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L’arte, lo sguardo, la vecchiezza: La morte a Venezia secondo Liv Ferracchiati

ILENA AMBROSIO | La splendida biografia di Thomas Mann scritta da Hermann Kurzke – tradotta in italiano da Italo Mauro e Anna Ruchat per Mondadori –  reca quale sottotitolo La vita come opera d’arte.
È stata questo, infatti, l’esistenza del maestoso autore tedesco: un perenne, instancabile lavorio teso a una scrittura dallo spessore filosofico e mitico che potesse sublimare l’intero suo essere nell’arte; il suo essere interno, cioè intelletto e spirito, ma anche quel “ciarpame delle origini” che erano le sue oscure e indicibili pulsioni.
Di ciò La morte a Venezia – racconto datato 1912 – è una piena rappresentazione. Gustav von Aschenbach è il tipico e topico artista manniano, teso, compresso nel suo rigore, nello stacanovismo di un lavoro che lo costringe a una vita priva di slanci passionali, di libertà; e pur, in questo, eroica: disciplina, autocontrollo e totale dedizione alla propria arte logorano la salute e affievoliscono la volontà, poiché tutto è dato per essa.
Il suo viaggio a Venezia è, allora, la risposta alla necessità di una «parentesi» vitale che doni alla sua opera «il sugello di un estro infiammato e giocoso, quell’impronta di gioia che è fonte di gioia per il mondo ammirato». Ed è una fiamma che lo accende per Tadzio, bellissimo fanciullo dai lineamenti classicheggianti, del quale, però, non comprende la lingua, istaurando così un dialogo di soli sguardi, che procede per tutto il racconto, e nel quale confluiscono meditazioni sulla relazione che c’è tra artista e oggetto dell’arte e, insieme, tra arte, vita e morte.

Da questo dialogo muto e dalle sue molteplici sfaccettature di significato è stato suggestionato Liv Ferracchiati che firma la drammaturgia e la regia di La morte a Venezia. Libera interpretazione di un dialogo tra sguardi, che, dopo il debutto al Festival di Spoleto 2024, ha calcato la scena del Teatro Bellini di Napoli e sarà, dal 10 dicembre, al Gobetti di Torino.

Ph. Tommaso Le Pera

La scena che Ferracchiati abita assieme alla soave presenza di Alice Raffaelli – anche curatrice dell’aspetto coreografico della pièce – è corredata unicamente da tre pannelli dalla bicromia marinaresca, posti, uno dietro l’altro, a tre livelli di altezza; in proscenio un cesto di fragole. Tutto il resto è affidato a un particolarissimo incontro tra immagine e parola. La prima si sdoppia nella visione diretta dei corpi e in quella mediata dalla videocamera manovrata a mano, le cui riprese si riflettono sui pannelli; la seconda, analogamente, si sviluppa in due modalità: quella di Ferracchiati-Aschenbach passa dal parlato registrato della prima parte alla viva voce, nella seconda, mentre quella di Raffaelli-Tadzio resta off, come libera interpretazione dei pensieri celati nella mente del giovane.

La mente è un luogo aperto, soggetto a invasioni, incursioni subite e provocate.
Non assistiamo a una trasposizione teatrale del racconto: la trama testuale sviluppata da Ferracchiati è esattamente un luogo aperto alle invasioni e alle incursioni delle parole di Mann e dei pensieri che da quelle parole scaturiscono, in un continuo passaggio – anche a questo livello – da una dimensione all’altra, il che fa delle due presenze in scena non solo Aschenbach e Tadzio, ma anche due generici esseri umani che di quelle parole e di quei pensieri si sostanziano. La riflessione intorno alla creazione apre la strada a un dialogo con la Parola, della quale si sollecitano le potenzialità – Eddai, Parola, non fallire, lasciami trasformare questa creatura che ho qui davanti… Vedi? Vedi che la parola fallisce? Che è indicibile, a volte, il mondo –;  la vecchiezza, compagna di viaggio di Ashenbach, è qui un principio di incanutimento che chi dice Io affronta per la prima volta – Sto invecchiando per la prima volta, sono totalmente impreparato…

Ma è soprattutto l’universo dello sguardo, della relazione visiva a inglobare la drammaturgia. Nel racconto di Mann non è solo una questione di frequenza delle descrizioni (ben tredici quelle di Tadzio): è lo stesso lessico della vista a dare forma a ogni singola pagina. Allo stesso modo e ancor più sulla scena il senso della vista, sollecitato e amplificato, diventa veicolo e assieme obiettivo eletto della narrazione, la quale assume una sfaccettatura fortemente cinematografica.

Le apparizioni di Tadzio sono osservate da Ashenbach sempre da una ben precisata angolazione – di fronte, di tre quarti, di lato, di spalle –; così le riprese del corpo, del viso, delle mutevoli espressioni di Raffaelli spostano continuamente il proprio focus, moltiplicando le possibilità di sguardo che si hanno dalla sala in un caleidoscopico fluire di immagini, che pur conserva quell’atmosfera a metà tra il sogno e l’incubo che incombe su Venezia e confonde la mente sempre più ossessionata del protagonista.
Con sgomento e meraviglia l’occhio della videocamera, fluttuando nel bel fondale sonoro realizzato da spallarossa, passa da un’inquadratura all’altra e, anche, dalla scena alla platea e, infine, dal viso di Rosselli-Tadzio e quello imbellettato alla Pierrot di Ferracchiati-Aschenbach restituendo, fotogramma dopo fotogramma, il racconto di un Io artistico che, mettendosi a nudo, scruta a fondo nel potere e nei limiti della propria creatività. Che è poi, come dire, della propria vita.

Tuttavia, questo attento scrutare si fa rischioso nel momento in cui prepara il terreno a derive di pensiero troppo concettuali che, incontrando la già complessa stratificazione dei linguaggi scenici, rischiano di sciogliere i grumi di senso fondamentali. Come a dire, insomma, che in alcuni momenti il focus dell’obiettivo andrebbe allargato piuttosto che zoomato. Si apprezza, comunque, la sincerità di un lavoro di estrema cura non solo formale ed evidente in ogni passaggio anche gestuale della rappresentazione: è una cura che caratterizza in generale l’operare di Ferracchiati e che si rivolge, sempre e palesemente, verso il proprio agire artistico e, insieme, verso chi lo accoglierà.

 

LA MORTE A VENEZIA
libera interpretazione di un dialogo tra sguardi

ispirato a La morte a Venezia di Thomas Mann
drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati
con Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli
movimento Alice Raffaelli
dramaturg Michele De Vita Conti
aiuto regia Anna Zanetti / Piera Mungiguerra
assistente alla drammaturgia Eliana Rotella 
scene Giuseppe Stellato
costumi Lucia Menegazzo
luci Emiliano Austeri
suono spallarossa
voce di Tadzio Weronika Młódzik
consulenza letteraria Marco Castellari

produzione Spoleto Festival dei Due MondiMARCHE TEATRO
TSU Teatro Stabile dell’Umbria
 / Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Fondazione Piccolo Teatro di Milano -Teatro d’Europa

22 novembre 2024 | Teatro Bellini, Napoli

Ammazza la mamma che tutto si risolve: Dini e I parenti terribili di Cocteau

Ph Serena Pea

RENZO FRANCABANDERA | Entra in scena in controluce, una donna dall’allure di Janis Joplin, si infila una siringa nella pancia (si scopre dopo che è insulina e non eroina, ma il viaggio lisergico parte ugualmente): gli spettatori vengono catapultati con lei in una dimensione onirica in cui parto, rapporto sessuale edipico, figure mostruose e tentacolari, anticipano che la visione a cui si assisterà non sarà proprio emotivamente linearissima. Il testo originale, in realtà, parte da quando alcuni parenti entrano nella stanza per salvare la donna dal picco insulinico che si è procurata, ma effettivamente il “banale” complesso di Edipo è roba da dilettanti per I parenti terribili di Jean Cocteau (Les Parents Terribles), drammaturgia in cui il dissacrante scrittore francese esplora le dinamiche disfunzionali di una famiglia intrappolata in una rete di dipendenze emotive, manipolazioni e conflitti. L’opera sembra la rivisitazione di un vaudeville, che diventa qui scorretto e modernissimo.
Pubblicato oltre ottanta anni fa, nel 1938, è un ritratto di relazioni interpersonali intense, dove i legami familiari vengono distorti da passioni, gelosie e paure. Considerando l’anno in cui fu scritto, il testo appartiene a quella serie di scritture che, come quelle di Pirandello di vent’anni precedenti, incarnano in modo preciso le caratteristiche del dramma psicologico; sviluppa molte delle tematiche centrali della psicoanalisi, mostrando la fragilità dell’essere umano davanti alle proprie emozioni. La principale differenza fra Cocteau e Pirandello sta nel fatto che dalle parole di Cocteau trasuda, qui in particolare, una ferocissima ironia, quasi una satira che, se non è sociale, poco gli manca. Ne parliamo in riferimento all’allestimento che de I parenti terribili fa in questa stagione teatrale Filippo Dini: ne è regista e anche interprete (nel ruolo di Georges), in una co-produzione fra gli stabili del Veneto (di cui è direttore artistico), di Torino, Napoli e Bolzano.

ph Serena Pea

Cruciale ne I parenti terribili è il tema del controllo materno esercitato dal personaggio chiave, Yvonne (la madre – Mariangela Granelli) ossessivamente legata al figlio Michel (Cosimo Grilli), un rapporto che si avvicina a quello di una simbiosi patologica. La madre, qui una dandy alto borghese che vive fra alcool, diabete e allucinazioni morbose, proietta su Michel le sue insicurezze e delusioni, trasformandolo nell’oggetto principale delle sue emozioni. Questa dinamica porta a un controllo soffocante, tipico delle madri possessive, che vedono nei figli un’estensione di sé. Il figlio vive dunque uno stato di infantilizzazione: è incapace di costruire relazioni autonome e mature, e sviluppa con la madre un rapporto finto-amicale, chiamandola addirittura con un nome diverso, Sophie, quasi fosse un’amica immaginaria, ma indirizzandole attenzioni sempre intonate a un sottile erotismo mal celato.
Tutto va “patologicamente” bene fin quando il giovane non si innamora di una ragazza, Madeleine (Giulia Briata): e qui i problemi diventano di colpo due. A quel punto, infatti, il suo desiderio di emancipazione entra in conflitto con la dipendenza emotiva dalla madre. Ed è qui che si apre lo spettacolo, con il figlio che dorme fuori e non torna a casa, cosa inconcepibile per la genitrice, che quasi si suicida con l’insulina.
Ma Cocteau complica la faccenda: Madeleine (la nuova fiamma di Michel) è, in realtà, anche l’amante segreta del padre del ragazzo, Georges, che la ragazza vuole lasciare, ma che dice anche di amare ancora.
Il gioco farsesco ruota quindi tutto intorno alle agnizioni incrociate, ai segreti e ai disvelamenti, intricato labirinto di giochi psicologici, a tratti davvero crudele, in cui alla dinamica madre-figlio e alla dualità fidanzata-amante, già complesse di loro, si aggiunge il muoversi sullo scacchiere di un quinto personaggio.
Ai fini del plot si tratta di una sorta di personaggio magico, la figura che nello schema delle fiabe di Propp aiuta l’eroe a vincere la battaglia e risulta perciò cruciale per la quadratura finale del cerchio: è la sorella di Yvonne, Léonie (Milvia Marigliano), personaggio che apparentemente cerca di mantenere l’equilibrio familiare, anche sacrificando sé stessa. Cocteau diceva di non capirla lui stesso, ma in fin dei conti è determinante, come vedremo, per la soluzione del caso e per il/la “lieto/a fine”.
In origine fidanzata di Georges, lo aveva lasciato come sposo alla sorella, restandone segretamente ancora innamorata. La sua figura rappresenta l’ideale della responsabilità morale, ma anche il fallimento di questa responsabilità di fronte alla famiglia profondamente disfunzionale che, a conti fatti, abdicando al suo primigenio amore, ha generato. Léonie vive in una posizione di (apparente) rinuncia e controllo, cercando di placare le tensioni, ma senza mai a lungo riuscire davvero a influenzare gli altri in modo determinante e positivo, se non appunto nel finale, dove con un raffinato gioco di carambole, riuscirà a far fuori, in un sol colpo, l’odiata sorella e a riprendersi il vecchio fidanzato, buttando il nipote fra le braccia di Madeleine e staccando lei da Georges.

ph Serena Pea

La lettura che Dini fa di questo universo femminile, affida proprio a Léonie (matura e interessante la prova di Marigliano) il ruolo centrale di macchinatrice paziente e silenziosa, mantide che alla fine riesce a giocare tutte le carte a suo favore. Madeleine (bene Briata nel ruolo di ingenua maddalena penitente in cerca di redenzione) utilizza sì il suo fascino per manipolare entrambi gli uomini, in questo allestimento, ma Dini ne smorza la personalità calcolatrice e ambigua, spostando questa cifra su Lèonie.
Il gioco effettivamente è scenicamente interessante, mentre risulta invero calcato fin da subito il personaggio di Yvonne, spinta verso una caratterizzazione quasi macchiettistica, che pure la Granelli interpreta come da richiesta registica in modo impeccabile.
In generale, comunque, le donne in questa opera non sono mai rappresentate come figure materne tradizionali o amanti rassicuranti; sono, invece, agenti di conflitto e destabilizzazione, anche quando predicano l’ordine.
Georges/Dini è dapprima una figura passiva, quasi fantozziana, incapace di assumersi la responsabilità di equilibrare le dinamiche familiari. Il suo ruolo è marginalizzato e la sua relazione segreta con Madeleine lo pone in una posizione di ulteriore vulnerabilità, incarnando la fuga dalla realtà e il fallimento nel risolvere i conflitti. Rappresenta l’uomo senza qualità, che evita il confronto, rifugiandosi in una relazione clandestina come via di fuga dalle responsabilità familiari e dalla ingestibile figura di Yvonne, ma come tutte le personalità stolide si rivelerà capace di ogni crudeltà. La banalità del male o la malvagità del banale, potremmo sintetizzare. Assai bene Dini nel ruolo.
L’opera è, dunque, intrisa di dinamiche psicologiche malate, con Michel al centro di una contesa che riflette il suo conflitto interiore: da un lato il desiderio di emanciparsi dalla madre, dall’altro l’incapacità di rompere il legame emotivo con lei. Questo dualismo si riflette nella sua relazione con Madeleine, che diventa una proiezione del desiderio materno e, al tempo stesso, un tentativo di ribellione. In generale (e questo resta molto moderno di questo testo) i figli cercano comunque nei loro partner/amanti delle figure neo-genitoriali.
Iconico il ruolo della donna sola e matura, un topos del nostro tempo, spettatrice delle miserie umane, in cui alla fine cadrà anche lei per opportunismo e calcolo sentimentale. Insomma, nell’umanità dei giochi emotivi, la disumanità fa sempre capolino.

Ph Serena Pea

Come sempre notevole per il suo dire senza fare didascalia è la scenografia di Maria Spazzi, una delle maggiori artiste del teatro italiano contemporaneo, figura i cui segni non sono mai banali. L’architettura a sollevamento verticale che la scenografa pensa per questo allestimento, ha proprio la caratteristica di rivelare le dinamiche relazionali labirintiche fra i personaggi.
La cosa diventa evidente nella seconda scena, quella ambientata a casa di Madeleine, dove quelli che erano stati nel primo quadro i muri della casa di Yvonne e Georges, si sollevano portandosi in alto a incombere sulla vicenda e rivelando proprio questa struttura da labirinto, quasi un videogame stile Pac-Man. Nella terza scena, in cui la vicenda ritorna nella casa della famiglia, i muri tornano giù, ma non fino al livello del palcoscenico, bensì sollevati a metà, quasi a significare e ad alludere alle mezze verità che pian piano si sveleranno, raccontando il doppio fondo delle vicende umane. E Dini a un certo punto pare divertirsi davvero a fare Pac-Man ai suoi personaggi che iniziano a rincorrersi impazziti nel labirinto. Non immediata la videogaming-citazione, ma quando colta diverte. Come deve essere. E questo rivela, in fondo, tutta una serie di piani semantici che il gioco scenografico e registico portano con sé, come le piante del colore del mobilio, forme finto-viventi e oggettualizzate.
Buono il dialogo con le altre funzioni creative al servizio della scena: gli studiati costumi di Katarina Vukcevic, il bel disegno luci di Pasquale Mari, e le musiche non intrusive, ma di contrappunto pop in alcuni momenti chiave di auto-lettura dei personaggi, di Massimo Cordovani. Citiamo a proposito di queste canzoni/personaggio una per tutte, il Tornerai di Dalida, mefistofelicamente in bocca a Léonie, una dichiarazione programmatica, verrebbe da dire.
Si tratta una cover del brano portato al successo dal Trio Lescano nel 1937, ispirato alla celebre coro a bocca chiusa della Madama Battterly, poi tradotto in francese come J’attendrai, cantata da Tino Rossi del 1939, gli stessi anni del testo di Cocteau! J’attendrai sarà poi il titolo dell’album di Dalida. Un’altra meta-chicca, tipo Pac-Man, insomma. Il gruppo di lavoro ha studiato, e si vede, a voler approfondire.

L’opera analizza con spietata lucidità le fragilità umane, le dinamiche di dipendenza e le contraddizioni dei legami affettivi. Cocteau mette in scena una famiglia in cui l’amore, anziché essere fonte di conforto e crescita, diventa una trappola che lega i personaggi in un circolo vizioso di manipolazione e sofferenza. Dini ne ricava, fedelmente sotto molti aspetti, una farsa più che una tragedia, perché la morte di questa madre eccessiva e ingombrante rappresenta in fin dei conti un “lieto” fine.
“Finalmente è fuori dalle balle”, pensa lo spettatore nel suo inconscio: si finisce per sperare, come infatti succede, che nessuno arrivi in tempo per salvarla dal suo ennesimo vero/finto tentativo di suicidio. E così si ristabilisce un ordine duale dell’universo, fatto di coppie, di due, di multipli di due, e di relazioni fra coetanei. Tutto torna “normale” e rassicurante.
Tutto tragicamente borghese. Fino a nuova pulsione inconscia, finché insoddisfazione non ci separi. Ecco, quindi, che il dramma diventa farsesco, che finanche la morte  arriva come evento gioioso e liberatorio.
Plaude vigorosamente il pubblico, a veder portate in scena con tanta lucida cattiveria ed efficacia le miserie che dilagano nelle vite vissute in platea, fino al sollievo per la morte del parente rompicoglioni.
Effettivamente, nella vicenda umana, anche questo succede: tutto è bene quel che finisce.

I PARENTI TERRIBILI

spettacolo accessibile per pubblico di sordi e ciechi
di Jean Cocteau
traduzione Monica Capuani
regia Filippo Dini
con Milvia Marigliano, Mariangela Granelli, Filippo Dini, Giulia Briata, Cosimo Grilli
scene Maria Spazzi
costumi Katarina Vukcevic
luci Pasquale Mari
musiche Massimo Cordovani
assistente alla regia Alma Poli
assistente scene Chiara Modolo
assistente volontario Gennaro Madonna
direttore di scena Federico Paolo Rossi
macchinista Matteo Cicogna
elettricisti Gianluca Quaglio, Nicolò Pozzerle
fonico Andrea Lambertucci
sarto Gabriele Coletti
foto e video Serena Pea
amministratrice di compagnia Federica Furlanis
produzione TSV – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Stabile Bolzano
si ringrazia il Comité Jean Cocteau

Teatro Del Monaco, Treviso | 1° dicembre 2024

La canzone di Agilulfo – Il cavaliere inesistente di Tommaso Capodanno

LEONARDO CHIAVENTI / PAC LAB * | Nelle sue Lezioni americane, Italo Calvino studia la leggerezza come attributo fondamentale per l’individuo del nostro secolo e per la letteratura e specifica quanto questa caratteristica sia importante per la creazione di una narrazione che vada incontro alle esigenze del lettore contemporaneo.
Dotare un’opera di un’ironia che libera l’animo dalla disperazione, creare dei personaggi la cui forza risiede nella loro capacità di trasformarsi in ogni situazione e non di rimanere uguali a sé stessi, è per Calvino un tratto di principale importanza. Tommaso Capodanno sceglie di portare in scena uno dei romanzi sotto certi aspetti, apparentemente più “leggeri” dello scrittore ligure, Il Cavaliere inesistente, sebbene a lettura più profonda infarcito di questioni etiche e filosofiche cruciali.
Il giovane regista ha già diretto altri lavori come Molto rumore per nulla e Apocalisse contro, nato come saggio finale del laboratorio della Fondazione del Teatro di Roma Classico in scena: La commedia delle emozioni. Capodanno è riuscito già più volte a proporre dei classici a teatro non cadendo sotto il peso delle loro parole.
Come in un quadro di Rothko, la scenografia dello spettacolo è definita da linee orizzontali e geometriche, un arco di forma rettangolare fa da cornice a quadrati di legno poggiati per terra e a piante alte, ricordando così le foreste che i personaggi della storia attraversano durante le loro avventure. Alessandra Solimene ha curato la scenografia, rendendo il beige o il grigio i colori prevalenti della rappresentazione, parte di una scansione precisa che stimola l’immaginazione dello spettatore grazie alla sua semplicità. È singolare poi la presenza di una nube a inizio spettacolo, come per nascondere ancora un po’ all’occhio dello spettatore quel mondo fantastico che si andrà a scoprire. Nel suo lavoro d’adattamento dell’opera di Calvino insieme a Matilde D’ Accardi, Capodanno sceglie di utilizzare un linguaggio che unisce dialetto e musica, suono e parola per ricreare sul palco quell’equilibrio tra la forma dell’essere e il trascendentale che accompagna tutto il libro.

Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane. Ph. di Claudia Pajewski

Le quattro attrici recitano ogni ruolo del romanzo, in alcuni casi singolarmente in altri collettivamente, come per Suor Teodora. Evelina Rosselli in particolare, interpreta il cavaliere inesistente dentro un grande costume: un’armatura bianca che l’attrice muove dall’interno. Le sue dimensioni sproporzionate rispetto agli altri elementi di scena evidenziano la solitudine che il personaggio vive durante il corso della storia: Agilulfo è unico, non parla molto, non ha nessun amico. Esegue, però, tutti gli ordini che gli vengono impartiti. La sua volontà supera ogni limite, anche quello dell’esistenza stessa, permettendo quindi al protagonista di vivere come tutti gli altri uomini. Un momento significativo dell’opera è quello durante il quale verrà messo in discussione il suo titolo di cavaliere. Di lì questo strano eroe inizierà un lungo viaggio per riaffermare la sua identità di paladino al servizio del re dei Franchi. La ricerca della propria identità è un tema ricorrente all’interno della storia: lo si ritrova, ad esempio, anche nelle avventure di Torrismondo o nell’amore di Rambaldo verso Bradamante. Dall’ossessione per la vendetta della morte del padre, il soldato riesce a scoprire un’altra strada identitaria grazie alla passione per la giovane guerriera. Tutti questi fili che si intrecciano, però, non riescono molte volte a unirsi per formare un racconto unico ed equilibrato tra i molteplici piani narrativi della storia.

Le attrici, passando da un linguaggio comico alla musica, trasmettono l’ironia del testo e la profondità delle emozioni che racchiude. La voce, in particolare, di Giulia Sucapane ha una particolare forza espressiva.
Si ha talvolta l’impressione, tuttavia, che a essere interpretati non siano dei personaggi veri e propri ma delle porzioni di un racconto più ampio, che vivono la propria storia indipendentemente da quella degli altri. La scelta, infatti, di far recitare ogni ruolo alle quattro interpreti ha alcuni evidenti limiti. È come se si seguisse più la penna della narratrice della storia, Suor Teodora, che il punto di vista delle avventure dei protagonisti.
La scenografia ben riuscita, non realizza uno spazio adeguato per dar modo alle attrici di mostrare i vari ambienti dell’opera, restituendo allo spettatore l’idea che la narrazione si svolga tutta in un solo luogo.

Giulia Sucapane e Francesca Astrei. Ph. Claudia Pajewski

La domanda che per tutto lo spettacolo il pubblico si pone insieme ai personaggi della storia è: come un guerriero senza corpo riesce a combattere, come può muovere l’armatura e usare la spada, come in sostanza, può esistere un cavaliere che in realtà è inesistente? Per rispondere a questo interrogativo torna in aiuto proprio la lezione sulla leggerezza di cui si diceva all’inizio: la leggerezza che possiede Agilulfo Emo Bertrandino dei Gualdiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez è ben diversa da ogni altra. In lui non esiste nulla se non il suo desiderio di voler stare al mondo. Un corpo può crescere, nutrirsi e morire senza mai aver imparato a vivere, perché gli è sempre mancata quella volontà che il paladino possiede più di chiunque altro.
Ciò che crea un’identità, per l’autore, quindi, è la volontà di costruirla.
La storia del Cavaliere inesistente trasforma il significato del termine leggerezza: non sinonimo di superficialità bensì di una profonda consapevolezza del fatto che ogni limite possa superato e che l’identità è sempre in costante mutamento nel corso della vita.

Giulia Sucapane e Francesca Astrei. Ph. Claudia Pajewski

Nel romanzo dell’autrice statunitense Madeline Miller, La Canzone di Achille, una melodia di parole narra le gesta dell’eroe più forte di tutta la Grecia: la musica potrebbe non riguardare apparentemente la vicenda, ma le voci dei suoi personaggi sono ciò che per il mondo della scrittura assomiglia di più a una canzone. Lo stesso vale per lo spettacolo di Capodanno: nonostante le sbavature e le ingenuità interpretative della giovane compagnia che in alcuni punti visibilmente affiorano, l’unione di vari racconti crea un suono che l’orecchio ascolta.

 

IL CAVALIERE INESISTENTE

di Italo Calvino
adattamento Matilde D’Accardi
regia Tommaso Capodanno
con Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane
scene Alessandra Solimene
immagine di Tommaso Capodanno
foto di scena Claudia Pajewski
un ringraziamento a Marco Angelilli
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

Teatro India, Roma | 22 novembre 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

La caccia al Tesoro di Fornasari e la comicità esilarante di Gennari/Di Giacomo

CHIARA AMATO / Pac Lab* | Che cosa hanno in comune un uomo fragile, con problemi di alcolismo, una donna alto-borghese di destra, un pittore africano e una badante slava? Nella commedia La caccia al tesoro, scritta e diretta da Bruno Fornasari, si dividono una madre (non per tutti e quattro biologica) e un’eredità. Lo spettacolo è una produzione del Teatro dei Filodrammatici di Milano ed è stato presentato in anteprima nazionale il 21 novembre presso il teatro stesso.
In scena, ad accogliere il pubblico, c’è un allestimento estivo da bordo piscina (a cura di Fabrizio Visconti): un ombrellone e due sdraio rigate, a sinistra, un tavolino con sedie colorate, sulla destra. Immobili, come in uno scatto fotografico, un uomo in accappatoio giallo, birkenstock e calzettoni sportivi (Michele Di Giacomo nel ruolo di Art), che solleva in aria un vassoio d’argento, visibilmente deformato dall’aver colpito il capo di una donna, rovesciata sul tavolino, priva di sensi (Linda Gennari); infine una figura femminile (Ksenija Martinovic) nell’angolo che assiste turbata alla scena. Cala il buio e parte una musica rock.
Inizia così lo spettacolo, che da questo frame procede a ritroso per poi ri-arrivare alla stessa immagine sul finale, senza realmente rivelare in anticipo i fatti.

In scena appare Art che offre un breve riassunto del contesto nel quale ci troviamo: famiglia di artisti di sinistra, molto benestanti, con una figura paterna assente, ma in compenso una madre molto ingombrante che non ha saputo davvero amare i suoi figli. Li ha lasciati con un mantra – mai lasciare che la realtà s’intrometta in un sogno ad occhi aperti –  insieme a tanti ricordi di alcolismo, droghe e feste surreali da raccontare.
Il monologo
iniziale è ironico e frizzante, anche crudo nel linguaggio, ma in realtà nasconde la preoccupazione per la madre anticonformista che si trova in coma in ospedale. Sullo sfondo, composto da una tenda di filamenti sottili, viene proiettata l’immagine del quadro Piscina con due figure di Hockney.

Ph. Laila Pozzo

Da qui la scena si ripopola delle altre due donne: Chic, la sorella di Art, e Mila, la badante. Chic è l’opposto del fratello: altera, elegante, risoluta, tagliente e dissacrante. Non salva un singolo aspetto del rapporto con il genitore, troppo aperto e libertino, ma anzi recrimina i lasciti importanti che ha dovuto affrontare in terapia per anni. Inizia un continuo e frammentato battibecco fra fratelli che continuerà fino al termine della commedia e il cui punto centrale e sotteso è: siamo davvero disposti alla condivisione, all’inclusione e all’apertura se quello che viene toccato è il nostro portafoglio? Art e Chic sono costretti a chiederselo perché nel testamento si parla di quattro eredi e la scena si arricchisce dell’ultimo interprete: Rafa (Yudel Collazo) infatti, che all’epoca della loro infanzia era un bambino adottato a distanza, successivamente è stato realmente riconosciuto come parte della famiglia dalla madre.
Spiega Fornasari: “I valori morali rischiano di ridursi ad un bene di lusso. Sembra che possiamo scegliere di essere accoglienti, disponibili e inclusivi, al momento del voto, solo se vediamo crescere il nostro reddito, aumentare il nostro senso di sicurezza”. Infatti l’ipocrisia regna fra i personaggi in scena e l’inclusione è solo uno slogan pubblicitario facile da vendere in certi contesti.

I temi affrontati dallo spettacolo sono vari: dalle questioni familiari, al fallimento personale di Art, dalle cause dell’isteria di Chic, alla voglia di rivoluzione di sinistra di Mila e al tema “aiutiamoli a casa loro” di cui è portatore Rafa. Alla fine tutto si intreccia in una serata di alcol, balli (ideati da Marta Belloni) e spensieratezza sulle note di Asereje delle Las Ketchup. Sembra che i personaggi abbiano raggiunto finalmente la catarsi e che il loro astio sia risolto in un happy ending da commedia.

Ph. Laila Pozzo

Il racconto non è mai tetro né realmente triste, ma mantiene un ritmo energico ed esplosivo nonostante la ridondanza, in alcuni punti del tema politico. Battute e freddure presenti in ogni dialogo fanno ragionare su alcuni nodi centrali della cultura occidentale, senza però perdere lo smalto dell’ironia. I passaggi scenici sono rapidi e le entrate/uscite numerose, seguite spesso da un gong come nelle gag televisive americane.
Tutti azzeccate le interpretazioni che non diventano mai grottesche, ma sicuramente spicca il duo Gennari/Di Giacomo che riesce a essere comico quanto tenero, come due fratelli troppo diversi di indole che affrontano insieme un passaggio importante della vita.

Verso il finale si rompe la quarta parete e Chic e Rafa si mischiano alla platea: una luce bianca, fredda e accecante si abbatte sugli spettatori, che a campione vengono analizzati come fossero dei dipinti all’interno della galleria d’arte della madre. Momento di meta-teatralità in parte sicuramente improvvisato perché fa riferimento a singole persone in platea che di sera in sera ovviamente cambiano, ma che di certo si basa su una struttura drammaturgica precedentemente definita. Del resto l’arte pittorica è più volte chiamata in causa, sia come passione condivisa dai vari membri della famiglia, sia quando vengono descritti alcuni particolari del quadro sopracitato di Hockney e dei Nottambuli di Hopper e intrecciati alle vicende dei protagonisti.

Quello che colpisce è il lavoro di cura che traspare da ogni dettaglio e l’energia esplosiva degli attori che riescono a far ridere di gusto un pubblico che appare assai entusiasta al termine della prima.
Sul finale Fornasari gioca con noi: un colpo di scena e uno squillare di telefono senza risposta, che lascia aperto il destino della vicenda.


LA CACCIA AL TESORO

scritto e diretto da Bruno Fornasari
con Yudel Collazo, Michele Di Giacomo, Linda Gennari, Ksenija Martinovic
movimenti Marta Belloni
scena e luci Fabrizio Visconti
costumi Mirella Salvischiani
aiuto costumi Gloria Caprioli
assistenti alla regia Giulia Di Sacco, Federica Dominoni
direzione tecnica Silvia Laureti
produzione Teatro Filodrammatici di Milano
con il sostegno di Regione Lombardia e Fondazione Cariplo – Progetto NEXT 2023
debutto Prima nazionale

Teatro Filodrammatici, Milano | 21 novembre 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

De Summa alle parallele dell’esistenza, con Bowie e ciuffi di isotopi

RENZO FRANCABANDERA | Oscar De Summa è un battitore libero nella scena italiana. Un narratore che nei suoi quasi trent’anni di pratica artistica ha lavorato per lo più come solista, come scrittore e interprete di monologhi scritti da lui stesso, che si potrebbero definire di narrazione, se non fosse che il suo modo di narrare ha una specifica tridimensionalità che ne fa l’artista speciale che è arrivato a essere, con una presenza costante nei teatri italiani ed europei. Un’eccezionale versatilità artistica e una capacità di innovare senza tradire le proprie radici.
Ieri, durante un tragitto in auto, pensavo che De Summa sta al teatro italiano un po’ come Gipi sta al fumetto: un cinquantenne dalle radici che affondano in una adolescenza maudit, una vita letteralmente salvata dall’arte, e che ora continua a mandare i suoi “baci dalla provincia”, storie dal tratto universale, capaci di coinvolgere gli spettatori di ogni età e latitudine.

Apprezzato per la capacità di intrecciare elementi autobiografici e sociali con temi universali, come il senso di appartenenza, il dolore e la ricerca di connessione, ha avuto per qualche anno “dimora” presso la Corte Ospitale a Rubiera. La sua produzione artistica recente lo ha fatto riconoscere anche a livello internazionale per la profondità narrativa e l’attenzione a dinamiche psicologiche e culturali. Alla notorietà internazionale, in particolare in Francia e in Belgio, è arrivato grazie alla Trilogia della Provincia (Diario di provincia, Stasera sono in vena e La sorella di Gesucristo), un progetto che si addentra, con un piglio letterario autobiografico, in vicende umane ambientate appunto nell’Italia periferica, con una sensibilità al contempo intima e critica.

ph. Emanuela Caselli

La traduzione e la promozione internazionale di queste opere, in particolare di La sorella di Gesucristo, hanno contribuito a consolidare la sua reputazione sui palcoscenici europei: la traduzione in francese come La Sœur de Jésus-Christ da Federica Martucci è stata sostenuta dalla Maison Antoine Vitez ed è stata premiata con l’Aide à la création dell’ARTCENA, un prestigioso riconoscimento per l’adattamento e la promozione di opere teatrali internazionali in Francia. In Belgio, la pièce è stata messa in scena al Théâtre de Poche di Bruxelles con grande successo, ottenendo il Prix Maeterlinck 2023 per la miglior scenografia. Era anche nominata nelle categorie miglior spettacolo e miglior interprete, a conferma del suo forte impatto artistico e visivo. L’adattamento è stato diretto da Georges Lini.

Tutto questo preambolo per ambientare e iniziare a raccontare di Rette parallele sono l’amore e la morte, sua ultima creazione presentata in anteprima nazionale al Romaeuropa Festival nel novembre 2024 e in scena a seguire, fino al 1 dicembre al Teatro delle Moline di Bologna, ospite di Ert che coproduce lo spettacolo.
Si tratta di una riflessione poetica e filosofica che intreccia ricordi personali e speculazioni scientifiche sulle teorie dei quanti, esplorando temi come la connessione umana, il destino e il mistero dell’esistenza attraverso l’uso della fisica quantistica, in particolare il concetto di entanglement.
De Summa arriva in scena, una scena vuota, con un microfono al centro, un tavolino con una lanterna a fondo palco e una serie di fari spenti a circondare il piccolo ambiente del teatro. Lo spettacolo nasce per spazi intimi, e arriverà ad avvolgere in modo intenso gli spettatori.
L’attore, dicevamo, si porta in proscenio e con un fare impacciato e chiede scusa agli spettatori: era sua idea costruire una tragedia succulenta invece, perso fra curiosità biografiche sulla vita strana dei geni della fisica e ricordi di personaggi di paese, il tentativo è, a suo dire, naufragato proprio perché perso dietro memorie di piccolo cabotaggio.

Lo spettacolo si basa sul ricordo di Mariarosaria, una ragazza della giovinezza dell’autore che abitava vicino a lui in Puglia. Si torna indietro tra fine anni Settanta e inizio anni Ottanta. La colonna sonora di tutto lo spettacolo è di David Bowie, di cui il protagonista maschile, Peppino, un giovane adolescente sfaccendato che romba con la sua motoretta per il paesino, acquista un disco. Uscendo dal negozio di dischi inciampa, si scontra, collide con Mariarosaria, con la sua vita lineare e organizzata, già programmata e progettata da superiori intenzioni genitoriali, materne in particolare. Lo spettacolo racconta di come i due ragazzi si innamorano e vivono una brevissima storia che, come De Summa stesso anticipa, finisce male. Quindi in realtà la tragedia c’è!

De Summa racconta agli spettatori il suo processo creativo, e di come questi personaggi del passato si fossero presentati in modo impertinente nella sua mente proprio quando aveva deciso di accingersi alla creazione drammatica. Inutile il tentativo di scacciarli.

Ma qual è stato poi il pretesto che ha fatto esplodere fra le mani di De Summa il congegno? Proprio mentre lo scrittore tirava inspiegabilmente fuori dalla memoria queste antiche vicende di periferia, viene contattato su Facebook da un’amica della sua terra d’origine, che lo informa che Mariarosaria è morta. Una notizia che lo coglie di sorpresa, anche perché nulla poteva sapere la messaggera della triste comunicazione che l’artista fosse alle prese proprio con le reminiscenze di lei. E per decenni, prima di quel messaggio sui social, di Mariarosaria non aveva parlato con nessuno. Come viene fuori ora questo legame? Questa strana doppia connessione?
Nonostante la distanza sociale e culturale che li separava, la scoperta della sua morte inaspettata diventa quindi per De Summa il punto di partenza per un’esplorazione dei legami indissolubili che possono persistere anche oltre la morte. De Summa utilizza così la scienza come metafora per analizzare l’interconnessione tra le persone, sviluppando un dialogo tra realtà e immaginazione.

ph. Emanuela Caselli

Il “narrattore” adatta il suo linguaggio teatrale entrando e uscendo dalla vicenda, quasi a voler spegnere (ma in realtà la tecnica chiaroscurale e brechtiana amplifica) le punte emotive, oscillando fra racconto di periferia, interferenze e biografie di fisici dalla vita sregolata, a cui man mano si attorciglia proprio il tema dell’entanglement.
Ma cosa è?
La meccanica classica, spiega l’autore, descrive le proprietà e il comportamento della materia a grande scala e come se i corpi fossero immersi dentro spazi virtuali a sé stanti. La meccanica quantistica, invece, descrive il comportamento microscopico di singole particelle che si comportano a volte in modo contro-intuitivo, come lui stesso spiega con alcuni divertenti esempi sui fenomeni che cambiano a seconda che vengano o meno osservati.
“Entanglement” è un termine coniato da Erwin Schrödinger (uno degli scienziati di cui De Summa racconta in modo divertito) nel 1935 e indica un legame fra particelle. Una relazione. È definito da una funzione, chiamata ‘funzione d’onda di un sistema’, che descrive le proprietà delle particelle come fossero un unico oggetto, anche se le particelle si trovano a enorme distanza. Lo scienziato dimostrò che, se due particelle sono state vicine per un sufficiente tempo, questa correlazione permette alla prima particella di influenzare la seconda istantaneamente, e viceversa.
Dunque De Summa si spiega la faccenda del ritorno alla memoria di Mariarosaria con una sorta di entanglement che lo ha legato alla ragazza, ora donna, che di recente è scomparsa.
In questo ricercare, nella memoria profonda dei legami particellari, la ragione del loro legame umano, De Summa arriva a raccontare la triste vicenda della donna, che si impone per la forza e la determinazione con le quali essa stessa ha vissuto.

De Summa scrive assai bene: a volte stupisce per dettagli capaci di raccontare i personaggi, degni dei grandi classici russi, a volte per subitanee sensazioni di grande vuoto, in stile Carver e letteratura americana contemporanea. Strano finora non abbia ancora avuto in Italia un riconoscimento. Sarebbe ora venisse segnalato.
I suoi testi arrivano addosso agli spettatori in modo dirompente, perchè De Summa sa anche recitare, sa narrare. In questo spettacolo ci sono due/tre momenti davvero gloriosi, da Oscar, volendo giocare con le parole ma proprio a dire, qui, di una cifra personale e potente. Se di tanto in tanto la sua narrazione rivela l’anagrafe, legata com’è a stilemi e formule che affondano nel tempo dei vinili e dei mangiacassette, per altri la sua capacità di costruire la fabula gira con una precisione quantica, mettendo in sincronia al secondo parole, musica e gesti, arrivando ad alcune combinazioni sceniche che comunque sorprendono. Per certi versi la struttura è sporca, emotiva, ha dei piccoli salti qui e lì, forse spiegabili dalla convulsa dinamica emotiva che ne è alla base e che lo spettacolo rivela. Ma è uno sporco tollerabile, un pulviscolo spaziale, per restare in metafora.

Oscar è uno di quei maghi che usa trucchi antichi, semplici, anche “sporchi” appunto, ma nonostante tutto fa sparire e riapparire gli oggetti, i personaggi, le emozioni, dove e quando vuole, e usando le banali tre carte del teatro di parola e di recitazione, ti frega. E il farti fregare comunque è dolce perché, anche se sai che ti porta dove pare a lui, alla fine lo fai guidare: in un modo o nell’altro ti fionda dentro universi poetici di cui, o per nostalgia, o per curiosità, si sente comunque un infantile e irrazionale bisogno.
È questo, come gli altri recenti, è un lavoro che commuove e fa pensare a quanta parte della nostra vita lasciamo andare facendola decidere agli altri, spesso privandoci di felicità istantanee, che poi si rimpiangono. Perchè la vita è veramente un giro quantico, ed è meglio vibrare con il maggior numero di particelle capaci di produrre intese energie positive.

 

RETTE PARALLELE SONO L’AMORE E LA MORTE

di e con Oscar De Summa
progetto luci e scene Matteo Gozzi
progetto sonoro Oscar De Summa
Produzione Atto Due ETS, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale,
con il contributo di GialloMare Minimal Teatro, Fondazione Armunia, Pimoff Milano, ATER Fondazione.

27 Novembre 2024 | Teatro delle Moline, Bologna

Come diventare ricchi e famosi: Emanuele Aldrovandi critica la contemporaneità

FRANCESCA POZZO / Pac Lab* | Un ronzio a luci soffuse. Come diventare ricchi e famosi da un momento all’altro si apre così, con una scala che spunta dall’estremità sinistra del palco e un uomo vestito da apicoltore. Al centro invece svettano una serie di pannelli gialli, nascosti uno dietro l’altro, da lì fuoriescono gli altri attori e dispongono le pareti in fondo, fino a creare una barriera. Quando la penombra si interrompe, i primi elementi che saltano all’occhio sono forme e colori: tutto ciò che è presente in scena richiama il lavoro dell’apicoltore Ferdi (Giusto Cucchiarini), dai toni del miele fino ai motivi geometrici delle arnie. Lui assume il ruolo di narratore e rompendo la quarta parete, ci cala nella vicenda: la sua compagna Marta (Serena De Siena) è appostata fuori dall’asilo perché vuole invitare a casa l’attrice Chiara Velati (Silvia Valsesia), le rispettive figlie, Emma e Blu, sono infatti compagne di scuola e il compleanno di Emma sembra l’occasione perfetta per avvicinarsi allo star system.
Chiara viene introdotta in una schiacciante posizione di potere: inerpicata sulla scala con i capelli tirati indietro da un gel dorato, mentre guarda l’altra dall’alto in basso. Il dialogo si sostiene su serrati ritmi comici e ci propone un confronto in cui il divario sociale è evidente persino nei dettagli: nel modo di parlare ma anche nelle gestualità che le attrici mantengono quasi sempre su ritmi diversi, opportunamente sfasati. In particolare sono i costumi – da una parte patinati, dall’altra curati ma modesti – a rivelare le loro debolezze: l’abito svasato anni ’50 richiama un’insoddisfazione casalinga, mentre gli occhiali scuri sono un correlativo oggettivo della cecità di Blu, una condizione che addolora e allo stesso tempo identifica Chiara, che ha raggiunto il successo denunciando sul web la condizione della bambina.

Ph Luca del Pia

Quando la showgirl accetta l’invito, le scenografie si spostano, mostrando i preparativi. Tutto deve essere perfetto, secondo il copione della desiderabilità sociale. Ma non manca l’imprevisto: all’evento si presenta anche il cognato di Marta, Carlo (Tomas Leardini), bizzarro e antisociale, ha un compito in apparenza semplice: far conversazione e menzionare, en passant, l’attività pittorica della piccola Blu e indurre così Chiara a sponsorizzare il progetto artistico infantile sui propri social. Carlo però non capisce come i disegnini possano essere equiparati a un impegno artistico e, rimasto solo con Ferdi, si mette a discutere sul senso dell’arte.

Dalla drammaturgia di Emanuele Aldrovandi emergono interrogativi profondi: come si differenzia l’arte dalla tecnica? Qual è il ruolo dell’artista in un mondo sempre più regolato dalle logiche della visibilità? Le risposta non arrivano e Carlo continua a trovare più rassicurante il proprio ambiente, quello degli scacchi, dove i numeri e le mosse dettano legge e dove il quarto in classifica è sicuramente più bravo del quinto.

Ph Luca Del Pia

Quando Chiara finalmente arriva, i pannelli si spostano ancora: così lo spazio – che inizialmente giocava molto con i margini – comincia a restringersi, e di pari passo la distanza fra i personaggi diminuisce, ostruendo le vie di fuga e rivelando le fallibilità dei loro intenti. Arrivati a questo punto però, il continuo avanti e indietro delle scenografie diventa un fattore di distrazione, così come i movimenti degli attori che non sempre sfruttano i nuovi perimetri creati. Questa confusione riflette forse un’idea registica che si focalizza sul dare stimoli allo spettatore, anche troppi. Un esempio sono proprio i segni visivi che popolano la scena, tutti inerenti al mondo delle api, che risultano più estetici che funzionali. Al contrario, invece, ciò che esula dalla vista risulta più efficace, come i suoni di giochi, le risa e l’assenza delle bambine, che rappresentano solo un modo per far collidere due visioni contrapposte: quella di chi ce l’ha fatta e quella di chi ogni anno durante le vacanze si chiede se la vita finisca lì, fra il dovere e il riposo forzato dei mesi estivi.

La festa inizia e in una serie di divertenti equivoci, la verità viene a galla e naturalmente a svelarla è Carlo. Durante il climax si nota ancora la contrapposizione fra i personaggi che interpretano la parte delle “persone normali” e coloro che invece, con i loro difetti, danno corpo alla storia. Leardini con la sua recitazione piacevole e fuori dalle righe rappresenta il motore comico della vicenda, mentre a De Siena è affidata la profondità drammatica del testo, l’attrice riesce bene a sostenerla, soprattutto nel momento in cui le due madri arrivano a confronto.

Ph Luca Del Pia

L’ultimo evento importante si verifica fuori scena: Emma, in preda all’ansia, ha imbrattato le opere di giallo. Però non tutto è perduto, ricorda Carlo: infatti prima l’arte si fa e poi si spiega. Si mettono tutti d’accordo e trasformano il gesto in performance art, confezionando una narrazione che contrappone la natura e l’uomo che la rovina.
Come prevedibile, con questo storytelling le vendite schizzano e la famiglia diventa finalmente ricca e famosa. La partita è salva, hanno vinto e l’hanno fatto in poco tempo. Tutti ballano, denudandosi fino a rimanere in biancheria, sotto le luci psichedeliche che ricordano i flash dei paparazzi. E sembrano non voler smettere mai di danzare su quella musica fino a quando una voce fuori campo li interrompe. È Emma, distorta da quella che sembra essere un’intelligenza artificiale, che annuncia il proprio suicidio: non ha retto il peso della celebrità e non riesce a sopportare di aver vissuto in pochi mesi ciò che di solito arriva nell’arco di una vita.
O forse è solo un audio fasullo, rilasciato a scopo di marketing, perché in fondo “ogni pubblicità è buona pubblicità”. Non si può sapere, come non si può definire se in fin dei conti l’arte sia di chi la produce o di chi la guarda.

 

COME DIVENTARE RICCHI E FAMOSI DA UN MOMENTO ALL’ALTRO

testo e regia Emanuele Aldrovandi
con Giusto Cucchiarini, Serena De Siena, Tomas Leardini, Silvia Valsesia
scene Francesco Fassone
costumi Costanza Maramotti
luci Antonio Merola
ambiente sonoro Riccardo Tesorini
movimenti Olimpia Fortuni
aiuto regia Luca Mammoli
trucco Giorgia Blancato
realizzazione maschera Micol Russo, Cristina Ugo
collaborazione realizzazione scena Jessica Koba
collaborazione realizzazione costumi Nuvia Valestri
grafiche Anna Resmini
Associazione Teatrale Autori Vivi
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale – Emilia Romagna Teatro ERT – Teatro Nazionale

Teatro Gobetti, Torino | 6 novembre 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Eterotopia e violenza: Koltès, Giorgina Pi e il gioco delle verità scomode

GIORGIA VALERI / PAC Lab* | In un curioso e poco noto volumetto di Michel Foucault, che raccoglie due conferenze radiofoniche tenute dal filosofo francese nel 1966, vengono esplorate le “eterotopie”, ovvero spazi che si contrappongono alle utopie perché abitano il presente. Non paesi immaginifici nati dai desideri o dalle speranze degli uomini, ma “contro-spazi”. Focault li elenca: giardini, cimiteri, manicomi, motel, prigioni. Spazi dunque che, sin dalle origini della civiltà, sono strettamente connessi agli altri ma per rinnegarli, contestarli, contrapporli, invertirli o neutralizzarli. Luoghi dove viene delegato tutto ciò che è “altro” rispetto alla normalità. Il teatro è quindi eterotopia e anzi, ogni volta può decidere quale funzione svolgere.
È perfettamente normale quindi che sul palco si aggiri un serial killer come Roberto Succo, che uccide ripetutamente di fronte a un pubblico impassibile. E non solo, che vesta anche i panni di giudice autorevole, indicando gli spettatori increduli e accusandoli apertamente: «Sono degli assassini. Mai visti tanti assassini tutti assieme. Alla minima scintilla dentro la testa, si metterebbero subito ad ammazzarsi fra di loro». E continua: «E soprattutto, mai guardarli negli occhi. Non devono neanche vederci, dobbiamo diventare trasparenti. Perché se no, se noi li guardiamo negli occhi, e loro si accorgono d’essere guardati, se anche loro ci guardano e ci vedono, subito scocca la scintilla dentro la testa e allora uccidono, uccidono, uccidono». È l’eterotopia teatrale che concede a un prigioniero di camminare libero e al pubblico di trovarsi in cattività. E quindi di invertire i ruoli.

Ph. Greta De Lazzaris

Il testo-testamento del drammaturgo francese Bernard-Marie Koltes non è una scelta fortuita, si inscrive all’interno della ricerca che Giorgina Pi e la sua compagnia Bluemotion ormai da anni conducono intorno al tragico, alle pieghe oscure dell’esistenza umana. Dai tre classici Pilade, Lemnos e Tiresias, lo sguardo di Pi si sposta su Roberto Succo, personaggio che ha attratto l’attenzione di Koltes quasi quarant’anni fa, poco prima di morire. Veneziano poco più che maggiorenne, nel 1981 Succo uccise la madre e il padre, riuscì a fuggire dal carcere e a farsi inseguire per tre nazioni, lasciando dietro di sé una scia di sangue e violenza. Fino al suicidio finale, nel carcere di Vicenza.
Ancora una volta il male diventa fatto politico: non è tanto la vicenda in sé a destare scalpore, ormai l’anestetizzazione da true crime è universale, ma semmai la natura, i motivi della violenza. Roberto Succo non ne aveva. Nessuna ragione apparente, nessun desiderio di vendetta. Solo “rendersi visibile”.
A Giorgina Pi e a Bluemotion, così come a Koltes nel 1988, una storia del genere, da cui lo spettacolo Roberto Zucco, è sembrata portatrice di una contraddizione ontologica dell’essere umano. Ed ecco il teatro della contestazione: se Zucco è il protagonista, gli antagonisti sono le persone in platea. Lo straordinario diventa normale, l’ordinario efferato.
Così le vicende del giovane veneziano, interpretato da un algido Valentino Mannias, si srotolano placide entro una coltre di nebbia fitta, che avvolge tutta la sala Fassbinder dell’Elfo Puccini. Giorgina Pi, rimanendo estremamente fedele al testo di Koltès, opera un allestimento cinematografico, sua cifra stilistica, funzionale alla resa scenica. La scenografia minimalista, la composizione delle luci, le insegne al neon, gli spot colorati restituiscono subito un’atmosfera onirica, ben inquadrata in un contesto geografico e storico: la Francia degli anni ‘80, nei suoi quartieri malfamati e purulenti.

Ph. Greta De Lazzaris

Show, don’t tell. Perché effettivamente, ad eccezione di alcune battute finali, non vengono mai sottolineati gli spostamenti di Zucco tra Italia e Francia. Quelli interni alla narrazione vengono invece ostentati: una parete perpendicolare alla platea viene fatta scorrere a vista sul palcoscenico da tecnici, ora per indicare la porta che separa Zucco dalla madre, ora la camera dei genitori di una ragazzina che si è invaghita del killer, ora la stanza a luci rosse di un bar della “piccola Chicago”. E un minuscolo faretto contribuisce a creare una coltre divisoria fra questi mondi comunicanti fra loro, impercettibile eppure fisica, materiale. Come a dire: le divisioni non esistono, chi dentro, chi fuori, siamo tutti figli della stessa matrice. Il male si promana ovunque.
I Bluemotion si muovono come un unico organismo, compatto, solido. Mannias è magnetico, imprevedibile, preciso nei gesti. Monica Demuru, madre del ragazzino ucciso da Zucco, gli fa da controspalla creando una delle scene simbolicamente più potenti all’interno di quel contesto stralunato: lui relitto della società, lei maschera vivente del perbenismo dilagante. Sono tutti vinti, il protagonista  e i mille volti che gli si rifrangono intorno. Nessuno si salva, nel testo. Nessuno viene salvato neppure da Giorgina Pi.
Cosi le guardie carcerarie (Alessandro Riceci, Andrea Argentieri), la famiglia strettamente patriarcale dell’amante di Zucco (Dimitrios Papavasilìu, Alessandro Riceci, Gaia Insenga, Alexia Sarantopoulou) le prostitute de L’Or Blue (Gaia Insenga, Aurora Peres), la madre del ragazzino (Monica Demuru) e i passanti del parco, tutti soccombono alla vita e nessuno oppone alcuna resistenza.

Ph. Greta De Lazzaris

«Io non ho nemici e non attacco nessuno. Schiaccio gli altri animali, non per cattiveria, ma perché non li ho visti e ci ho messo il piede sopra», conclude Zucco. Ancora una volta la portata politica degli spettacoli del gruppo, seppur in questo caso velatamente nascosta, emerge prepotentemente e qui per bocca di un relitto della società. Un ‘ultimo’ che si prende gioco dei primi e che ammette quanto i primi non avrebbero mai il coraggio di dire. Koltes questo lo aveva capito: aveva trovato la sua voce, negli anni ‘70, da omosessuale e affetto da AIDS, attraverso quella di personaggi scomodi, repellenti, ai margini della società, i portatori di verità. E allora Giorgina Pi lo riporta in vita, ce lo mette davanti, sguinzagliandocelo davanti agli occhi per spaventarci con il suo latrato. Ma alla fine, è lui che ha paura di noi.
Un gioco che le è ben riuscito, considerando che alla fine, quando gli attori sono tornati in scena per prendere gli applausi con una bandiera della Palestina spiegata, molti del pubblico hanno condannato il gesto: alcuni si sono alzati e se ne sono andati, uno spettatore ha persino puntato energicamente il dito con fare minaccioso contro l’attrice con la bandiera. E l’eterotopia, così, trova la sua piena realizzazione: con la vita che torna a scorrere e si riprende energicamente il proprio spazio e l’illusione teatrale che realizza l’obiettivo di controvertere l’ordine delle cose.

 

ROBERTO ZUCCO

di Bernald – Marie Koltès
traduzione di Francesco Bergamasco
adattamento, regia, scene e video Giorgina Pi
con Valentino Mannias e Andrea Argentieri, Flavia Bakiu, Monica Demuru, Gaia Insenga, Giampiero Iudica, Dimitrios Papavasilìu, Aurora Peres, Alessandro Riceci, Kevin Manuel Rubino, Alexia Sarantopoulou
costumi Sandra Cardini e Gianluca Falaschi
colonna sonora originale Valerio Vigliar
ambiente sonoro Collettivo Angelo Mai
luci Andrea Gallo
assistente alla regia Michael Ferretti
direttore di scena Salvatore Arena
attrezzista Erika Sambiase
fonico Cristiano De Fabritiis
fonico Stefano Gualtieri

Teatro Elfo Puccini, Milano | 14 novembre 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Radio Belice non trasmette. Una storia del passato che parla alla contemporaneità

RITA CIRRINCIONE | Prodotto dal Teatro Ditirammu e dall’Associazione Babel, dal 7 al 10 novembre alla Bottega 5 dei Cantieri culturali alla Zisa è tornato in scena Radio Belice non trasmette di Giacomo Guarneri nel nuovo allestimento affidato all’interpretazione di Dario Muratore (nel precedente di dieci anni fa era in scena insieme all’autore), che ne firma anche la regia insieme a Marcella Vaccarino.

Vincitore del Premio Etica in Atto 2013 e selezionato per Scenario 2013, oltre a basarsi su testimonianze e fatti raccolti da Guarneri in quattro mesi di residenza in loco, Radio Belice non trasmette è liberamente ispirato a I ministri dal cielo – i contadini del Belice raccontano di Lorenzo Barbera, un documento in forma di narrazione in cui il sociologo e fondatore del CRESM-Centro di Ricerche Economie e Sociali per il Meridione, racconta, come recita il sottotitolo, la stagione di lotte di uomini e donne della Valle del Belice dopo il devastante terremoto del 1968, mentre i ministri del titolo sono i vari Moro e Colombo – e persino il Presidente della Repubblica Saragat – che arrivano in elicottero, fanno la loro parata promettendo aiuti che spesso non arrivano, per poi sparire nel nulla.

La copertina de “I ministri dal cielo” – Nella foto una manifestazione capeggiata da Danilo Dolci (con il cartello Pace per il Vietnam si intravede Peppino Impastato)

Il testo drammaturgico di Giacomo Guarneri – una forma di teatro di narrazione che può a pieno titolo essere annoverato tra i migliori esempi di teatro civile italiano – tra ricordi e flashback, racconta circa vent’anni di storia del territorio del Belice e si sviluppa tra un prima e un dopo, in cui a far da crinale è il terremoto del 1968, un evento catastrofico che è rimasto inciso nella memoria collettiva dei suoi abitanti.

A partire dagli anni ’50, grazie all’impulso di Danilo Dolci, quella parte della Sicilia Occidentale, da sempre sotto il giogo mafioso e in un’endemica mancanza di lavoro e di strutture sociali e abitative, inaugura un “conflitto amoroso” con l’autorità costituita, divenendo teatro di una stagione di attivismo politico “dal basso” fatto di azioni di disobbedienza civile e di lotte non violente sotto il segno della compartecipazione come l’“autoanalisi popolare” o “la scrittura condivisa” di progetti per il territorio. Nascono iniziative creative e paradossali come il digiuno collettivo di chi mangia “a mezza pancia” e in qualche modo il digiuno lo fa già, o lo sciopero “alla rovescia” inventato da un popolo di disoccupati che protesta lavorando, iniziative che quasi sempre sono seguite dalla risposta repressiva dello Stato.
Eppure per la gente del Belice è un momento epico: finalmente incomincia a superare rassegnazione e passività, a non aspettare le soluzioni dall’alto ma, abbassando lo sguardo, incrocia quello di chi si trova nelle stesse condizioni. “Come un’epifania” si fa strada l’idea che uscire dalla solitudine, unire le forze e costruire insieme, è possibile.
È in questo clima fattivo di progettualità e di partecipazione che nasce il “Piano di sviluppo per la Valle del Belice”. Ma a spezzare sogni e progetti di cambiamento arriva il terremoto che, da un popolo che ha appena alzato la testa, viene percepito come il giusto contrappasso per la colpa di avere protestato e avere immaginato una vita diversa.

Giacomo Guarneri

Adesso non c’è solo da costruire ma da ricostruire quel poco che c’era. In un’Italia in fase di espansione economica, le differenze tra Nord e Sud si fanno più marcate e l’interfaccia tra una classe politica che pensa solamente a incrementare il proprio potere e i propri privilegi, e la massa dei “poveri cristi” che ha perso tutto e vive ancora nelle baracche, diventa scontro sempre più duro. Le lotte prendono una nuova piega. È l’epoca delle marce di protesta come quella che porta a Palazzo Montecitorio una moltitudine di contadini e braccianti che chiede ai “signori di Roma” semplicemente una casa e un lavoro; del “giudizio popolare” di Roccamena durante il quale i rappresentanti del governo vengono processati in pubblica piazza e dichiarati colpevoli, e dello “sciopero delle cartelle” che ne seguì, “perché non si pagano le tasse a uno Stato fuorilegge”. Nasce anche la prima radio libera italiana (un’emittente clandestina in un’epoca in cui vige ancora il monopolio di Stato sulle trasmissioni via etere) per denunciare il potere mafioso e clientelare che si era in buona parte appropriato dei soldi della ricostruzione della Valle del Belice, e che riesce a trasmettere solo per 27 ore prima di essere chiusa da un imponente operazione di polizia.

Dario Muratore – ph Federica D’Amico

“SOS: la comunità del Belice non vuole morire!”. Inizia così Radio Belice non trasmette: le sedie ammassate insieme ad un’asta con microfono e a una cassa, che abbiamo visto entrando al centro della scena, sono state appena sistemate a comporre un cerchio aperto, la cassa riposizionata, il microfono riattivato: Radio Belice trasmette! Il luogo abbandonato riprende a vivere e la comunità dispersa torna a ricomporsi attorno a quel recinto potente e trasformativo che è il cerchio di parola nel quale è riconoscibile la lezione di Danilo Dolci.
Sotto forma di radiocronaca, comincia la narrazione di quegli avvenimenti, trasfigurati dalla vivida scrittura drammaturgica di Giacomo Guarneri e interpretati da un cronista solo in scena che, con l’urgenza e l’esaltazione di chi sa che sta parlando da una radio clandestina che da un momento all’altro può essere spenta (come di fatto avverrà alla fine), dà voce e corpo ai diversi “personaggi” che compongono quella comunità – tanti quante sono le sedie che occupa di volta in volta per incarnarli – ma anche a entità collettive o mediatiche come la TV o la radio.

C’è “Cola Vuccagranni”, che non intende stare più zitto e pensa che sia arrivato il momento di dire basta; c’è “Sandokan” che dietro la sua pragmatica diffidenza nasconde la paura del cambiamento favorendo di fatto lo statu quo; c’è “Tina Manulonga”, indomita e intraprendente, che osa dare un ceffone alla massima autorità dello Stato durante una delle passerelle post terremoto e che, durante il viaggio a Roma, superando l’impasse che impediva agli uomini di entrare a Montecitorio senza cravatta, ne procura per tutti svuotando una bancarella; c’è una sorta di coro greco che rappresenta la voce dell’uomo della strada, di chi è incapace di comprendere i grandi processi della storia ma non si lascia ingannare dai sottili giochi di potere e rivendica a gran voce i propri diritti più elementari. E c’è la voce della TV di Stato che delle vicende del Belice presenta la versione “ufficiale”, colpevolizzando le proteste e minimizzando la tragica situazione, sullo sfondo di un’Italia catturata dai primi eroi televisivi e che sembra avere solo un sogno: possedere l’automobile.

È un narrazione corale che disegna il profilo storico e antropologico di una comunità, di un territorio, di un’epoca, raccontata da una sola voce, quella di Dario Muratore che, con una notevole prova attoriale, interpreta una galleria di tipi umani e di soggetti, cogliendone postura, gestualità e parlata senza alcun artificio scenico se non attraverso il proprio corpo, la propria voce e una recitazione di grande fisicità, vivace e trascinante, che più volte fa dimenticare di assistere a un monologo.

Dario Muratore – ph Federica D’Amico

Fatte salve le specificità territoriali e storiche, il grande affresco sociale e politico che si compone, rivela ancora oggi tutta la sua attualità e la sua universalità: quella storia periferica che si svolge tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso, racconta allo spettatore contemporaneo la solita spirale in cui nuovi SOS seguono nuovi terremoti, nuove repressioni rispondono a nuove lotte, in un eterno gioco tra chi detiene il potere e chi no, in un’alternanza tra rivoluzione e repressione (o normalizzazione) in cui la ribellione è solo un lampo quasi miracoloso destinato presto a spegnersi, lasciando forse una favilla per altri sogni e per future speranze. E se durante lo spettacolo tutto questo sembra solo aleggiare, con le parole di Franco Battiato che a fine spettacolo arrivano tra gli applausi, deflagra.
Povera patria
Schiacciata dagli abusi del potere
Di gente infame, che non sa cos’è il pudore
Si credono potenti e gli va bene quello che fanno
E tutto gli appartiene.
Non cambierà, non cambierà
Sì che cambierà, vedrai che cambierà.

 

RADIO BELICE NON TRASMETTE

liberamente ispirato a I ministri dal cielo di Lorenzo Barbera
di Giacomo Guarneri
con Dario Muratore
regia di Dario Muratore e Marcella Vaccarino
una produzione Teatro Ditirammu e Babel

Palermo, Cantieri Culturali alla Zisa – Bottega 5
10 novembre 2024

La Beatrice di Scimmie Nude contro la tirannide patriarcale fra Shelley e Artaud

CHIARA AMATO / Pac Lab* | “Ciò che distingue i delitti nella vita da quelli a teatro è che nella vita si fa di più e si dice meno, mentre a teatro si parla molto per fare poi pochissimo. Ebbene io ristabilirò l’equilibrio a detrimento della vita”. Queste parole pronunciate dal conte Cenci, nella prima scena del primo atto dei Cenci di Artaud, possono essere viste come una sintesi molto efficace del Teatro della Crudeltà. Questo movimento, ideato proprio dal drammaturgo, regista e attore francese fu descritto nel 1932 con il Primo manifesto, spiegando che con il termine Cruauté non si fa riferimento a nessuna forma di sadismo o violenza, ma alla battaglia che tale movimento voleva perpetrare contro la tirannia del testo sullo spettacolo. L’aspirazione era quindi di arrivare, o comunque mirare, a un teatro integrale che mettesse al pari gesto, movimento, immagine e testo, per l’appunto.

Il monologo Beatrice, prodotto dalla Compagnia Scimmie Nude, è stato messo in scena al Teatro della Contraddizione di Milano e riprende la vicenda della famiglia Cenci, traendo spunto sia dalla versione di Artaud del 1972, sia quella di Percy Bysshe Shelley del 1819.
Un’antica storia di abusi patriarcali e di ribellione femminile che porterà all’atto estremo del parricidio come unica possibilità di libertà: il tragico destino di Beatrice Cenci, giustiziata nel 1599, viene qui messo in risalto dalla regia di Gaddo Bagnoli e dall’interpretazione di Claudia Franceschetti. Sola in scena, l’attrice veste i panni di questa eroina cinquecentesca e a tratti anche quelli del padre Francesco e della serva. L’omicidio di Cenci porta a un’identificazione tra la vittima e il carnefice e l’ovvio senso di colpa che Beatrice prova.

ph. Marzia Rizzo

Al centro della sala il palco è formato da due pedane che si incrociano, coperte da un tappeto rosso, mentre il pubblico è disposto tutto intorno, come se fosse all’interno di un’arena. Alle estremità della croce vi sono quattro spogliatoi neri usati dall’attrice per i cambi d’abito, necessari a ricoprire i tre diversi ruoli suddetti, annunciati sempre dal suono di un gong (sound design di Antonio Mainenti e musiche originali di Sebastiano Bon). Le luci (Massimo Mennuni) per l’intera durata dello spettacolo giocano tra le tonalità calde del giallo e dell’arancione, alternate a momenti dai colori più freddi del blu e bianco.

In seguito a un suono assordante e cadenzato di tamburi, è la serva, vestita di grigio (a cura di Francesca Biffi), a raccontarci delle nefaste situazioni familiari e di un’orgia che Cenci starebbe organizzando con gli ospiti del banchetto. Il volto turbato, assume quasi forme mefistofeliche e di sofferenza, e appare deformato dal dolore. Si alternano respiri affannati a grugniti animaleschi, dando così spazio al personaggio di Cenci: qui la performer, in stivali e giubba da militare, ci rende chiaro quello che la serva preannunciava; e infatti utilizza un linguaggio crudo dichiarando di augurarsi la morte dei figli.
Arriva al terzo cambio l’attesa Beatrice, forse non a caso in abito bianco, in quanto vittima del comportamento paterno peggiore che una figlia possa subire: ci fa intuire infatti le violenze fisiche e sessuali che il padre perpetra ai suoi danni. Da qui in avanti, l’alternanza dei personaggi è così rapida che saltano anche i cambi d’abito, non più puntuali. In alcuni casi, la Franceschetti si sposta da un lato all’altro per simulare i dialoghi, adattando ovviamente il tono della voce e le espressioni facciali.

ph. Marzia Rizzo

La bruttezza del comportamento paterno si esprime ancora di più con il linguaggio corporeo: ansima lussurioso, sbraita contro la figlia, sniffa in maniera morbosa le sue vesti e si tocca con avidità sessuale alcune parti del corpo.
Quello che scuote particolarmente è la contemporaneità, o forse universalità, dei sentimenti che Beatrice prova, e che la performer ci fa percepire sulla pelle: la sua interpretazione dà voce alle auto-recriminazioni che tante vittime di violenza si fanno, ieri come oggi (“L’unico mio peccato è essere nata…solo la morte può farci liberi”).
E nel momento in cui finalmente la vittima però si fa carnefice, la sala si tinge di rosso -anche in maniera alquanto didascalica- e la protagonista decide di farsi giustizia da sola, visto che sola è stata lasciata nella sua sorte infausta. Suoni martellanti di trombe, a volume spropositato, anticipano le parole chiare e nette che racchiudono la consapevolezza di Beatrice che accetta il delitto, ma nega la colpa. Come spiega anche Gaddo Bagnoli nelle note di regia “questo percorso di lavoro ha fatto maturare in noi la percezione di essere nella nostra esistenza vittime e carnefici degli altri e di noi stessi, una condizione di continua vana lotta che ci impedisce spesso di vivere…in attesa continua di una liberazione”.

Nel complesso, lo spettacolo riesce a coinvolgere puntando sull’elemento tragico della vicenda e sulla bravura attorale della Franceschetti; meno efficace perché troppo laborioso il meccanismo dei cambi d’abito, che ai fini della resa scenica risulta meno determinante di quanto la fatica giustifichi.
Cruciale è invece l’intensità di ritmo, che non lascia tregua e che, anzi, punta a mettere lo spettatore in un perenne stato di agitazione: non si vede nessuno spiraglio di giustizia e non si trova mai respiro.


BEATRICE

uno spettacolo tratto da le opere ”I Cenci” di Antonin Artaud e “I Cenci” di Percy Bysshe Shelley
Regia Gaddo Bagnoli
Con Claudia Franceschetti
Musiche originali Sebastiano Bon
Disegno luci Massimo Mennuni
Sound design Antonio Mainenti
Costumi Francesca Biffi
Produzione Scimmie Nude (2024)

Teatro della Contraddizione, Milano | 24 novembre 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Adolescenza e bisogno di sogni: Never Young di Biancofango sulle tracce di Lolit* oggi

LAURA NOVELLI | Una bambina bionda entra in scena con tenera eleganza, arriva in proscenio,  si avvicina a un microfono e ci racconta, stupendoci, la forza lieve di Peter Pan, il mito di un’infanzia così tanto amata  – e difesa – da divenire utopia, sogno, esercizio di immaginazione. Poi, il dire si fa canto e arrivano le prime note dell’aria per soprano Lascia ch’io pianga di Georg Friedrich Händel, in cui risuona forte il tema della libertà, della rivolta contro la prigionìa dei sentimenti. Lascia ch’io pianga/ mia cruda sorte / E che sospiri / la libertà / E che sospiri / la libertà... 

È questo il momento finale, lirico e toccante, della docu-performance Never Young. Dov’è Lolit*? che la compagnia Biancofango ha presentato ad Teatro India qualche sera fa, dopo il debutto estivo al festival OperaEstate di Bassano del Grappa e alcune repliche a Firenze. Da questo epilogo crediamo sia importante prendere le mosse per entrare nel tessuto e nella lunga, articolata, elaborazione di un lavoro sui giovani e per i giovani – drammaturgia a firma di Francesca Macrì (anche regista) e Andrea Trapani (interprete) – che spalanca lo sguardo su dinamiche sociali, storiche, politiche, antropologiche di estrema attualità e, anzi, urgenti. 

Questo epilogo rovescia, e al contempo accoglie, le tante questioni messe in campo nello spettacolo, secondo movimento sulla figura/simbolo di Lolita che prosegue la riflessione offertaci nel  precedente About Lolita che aveva debuttato alla Biennale di Venezia nel 2020, dando loro una prospettiva problematica, uno spessore dialettico: i fragili adolescenti del terzo millennio sono fuggiti troppo presto dall’Isola che non c’è; forse, non ci sono mai arrivati, e annaspano spaesati, confusi, soli, in un mondo che gli adulti hanno smesso di amare. E allora che gli adulti vedano, ascoltino, si interroghino sui loro giovani figli!

Ph. Arianna Romagnolo

Andando a ritroso nei diversi quadri che scandiscono la pièce – Autobiografia di una nazione Sulla retorica Dov’è Lolit* oggi? L’infazia perduta – tale monito si insinua in modo sempre più consapevole nel pubblico, complice anche il significativo impianto scenico che, arioso, vuoto, sgombro di orpelli, attraversato da colori saturati e dal puntuale disegno luci di Massimilano Chinelli, schiera al fondo della scena l’intera compagnia, rimandando l’idea di un’arena sociale dalla fisionomia brechtiana dove tutti sono sotto gli occhi di tutti e ognuno, individualmente, è chiamato a guardare e sentire, a giudicare e, tanto più, a giudicarsi. Speculare al coro degli artisti e dei tecnici, poi, un coro di cittadini over 60 seduto nella prima fila della platea: testimone dell’oggi e insieme incontrovertibile protagonista di una giovinezza passata che, diverso di città in città, qui assiste, interviene, parla di Lolit*, interagendo a tratti con gli interpreti e portando nel lavoro un carico di fisicità matura, spontanea, vissuta.   

Dentro il contorno smarginato di questo spazio, il lirismo dell’epilogo non può che essere anticipato da un linguaggio volutamente più epico, più documentaristico, che alterna intarsi video e momenti agiti dal vivo, di cui le splendide musiche originali firmate da Giovanni Frison intercettano la stoffa emotiva vera e profonda, per tradurla in un paesaggio sonoro del tutto coeso con la partitura scenica e la bella regia di Macrì, la quale appunta tra le sue note: Ma dov’è oggi  Lolita/Lolito/Lolit*? Dove lə possiamo incontrare nella comunità che ci circonda? Dove si nasconde, se si nasconde? Perché ci stupiamo quando lə scoviamo sulle cronache dei giornali o in qualche saggio specializzato quando sono sotto i nostri occhi tutti i giorni? Come siamo passati da Lolita alle baby squillo, alla prostituzione nei bagni delle scuole, ai marchettari bambini, agli sugar baby/sugar daddy/sugar mom, a OnlyFans?”.  

Ecco dunque una voce femminile fuori campo (si tratta di quella della giornalista Daria Bignardi) introdurre gli astanti al mito della ninfetta di Nabokov; o meglio, a un primo filone di ricerca costruito dalla compagnia intorno al quesito del titolo, e votato a ricostruire le ragioni storico-politiche che hanno concorso a trasformare gli adolescenti odierni in soggetti e oggetti di consumo, in piccoli adulti avidi di successo, succubi di modelli standardizzati e di un pericoloso sentirsi grandi a tutti i costi. Corpi fluidi, impauriti di fronte alla scoperta di sé, dell’altro, della propria sessualità. Voci dalle parole abbrevviate, convinte che il mondo possa vibrare, tutto intero, dentro lo schermo di un cellulare. 

Ph. Arianna Romagnolo

Un egregio Andrea Trapani – energico, grottesco, ferocemente ironico e al contempo dolcemente paterno – come fosse un regista demiurgo, orchestra l’irrompere in scena dei quattro giovani interpreti del lavoro – Marco Gregorio Pulieri, Irma Ticozzelli, Sara Younes, Cristian Zandonella, tutti bravissimi nel dare verità e spessore poetico alle loro rispettive Lolit* – guidandoli e guidandoci con crescente vigore nei rivoli di un’impietosa ricostruzione della recente storia nazionale: la discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994, le ragazze di Non è la Rai (primo programma televisivo a declinare il corpo delle adolescenti secondo canoni di omologazione sessuale e di mercificazione mediatica), l’Italia rampante anestetizzata dalla pubblicità del Mulino Bianco, l’arrivo violento delle Tv private. “Brava Lolita, Brava Lolit*”, gridano gli attori battendo le mani. Ci guardano. E ci guardano ancora. Le immagini storiche scorrono sullo schermo posto al centro del palcoscenico ed è impossibile non farsi domande, tirarsi fuori, assolversi. C’è dunque un momento, un momento preciso, a partire dal quale l’Italia adulta non ha più salvaguardato i suoi ragazzi, i suoi cittadini di domani. Non ha più funzionato come vettore di trasmissione valoriale. Perché ai valori si è andata progressivamente sostituendo una retorica vuota e svuotata di cuore. 

Non a caso proprio Sulla retorica si intitola il secondo quadro, laddove il discorso di Macrì e Trapani – qui magistrale nella trasfigurazione grottesca dell’oratore fallace – si sposta sul linguaggio della politica e della pseudo-politica; sull’aporia di ideali che non sono più tali, che confondono denaro e bisogni, merce e desideri.
Questo focus marcatamente sociologico e attualissimo lega la riflessione sulla res pubblica a un altro importante filone di ricerca che innerva la sostanza di Never Young: quello sulle parole. Le parole per dire e per dirsi. Le parole che mutano, mancano, fanno capriole inutili nel tentativo di definire alcuni dei cambiamenti più significativi che riguardano gli adolescenti del terzo millennio: da un lato, lo scollamento tra le proprie emozioni e, appunto, il vocabolario per raccontarle; dall’altro, la ricerca di quella indefinitezza sessuale e identitaria che, malgrado sia sinonimo di libertà, non sempre trova nel linguaggio le traiettorie per potersi esprimere.  

E allora adesso guardiamoli noi, ascoltiamoli mentre chattano tra loro arrampicandosi sui piaceri di un Eros svogliato e volgare: i quattro giovani interpreti – in questa scena intensi, efficaci – indossano abiti sportivamente sexy, si siedono a terra e, attaccati al proprio smartphone, assecondano le loro pulsioni sessuali intrattenendo interlocutori sconosciuti su chat erotiche devote alla “divinità” dell’off-line e dell’on-line. La geografia anatomica delle prestazioni offerte o ricevute stride però con quegli sguardi fanciulleschi e con i pacchetti di pop-corn che essi aggrediscono senza sosta, come se nel masticare e nello sputare potessero tirare fuori ciò che hanno realmente dentro, tanto da ricordarci la magnifica scena del panettone di Porco mondo, lavoro nevralgico di Biancofango, e tutta la disperazione raccontata da quelle briciole di esistenza. Anche qui il palcoscenico si riempe di residui, di pop-corn non deglutiti, sputati, caduti. E su questi residui arriva poi la voglia di ballare.   

Ph. Arianna Romagnolo

Arriva la stessa poesia che, d’altronde, già in passato il lavoro di Macrì e Trapani ha riservato al racconto delle giovani generazioni, e basti citare produzioni importanti quali, ad esempio, Culo di gomma o Romeo e Giulietta, ovvero la perdita dei padri e lo stesso About Lolita (ispirato al celebre romanzo e all’altrettanto celebre film di Stanley Kubrick). Tuttavia, questo nuovo spettacolo (atteso nel 2025 a Milano e Torino) aggiunge qualcosa al percorso: osa un salto in avanti. Anticipato due anni fa da uno studio preparatorio andato in scena, sempre ad India, nel cartellone della rassegna Teatri di Vetro diretta da Roberta Nicolai, esso non solo ricapitola e porta a maturazione buona parte della biografia artisica della compagnia romana, da sempre particolarmente sensibile alle tematiche proprie dell’adolescenza e artefice di percorsi laboratoriali condotti in diverse scuole della Penisola, ma realizza una docu-performance pulsante di materiali diversi e autentici, tenuti insieme da un pensiero teatrale lento, riflessivo, amorevole, arricchito da continui incontri, continue letture, continue incursioni nell’umanità. Un pensiero che è anche stile, forma, ricerca, domande sul ruolo del teatro. Perché la denuncia non basta; ci vuole un disegno creativo che apra sprazzi di luce.
La natura epica dei primi tre quadri cede, dunque, il passo all’utopia di Peter Pan.
Alla bambina bionda del finale. Al sogno di un’infanzia rubata.
A quell’aria di Händel che, avvolgente brano di chiusura, vuole essere in fondo anche un auspicio, una carezza poetica capace di andare oltre l’arena del mondo sociale e i soprusi della nostra storia politica, per riconsegnare ai ragazzi la loro sacrosanta “libertà” di sognare, crescere in pace, credere in se stessi e nel futuro. 


NEVER YOUNG
Una docu-performance
Dov’è Lolit* oggi?

un progetto di Biancofango
drammaturgia Francesca Macrì e Andrea Trapani
regia Francesca Macrì
con Marco Gregorio Pulieri, Irma Ticozzelli, Andrea Trapani, Sara Younes, Cristian Zandonella
e con la partecipazione di un coro di cittadini
musica, sound design e live electronics Giovanni Frison
aiuto regia e collaborazione artistica Lorenzo Profita
assistente alla regia Giorgia Azzellini
light design Massimiliano Chinelli
produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Fattore K
con la collaborazione produttiva di OperaEstate
in collaborazione con Teatri di Vetro e Atcl Lazio

13 novembre 2024 | Teatro India, Roma