutto quello che nello spettacolo non c’era (e non avrebbe potuto esserci). Poi mi ricollegavo a “L’origine”, e dicevo fra me e me: “Cazzo, le donne si chiedono sempre cose molto più importanti e dense”. Quasi mi vergognavo dell’inferiorità oggettiva dei miei perché. Sarà per questo: come uomini si avverte soggezione.

Poi, meschino, nella pausa entro in bagno, finisco, lavo le mani ma prima di uscire clicco sul cellulare, mi collego e leggo “CALCIOMERCATO/ Inter, giallo Carew: non supera le visite, è solo in prova”. Penso che se mi vedesse la Calamaro avrebbe pena di me. Spengo subito. No dai, lascio acceso con la vibrazione, che magari mentre le donne qui parlano dei loro problemi, in tre ore Moratti mi compra qualcuno.
Quindi poche storie: o la prossima volta la Calamaro racconta anche dei maschi o faccia uscire noi dal ghetto (il nostro) e mentre va avanti lo spettacolo, visto che ormai si gioca praticamente tutti i giorni, proietti sulla parete in fondo, come le sovrascritte con le traduzioni negli spettacoli in lituano di Hermanis o Korsunovas, i risultati in diretta della Champions/del campionato (magari con l’elemosina degli autori e del minuto delle marcature). Un briciolo di maschile, in fondo, in alto, che non disturbi, mentre le sue meravigliose donne ci raccontano l’altra metà della specie, l’origine del mondo, l’utero, Courbet!

Arte e censura in rete nell'era della democrazia globale

albin guillot 2MARIA CRISTINA SERRA | Proprio alla vigilia dell’8 Marzo, data simbolica per celebrare i diritti universali delle donne, come a tutti noto e come da noi già commentato, la censura di Facebook si è abbattuta come una mannaia su di un’opera artistica, di scultorea e delicata bellezza femminile, “Etude de nu” (foto realizzata nel 1940 dalla grande fotografa francese Laure Albin Guillot), “postata” sul social network del museo Jeu de Paume, che ha allestito a Parigi un’importantissima retrospettiva “Laure Albin Guillot (1879 – 1962), l’enjeu classique” (fino al 12 Maggio 2013).
Non è la prima volta che capita un episodio del genere contro la pagina Facebook del Jeu de Paume: era già successo con altre due foto di nudi femminili di altrettanti maestri mondiali, come il francese Willy Ronis e il messicano Alvarez Bravo. Ed era scattata una sorta di diffida contro il museo ad utilizzare Facebook, se avesse di nuovo fatto ricorso a immagini del genere, seppure artistiche.
Uno strano accanimento censorio contro “la nuova arte”, quella della fotografia, inspiegabile, tanto che la direttrice Marta Gili si è detta intenzionata a “non pubblicare più dei nudi, anche se pensiamo che il loro valore artistico è grande e che queste foto, per nulla pornografiche, rispettano il “diritto” di pubblicare contenuti di natura personale. Non è autocensura, ma saremo costretti a descrivere le foto dei nudi, anziché farle vedere”. E questo sarà ancor più “scioccante”. Il museo non ha mai avuto contatti diretti con Facebook. Sorge quindi il sospetto di una “operazione stupidamente orchestrata”. Spiega la direttrice: “su queste grandi Reti, Facebook, Twitter, ci sono degli strumenti di controllo sconosciuti che fanno paura. Ora se la prendono contro una mostra, ma un giorno potrebbe estendersi ai siti politici e della società civile: che si farà allora?”.
Secondo Marta Gili, inoltre, “dietro a tutto questo, c’è un fondamentalismo obsoleto, una sorta di radicalismo religioso, contrario al nudo e soprattutto a quello delle donne. E comunque, ancora una volta, è con il corpo delle donne che si hanno dei problemi”. Il rettangolo nero, a lutto, che copre il nudo, ha avuto sicuramente, però, un effetto dirompente e involontariamente ha prodotto un messaggio pubblicitario presso l’opinione pubblica, stimolandola a visitare l’expo.
Una cosa analoga era già successa a Dicembre del 2010 con la singolare misura restrittiva, che aprì un dibattito lacerante, di vietare ai minori di 18 anni la visita alla mostra del Musée d’Art Moderne sul fotografo americano Larry Clark, faro della contro-cultura, da sempre al centro delle polemiche per le sue immagini di crudo realismo, che hanno messo a nudo l’immaginario di un’America “puritana e innocente” degli anni ‘60 e ‘70. Commentò allora l’artista: ”una maniera di scioccare e ferire gli adolescenti, un insulto alla loro intelligenza, alla loro libertà e capacità di giudicare. Era forse più opportuno interdirla agli adulti e a tutti coloro che posano uno sguardo pornografico sulla gioventù e la sessualità”. Un puritanesimo punitivo, che ancora una volta ha colpito non distinguendo fra oltraggio al pudore e arte.
Albin Guillot nudoSiamo forse di fronte alla nascita di una sorta di “nuova democrazia globale della rete” oppure nel bel mezzo di un gioco di potere governato da interessi economici? Con il suo “The Net Delusion” (“L’ingenuità della Rete”, Codice Edizioni) il politologo e blogger bielorusso, ricercatore all’Università di Stanford, Evgeny Morozov due anni fa metteva in guardia  la comunità intellettuale mondiale contro la “retorica di un’era dorata e salvifica del WEB”.
“Ci sono tutta una serie di miti su come funzionano le piattaforme online”, scrive, “Progetti come Wikipedia, Google e Facebook ci hanno insegnato, e anche condizionato, a pensare che funzionano in modo oggettivo, neutrale e del tutto evidente. Ovviamente non è vero: nessuno conosce tutte le regole che innescano il meccanismo Wikipedia. Lo stesso per Google: non sappiamo come funzionano i suoi algoritmi e loro hanno resistito a ogni sforzo di renderli esaminabili. Un altro esempio? Twitter. Tutti pensano che sia una piattaforma che permette a chiunque, dalla sua camera da letto, di essere altrettanto influente di un commentatore di grido a proposito del futuro della Rete. Ma anche questo è un mito: la maggior parte dei commentatori della Rete che si dicono ottimisti sul suo futuro compaiono nelle liste di “chi va seguito” (compilate dalla stessa azienda Twitter e che gli permettono di acquisire molti più follower di tutti noi). Dunque, cosa c’è di così democratico e orizzontale nell’ecosistema dei nuovi media? Molte delle piattaforme online usate per l’impegno politico funzionano più o meno come scatole nere che nessuno può aprire e scrutare. La gente ha l’illusione di partecipare al processo politico, senza avere mai la piena certezza che le proprie azioni contano”.

Aggiungiamo a commento di questo articolo, a proposito di censura e libertà d’espressione, un video intitolato “studio sul nudo” realizzato da TVGAYRU, un canale youtube della comunità gay in Russia, dove sul tema, oltre alla censura, sono stati addirittura introdotti dei reati nella legislazione nazionale.

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