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venerdì, Ottobre 4, 2024
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L'umanità di legno

andy_violetQuando nel 1881, Carlo Lorenzini, meglio conosciuto col cognome Collodi, iniziò la pubblicazione de Le avventure di Pinocchio, lo scrittore aveva già avuto modo di maneggiare materiale favolistico di diversa provenienza, avendo curato la traduzione in italiano dello opere di Perrault ed altri scrittori francesi dediti a questo particolare genere letterario. Spesso, inoltre, egli stesso interveniva pesantemente sul testo originale, esplicitando la morale già contenuta nella storia, o inserendovene ex novo una vergata di proprio pugno.

All’atto della stesura del suo capolavoro, dunque, lo scrittore di Pescia aveva la piena padronanza dell’universo archetipico sotteso alla millenaria tradizione della favola, sotto la cui trasfigurazione mitologica si maschera un inalterato corredo antropologico, una sorta di abisso della precoscienza che stenta a farsi logos, discorso razionale, e si rifugia nel mythos, la narrazione paradossale di ciò che non si può narrare: ecco allora affiorare nelle belle addormentate tutta l’angoscia della pubertà femminile, che culminava spesso nel suicidio prima dell’approdo sicuro nelle braccia di un marito-padrone, il cui bacio del risveglio suona violento e voglioso come un imeneo, ed ecco il lupo cattivo, trasfigurazione dell’antico guerriero-belva, il bersekr, l’essere umano invasato dalla furia combattiva conciliata da droghe e riti di furore collettivo. Strutture antropologiche, dicevamo, e pertanto di lungo periodo, parte integrante del “fondale marino” della storia, per dirla alla Marc Bloch, figure che si riverberano nell’immaginario odierno come materiale narrativo di sicura presa, perché dialogano con il nucleo più profondo, ancestrale delle paure umane.

Il Pinocchio di Collodi si inserisce prepotentemente in questo solco, mescolando favola e romanzo di formazione nella narrazione del viaggio dell’uomo verso la sua umanità, che non è semplice fattura biologica, ma anche e soprattutto conquista culturale: il burattino disegnato con la squadra di Dio (ricordiamoci che Collodi era un massone) ha come Bibbia un abbecedario, lontano dal quale incorre nel pericolo di degradarsi allo stato ferino, nell’assunzione smodata e perniciosa di piaceri, o di restare affisso al legaccio della schiavitù nel teatro dei burattini, sorprendentemente e profeticamente simile ad un reality show. Non credo debba stupire che l’ennesima riduzione televisiva dell’opera collodiana, andata in onda poche sere fa sull’ammiraglia Rai, abbia riscosso tanto successo, pur scontrandosi col Grande Fratello e con la scarsa qualità del prodotto in sé, non indimenticabile per la qualità della recitazione e del doppiaggio: ha vinto il fascino universale del percorso iniziatico, legato alle nostre più intime rappresentazioni del bene e del male, ha vinto la voglia di sentirci ri-educati, riverginati ad una possibilità di crescita più autenticamente umana, sotto la guida del sogno d’antichi valori e liberi dalla morsa opprimente dell’analfabetismo morale mascherato da retto moralismo.
Poi, purtroppo, è iniziato Porta a Porta.

Track 1.0: Lo spirito del tempo

andy_violetQuando nel 1956 il giovanissimo Michael Bongiorno, in arte Mike, portò sugli schermi nella neonata televisione pubblica italiana Lascia o Raddoppia, fu inaugurata anche nella videocatodica del nostro paese una pratica destinata a lungo e duraturo successo: la caccia al format. «Format», parolina inglese qui senza allusione al nostalgico comando DOS che ripristinava la virginea integrità dei supporti magnetici, altro non è che il brevetto di un programma televisivo, una sorta di prontuario certificato con le linee guida per la ricostruzione di uno show che in altri contesti riscuote successo, sottintesa l’aspettativa che, somigliandosi sempre di più i consumatori televisivi di tutto l’occidente, il gradimento di uno spettacolo sia trasportabile da luogo a luogo senza dispersione. Un format è, in altre parole, la merce di scambio del mercato radiotelevisivo internazionale, da cui le emittenti attingono a piene mani, o sborsando fior di quattrini per l’acquisizione di loghi di successo (da La ruota della fortuna a Il grande Fratello), o ripiegando sulla più economica, ma talora infruttuosa, copia carbone, pur di muoversi con attenzione sulla soglia del plagio.

L’Italia è tuttora tra i più forti importatori di format esteri: un continuo, univoco drenaggio dalle produzioni americane ed europee, che ha saturato i palinsesti di prodotti creati altrove, cui viene aggiunto quel tanto di casereccio nostrano, quell’aggiustatina di pecorino che li renda più adatti agli appetiti nazionali. Il risultato, nella maggior parte dei casi, è una stomachevole cucina creativa che ci ha dato in pasto il pudding all’amatriciana e le escargot alla milanese, per conto di un nostro particolare concetto di pop che accoppia la mediocrità esibita ad una logora quanto becera commedia dominata dagli stereotipi di classe e di provenienza geografica, nonché da un vigoroso sessismo.

Ben più ridotta è invece la produzione originale di format da esportazione di cui può vantarsi il genio italico: tra questi, ha destato l’invidia e l’interesse dei maggiori canali televisivi europei una nuovissima tipologia di talk show d’approfondimento, apparsa di recente, che sembra fondere la classica discussione politica con misteriose pratiche medianiche. Il format è presto detto: si prendono due esponenti della maggioranza, possibilmente ministri, e due deputati dell’opposizione, di preferenza uno cattolico, l’altro con radici comuniste; poi un giornalista di una testata invisa al governo, e un omologo che al contrario lo spalleggi; ed infine una showgirl a scelta tra quelle più immediatamente disponibili. Li si mette in tondo, a formare la popolare catena spiritistica, e s’attende con pazienza la fine della trasmissione, nominando più volte invano il nome del Premier; finché, tuonando come il Signore su Sodoma, il poltergeist del Primo Ministro non compare sotto forma di voce oracolare, riempiendo il vuoto di un’entimasia medievale col dettato del Verbo. Ed ecco servito lo spettacolo tutto italiano del potere ectoplasmatico, multiforme e liquido, che s’insinua nel tessuto connettivo della libertà d’espressione, che aborrisce e disprezza tutto ciò che non può ridurre all’unità con la seduzione del paradisiaco etere televisivo, dove il popolo si trasforma in pubblico e la democrazia si fa televoto. Parafrasando Lester, siamo ormai in presenza di fenomeni parapolitici incontrollabili.

Ouverture: De vulgari eloquentia

andy_violetTra i doveri più sgraditi imposti dal desiderio di salvaguardare la coscienza dalle minacce della cattiva informazione, vi è quello di sottostare alla visione urticante dei baluardi e degli alfieri del ciarpame propagandistico, davanti ai quali deve sorreggerci un intento, per così dire, diagnostico, non dissimile da quello del medico che voglia curare con successo un morbo feroce ed intrusivo. Talvolta dunque mi impongo, non senza riluttanza, una sorta di parziale “cura Ludovico” nella quale costringo i miei bulbi e i miei timpani a raccogliere un eterogeneo collage di scemenze su argomenti di varia natura, accomunati dal crisma dell’attualità.

Tre, in buona sostanza, sono le tipologie di affermazioni che attraversano gli attoniti altoparlanti del mio modesto sedici pollici: in primo luogo quelli che Kant chiamava «giudizi analitici a priori», ovvero le banalità, le tautologie, i luoghi comuni assurti al rango di postulati, per quanto assolutamente pleonastici. Tra i preziosi apoftegmi di questa categoria si annoverano gioielli dell’umano intelletto come «un transessuale è un essere umano» o «non tutti gli extracomunitari sono neri», solitamente vibrati dal vocino svampito di qualche infervorata valletta, avida di riconoscimento catodico e prodiga di cosciume. In secondo luogo vi sono le solenni stupidaggini, quelle affermazioni apodittiche che, vere o false, non hanno alcun riscontro nel reale, ma che attingono alla fonte eterna delle credenze mitologico-confessionali, o da consimili vulgate di varia provenienza.

Ne sono esempi: «la famiglia è formata da un padre, una madre e dei figli», in aperto conflitto coi vigenti saperi delle scienze antropologiche; ma anche «il mercato è un sistema che si regola da sé», in aperto conflitto con l’esperienza sensibile. Detti enunciati, assieme ai giudizi analitici a priori, rappresentano il culmine dell’espressione per le citate starlette, che segnalano l’avvento di una perla di saggezza mediante l’affissione di un paio di occhialini sul tracciato nasale appositamente disegnato dal chirurgo, per annunciare l’entrata in modalità intellettuale. Quest’ultimo tipo di argomento è altresì campo d’azione elettivo per i sicari delle ideologie; i quali, prima di pronunciare in modo più o meno violento un «ipse dixit», si premuniscono con gesuitiche professioni di rispetto universale, di ossequio certificato per l’opinione altrui, riuscendo così nel difficilissimo esercizio di smentire ciò che dicono mentre lo dicono. La terza tipologia, infine, è rappresentata dalle affermazioni dotate di struttura logica e rispettose dei criteri di deduzione validi sin dall’epoca di Aristotele, e perfino aderenti ai fatti di cui si discute.

Cosa dite? Non ne avete mai sentita una? Di certo è un problema di ricezione, giacché posso assicurarvi che la televisione italiana ne trasmette costantemente, ad ogni ora e su ogni sezione dello scibile umano; solo che sono in formato ultrasonico, udibile solo ai cani.

Ogni lunedì, Andy Violet curerà la rubrica settimanale di tv e società Neon realismo

Se un pomeriggio di domenica uno spettatore: a Milano fra Paolo Rossi e Roberto Castello

RENZO FRANCABANDERA | Di domenica pomeriggio in giro per teatri a Milano sud, zona Piazzale Lodi. Due spettacoli diversi: l’Oscar, nel circuito Tieffe Filodrammatici propone Paolo Rossi e la Baby Gang e il PiM Spazioscenico, punto vivace di riscontro per le nuove generazioni e la nuova estetica, una performance di danza di Roberto Castello and friends.

Mi aggiro, m’avvoto e m’arrivoto, arrivo in ritardo, ma arrivo. “Dai, fallo entrare, fallo entrare che ha appena iniziato!” Teatro Oscar Via Lattanzio alle 17 di ieri, l’Oscar che prolunga fino al 25 ottobre lo spettacolo della Baby Gang con Paolo Rossi special guest, “D’ora in poi, come sarebbe se fosse diverso?”, scritto e diretto da Carolina De La Calle Casanova, ed ispirato alla drammaturgia dello spagnolo Juan Ramòn del Valle – Inclàn. La pièce gira da un po’ ed ha avuto riconoscimenti nell’ambito del concorso Nuove Sensibilità, organizzato dal Nuovo Teatro Nuovo di Napoli.

Rossi doveva andare in giro con Mistero Buffo, ma pare ci siano problemi, e lui stesso non li nasconde, visto che parte con un prologo allo spettacolo che è del tenore: “Mi hanno diffidato dall’andare in scena, mi fanno un decreto ingiuntivo dicendo che dovrei 400.000 euro a qualcuno, pari a tot bottiglie di ottimo gin, a tot grammi di cocaina…”

Insomma la butta sul ridere, anche se non tutti saranno stati contenti della probabile cancellazione da parte di Rossi dello spettacolo di cui Fo avrebbe dovuto fare la regia, e già annunciato in molti cartelloni di teatri importanti. Vedremo come finirà.

Quella dello spettacolo con la Baby Gang, invece, è una vicenda energica, intriga di più quando non cerca di far ridere e quando favorisce la coralità invece di abbozzarsi attorno al personaggio che Rossi interpreta, un filosofo patafisico, cieco che guarda, ultimo eroe poeta di una società in cambiamento intorno all’asse del profitto e degli interessi, Max Estrella. Un funerale tradizionale ad aprire lo spettacolo ed uno formato disco-dance a chiuderlo, in mezzo una performance guerrigliesca, che la Baby Gang ha pubblicizzato dappertutto in città con scritte, spray, tazebao, fin dentro il teatro. Insomma un po’ di perduto situazionismo, che in una città stretta nei cappottini eleganti non guasta assolutamente. E anche la filosofia del Maestro Stella avvince, apre gli occhi, per dirla giocando sporco sulla cecità, che proprio per questo non è casuale.

Lo spettacolo? L’impianto è buono, il sostrato da teatro d’improvvisazione anche, la drammaturgia funziona abbastanza (ma può migliorare), ha un buon ritmo (ma può migliorare), e diverte di più quando non pretende di divertire, quando non ammicca all’attualità per far capire ciò che purtroppo la cronaca rende già palese, e quando si concentra sul movimento e sul sentimento asciutto. Bella la scena, fatta di pochi ma efficaci elementi, come il banco frigo che diventa prigione e tribuna politica. A volte affiorano acerbità recitative, ma nel complesso lo spettacolo e soprattutto l’esperimento del capocomico con il gruppo giovane meritano un chip per vedere che altro combinano.

Finisco alle 19, giro un altro po’, entro in un supermercato aperto, compro qualche kiwi e una piantina di basilico, pizza e via al PiM Spazio Scenico dove è di scena “Stanze” della compagnia Aldes di Roberto Castello, interpretato da lui stesso e da Caterina Basso, Alessandra Moretti, Stefano Questorio, Barbara Toma.

“Se frame deve essere, che frame sia!” verrebbe da dire guardando da spettatori divertiti a questa serie di piccole pose isteriche dell’oggi esibito. Bill Viola aveva proposto nella sua recente personale al Palazzo delle Esposizioni a Roma una serie di quadri, di ritratti di persone, che in realtà erano video ad alta definizione. E che a ben guardare si muovevano lentissimamente.

Ecco, immaginate che un guastatore entri nel vostro (il mio non c’è ancora e chissà se ci sarà mai) filmino matrimoniale mandato in slow motion, e inizi a spostare il velo alla sposa, la cravatta allo sposo. Così, mentre i due sul palco mimano la pioggia di riso, il riso degli spettatori prende la via del coniugale disadattato in cui i due pian pianino, attraverso sapienti spostamenti del loro abbigliamento da parte del guastatore, si incamminano.

E poi intermezzi di danza, semplicemente per passare dal filmino del matrimonio all’album di foto delle vacanze al mare, magari con due stupidine che si contendono il bulletto di turno. Con tutti che si imitano. Le foto con le corna, quelle in cui si regge la torre di Pisa o si tiene fra le mani il sole al tramonto. Insomma il peggio del luogo comune da album di facebook che diventa (ante facierum libris litteram, non lo si dimentichi) spunto per un reportage sull’imitazione, la mimesi sociale adattata a mimesi teatrale e del movimento.

Ancora un intervallo, che sa davvero di intervallo Rai, ma con effetto di distorsione fuzz crunch metal, in cui una tarantella latina viene ballata sulle note di un brano la cui traccia viene riprodotta, facendola però saltare aritmicamente in modo sincopato. Ancora una liberazione dai movimenti costretti ed ecco gli ultimi due quadri: il primo prende spunto dai movimenti da fumetto (stile serie supereroi Anni 70, in cui i cazzotti con i manigoldi venivano commentati con le scritte Swam, Fiiiii, Glump, Zac!). Le tre performer recitano questi monosillabi assumendo le pose tipiche dei rispettivi movimenti nei cartoon. Solo che ad un tratto iniziano a mettere assieme monosillabi che formano parole. E le parole frasi. Di senso compiuto. Non sveliamo l’arcano segreto di cui lasciano depositari gli spettatori.

Il secondo, che è poi l’ultima stanza, con due, un lui e una lei, che nella ricerca della posizione d’amore più comoda, trasformano la ricerca in un’esilarante gag ad libitum sul “famolo strano”. Ad libitum, dopo che gli altri tre prendono gli applausi. Ad libitum, fin quando l’ultimo spettatore non è uscito di sala. Tutto godibilissimo davvero, intelligente, smarcante della fantasia. Il fumetto mi continua nella mente anche dopo l’uscita, e tutto mi sembra Zac! Fiu! Sbam. Entro in macchina (clac), chiudo la porta (sbam), accendo la radio (click) ed una musichetta da lontano sempre più si avvicina: na-na-na-na -na-na na-na-na-na na-na-na-na na-na Bat-man!

E un aeroplanino di carta bruciò

BERNARDI/FRANCABANDERA | Il Belarus Free Theatre, nato nel 2005 durante il secondo mandato del presidente Alexander Lukashenko, propone al festival VIE una rassegna di spettacoli che riflettono sul potere dell’arte in una nazione oppressa da regime, l’unica in Europa dove è ancora consentita la pena di morte

Gli occhi di Alessandro Vincenzi ci raccontano l’esperienza del Belarus Free Theatre, in una mostra fotografica dedicata al neo-nato gruppo al foro boario. Mentre i nostri occhi scrutano fissi il palco durante la performance di Being Harold Pinter, senza potersi distaccare un istante. Sette attori che si alternano davanti ad altri increduli occhi. Sono gli occhi del premio nobel Harold Pinter in uno spettacolo dedicato al grande maestro.

Storie che si intrecciano, colori che si mischiano, luci che si alternano, voci che si alterano. E un aereoplanino che vorrebbe volare per sempre, nelle puerili speranze di un popolo, la purezza che si brucia udita la parola DIGNITA’.

Dignità, qualcosa di ambito, lontano, perso ma inseguito durante lo spettacolo, tra le immagini della disperazione e tra quei dialoghi dal ritmo serrato, quella petulanza, figlia della paura.

I personaggi a teatro non sono liberi di uscire dal proprio ruolo e dal proprio destino quanto un popolo sotto regime dittatoriale non è in grado di esprimere se stesso e quello che è quanto vorrebbe.

Ce li immaginiamo così i prigionieri, come quei personaggi, soffocati dal claustrofobico telo azzurro del regime, ma vitali, determinati ad evadere, a riappropriarsi della propria individualità.

La ricerca della verità non può fermarsi.

Volti coperti e storie che “si accendono” che appartengono ad uno ma che appartengono a tanti, e quel corale “Direttore, direttore, direttore”, quasi si attendesse un Godot che non arriverà mai. Questi personaggi sono tutti e nessuno.

Veli che coprono totalmente i volti di alcune donne, nel richiamo di una sofferenza comune che affligge la Bielorussia quanto ha afflitto i prigionieri politici di Abu Grhaib.

“Stai pulendo il mondo per fare spazio alla democrazia” risuona tra gesti canzonatori, pernacchie, schiocchi, urla, masturbazioni, pianti, incensi clericali, uomini privati dei loro abiti quanto della loro dignità.

Castrazioni, stupri, omicidi tra veloci scambi di sedie e di posto, gemiti nascosti dal pannello sul fondo, bombolette che schizzano un color sangue arterioso, canzoni militari e canzoni di speranza, camminate nevrotiche e circolari, balzi da una postazione all’altra, tra ritmi scanditi da un battito di mani o da un bastone che picchia a terra.

Lo spazio è quadrangolare e definito da quattro sedie poste agli angoli, è uno spazio chiuso e senza via di uscita.

L’energia sembra essere il parametro che più incide nella pièce, più che l’emotività o la logica.

I corpi degli attori albergano forze energetiche devastanti e nella loro addizione creano una sorta di frastornante bomba che scoppia nelle nostre teste alla fine dello spettacolo. Quasi a voler creare quel senso di vuoto che la prigionia porta con sé, quel silenzio imbarazzante dei traumi subiti.

E un aereoplanino di carta bruciò.

Altrettanto forti e forse ancora più riusciti nello schema emotivo di coinvolgimento del pubblico e di utilizzo in scena del “necessario” inteso a-la-Brook, il bellissimo Zone of Silence – Moderna epopea bielorussa in tre capitoli, e Generazione Jeans.

Il primo è un vero e proprio capolavoro, che non crea nessuna divisione nel pubblico, che chiama per quasi cinque minuti gli attori in scena a prendere il meritato tributo per una performance tanto intensa quanto ironica e appuntita. La saga di una nazione in transizione, di una democrazia di cui la maggior parte degli abitanti non sa dare definizione, di una nazione tormentata da piaghe come la tratta degli esseri umani, donne e bambini, o l’aborto per parto indesiderato.

Una menzione, attraverso lo sguardo dolcissimo di un burattino realizzato con fogli di giornale, alla controversia che tempo addietro ha visto la famiglia ligure italiana contrapposta all’autorità bielorussa per l’affido di una bambina. Lo spicchio di spettacolo merita un applauso a parte, che il pubblico concede a scena aperta. Poi una galleria di ritratti popolari, di forme di assurdo disadattamento, di ordinario disagio.

Cosa sia la Belarus, cosa sia Free in una terra in cui non si è liberi di vivere neanche l’espressione del Theatre, ce lo racconta questo gruppo, che riscuote consensi e patrocini ormai in tutto il mondo. Loro, combattenti per la libertà d’espressione, che quando gli furono tolte le bandiere di protesta sventolarono i jeans, generazione che vede eroi, tra gli altri, in Jan Palack e Giovanni Paolo II. E ci fanno capire come guardare una dittatura dal di dentro o dal di fuori sia un esercizio incredibile di flessibilità, che fa sovvertire i punti di vista, i luoghi comuni, i confini fra laico e religioso, fra spirito e carne, fra intenzione e azione; e come non basta aver indossato i jeans in gioventù per essere della generazione jeans, la generazione che reclama libertà di pensiero. Perché l’abitudine al completino abbinato giacca pantaloni è assai facile da prendere e altrettanto difficile da perdere. Una piccola striscia tagliata in scena da un pantalone jeans agli spettatori. Un ricordo. Un invito.

Biancaneve in giacca e pantaloni

RENZO FRANCABANDERA –  Dopo più di dieci anni torna in scena, grazie alla traduzione e regia di Walter Le Moli “Max Gericke – La più gran parte della vita è vita passata, meno male”, un monologo tratto da “Jacke wie Hose” di Manfred Karge, interpretato da un’applauditissima Elisabetta Pozzi.

Martedì c’è stata l’ultima replica. Il Piccolo Teatro Studio, trasformato in un universo semicircolare con la scena sul lato rettilineo. Un’interno anni Trenta-Quaranta nel quale lo spettatore è chiamato ad entrare restando a ridosso del muro, come in una visita di condoglianze, o in un interrogatorio in caserma. Un tavolino, un mobiletto con una tv d’altri tempi, e due poltrone consumate dal tempo.
Dal buio viene fuori un anziano, in identità immobile con la poltrona in cui pare incassato. La lenta mano si muove sincopata, i gesti scolpiscono uno scenario pietrificato. Le parole un singulto psicotico, e la pedana di legno di pochi metri quadri su cui tutto questo si genera è quasi prigione.

Lui è lì, ad innaffiare le rughe con qualche birra, come un campo arido a cui poco giova uno scroscio di pioggia.
Pian piano Max Gericke si racconta. Racconta di lui e di sua moglie Ella.
E poi, mentre racconta di sè, Max dice di quando lui stesso è morto.
Ma allora chi sei? Chi sei tu che parli?

In questa produzione Fondazione Teatro Due ospitata dal Piccolo Teatro Studio, il testo di viva drammaticità deldrammaturgo tedesco Manfred Karge, ritorna dopo anni, attraverso una traduzione, quella di Walter Le Moli, in un italiano vivo, che rende l’opaca reclusione al limitare della vita. A poco più di vent’anni, Ella, infatti, si ritrova vedova, nella Repubblica di Weimar in piena crisi economica. La Prima Guerra Mondiale è finita da poco, appare all’orizzonte l’angoscia hitleriana. Una quarantennale solitudine ed una vita a sprazzi, portata avanti da uomo.
Si, perché Ella capisce che per sopravvivere l’unica soluzione è diventare un “fu Max Gericke”, anzi, di vivere da Max Gericke senza esserlo. Cambiando sesso. Lavorando da uomo, bevendo da uomo, maledicendo le donne, il tempo ed il governo.
La più classica delle intuizioni drammaturgiche del Novecento sul tema dell’identità, ma fuori dalla prospettiva dell’angoscia della finzione psicanalitica, perchè questa storia è realmente accaduta: per non perdere il lavoro di suo marito, la donna cui il testo è ispirato si è realmente sostituita a lui, ne ha preso l’identità, rinnegando di fatto la sua femminilità.
Molteplici ricchezze e sfumature emergono nella negazione di se stessa che la donna porta avanti, ma due paiono più evidenti nella messa in scena Le Moli/Pozzi. La prima è insita nella facilità con cui ci si possa inventare altro da sé, in una società di solitudine e indifferenza. Max era un solitario, pochi lo conoscevano, anche sul lavoro. Nessuno si è mai accorto dello scambio.

La seconda è la negazione del genere, la repressione di ogni istinto di femminilità, che però la messa in scena di Le Moli, affidata alla struggente interpretazione di Elisabetta Pozzi, recupera in un finale epico: in fin di vita, questa donna, diventata uomo per necessità, rimasta tale per inedia, prova un sussulto vitale, anche solo biologico, di affermazione del proprio Io.
Manfred Karge, attore e regista, di scuola brechtiana, oltre che drammaturgo, tornerà lui stesso, in questa stagione, alla regia di Jacke wie Hose (Giacca come pantaloni), al Berliner Ensemble, affidandone l’interpretazione a Swetlana Schönfeld, con il debutto previsto per il 28 novembre prossimo.
Lui, direttore di scena, attore e regista sia per il Berliner Ensemble che con la Volksbühne di Berlino, interprete nel 1983 con Thomas Langhoff di “Riva abbandonata”, testo di Heiner Müller, ambientato in un deserto post-apocalittico di lattine vuote e rottami d’aereo, ed a proposito del quale Oliviero Ponte di Pino avvertiva come “la consapevolezza di non poter recuperare la totalità del mito e del mondo che lo sottendeva è acutissima, quasi dolorosa”.
Qui non del mito e del mondo, ma di un universo, quello femminile, si tratta. E di solitudini, di barriere volontarie e reali. Come quelle de Il cane del muro (1990), altra drammaturgia di Karge, che racconta di un uomo che fa la ronda con il suo cane sotto il muro di Berlino.

A Milano, nelle quasi due ore di monologo, il cane diventa un coniglio, forse frutto di un’invenzione forse esistito, e il muro la prigione che Ella, una Biancaneve protagonista di una non-fiaba, ha costruito negli anni.
Con il lento evolvere del racconto e dei movimenti, la Pozzi fa crescere il suo personaggio, indagando il buio esistenziale che avvolge l’esterno della prigione nella quale si è volontariamente rinchiuso, e il progressivo spasmo, che la regia declina come volontà di un ultimo tentativo di vivere la propria identità sepolta da decenni.
In un finale esemplare per nitidezza interpretativa e capacità di calamitare con gesti e parole l’attenzione del pubblico, l’attrice fa rivivere la donna divenuta uomo, che, dopo quarant’anni, prova ad indossare le scarpe coi tacchi.
Un esito tragicomico elegante e commovente, che ondeggia fra gli ultimi fotogrammi di Morte a Venezia di Visconti e il Dustin Hoffman di Tootsie. Il barcollare instabile sorreggendosi alla poltrona, con tacchi e parrucca, nella consapevole attesa della goccia nera della tinta ai capelli che segnerà il trapasso, essendo una parte di sè già consapevolmente trapassata.
Ella guardandosi allo specchio, vecchia strega, si chiederà chi sia la più bella. E rimpiange la Biancaneve che lei stessa è stata ma che non ha avuto il coraggio di essere. La Biancaneve rimasta oltre le montagne, oltre i macigni di un’esistenza vissuta per necessità prima, e quasi per caso poi.

Le voci bianche

andy_violetANDY VIOLET | Infanzia canora, da un punto di vista prettamente etimologico, è un ossimoro. Infanzia, infatti, derivando dal latino infans che indicava letteralmente “colui che non sa parlare”, era per gli antichi l’età dell’afasia, dell’incapacità di articolare la compiuta complessità del pensiero adulto. Tanto bastava perché le lallazioni e le incerte paratassi dei bambini venissero apparentate al mutismo, ed anche quando, oltrepassata la soglia della pubertà, cominciavano a strutturarsi le prime manifestazioni del pensiero categorico, queste non venivano considerate che prove tecniche di futura saggezza di giovinetti ancora teliphrones, “dalla mente lieve”.

Ben altra fascinazione subirà invece il Romanticismo da parte del pensiero sincretico ed indisciplinato del bambino: sotto la spinta delle preoccupazioni pedagogiche di Rousseau, l’infanzia ottocentesca si coprirà della veste linda della primavera dell’umanità, la sua espressione sarà poesia naturale in quanto linguaggio della Natura, libero da ogni forma di condizionamento, autentico ed autarchico come solo può esserlo un genio. E’ qui che nasce il mito dell’enfant prodige, dell’arte come conseguenza immediata del talento, diabolica invenzione borghese, come rileverà Don Milani, per assicurare al ceto medio un’impenetrabile egemonia culturale, attribuendo dolosamente alla natura ciò che è frutto degli stimoli dell’ambiente di crescita e di precoci studi, o più spesso di ingerenti pressioni genitoriali, che nei piccoli geni vedono un’occasione di redenzione sociale.

Dalla Bellissima di Luchino Visconti alla Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris, la speranza per il futuro poggia sulle piccole spalle di bambini defraudati della loro essenza, ridotti a fare ciò che in realtà già sono nel perverso gioco alienante della spettacolarizzazione dell’infanzia. Ti lascio una canzone o il suo recentissimo clone commerciale Io canto poggiano sullo stesso meccanismo, in cui lo spettatore gode di ugole minute, lisciate e conciate a festa per l’occasione, con lo spirito compiaciuto con cui si assiste alla lettura della letterina di Natale o alla recita di paese, magnificando le doti del proprio pargolo, già naturalmente padrone del metodo Stanislawsky che gli ha consentito di interpretare con impressionante realismo una pecora del presepe.

Gode soprattutto di una presunta innocenza, che anni di talent e reality show hanno seppellito sotto il malizioso manierismo di arroganti ventenni, esaltati come gli young urban professional di qualche decennio fa, alla cui finzione ormai logora la televisione risponde con il continuo abbassamento dell’età della propria merce umana, alla ricerca di una perduta spontaneità. Ma fin dove è possibile spingersi? Vedremo forse gare di nuoto tra feti nel liquido amniotico? No, ho di meglio: tornei di poesia epica tra embrioni, intitolati, eloquentemente, Chansons de Gestation.