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giovedì, Marzo 27, 2025
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Bruce Myers vecchio inquisitore

BRUNA MONACO | Siamo in Spagna ai tempi della Santa Inquisizione. Dopo secoli passati nel Regno dei Cieli, il Cristo è tornato in Terra. I tempi sono cambiati ma gli uomini no, la storia si ripete e anche questa volta è acclamato dalle persone comuni e rifiutato, poi incarcerato, da quelle di potere. Solo che stavolta il potere non è nelle mani di incolti colonizzatori pagani, né di farisei troppo ortodossi. Chi “può” e osa nella Spagna del 1600 è la Chiesa, quella che dal corpo e dal sangue di Cristo è stata partorita. Ed è il Grande Inquisitore in persona a ordinare il più blasfemo degli arresti e a condannare il proprio dio a una seconda morte per mano delle sue creature. Gli concede delle spiegazioni, però, ma più simili a rimproveri che a discolpe: come ha potuto Dio regalare agli uomini la libertà, dimenticando di concedere loro, al contempo, la forza di esercitarla nel modo giusto? Il lungo monologo recriminatorio dell’Inquisitore è accolto in silenzio da Cristo. Sul finale, invece che a parole, lui che è il Verbo, gli risponde con un bacio a fior di labbra turbando l’Inquisitore che lo caccia via, graziandolo.
È questo il racconto allegorico che Ivan Karamazov espone al fratello Aleksej in uno dei più fortunati romanzi di Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov. Peter Brook lo ha adattato alla scena con l’aiuto della sua storica collaboratrice Marie-Hélène Estienne, affidandolo all’interpretazione di Bruce Myers (che fu Krishna nel Mahâbhârata e il re impazzito del King Lear) uno degli attori più anziani e bravi di Peter Brook.

L’azione è racchiusa in un piccolo spazio delimitato da un tappeto grigio. La scenografia è scarna, quasi assente: una sedia sul bordo posteriore del tappeto e un leggio con dei fogli grandi, giallognoli. Essenziale è anche la partitura fisica: tutta l’attenzione è sul testo e sul modo in cui Myers lo interpreta, masticando le parole, cercando per ognuna loro una consistenza fisica. L’indiscutibile bravura di Myers filtra attraverso la sua veneranda età che, pur portando qualche buco alla memoria, nulla toglie alla presenza scenica.
Il grande Inquisitore, però, non convince del tutto il pubblico in sala. Forse perché il testo, strappato al romanzo che lo conteneva e gli dava un senso più profondo, resta un’allegoria intelligente ma troppo esile per reggere da sola la tensione scenica. O forse, più semplicemente, perché infiacchito dalle repliche e dall’età, lo spettacolo tradisce una certa stanchezza.

La discesa di Orfeo

RENZO FRANCABANDERA | Come una consumata compagnia d’attori, seduti al tavolone a provare il nuovo lavoro. Con questa visione si apre l’allestimento, la rilettura che Elio de Capitani sta riproponendo in questi giorni al Teatro dell’Elfo di Milano de Il ritorno di Orfeo di Tennessee Williams. A dichiarare subito il confine fra falso e vero, a svelare la macchina scenica, gestita per la gran parte dall’interno, con luci e musiche eseguite sotto gli occhi degli spettatori, sul palco.
Come a dire, guarda com’è falso quello che sto facendo, ma anche come è dannatamente vero, assoluto. Si perché se la scena è povera e scarna fatta eccezione per un grande telo trasparente decorato con tecnica informale da fine anni 50-inizio 60 americana, i costumi (anche questi oltre alle scene di Carlo Sala) riportano più chiaramente a quell’epoca. E’ in quest’epoca che si rituffa come Michael J. Fox in Ritorno al futuro, un bello e tormentato, una specie di James Dean della situazione (Edoardo Ribatto), che provato dalle vicissitudini della vita prova a rintanarsi in una botteguccia di paese, per sfuggire al suo destino.
Ammaliate da questa presenza così fuori dai canoni, le donne di paese affollano il negozietto. Prototipi di un’umanità di paese, come possono venire in mente: le due amiche racchiette e pettegole (Carolina Cametti e Sara Borsarelli), la sciroccata trasgressiva (Elena Russo Arman), la matura in cerca di emozioni fuori tempo massimo (Cristina Crippa).
Il cuore, il vero respiro della drammaturgia, che de Capitani pare per larghissimo tratto cogliere è quello che la solleva dalle vicende che narra, per portare gli interpreti, e dunque lo spettatore, verso l’affresco di un’epoca, verso una ponderata meditazione sul piccolo mondo antico ma anche contemporaneo.
Fra queste, infatti, eccezion fatta per il protagonista maschile, nessun altra spicca in forma determinante, e anzi a turno si “danno il cambio”, per così dire, in un’altalena ora sentimentale, ora pseudo-parentale finanche morbosa, dove il progetto  è proprio quello di tratteggiare mezze figure.
La chiave di lettura più interessante che ne deriva è proprio questa indefinitezza borderline, che prevale sui fatti, sulla vicenda di per se stessa, che sfuma sullo sfondo della provincia miserabile, fatta di mogli annoiate, di corse in auto, di giovani dal disadattamento facile, e dalla profittazione sistematica.
Questo la regia lo legge perfettamente, permettendo peraltro allo straordinario fil rouge sonoro intessuto da Alessandra Novaga (chitarra elettrica) di creare il vero legame narrativo ambientale.
E’ quindi con non poco stupore (e invero anche un po’ di sconcerto) che assistiamo, nel finale a una virata verso un teatro simbolico, fatto di movimenti di massa, in schiera. Quelle che per tutto il tempo sono tragiche solitudini, si mettono assieme nella logica provincialissima del tutti addosso, per creare il mostro (il bello che sceglie la matura con il marito malato di lei che arriva al gesto estremo del delitto d’onore). Ma in realtà questa, che a prima vista sembra una lettura giustificata e comprensibile, in scena si traduce in una dinamica meccanica, che impoverisce di colpo tutta la ricchezza che nell’ora e mezza quarti precedente battuta dopo battuta, personaggio dopo personaggio, si era con pazienza costruita (per molti attori a dire la verità la medietà un po’ connota anche la prestazione teatrale. Sono in diversi, nonostante tutto, un po’ sottotono).
Ma quello che proprio non ci ha convinto è un finale fatto di movimenti artefatti, di un antinaturalismo da Bausch all’italiana, totalmente discordante con l’ordito teatrale creato.
Mi sono interrogato a lungo dopo essere uscito, infatti, (ed è anche la causa con cui questo mio pezzo arriva rispetto alla visione) il perché di un finale dal sapore così melò, mentre fino a quel momento la lettura era stata così alta, intrigante, capace di portare l’ambiente sopra la storia, l’emozione generale sopra i singoli personaggi. Non sono riuscito a darmi risposta. E così mi sono portato a casa la sensazione di quello che si era mangiato con gusto un piatto buonissimo, e poi alla fine, giusto il tempo di girare la testa, e per un brutto scherzo gli mangiano l’ultimo boccone di lasagna, quello che ci si aspettava con desiderio.
 
Di seguito il video trailer dello spettacolo

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=tzksEU__Dao]

L’equilibrio della decomposizione di Birds with Skymirrors

BRUNA MONACO | In pieno Oceano Pacifico, fra le Hawaii e le coste orientali dell’Australia, sorge l’isola di Samoa. Un arcipelago, in realtà, per metà americano. L’altra metà, che fu prima tedesca poi neozelandese, è indipendente dal ’62. Non esistono i teatri sull’isola di Samoa. Eppure è lì che nel 1995 Lemi Ponifasio ha fondato la compagnia MAU, dandole il nome del più importante movimento indipendentista non-violento dell’isola. Un paese senza teatro ma con un collettivo di danza di calibro internazionale. Solo in apparenza un paradosso: non è nei teatri che nasce il teatro, tantomeno la danza. O almeno non solo. Sono i contesti rituali le prime fucine delle arti performative. E se per noi occidentali abituati a sale buie, palchi, platee e applausi, il rapporto tra danza e rito non è che una reminescenza di studio, basta guardare a oriente per ritrovare questo antico legame in tutta (o quasi) la sua verità ed efficacia. Le danze balinesi che incantarono Artaud nei primi anni del Novecento non erano nate per un pubblico ignaro, curioso e plaudente. E probabilmente l’attrazione che quei corpi esercitarono su Artaud non è dissimile da quella provata dagli spettatori dell’ultimo spettacolo di Lemi Ponifasio: la “prodigieuse mathématique” che regolava i movimenti ammirati dal teorico del teatro della crudeltà era rigorosa e altrettanto impressionante negli interpreti di Birds with Skymirrors. E non è questo l’unico punto di contatto tra le danze tradizionali balinesi e questa, invece, originale di Lemi Ponifasio che, benché sia reticente a svelare i segreti e gli ingredienti della propria creazione, non nega un legame con la danza del passato. Punti di contatto dovuti alla relativa vicinanza fra le terre, o al fatto che la civiltà samoana risale all’arrivo delle popolazioni polinesiane.
In Birds with Skymirrors i danzatori (tutti calvi, con tuniche che paiono monacali) incedono sul palcoseguendo immaginarie linee orizzontali: le teste parallele al pavimento, non un’oscillazione, come se un filo sotto l’ombelico li tirasse per farli muovere. Quel punto in basso nel corpo, sotto l’ombelico, è il baricentro: da lì parte ogni impulso. Nessun movimento, nemmeno il più periferico della testa o del gomito, parte senza che il centro ne sia motore. Ed è a questo piccolo punto sotto l’ombelico che si devono la precisione e l’organicità della danza. Le ginocchia flesse e le cosce muscolose lo sostengono, la pianta dei piedi nudi aderisce al suolo, radicando i corpi alla terra e chiudendo così fra le teste calve e i piedi scalzi quel fascio di muscoli ed energia che sono i corpi degli eccellenti interpreti di Birds with Skymirrors. La vibrazione regolare delle dita delle mani e il sollevarsi di quelle dei piedi a ogni stop sono le prove che l’energia attraversa davvero in ogni momento ogni parte del corpo.

Birds with Skymirrors è movimento continuo. Lento e continuo. A farsi garante di questa continuità è la scenografia, che attraverso il dosaggio e il taglio delle le luci si svela progressivamente, poi si modifica ridefinendo gli spazi e ristabilendo il senso dello spettacolo. Sul fondo dei riquadri, finestre in plastica riflettente che restituiscono, deformata, l’immagine di quanto accade in scena. Birds with Skymirrors è un “moto perpetuo” non musicale ma visivo, e rimanda a quello della materia che si trasforma, si deteriora. Un cormorano che dimena le ali impiastrate di petrolio appare in video per pochi secondi: l’apparizione del senso ultimo dello spettacolo. Scuro come il petrolio è ogni elemento: i costumi, le scene, i rossetti delle tre interpreti, sorta di streghe che in una lingua incomprensibile gridano versi che sembrano maledizioni.
Lemi Ponifasio ha creato uno spettacolo ineccepibile sul piano estetico e trascinante proprio per la solennità con cui è trattato il dato esteriore. Dalla composizione scenica alle entrate e uscite degli interpreti (ma bisognerebbe forse parlare di apparizioni e scomparse). Dai movimenti dei singoli danzatori alle coreografie: simultanee, rigorose, quasi ipnotiche.
Per lo spettatore occidentale che ha incontrato Pina Bausch e conosce e ricerca il piacere perverso della “discronia”, ritrovarsi di fronte a questa danza sincronica è come riprovarne uno antico e dimenticato. Quanto sono lontani questi corpi che si muovono all’unisono, come fossero parte di uno stesso organismo, da quelli dei danzatori e delle danzatrici de La sacre di printemps, orgogliosamente diversi, che pur seguendo la stessa partitura, agiscono come se ognuno fosse un armonico della stessa nota. Attenzione all’individuo da un lato, annullamento delle differenze dall’altro. Disequilibrio contro equilibrio. Le frontiere entro cui si muove ogni ricerca espressiva.

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L’amore schifo dei Maniaci d’amore

RENZO FRANCABANDERA | L’incontro con la giovane compagnia Maniaci – d’Amore ( e volutamente scrivo con il trattino per rompere il gioco fin da subito, dichiarando l’intenzione) avviene a Teatro Libero di Milano, dove sono in corso le repliche del fresco e divertente Il nostro amore schifo.
I due giovanissimi sono Luciana Maniaci (23 anni, nata a Messina) e Francesco d’Amore (25, Bari). Lei è dottoressa in Psicologia Criminale, lui in Letteratura Moderna e Contemporanea. E’ da sei anni che lavorano insieme, e dopo un corto teatrale, Serenasi (2006), sono passati a strutture via via più complesse: Le cose (progetto di teatro in casa ‘Gas Mostarda’ 2007), Pillole (2008) e Il Nostro Amore Schifo (tratto da Goethe, Musil e Salinger 2009).
Il nostro amore schifo è la seconda tappa del progetto “Pillole”, con cui i due stanno indagando l’amore nell’età giovane.
Come immaginarsi questo lavoro: al centro della scena un tavolo, che all’occorrenza diventa cubo da discoteca, poi lettino un po’ stretto per i primi approcci fra i due, e via via il tavolo intorno al quale si riunisce la famiglia di lei per la presentazione ufficiale di lui, il tavolo della casa dei due ormai sposati, quando la coppia avanza negli anni. Un centro di gravità spazio temporale, arricchito solo da alcune sedie pieghevoli  di legnaccio di quelle da bar estivo, dipinte nere, che sono l’unico ulteriore elemento scenico.
Werther,smilzo imberbe delicato come un elefantino filosofeggiante e poetastro,  cerca di convincere lei ad un amore fugace. Lei, insicura, categoria belle imperfette, è desiderosa di continuità affettive, vuole stabilità. Lo presenta, in un’imbarazzante riunione di famiglia, ai suoi (ovviamente del dialogo sentiamo solo le risposte che i due danno a parenti assenti in scena). Lui chiude la presentazione con una non meno imbarazzante poesiola in rima sciolta di tenore dilettantistico. Sogno o realtà,l’incontro finisce in una carneficina stile Natural born killer.
Ma il sogno di lei ha più concretezza o forse la non rassegnata prosecuzione/persecuzione va a segno. I capelli imbiancano, lui migliora nel suo poetare, resta animale, ma lei riesce nel proposito di rendere di fatto continuata la serie di “per adesso”. In un registro sempre leggero ma non consumato, lo spettacolo corre nella vita dei due fino alla fine.
Cosa resta della visione?
Le scene più ricche di emotività sono per paradosso quelle in cui il verbale viene messo da parte: la strage di famiglia, l’imbiancare dei capelli (bellissimo) e alcune altre sequenze figlie forse dell’esperienza registica di Tarasco. Ll’intreccio logico del testo, pur ingegnoso, resta a tratti un po’ allungato, in più d’un punto sgonfiato di contenuto poetico vero, ulteriore.
Pur nella gradevolezza complessiva, nel testo manca l’elemento sorprendente. Una volta definito il quadro emotivo in cui tutto avviene, subentra una sorta di aspettativa mancata. Lo spettatore riesce a prevedere il seguirsi delle battute, e perfino il finale, tipicamente in questi spettacoli imprevedibile, si intuisce con qualche secondo di anticipo.
Quello che né a Tarasco né ai due autori/attori riesce, è andare oltre loro stessi (oltre andare oltre i Maniaci, per tornare al materiale umano di Maniàci e d’Amore, per utilizzarlo più profondamente, in modo più tagliente).
Stiamo parlando sicuramente di una coppia di talento, con una qualità di scrittura e costruzione drammaturgica e attorale da rodare. Oltretutto, proprio il talento dei due lascia giustamente un’aspettativa che lo spettacolo di per sé non esaurisce e che non vorremmo mai si concretizzasse in un sequel, tipo Sandra-Raimondo.
Forse dovrebbero/potrebbero confrontarsi anche con qualche testo altrui, un classico o un contemporaneo, proprio per andare oltre le indoli individuali, lo scriversi o scrivere quello che è più facile/congeniale, per sfidarsi e sfidare il teatro, oltre che il letterario da cui entrambi provengono (scuola Holden e ambiente teatrale torinese). Altrimenti, così com’è, dà la sensazione del tema libero, un po’ adagiato, dei due bravi della classe, su quello in cui meglio riescono.
Ma, (e questa riflessione vale in prospettiva: siamo consapevoli di come tutti partano da ciò che riesce meglio) quando il bravo tuffatore sceglie di eseguire dalla pedana un tuffo, sa anche quale livello di difficoltà sta proponendo. Il punteggio finale è in ragione sia dell’esecuzione sia della difficoltà intrinseca dell’esercizio.
Per paradosso, l’esito finale può premiare con un voto più alto un esercizio difficilissimo non eseguito perfettamente piuttosto che un esercizio più agevole, eseguito alla perfezione. Premettendo che la perfezione non è di questo mondo, “Il nostro amore schifo” è un’occorrenza della seconda fattispecie.  Siccome intuiamo la bravura dei tuffatori, li aspettiamo dal trampolino più alto con un esercizio più difficile. Sapremo allora dirvi con minor margine d’errore se si tratta o meno di fenomeni. Ci siamo comunque divertiti.

La danza periferica di Virgilio Sieni

BRUNA MONACO | Inizia senza danzatori De Anima, l’ultimo spettacolo di Virgilio Sieni ispirato all’opera filosofica di Aristotele. Inizia con un enorme uovo grigio appeso al soffitto che oscilla avanti e indietro. Il suo è un movimento meccanico, manovrato. Preciso e prevedibile. Nei tre libri che compongono il De Anima lo Stagirita indaga sull’anima, appunto, tenta di comprenderne l’essenza, di definirla scientificamente e arriva a dire che “pare che l’essere animato si distingua dall’inanimato soprattutto per due proprietà: movimento e percezione”. E da qui parte Virgilio Sieni: anche il ciondolare di un uovo grigio è movimento. Anche un uovo grigio ha l’anima? No, ma chi lo manipola, anche se non si vede, sì. Fine del primo quadro. Nei quadri successivi non ci sarà più spazio per oggetti patentemente inanimati: arrivano i danzatori, in corsa, da dietro il tendaggio pesante che copre il fondale. “Rosa Tiepolo” è la tonalità di quel sipario. Un rosa che nel corso dello spettacolo si trasforma, incontra le luci di Davide Cavandoli e scolorisce, si accende. Sfuma in altri colori, si fa azzurro. I danzatori cambiano tenuta a ogni quadro: i colori sono pastello, come sempre negli spettacoli di Sieni. Indossano slip e canottiere, poi costumi che ricalcano quelli dipinti da Picasso per i suoi clown, arlecchini e saltimbanchi. Ramona Caia, Giulia Mureddu, Jari Boldrini, Nicola Cisternino, Andrea Rampazzo e Davide Valrosso sono portatori e marionette, si sorreggono l’un l’altro, si lasciano cadere. I loro corpi sono esili, come la qualità dei movimenti. Gesti rapidi, frenetici, delle braccia e delle gambe soprattutto. Movimenti che non partono mai dal centro, sono periferici, vuoti.

A chi abbia anche una vaga idea di cosa si dica nel De Anima aristotelico, lo spettacolo di Sieni appare chiaro, fin troppo, didascalico e ripetuto, noioso. Probabilmente, al contrario, chi è arrivato in teatro senza idee pregresse, senza immaginare in cosa si sarebbe imbattuto, non avrà visto molto in quei movimenti frettolosi. Ci sarà stato poi chi, prima di entrare, avrà letto le note di regia e nel vedere lo spettacolo si sarà affidato alle parole di cui Sieni si serve per comunicare ciò che immagini e coreografie, da sole, non sono in grado di veicolare.
D’altronde i riferimenti e le citazioni sono troppe e troppo appariscenti per non essere colti dal dubbio che Sieni pretenda di proporre uno spettacolo intellettuale. Ma l’ostentazione palese delle ispirazioni, l’ansia di mostrare congiunta a quella che ciò che è mostrato sia subito riconosciuto, fanno del De Anima un’opera di troppo poco spessore.

Primo focus day con Gabriele Vacis al Rossi di Pisa

REDAZIONE | A un mese dall’apertura, l’ensemble del Rossi di Pisa presenta Una città invisibile tra pedagogia e teatro, focus day a cura di Gabriele Vacis, Antonia Spaliviero e Andrea Ciommiento. Dalle 15.30, una giornata d’approfondimento e confronto sulla costruzione di un teatro a vocazione pedagogica partendo dall’esperienza di “Schiera/Skiera” sviluppata negli anni alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi (Milano), al Palestinian National Theatre (Gerusalemme) e all’interno di cinque edizioni sperimentali presso il Teatro Regionale Alessandrino (Alessandria), il Centro Inteatro (Polverigi) e il Teatro Valle Bene Comune (Roma). Il focus sarà dedicato inoltre all’attuale condizione del Teatro Rossi Aperto e alla condivisione sul teatro e le città, sulla composizione del suo spazio architettonico e sulle relazioni che il teatro dovrebbe sempre generare. Alle 21 la presentazione del docu-film La Paura siCura (regia di aGabriele Vacis), promosso dal Forum Italiano per la Sicurezza Urbana in coproduzione con il Centro Inteatro, la narrazione audiovisiva di un viaggio in Italia attraverso sei laboratori teatrali in altrettante città del Paese: Catania, Genova, Montegranaro, Ravenna, Schio, Settimo Torinese verificando le paure nei diversi contesti, per le diverse età dei soggetti coinvolti, in riferimento alle diverse criticità che venivano affrontate: da quelle più intime, esistenziali e adolescenziali di tanti ragazzi; a quelle derivanti dai mutamenti che le nostre città grandi, medie e piccole hanno affrontato in questi anni; a quelle, drammatiche, del degrado e della criminalità diffusa e organizzata.

PROGRAMMA

Ore 15.30 Schiera/Skiera: una città invisibile tra pedagogia e teatro

Appunti per la costruzione di un teatro a vocazione pedagogica

“Ho iniziato a lavorare sulla schiera molto tempo fa. In “Elementi di struttura del sentimento”, uno spettacolo che ho fatto nel 1985, c’era una scena da cui è nato l’esercizio. Sei attrici camminavano dal fondo del palcoscenico al proscenio, facevano una piccola azione e poi tornavano indietro. Il ritmo cresceva su una musica che durava più di sei minuti, e il movimento diventava parossistico. Quella scena conteneva gli elementi necessari a creare azione. Era un luogo. Nel tempo è diventato un esercizio (…) Ormai facciamo qualcosa che chiamiamo teatro per convenzione, ma dovremmo cominciare seriamente a pensare di dargli un altro nome, o altri nomi. Perchè il teatro è qualcosa che sta alla radice di quello che facciamo, ma ormai è un pezzo che dentro al teatro non riusciamo più a starci. Schiera/Skiera vuole essere il luogo e il tempo per cercare i nomi di quello che facciamo.” Gabriele Vacis

Ore 18 Il Rossi Aperto: costruendo affinità

Un confronto pratico sul teatro e le città, sulla composizione del suo spazio architettonico e sulle relazioni che il teatro dovrebbe sempre generare. Una condivisione che partirà dall’ascolto di chi si sta prendendo cura quotidianamente del Teatro Rossi fin dai primi giorni di riapertura.

Nel nostro presente i mezzi di comunicazione di massa non sostituiscono il teatro. Se più gente usa telefoni cellulari ed internet non smette di andare a teatro, anzi, magari trova più facilmente le informazioni per andarci. La nostra vita è fatta di opportunità molteplici, di coesistenza delle differenze. La modernizzazione degli strumenti che usiamo quotidianamente non provoca l’abbandono degli strumenti più antichi: usiamo indifferentemente aereo e bicicletta, computer e libro, televisione e narrazione orale. Moderno e antico sono sempre più presenti, simultaneamente, nella nostra vita. Come il passato e il futuro. Il teatro, come la città, è antico, non è moderno ma contemporaneo perché avviene nell’unità di spazio e di tempo. Il cinema, la televisione, internet, non sono contemporanei, sono inevitabilmente in un altro tempo e in un  altro spazio. Sono strumenti istantanei, vanno contro il tempo, il teatro e le città vanno con il tempo. La TV tende a consumare il tempo, a darti la notizia prima che accada, questo è il carattere dell’informazione. Il teatro e le città tendono a produrre tempo: non avendo la necessità di informare possono permettersi di raccontare. Ed è il racconto che produce tempo. Non è meglio l’uno o meglio l’altro: raccontare non è meglio o peggio che informare, sono soltanto cose diverse, e l’una nutre l’altra. Così il teatro non è meglio o peggio della televisione. Il caffè istantaneo è utilissimo, l’espresso è la nostra quotidianità, ci serve ed è buono. Ma la napoletana fatta come dice Eduardo De Filippo, quella col cappuccio sul becco e tutto quanto, è un’altra cosa, non è cosa da consumare come l’espresso. Un’altra cosa, tutto qui. Abbiamo bisogno di comprendere la complessità delle relazioni tra consumare e produrre tempo, per questo è bene avere a disposizione tutti gli strumenti: la televisione e il teatro, il cyberspazio e le città.

Ore 21 La Paura siCura (docufilm) | regia di Gabriele Vacis

“La paura è il sentimento dominante del nostro tempo. Perché possediamo tanto. Per lo più cose. Quindi abbiamo paura che gli altri, il resto del mondo a cui abbiamo rubato il tanto che abbiamo, ci presenti il conto. Abbiamo paura che ce lo portino via. Chiedo di raccontare storie: quella volta che hai avuto veramente paura. Quella volta che ti sei trovato di fronte la bellezza. Quella volta che sei riuscito a dire veramente a tuo padre che… Non chiedo opinioni. Così vengono fuori testimonianze diverse: se uno ha vissuto al sud ed è emigrato dal suo paese ha paure e desideri diversi da uno che è non si è mai mosso dal luogo di nascita… In questo modo si individuano temi, che poi vengono unificati in una drammaturgia. Si tratta di ascoltare: gli altri ma anche sé stessi. Si tratta di guardare: il mondo ma anche il proprio corpo. Perché è con il corpo che si fa drammaturgia. Intrecciando frammenti di storie. Perché adesso sappiamo che l’arabesco che formano le nostre storie frammentarie non ci fa perdere il senso. L’accostamento di racconti genera scintille di senso imprevedibili. Genera immagini, danze, musiche, storie che frullano identità impossibili, mobili, fluide.” (Gabriele Vacis)

Raccontare e interpretare le paure del presente attraverso la raccolta di storie personali capaci di agganciare sentimenti collettivi e generali. Volti, persone, storie di paura e di coraggio. Un dialogo intimo con bambini, giovani, adulti, anziani che si fa universale perché riguarda ognuno di noi. Il progetto La paura siCura, promosso dal Forum Italiano per la Sicurezza Urbana in coproduzione con il Centro Inteatro, ha costruito idealmente e materialmente un viaggio in Italia attraverso sei laboratori teatrali in altrettante città del Paese: Catania, Genova, Montegranaro, Ravenna, Schio, Settimo Torinese. Ciò ha permesso di verificare le paure nei diversi contesti, per le diverse età dei soggetti coinvolti, in riferimento alle diverse criticità che venivano affrontate: da quelle più intime, esistenziali e adolescenziali di tanti ragazzi; a quelle derivanti dai mutamenti che le nostre città grandi, medie e piccole hanno affrontato in questi anni; a quelle, drammatiche, del degrado e della criminalità diffusa e organizzata.

APPROFONDIMENTI

Link Web di approfondimento per “Una città invisibile tra pedagogia e teatro” al Teatro Rossi Aperto di Pisa:

Schiera/Skiera 3, summer school a Cittadella di Alessandria:

http://www.youtube.com/watch?v=P2v9Ipk_g44

Schiera/Skiera 5, decima permanenza al Teatro Valle Bene Comune (Roma):

http://www.youtube.com/watch?v=fNRr3kh8Das

Il trailer del film “la Paura siCura” (versione 1)

http://www.youtube.com/watch?v=mLAHQYKMv54&feature=related

Il trailer del film “la Paura siCura” (versione 2)

http://www.youtube.com/watch?v=8d8306T_TaU&feature=endscreen&NR=1

Intervista a Gabriele Vacis sul film “la Paura siCura” (Andrea Ciommiento, PaneAcqua)

http://www.youtube.com/watch?v=sYshysELMaQ

Teatro Rossi Aperto (Pisa):

http://teatrorossiaperto.blogspot.it/

l Jihad, i cortei e le manifestazioni

Innocence-of-MuslimsFRANCESCO MEDICI | Nel marzo del 2004, la Francia ha bandito dalle scuole statali tutti i simboli religiosi, incluso il velo islamico (hijab). Nell’aprile del 2011, ha introdotto una legge che vieta di coprirsi il volto in pubblico, stabilendo, ad esempio, di sanzionare con una multa di 150 euro le donne musulmane che indossano per strada il niqab (velo che lascia intravedere, nella maggior parte dei casi, solo gli occhi). Il mese scorso, il governo francese ha vietato di manifestare a Parigi contro il film anti-islamico “The Innocence of Muslims” (presumibilmente girato negli Stati Uniti e diffuso in forma di trailer su internet) e le caricature del Profeta Maometto pubblicate dal settimanale satirico “Charlie Hebdo”. Secondo il premier Jean-Marc Ayrault, non c’era «ragione di lasciar entrare nel nostro Paese conflitti che nulla hanno a che vedere con la Francia». Il ministro dell’Istruzione, Vincent Peillon, in difesa di “Charlie Hebdo”, ha aggiunto che «la libertà d’espressione è molto importante per la civiltà occidentale e, come la democrazia, va preservata».

Nella dottrina islamica, il diritto-dovere di manifestare pertiene a quello che, secondo alcuni gruppi musulmani (come gli sciiti), sarebbe, in aggiunta ai cinque canonici – ovvero la testimonianza di fede (shahada), la preghiera (salat), l’elemosina (zakat), il digiuno (sawm) nel mese di ramadan, il pellegrinaggio alla Mecca (hajj), fino alla Ka‘bah, la casa di Dio –, il sesto pilastro della religione: il cosiddetto “jihad”, comunemente ritenuto un obbligo per tutta la comunità islamica (Umma).

Tradotto impropriamente come «guerra santa», quello del jihad (nome maschile in arabo) – è probabilmente uno dei concetti più fraintesi in Occidente e che, negli insegnamenti dell’Islam, viene citato, secondo alcuni sapienti, con almeno un’ottantina di accezioni differenti. Jihad significa letteralmente «sforzo» per far trionfare la causa di Dio (cioè l’Islam), e può quindi indicare diverse forme di attività. L’ambito più importante è tuttavia quello riguardante la sfera interiore dell’individuo, quello della spiritualità di ogni musulmano. Si parla più propriamente, in questo caso, di «sforzo dell’essere» (jihad al-nafs), così spiegato, ad esempio, da Tariq Ramadan: «Ogni essere umano sente in sé delle forze che si potrebbero definire negative, come la violenza, la collera, la cupidigia ecc. Lo sforzo che si compie per lottare contro dette forze si chiama jihad […] perché rappresenta lo sforzo continuo che ciascuno deve compiere per dominare il proprio essere, per donargli accesso alla sfera superiore dell’umano che cerca Dio con la costante preoccupazione della dignità e dell’equilibrio».

Il jihad è insomma – e soprattutto – la lotta dell’anima contro le tendenze materialistiche dell’io, una rivoluzione del sé per vincere le passionalità terrene. Nel Corano si fa una netta distinzione tra il “jihad maggiore” (al-jihad al-akbar, “grande sforzo”), esercitato da ciascuno all’interno di sé per evolvere ed educare la propria psiche, dal “jihad minore” (al-jihad al-asghar, “piccolo sforzo”), assimilabile al concetto di “guerra difensiva”. Per quanto concerne in particolare il “jihad armato”, il Libro sacro dei musulmani stabilisce chiaramente quanto segue: è un dovere combattere per la causa di Dio, ma solo per legittima difesa, poiché Dio non ama chi aggredisce; occorre combattere contro chi viola i giuramenti; contro ebrei e cristiani abitanti in terre assoggettate all’Islam, ma solo quando non pagano il tributo convenuto; contro chi è ostile al culto di Dio; è proibito muovere guerra per mero desiderio di bottino; in guerra, bisogna rispettare regole precise, limitanti e umanitarie.

Secondo la definizione classica, il musulmano può intraprendere il jihad «con il cuore, con la lingua o con la spada». Il jihad «con la lingua o con la spada» è dunque il “jihad minore”, per così dire, esteriore, comportamentale, cui pertengono attività come scrivere un articolo o un libro, pronunciarsi in un’assemblea o in un programma televisivo, o anche, semplicemente, diffondere la parola di Dio nel proprio quotidiano (ma senza mai obbligare il prossimo a convertirsi, perché, recita il Corano, «non vi è costrizione nella conversione»).

Nel suo saggio “Il Gihàd” (Quaderni Islamici, n. 59, Edizioni del Càlamo, Milano 2009, pp. 15-17), lo Shàikh ‘Abdu-r-Rahmàn (alias Rosario Pasquini), imam della moschea di Segrate (Milano), si sofferma in particolare su quella che, nell’Islam, dovrebbe essere la corretta modalità di prendere parte a un corteo o a una manifestazione. Vale la pena citare il passo quasi per intero: «Partecipare, in modo ordinato e civile, come richiede un’autentica consapevolezza islamica, a manifestazioni di protesta (cortei) contro le aggressioni alla Comunità musulmana, e all’immagine del Profeta Muhàmmad […] è gihàd. La correttezza della parola e la compostezza del comportamento, che sono aspetti formali della personalità islamica, escludono che, durante i cortei di protesta, i manifestanti musulmani urlino insulti, brucino bandiere, si lascino andare ad atteggiamenti sguaiati e si comportino in modo oggettivamente disdicevole. Il comportarsi in modo scomposto, tale da suscitare disprezzo e riprovazione da parte del pubblico che assiste alla manifestazione, non è, certamente, gihàd! È, invece, oggettivamente, un tradimento della causa islamica. […] I cortei di protesta, che sono manifestazioni di massa, devono avere l’obiettivo di richiamare, sulle ragioni della protesta, l’attenzione di coloro che al corteo assistono e di promuoverne la solidarietà».

I fatti di sangue verificatesi lo scorso 11 settembre a Bengasi, con l’uccisione di quattro persone, incluso l’ambasciatore Chris Steven, durante l’aggressione all’ambasciata statunitense in Libia, non sarebbero, dunque, a rigore, jihad, ma meri atti criminosi da leggere in chiave esclusivamente politica e non religiosa. Come affermò il Profeta stesso, infatti, «il più forte non è colui che riduce all’impotenza il suo nemico nella lotta, ma colui che è capace di dominare la sua collera».

Ne deriva che, all’interno di una società democratica, negare ai mujahidin (cioè a coloro che esercitano doverosamente il jihad) di manifestare pacificamente non è, dunque, solo una negazione della libertà d’espressione, ma è anche una grave negazione della libertà religiosa.s Steven, durante l’aggressione all’ambasciata statunitense in Libia, non sarebbero, dunque, a rigore, jihad, ma meri atti criminosi da leggere in chiave esclusivamente politica e non religiosa. Come affermò il Profeta stesso, infatti, «il più forte non è colui che riduce all’impotenza il suo nemico nella lotta, ma colui che è capace di dominare la sua collera».

Ne deriva che, all’interno di una società democratica, negare ai mujahidin (cioè a coloro che esercitano doverosamente il jihad) di manifestare pacificamente non è, dunque, solo una negazione della libertà d’espressione, ma è anche una grave negazione della libertà religiosa.

Civica e la tragicommedia familiare

BRUNA MONACO | Una scenografia essenziale da interno di appartamento sul palco aggettante dell’Argentina, un palco per l’occasione più lungo che largo, che viene incontro allo spettatore prendendo il posto delle prime file di platea. Poltrona, poggiapiedi, lampada e tavolinetto. Diego Sepe entra in scena dal fondo, indossa una comoda tenuta stile giapponese, pantofole ai piedi. Accende un incenso, si siede, si aggiusta. Il suo personaggio è subito chiaro, quasi uno stereotipo: l’uomo che ha raggiunto l’equilibrio, il “tipo zen”. Si sente bussare. Dall’altra parte di una porta immaginata c’è Luca Zacchini. Se Diego Sepe è rasato, ha capelli corti, veste comodo ed è “zen”, Luca Zacchini è tutto l’opposto. L’opposizione si radicalizza in un dialogo impossibile: la fiumana di parole dell’ultimo arrivato sbatte contro l’ostinato silenzio del padrone di casa. Diego Sepe è il fratello minore, Luca Zacchini il maggiore. L’incomunicabilità familiare prende subito forma scenica.

“Soprattutto l’anguria” ha un inizio dirompente, sopra le righe. Armando Pirozzi, firma la drammaturgia e riesce a farci credere e affezionare a una famiglia che dire disunita è poco. È ridotta in pezzi, scaraventati, come a seguito di un’esplosione, ai quattro angoli della terra. In Africa la madre, una suora laica. In qualche remoto deserto ghiacciato la sorella. In una foresta questo fratello minore – che rimarrà muto per tutti gli ottanta minuti dello spettacolo. In India il padre. È quest’ultimo il motore della storia. Tutto pare iniziare dalla notizia della sua presunta caduta in una trance metapsichica, una sorta di morte-non morte che il fratello maggiore viene a comunicare al minore. Ma mentre a parole Luca dipinge questa famiglia in fondo come tutte, ma così vivida nei suoi contrasti da apparire diversa, dai fatti ci si accorge che qualcosa non torna. Forse la storia è diversa da come ce la racconta. Luca riesce a convincere Diego a uscire in macchina: mette il poggiapiedi accanto alla poltrona, ed ecco i due posti davanti, mentre la lampada spostata all’altezza del conducente fa da volante. È il Luca attore o personaggio a rifunzionalizzare gli oggetti? Stiamo davvero attraversando una stradicciola sterrata nella giungla in direzione di un aeroporto? O siamo ancora nel salone di Diego che, inflessibile, tace e asseconda la follia del fratello?
Il dubbio che tutto ciò in cui abbiamo creduto finora sia falso inizia a farsi largo: nessuna mamma-suora, nessuna sorella nell’igloo, nessuna famiglia esplosa. Pirozzi ha scherzato, Luca è impazzito, il testo indietreggia. Da surreale pretende di farsi realista. Luca e Diego sanno qualcosa che noi non sappiamo, qualcosa che è successo anni addietro e ha portato Luca alla follia, Diego alla mania. Tracce di questo “qualcosa” sparse nel testo, nel monologo: la costruzione drammaturgica è ben congegnata nel dosaggio delle informazioni, tiene alta la tensione, ma quando tutti i tasselli compongono infine il mosaico ci si accorge che qualche incastro è forzato. Avremmo creduto così spontaneamente al silenzio immacolato di Diego se avessimo saputo di trovarci davanti a uno spaccato di realtà? Se avessimo saputo che quel “qualcosa” che i due nascondevano era un fatto tragico come il parricidio commesso da Luca bambino sotto gli occhi del fratello minore? Avremmo riso del mondo assurdo propostoci da Luca, se non lo avessimo immaginato vero? Avremmo riso se avessimo saputo Luca pazzo?
Far ricadere la follia su un trauma infantile. Nulla di più verosimile. Ed efficace. Eppure il testo di Pirozzi sembrava voler prendere altre strade, non concedersi al determinismo psicologico, alla macchina causa-effetto del positivismo. Malgrado il cambiamento di prospettiva in corsa, resta l’impressione che Pirozzi abbia una grande padronanza della materia-testo. Un mestiere solido, elemento rarissimo nei nostri drammaturghi. Il che, insieme alla bravura degli attori e alla sobrietà e precisione della messa in scena di Civica rende comunque “Soprattutto l’anguria” uno spettacolo di alto livello.

Costruendo catastrofi con Rafael Spregelburd

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Videointervista a cura di Andrea Ciommiento

Le dolci estati di Claude Nori

Nori amanti-sul-PoMARIA CRISTINA SERRA | I “mitici” Anni ’60, dopo aver rimosso il Ventennio fascista, segnarono il passaggio da un’epoca tragica a quella inebriante del “miracolo economico” con le sue ventate di novità creative. Arte, letteratura, cinema divennero gli spazi mentali e reali di elaborazione e confronto di una società in rapida trasformazione sociale e culturale. Il cinema, soprattutto, sospeso in una dimensione poetica e di narrazione, appariva agli occhi del giovane Claude Nori (figlio di ristoratori italiani emigrati a Toulouse) un linguaggio complesso e immediato, ideale per rintracciare il filo della propria memoria. “Mi avvicinai alla fotografia, desiderando inizialmente di diventare cineasta”, racconta: “Guardando l’Avventura di Antonioni, rimasi stordito, stupefatto davanti ai primi piani di Monica Vitti. Cinque o dieci secondi che mi parvero interminabili, tanto da desiderare che potessero durare tutta una vita”. Un fermo-immagine che determinerà una scelta di vita, un modo di rapportarsi alla realtà. Una ricerca dell’istante in cui tutto può modificarsi restando sulla porta, a giusta distanza. “La fotografia mi obbliga ad un atto nello stesso tempo psichico e sentimentale”, spiega, “una sorta di nomadismo romantico che mi spinge ad addentrarmi in territori sconosciuti, dove spero di ritrovarmi innamorato”.

La mostra alla MEP, “Claude Nori – editore e fotografo” (fino al 4 novembre) ripercorre le tappe della vita e della carriera di questo maestro dell’immagine, scrittore ed editore sempre controvento, che ha contribuito in modo sostanziale a far conoscere artisti estranei ai circuiti commerciali e a mantenere viva l’attenzione sui grandi come Robert Doisneau, Willy Ronis, Sabine Weiss. Si ha subito la sensazione di inoltrarsi in un viaggio sentimentale attraverso strade incontaminate dall’incertezza del nostro presente, che raccontano di estati infinite, flirt bruciati in leggerezza, paesaggi urbani mutevoli e indefiniti, giardini segreti dove incrociare fuggevoli sguardi in solitari silenzi.

Rincorrendo un’idea di felicità malinconica, Nori negli anni’70 (in una stagione di vivace sperimentazione) inizia a ritagliarsi una nicchia originale, “situata fra il romanticismo alla francese, sullo stile di Truffaut, e un lirismo tipicamente italiano”. Non mancano i riferimenti alla fotografia americana, a Gary Winogrand, che afferra la realtà urbana e la rivisita con dissacrante ironia, e a Lee Friedlander, che la copre di inedite sovrapposizioni. Ma i tratti di Nori sono più sfumati, le ombre notturne si schiudono sempre in racconti, i suoi dettagli si incastonano nella composizione senza discordanze. Determinante fu nel ’74 l’incontro con Edourard Boubat, poeta del “niente che possiede la fecondità dell’infinito”, geniale nel far filtrare l’imprevisto mentre elimina il superfluo. In sintonia con lui, anche per Nori fondamentale è avvertire il “coup de foudre” e lasciarlo entrare senza mediazioni nell’obiettivo per ritrasmettere così le emozioni ricevute.

Con questa sensazione ci lasciamo condurre in sorprendenti “Etés italiens”, ricche di incantesimi, prive di retoriche celebrazioni, distanti dalle delusioni del nostro scontento. E’ l’estate il fil rouge che lega i ritratti, i paesaggi e i sogni fra di loro. Sono le spiagge le grandi protagoniste, dalla Liguria all’Emilia Romagna fino alla Campania e alla Sicilia. Ricordi di vita, profumi di vacanze a bordo di una vecchia SIMCA 1000 di famiglia, di pizze, di falò sulla sabbia, di pigre soste ai caffè, di pensioncine. Con la colonna sonora di “Sapore di sale” e “Gocce di mare” in sottofondo, scorrono le immagini dei filmini in Super8, come pagine vissute di un diario intimo, una “foto-biografia” traslata, che esce dai confini per raccontare le tante contraddizioni di un paese che viveva di speranze. Alle pareti soprattutto foto di giovani donne, attimi e sorrisi di felicità colti al volo, sullo sfondo di fatiscenti cementificazioni a spezzare il paesaggio e l’idillio; a volte la muraglia di stabilimenti balneari a far da scenografia o i “muretti” dei lungomari a contenere la sete di libertà, raffigurata da una ragazza in Vespa, con la gonna sollevata. Compongono strani grovigli di nuvole le reti da pesca sulle barche a Stromboli. Nella notte nebbiosa, fra la boscaglia di un promontorio vicino Ancona, i fari di una macchina illuminano un sentiero che può portare in ogni luogo. “Les amants du Po” si stagliano, ombre fra le ombre sull’argine del fiume, nella luce irreale e nel silenzio ovattato di infinita dolcezza.

Sono tangibili le suggestioni e le reminiscenze col “Novecento” di Bertolucci, affresco grandioso della nostra Storia. Anche la foto del “Bacio a Portofino”, dal contrasto e dal taglio deciso, sembra sottintendere una sceneggiatura dall’imprevedibile svolgimento. Il linguaggio fotografico di Nori si sviluppa simile ad una pellicola in cui il fantastico e il reale si rincorrono incessantemente. Si avverte il suo amore per la vita e il suo impegno costante contro la banalizzazione e l’omologazione di un mestiere, che rischia ormai di confondere le ragioni dell’arte con quelle del mercato.

La seconda parte dell’expo è una testimonianza del suo lavoro da editore coraggioso e preveggente, con la rivista “Contrejour” e poi con “Cinéma International”, con le monografie dei “Grandi”, l’ideazione di mostre e festival come “Terre d’images à Biarriz”.

Accanto agli “umanisti” tanto amati, il mosaico della sua storia della fotografia si completa con i tasselli degli artisti che hanno stretto con lui un intenso rapporto. C’è l’immaginario potente e tragico di Sebastiao Salgado, la grazia raffinata e il rigoroso equilibrio formale di Martine Franck, le prospettive infinite e gli enigmi del cuore di Luigi Ghirri (quando ancora nessuno si accorgeva di lui), gli schizzi estrosi di Pierre et Gilles, l’ironia di Enzo Sellerio, il “non tempo” melodioso di Bernard Plossu, lo sguardo neorealista di Ferdinando Scianna.

E’ un navigare per mari lontani, un dialogo serrato tra foto, letteratura, cinema e architettura, che si arresta solo davanti alla preziosa proiezione della prima puntata (1979) di “Apostrophes” (storico programma di cultura condotto da Bernard Pivot). Protagonisti del dibattito sui tanti significati del fotografare erano R. Doisneau, M. Riboud, H. Newton, H. Silvester, oltre a Nori e ad una meravigliosa Susan Sontag, intenta a spiegare i facili inganni dell’occhio e della mente, di come “una certa consuetudine con l’atrocità possa rendere normale l’orribile o la miseria, rendendola familiare, remota, inevitabile”. Di come sia sempre “fragile il contenuto etico della fotografia” e appaiano “vicine, immediate le cose esotiche; e piccole, astratte, remote, le cose familiari”. Tutto è sempre speculare al suo opposto e allora è chiaro il messaggio di Nori: “Fotografare la felicità è davvero difficile, più complicato che fotografare la miseria o la tragedia. E’ qualcosa di impalpabile, perché è una bolla di sapone, che scivola fra le mani, difficile da acchiappare”.

Collegamento ad Apostrophes con Nori e Sontag
http://www.ina.fr/art-et-culture/litterature/video/CPB79052982/le-monde-de-la-photographie.fr.html

Un video sulla mostra curato da HLGfilms

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=fbV5X0FErs0]