RENZO FRANCABANDERA e MICHELA MASTROIANNI | Una madre e un figlio. Come in tante storie dall’inizio del tempo.
«T’am sent? Mi senti?» chiede lei dal fondo di un pozzo in cui è caduta, attirata da voci, secondo la versione del figlio.
«Non ti sento, parla più forte» dice il figlio, che forse le ha dato una spinta, facendola precipitare giù, ipotizza la madre.
Ma parlare più forte non serve per giungere fino a chi non sa ascoltare, a chi ha fatto sempre e solo finta di ascoltare. Sordo chi non sente «la voce del noce, del giuggiolo, dell’acacia, del melograno», chi non presta attenzione «al grido delle foreste».
Cieco chi muove i suoi passi nel mondo senza vedere «la polvere sul pavimento o calpesta le calle nell’orto», distratto da cose più importanti. La Madre è a tratti Madre Terra, spinta dall’Uomo in fondo allo spazio tragico dell’impossibilità di risanarsi, a tratti indagine psichica sul rapporto filiale, ma anche su quello uomo-donna.

Questo intreccio di traslazioni simboliche è, dal punto di vista drammaturgico, Madre, poemetto scenico di Marco Martinelli, di e con Ermanna Montanari, Daniele Roccato e Stefano Ricci, visto nella sala del Centro di ricerca musicale – Teatro san Leonardo. L’antico luogo di culto, devastato dai bombardamenti del 1943 come molti altri a Bologna, è stato ceduto dalla Curia al Comune che ne ha curato la ristrutturazione e la riqualifica come centro destinato al teatro e alla musica, entrambe a loro modo forme di esercizio e ricerca spirituale oltre che estetica.
Nella navata centrale dell’ex-chiesa siamo accolti da una luce soffusa in cui distinguiamo gli elementi che abitano, in attesa, lo spazio scenico.
La figura geometrica del cerchio segna il campo visivo orizzontale e verticale, su più livelli.
Un cerchio è la pedana su cui, davanti ad un leggio, Ermanna Montanari darà corpo alle parole della madre e del figlio; dietro la postazione dell’attrice è collocato un grande cerchio che si farà specchio, per segnare il passaggio dal primo al secondo movimento del poemetto. Circolare è lo spazio in cui siede Daniele Roccato con il suo contrabbasso e tutti i dispositivi elettronici, che utilizzerà per dialogare, autentica terza voce del poemetto, con le parole del testo e intesserle in una rete ritmica, melodica, armonica; su fogli circolari neri disegnerà, inginocchiato, Stefano Ricci. Sopra di lui, in verticale, una superficie circolare nera, nella quale verranno proiettati i suoi disegni a gessetto.
Il cerchio è il bordo del pozzo, il confine tra il mondo ed il suo rovescio speculare. Di qua la vita fatta di affanni ed affari e una task force di tecnologia a soccorrerci perché non ci fidiamo più della solidarietà umana; di là la vita brulicante e verminosa, fango da cui tutto ha inizio come in ogni genesi, abisso, inferno, profondità così sfonde che alla fine dall’altra parte si vedon le montagne.
Il pozzo, che poi è specchio acquoreo, nel simbolismo archetipo junghiano rimanda contemporaneamente al subconscio e alla madre, ma anche al tema delle paure non allontanabili e alle acque sommerse, delle emozioni non vissute che giacciono in fondo; e forse da questo percorso analogico è germinato il bellissimo disegno che fa da copertina al libretto di sala, in cui la parola MADRE, scritta in visione speculare si scompone e si anagramma nella parola DREAM.

All’inizio ad attrarre l’attenzione è il gesto di Stefano Ricci che con i suoi gessetti bianchi traccia un paesaggio erboso, un canneto e una figura maschile in fuga. Lo si guarda nella fatica e nella leggerezza di ogni segno, chino a terra, le mani accompagnate da una scia nebulosa di polvere nel lavoro instancabile di scavo e scoperta, costruzione, disvelamento e dissoluzione. Il suo gesto procede silenzioso e inesorabile, disegno dopo disegno; Omero avrebbe detto che la sua mano scende come la notte: ogni paesaggio, ogni volto, ogni immagine, si fa e si corrompe, cresce e appassisce, trionfa per un attimo e poi scompare, in un dinamismo continuo di estremo fascino, soprattutto quando oltre al gessetto bianco Ricci provoca l’oscurità del foglio con il gesso nero, ne esplora le profondità e ne ottiene ulteriori risonanze di cupa bellezza.
Il segno è prima nitido e poi sporcato, sfumato, il bordo è menzionato e poi slabbrato, come i primi suoni che escono dalla bocca della Montanari. Gutturali e indecifrabili, una ricerca sul vocale che era iniziata in questa maniera così spinta e destrutturata già da alcuni spettacoli e che aveva avuto in Lus un’esemplificazione assonante (non a caso definito dalla compagnia Concerto Spettacolo, e che vedeva in scena Roccato, accompagnato dagli interventi elettronici di Luigi Ceccarelli). Anche in quel caso c’erano musica dal vivo e immagini, in proiezione (di Margherita Manzelli), sebbene digitali, su originali a inchiostro colorato. Forse proprio il dialetto di Nevio Spadoni aveva posto una base per questa ricerca di puro suono oltre l’italiano. Nel caso di Lus la gerarchia degli elementi e dei segni scenici era molto definita con una evidente supremazia, se così possiamo dire, del recitato sul codice visivo, ancillare. E forse è nata proprio lì, oltre che dalla presenza sul territorio di un disegnatore straordinario come Stefano Ricci, l’idea di inserire anche il disegno dal vivo.

In Madre, la regia tenta la messa in scena del poemetto come un’orchestrazione in cui il lavoro e le sensibilità di ciascuno dei tre artisti faccia da contrappunto a quello degli altri.
Un’unica cosa, in tanta bellezza triadica, sentiamo a fine spettacolo esserci mancata: in questo gioco di reciproci lanci e rimandi, non è lo sguardo il senso più provocato.
Le tre personalità artistiche condividono uno spazio scenico ristretto, come un trio musicale, sebbene non sempre il gioco si esprima in totale compiutezza nell’alternarsi di pieni e vuoti, eccezion fatta per una pausa più individuabile, in cui la Montanari ha un cambio di sembiante.
Nel corso di tutto lo spettacolo, infatti, si è sollecitati da stimoli sensoriali plurimi e per quasi tutto il tempo sovrapposti, la cui somma talvolta depotenzia l’effetto comunicativo ed estetico. Rari gli assoli di ciascuna delle tre voci e manca la stasi, la pausa, nel flusso simbolico. L’intervento solistico così come il silenzio, in questa composizione, forse anche per ragioni di tempi tecnici del disegno dal vivo, nell’incontro con il dialogo sonoro voce-strumento, manca.
Il poemetto vive sui ritmi dettati dalla sonorità: la voce di Ermanna, emergendo dall’angolo sinistro della scena, inganna l’orecchio che elabora il suono del gessetto, prima muto, e che adesso sembra sfregare e graffiare il foglio. La sua voce-figlio è corpo e materia, un suono ruvido, da attraversare. Quel suono, che non è ancora parola, ma che è già carne, disegna i contorni del personaggio figlio: se ne distingue ogni vibrazione, ogni pulsazione, ogni intenzione, ogni verità. Sapienti i giochi di costruzione armonica attraverso l’elaborazione elettronica del suono dal vivo. Il disegno si intreccia in alcuni casi anticipando le epifanie, in altri rivelando: non è mai didascalia, e in questo rimane un attributo di senso vivo.
E poi le parole.
Il testo è potente nella sua brevità. Racconta, descrive, rievoca, argomenta, invoca, sogna. Sa di terra questo italiano impastato al dialetto romagnolo che a tratti si distende e si fa comprensibile e a tratti si aggroviglia, come una serpe, in grumi di suoni da decifrare.
Il senso del testo ci sfida: chi è il figlio? chi è la madre? cos’è questa bisciolina che le penetra nelle carni e vive in esse? E cos’è il pozzo? Cos’è questo budello fatto di terra umida e radici affioranti e acqua stagnante, putridume, materia viva verminosa?
Siamo quasi a metà Ottobre. In un teatro finalmente pieno, la Montanari raccoglie con i due sodali di scena gli applausi calorosi di un pubblico che, quasi incredulo, per la prima volta fotografa non solo di fronte a sè ma anche alle proprie spalle, verso la platea piena, verso questa umanità che pare essere riemersa dal pozzo, e che l’attrice riaccoglie alla luce, battendo le mani sulle tavole del palcoscenico, nella penombra di questa chiesa antica. E sembra tutto bellissimo.

 

MADRE

di e con Ermanna Montanari, Stefano Ricci, Daniele Roccato
poemetto scenico di Marco Martinelli

regia del suono Marco Olivieri
tecnico luci Luca Pagliano
direzione tecnica Enrico Isola, Fagio
realizzazione elementi di scena squadra tecnica Teatro delle Albe Alessandro Pippo Bonoli, Fabio Ceroni, Fagio, Enrico Isola, Danilo Maniscalco, Dennis Masotti, Luca Pagliano
capi vintage A.N.G.E.L.O.
produzione e promozione Silvia Pagliano
organizzazione Francesca Venturi
relazioni con la stampa e consulenza Rosalba Ruggeri
disegno e veste grafica Stefano Ricci
produzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro
in collaborazione con Primavera dei Teatri, Associazione Officine Theatrikés Salénto

foto di Enrico Fedrigoli