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mercoledì, Ottobre 4, 2023
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Milano Off: prime visioni dal Fringe

RENZO FRANCABANDERA | ll Milano off Fringe festival, di cui si è svolto nelle giornate del 29-30 settembre/1 ottobre il primo dei due weekend su cui è articolato il programma, in questa edizione si è arricchito di numerosi patrocini di vari municipi della città ma anche di nuovi sedi e luoghi di incontro.
Il cuore pulsante del festival è il Mercato Centrale, una vivacissima struttura prossima alla Stazione Centrale di Milano, diventata da un po’ di tempo un luogo frequentato, che offre gastronomia tradizionale e street food, uniti a sale riunioni e piccole piazzette interne adatte  all’incontro tra persone.
Tutte queste caratteristiche ne hanno fatto il luogo ideale sia per la biglietteria che per i vari talk che hanno occupato le mattine del festival, come quello che ha visto coinvolti, oltre ai direttori artistici del Fringe Milano off Francesca Vitale e Renato Lombardo, anche i direttori di alcuni dei principali Fringe festival del mondo che hanno offerto agli artisti idee e occasioni di confronto sul modo corretto con cui proporre in ambito internazionale il proprio lavoro: dal direttore di Avignone off a quello del Fringe di Londra fino al Fringe ucraino, l’incontro tenutosi sabato 30 settembre è stato davvero ricco e partecipato, con tanti artisti, quelli coinvolti nel festival ma anche altri arrivati qui per l’occasione, a confrontarsi sul tema della promozione e della circuitazione dei lavori di teatralità indipendente.

Da pomeriggio a sera, invece, la full immersion nel festival, per gli appassionati di teatro, è stata totale: venues disseminate in tutta la città per dare davvero a ogni cittadino la possibilità di fruire di occasioni d’arte, anche nelle periferie.
Tanti i luoghi di interesse coinvolti: fra questi la sera del 29 abbiamo visitato lo Spazio Tadini per due proposte che si susseguono come nelle altre venues del festival, in cui a distanza di poco tempo, come in tutti i Fringe, gli artisti vanno in scena e poi liberano il palco per l’esibizione successiva.
Spazio Tadini è uno dei luoghi storici per l’arte a Milano, una casa-museo aperta nel 2006 su desiderio di Francesco Tadini (regista, autore televisivo e fotografo) di ricordare il padre Emilio: da allora è gestito insieme alla moglie Melina Scalise (giornalista professionista, psicologa e curatore d’arte). Dal 2008 fino al 2019 viene aperta l’associazione Spazio Tadini che vede attorno al centro culturale artisti di varie discipline e il luogo diventa uno dei centri culturali più vivaci della città di Milano, aggiungendo la professionalità di Federicapaola Capecchi, pubblicista, curatrice di fotografia e coreografa.

Post-Apocalyptique Clown Show è una visual comedy con musica dal vivo, un’esperienza immersiva per il pubblico che si trova catapultato fin dall’inizio in un futuro post-apocalittico. Lo spettacolo inizia infatti con gli spettatori radunati fuori dall’ambiente della rappresentazione, che vengono invitati ad accedere da un professore pazzo che, più con gesti che con parole, spinge gli spettatori a entrare nel suo bunker, informazione che viene fornita agli spettatori con bigliettini esplicativi all’ingresso.
Qui lo scienziato pazzo ha accumulato i personali generi di conforto per la sopravvivenza nell’ambiente ostile, ovvero libri, qualche bottiglia di vino, il tumulo in cui ha seppellito il suo amato cane che vorrebbe cercare di riportare in vita, e dischi di tango.
In questa scena movimentata ma drammaturgicamente in stasi viene a creare scompiglio una prima figura, che dal punto di vista della vicenda è un po’ figura ancillare, come nella tradizione di Don Chisciotte e Sancho Panza o forse più propriamente Frankenstein Junior, un po’ alter ego dialogico come nel caso beckettiano di Vladimiro ed Estragone. In questo mondo le parole sono quasi scomparse, si parla di rado, in un grammelot a malapena comprensibile, per mettere il pubblico in ogni nazione nella stessa condizione.
I due hanno da poco iniziato a definire una relazione di reciproca conoscenza – ovviamente in un codice tutto comico e di teatro fisico – e nello scenario assurdo irrompe una terza figura, possibilmente ancora più aliena della seconda: asmatico, stranissimo, ectoplasmatico e armato di strumento musicale. Le gag si moltiplicano in un gioco a tre (Luigi Aquilino, Andrea Camatarri, Matteo Chippari sono gli interpreti, con una sorta di regia collettiva coordinata dal primo): ne risulta una formula scenica piuttosto originale, essendo il codice del comico assurdo inspiegabilmente poco praticato in Italia, mentre all’estero gode di grandi fortune.
La compagnia stessa nel suo territorio di radicamento a Novara, dove collabora al progetto LaRibalta, ha iniziato a organizzare anche un festival dedicato a questo genere espressivo.
Post-Apocalyptique Clown Show, che di fatto debutta al festival, ha spunti peculiari di originalità, come si diceva, e ha bisogno di pochi aggiustamenti di ritmo per garantire alle sequenze di fluire l’una nell’altra nel modo più naturale possibile ma il lavoro è già a buon punto: i talenti in scena si amalgamano in modo piacevole, per altro introducendo un codice musicale eseguito dal vivo che si fa apprezzare per freschezza.

A questo lavoro segue Blasé, monologo scritto e diretto da Luca Zilovich e affidato nell’interpretazione a Michele Puleio.
Vuoto lo spazio scenico, eccezion fatta per un grande pacco/scatola che domina al centro della scena, scena che verrà poi in seguito definita nei suoi passaggi drammaturgici dal disegno luci di Enzo Ventriglia.
La vicenda è quella di un uomo affetto da oniomania che, armato, prende un magazzino di smistamento tipo Amazon in ostaggio. Blasé, dice la compagnia, vuole indagare la tendenza della società a far apparire ogni cosa di colore uniforme, di gusto che non sa di niente, uguale a mille altre cose. Come in Un pomeriggio di un giorno da cani, il protagonista cerca di dare una scossa alla propria vita e forse implicitamente vorrebbe che le vicende assumessero un qualche contorno finanche rivoluzionario. Ma è ancora possibile fare la rivoluzione prendendosela con questo o quel magazzino, con altri operai di fatto vittime del sistema produttivo stesso, per provare a riscattare la propria e le altrui esistenze da un destino miserabile? Dall’inizio dell’atto terroristico, la narrazione passa in mano agli ostaggi stessi, cercando, come nelle precedenti creazioni di Officine Gorilla, di non definire in modo manicheo cosa è bene e cosa è male ma di leggere la complessità del mondo in cui siamo e, anche sotto altri aspetti, la frustrante impossibilità di pensare organicamente di poter cambiare il sistema dal basso.

Insomma, le farfalle possono sbattere a lungo le ali, ma non è detto che poi dall’altro lato del mondo si generino tornado, mentre i battiti si fanno sempre più affannosi e stentati.

Puleio entra ed esce da tutta una serie di personaggi che a volte hanno una cifra più drammatica, altre hanno invece un piglio più ironico, popolare, come d’altronde sono i personaggi narrati, appartenenti tutti più o meno alla nuova classe degli sfruttati: finanche i manager altro non sono che immigrati che hanno fatto una piccola carriera e che – come nella migliore tradizione – diventano spesso più aguzzini di chi li precedeva nel ruolo spietato di decidere chi sta dentro e chi sta fuori, e a quali regole.
È un mondo che cerca di sfuggire alla sua omologazione e al suo destino. Da questo punto di vista la drammaturgia, che ricalca lo schema ampiamente praticato del monologo a più personaggi affidati uno dopo l’altro alla verve mimetica dell’interprete, ha diversi spunti interessanti. Potrebbe essere utile rompere lo schema che li propone in galleria, per creare una polifonia non composta solo dall’avvicendarsi di piccoli assoli.
L’interprete ha una capacità di immedesimazione e di cambio dei paradigmi recitativi adatto a questo genere di lavori, con un timbro vocale intenso, talvolta sfruttato più nelle tonalità forti, cosa su cui si potrebbe utilmente lavorare per trarre nelle varie atmosfere ambientali ulteriori sfumature.

Chiudiamo questo primo sguardo sul festival con una terza creazione andata in scena negli storici spazi della Umanitaria, una storica associazione filantropica milanese che affonda le radici a fine ottocento e che da allora è impegnato nella formazione e nel diritto alla conoscenza di chi ha più bisogno, sia nel capoluogo lombardo che in altri progetti in giro in Italia e nel mondo.
La bellissima sede si trova di fronte al tribunale di Milano e a una serie di spazi dedicati alla  polifunzionalità fra cui uno spazio teatrale che in questi giorni è stato occupato dal Fringe.
“Venerdì, i carabinieri, al termine degli accertamenti sulle impronte digitali, avevano identificato il rapinatore morto: un pregiudicato noto alle forze dell’ordine, Claudio Foschini, 61 anni”. È una notizia del 2010, che racconta la fine di un vita criminale durante un conflitto a fuoco con una guardia giurata. Ma Foschini non era un criminale qualunque, e 13 anni dopo la sua morte, dalle sue memorie autobiografiche nasce Un estremo atto d’amore, spettacolo che racconta la storia del ladro e rapinatore, romano di borgata, nato nel dopoguerra al Mandrione, in una situazione ambientale un po’ alla Brutti sporchi e cattivi. Il ragazzo nasce in un contesto degradato, figlio non voluto, e viene pasolinianamente marchiato dal contesto che lo segna. Il suo è un piccolo romanzo criminale, alla cui stesura lui stesso effettivamente si dedicherà in modo maniacale e con ricchezza di dettagli narrativi riempiendo molti quaderni a quadretti nelle lunghe giornate della prigionia, divenuti materia utile per lo spettacolo.
La vita di questo personaggio folgorato in età matura da teatro e scrittura passerà per buona parte in galera, partendo dal carcere minorile di Porta Portese, nel 1965, a 16 anni, per poi girare molte altre carceri d’Italia con l’evolvere della sua carriera criminale: Regina Coeli, Rebibbia, Montefiascone, Avezzano, Rieti, Pescara, Palermo. Foschini racconterà nelle sue memorie l’Italia vista dal lato delle carceri, nel momento stesso in cui la società chiedeva la rivoluzione fuori, la droga inondava le città e la criminalità si organizzava in forme sempre più dure e aspre, quasi in un sistema dentro il sistema.
La storia è un po’ alla Edward Bunker: Foschini in carcere partecipa a rivolte e soprusi ma anche al primo convegno sulla detenzione tenuto a Rebibbia nel 1984, che si conclude con la messa in scena dell’Antigone di Sofocle da parte dei detenuti.

Tante volte si dice che il teatro cambia la vita: forse non è sempre vero o non è vero in assoluto, o forse non è più  vero come forse lo era un tempo quando esistevano solo media analogici; “un estremo atto d’amore” sono quindi le parole che lo stesso Claudio usa per descrivere la sua esperienza con il teatro, forse l’unico spiraglio di luce dentro una vita che finirà, come prevedibile, con un omicidio.
Da un progetto di Viso Collettivo, vincitore del Premio Lucia 2020, nasce lo spettacolo, produzione della Compagnia GenoveseBeltramo e di Viso Collettivo affidato a Riccardo Salvini l’attore, e ai musicisti Luca Morino e Federico Pianciola, anch’essi sul palcoscenico in uno spazio sostanzialmente vuoto ma a suo modo multimediale.
La drammaturgia è fatta di tre partiture che si incrociano: una attorale, una musicale eseguita dal vivo con la chitarra, e una sonora, agita da tablet dalla terza presenza in scena, che crea un landscape di voci, suoni, memorie che abbracciano lo spettatore perché create con una tecnologia di tipo surround che avvolge la platea. Anche il recitato rompe con frequenza la quarta parete per stabilire relazione con la sala e creare un rapporto fra la vita libera che si svolge al di qua e al di là del palcoscenico, e la vita reclusa che si chiude in pochi metri quadri.
La creazione ha una componente sonora interessante e viva, con la parte live di grande pregevolezza. Più statica e forse registicamente esile la presenza in scena dell’artista multimediale. La vicenda e la scrittura hanno alcuni momenti avvincenti ma anche un bisogno di trovare un ritmo e un equilibrio fra parola e suono a cui lavorare nelle prossime repliche, sporcando un po’ il codice per far respirare non solo nel sonoro ma anche dal vivo il drammatico di questa esistenza a suo modo dannata e già condannata prima ancora di svolgersi.

POST-APOCALYPTIQUE CLOWN SHOW

di Luigi Aquilino
regia, interpretazione, luci, musiche e costumi Luigi Aquilino, Andrea Camatarri, Matteo Chippari
produzione Luigi Aquilino, Andrea Camatarri, Matteo Chippari con il sostegno de “LaRibalta Art Group” di Novara


BLASÉ

testo e Regia Luca Zilovich
con Michele Puleio
luci Enzo Ventriglia
musiche Raffaello Basiglio
costumi Alice Rizzato
produzione Officine Gorilla e Teatro della Juta

UN ESTREMO ATTO D’AMORE

con Riccardo Salvini, Luca Morino e Federico Pianciola
regia Viren Beltramo
con le voci di Andrea Murchio, Chiara Cardea, Adriano Festa, Bianca ed Elio Genovese
produzione GenoveseBeltramo e VisoCollettivo

 

Marcovaldo, Peppe Servillo e il mondo di Calvino al Ragazzi MedFest

Peppe Servillo in scena al Ragazzi MedFest (Foto Marco Costantino)

PAOLA ABENAVOLI | Non è nuovo l’interesse di Peppe Servillo per Italo Calvino: già qualche anno fa, infatti, l’attore e musicista aveva portato in scena un reading de Il barone rampante; e non è nuova l’unione tra teatro e musica che, infatti, contraddistingue lo stile e la carriera di questo artista e che riguarda, anche in questo caso, l’opera di Calvino, se si pensa a un importante album realizzato con gli Avion Travel, Opplà, direttamente ispirato – fin dalla copertina – alle Lezioni americane. Dunque, un’attenzione di lunga data verso lo scrittore e che lo ha portato adesso a realizzare un nuovo spettacolo che, proprio unendo musica e testi, si sofferma su un altro capolavoro di Calvino, ovvero Marcovaldo.
Non poteva, dunque, non proporlo al Ragazzi MedFest, il festival che si sta svolgendo a Reggio Calabria e che quest’anno è dedicato proprio a Calvino, in occasione del centenario della nascita.

Peppe Servillo insieme a Cristiano Califano (Foto Marco Costantino)

Marcovaldo – Peppe Servillo legge Calvino in realtà è più di quanto recita il titolo. È un omaggio, ma soprattutto un percorso che unisce più aspetti, andando al di là del reading: Servillo interpreta, incarna i vari personaggi e, attraverso la musicalità delle sue intonazioni, del fraseggio – potremmo dire – con cui racconta, e attraverso la gestualità potente che usa anche nel canto, fa entrare il pubblico nelle storie: non una “semplice” narrazione o lettura, ma un modo affabulatorio, trascinante, di trasportare gli spettatori (non solo di giovani, come è nello spirito del Ragazzi MedFest, che mira, appunto, a far incontrare pubblici diversi) in questo mondo originale, in cui ironia, malinconia, realtà e favola, metafora e universalità si fondono magicamente.
E così, la voce di Peppe Servillo sottolinea, costruisce, avvolge alcune delle venti storie frutto della penna di Calvino: il mondo di Marcovaldo, la vita nella metropoli, lo straniamento dell’uomo, tra fantasia, verità e quello stile che, con tocchi ironici, ci riporta a una disarmante attualità, sembra quasi vedersi, comporsi sotto gli occhi degli spettatori.

Foto Marco Costantino

Attualità, dicevamo: ed è lo stesso artista a confermare questa visione – a margine dello spettacolo – , affermando che «i grandi poeti ci parlano sempre, dobbiamo essere noi ad avere una disposizione d’animo che ce li faccia comprendere. In realtà Calvino ci sta parlando di cose che riguardando tutti: il rapporto con la natura, le relazioni con gli altri, il lavoro opprimente, la mancanza di risultati».
L’universalità di una narrazione, di un’opera, dell’arte: da qui, appunto, anche l’unione tra arti che Servillo porta in scena. Accanto a lui sul palco il musicista Cristiano Califano che, alla chitarra – oltre a sottolineare i passaggi del reading, in particolare con l’assolo conclusivo -, lo accompagna in alcune canzoni che introducono e concludono lo spettacolo: non si tratta di momenti a sé stanti, ma di brani in cui l’ispirazione, le atmosfere, la musicalità riportano al mondo costruito da Calvino, in un continuo rimando tra parole e note, in quella sinergia tra arti propria di Peppe Servillo e che connota, come dicevamo, i suoi progetti. Da Cuore grammatico a La conversazione (che fanno parte, appunto, dell’album Opplà), fino a Scherzi d’affitto, che – come sottolinea lo stesso artista sul palco – rievoca le ambientazioni urbane, i mondi e le situazioni narrate dallo scrittore.

Foto Marco Costantino

E poi una chiusura particolare, con una «canzone della tradizione napoletana – spiega Servillo – così profondamente legata alla scena, al teatro» e che, aggiungiamo, per quel mondo quasi surreale che descrive, potrebbe quasi legarsi a quello descritto da Calvino: quella M’aggia curà, portata al successo da Nino Taranto, «ma che è sicuramente legata – afferma ancora l’attore e cantante – al repertorio di Renato Carosone. Da diversi anni, sia con Cristiano Califano che con il Solis String Quartet, affronto le canzoni della canzone napoletana, come nell’ultimo spettacolo, in particolare, che è dedicato a Carosone e in cui propongo questo brano».
Da qui la scelta di interpretarlo, anzi reinterpretarlo, modulando pause, suoni, con una propria linea: così come fa in ogni brano precedente, o in ogni riga letta, in ogni intenzione, accompagnata da un gesto, da uno sguardo. Senza eccessi, ma con una rara capacità di accompagnare le parole verso lo spettatore.

Marcovaldo – Peppe Servillo legge Calvino

con Peppe Servillo (voce narrante)
Cristiano Califano (chitarra)

Teatro Zanotti Bianco, Reggio Calabria | 1 ottobre 2023

Scatti Coreografici #9: Relâche, il cinema come codice performativo e coreografico

Relâche, Francis Picabia, coreografia Moses Pendleton, Opera Comique, 1979

GIANNA VALENTI | Siamo al Théâtre des Champs Élysées a Parigi nel 1924, in anni di intensa sperimentazione artistica, per un evento performativo che vede la collaborazione di Erik Satie, Francis Picabia e René Clair in una produzione coreografica dei Ballets Suédois, compagnia attiva per soli cinque anni nello stesso teatro dal 1920 al 1925. Relâche, balletto in due atti con intermezzo, va in scena con la musica di Satie, libretto e scene di Picabia e la coreografia del danzatore e coreografo Jean Borlin, diventando presto un lavoro di riferimento per le avanguardie storiche e una produzione da guardare, criticare e a cui ispirarsi nel mondo teatrale ufficiale. Un progetto coreografico che mette in scena come codice compositivo e di senso l’interesse primario delle avanguardie, il cinema, e proietta in prima assoluta, come intermezzo tra i due atti, Entr’acte di Clair, manifesto del cinema puro e tributo al mezzo stesso e alle sue enormi potenzialità poetiche, sia nelle tecniche di registrazione che di montaggio.

Still picture da Entr’acte, film di René Clair

Il primo atto si apre con un sipario bianco che fa da schermo alla proiezione dell’inizio del film, con Satie e Picabia che entrano nel campo visivo dai lati, caricano un cannone al rallentatore, discutono, lo girano e lo puntano al pubblico come segnale di inizio della performance. Il sipario si alza e la musica, che era iniziata con la proiezione del film, continua per trenta secondi. Una donna seduta tra il pubblico e vestita elegantemente da sera si alza e sale sul palcoscenico.
Lo scrittore francese Maurice Sachs, presente alla performance quella sera, nel 1950 ha scritto: “Il sipario si alzò rivelando uno spazio davvero sorprendente. La scenografia consisteva in un immenso pannello, di forma quasi triangolare, sul quale erano fissati centinaia di riflettori molto potenti che irradiavano la loro luce accecante sullo spettatore. Dopo alcuni minuti, solo dopo che i nostri occhi si erano abituati alla luce, abbiamo potuto distinguere i danzatori in calzamaglia bianca e alti cappelli.” *
Picabia, con questa affermazione spaziale di quasi quattrocento riflettori metallici montati con lampadine da automobile, sceglie di accogliere il pubblico con un’esperienza di fortissima sensorialità, al limite dell’aggressione fisica, e chiede ai corpi degli spettatori di aggiustare costantemente il proprio sguardo attraverso un uso delle luci che si intensificano o si riducono senza sosta in una relazione complessa con il movimento e la musica.
Fernand Léger, presente alla performance, ha raccontato che agli spettatori venne chiesto di portarsi degli occhiali da sole e ha dato testimonianza della precisione cronometrica nelle modalità di utilizzo delle luci così come del bagliore accecante dell’intera scena, amplificata dall’uso di materiali metallici e riflettenti per creare un effetto consistente di pura luce e fluida trasparenza. *

Relâche, Théâtre des Champs Élysées, 1924

Le poche foto esistenti di questa produzione illustrano uno spazio ristretto, senza profondità. La struttura verticale con centinaia di riflettori e lampadine ricopre completamente il fondo e i lati della scena, dal pavimento al soffitto, e forma una parete che delimita e nasconde agli occhi del pubblico la maggior parte del palcoscenico, così che la performance avviene in uno spazio ristretto che sembra quasi coincidere con il proscenio. Gli elementi scenici (luci, riflettori, proiettori, oggetti scenici metallici, costumi scintillanti e in bianco/nero) collaborano per offrire allo sguardo dello spettatore l’effetto di una proiezione filmica, con eventi e spostamenti spaziali di corpi e oggetti come appropriazione delle modalità di animazione illuminata resa possibile dalla tecnologia del cinema.
La scena performativa di Relâche afferma anche una volontà di indagine della nuova tecnologia nei suoi effetti fisici e visivi sul corpo umano, con un utilizzo delle luci, delle azioni sceniche, del cinema e dei props cinematografici come materiale d’attacco per stravolgere fisicamente gli spettatori e distoglierli da ogni forma di contemplazione e identificazione. Oltre agli elementi già descritti (un cannone che mira ai corpi del pubblico e la scenografia accecante) nel secondo atto il pubblico viene assalito da ombre bianche e nere provenienti da proiettori che trasformano i loro corpi in schermo e li provocano a una partecipazione attiva e a una consapevolezza della visione.

Relâche, Théâtre des Champs Élysées, 1924

Relâche, come avrebbe raccontato Léger anni dopo, supera la distinzione senza senso tra il balletto e il music-hall, riorganizzando e facendo interagire elementi i più diversi, lo schermo con la scena e i danzatori con gli acrobati e gli attori, creando così una nuova forma di spettacolo al di là di ogni pregiudizio basato sulle distinzioni di genere.
La donna vestita elegantemente che apre il primo atto inizia a danzare quando la musica si ferma, passa tre volte attraverso una porta e si ferma per guardare gli spettatori, mentre nove uomini vestiti in bianco e nero lasciano il loro posto tra il pubblico e salgono sulla scena uno dopo l’altro. Danzano, la musica si ferma e nel silenzio la donna si toglie il vestito da sera. Qualche accadimento più tardi, un performer entra in scena come vigile del fuoco portando dei secchi metallici e dà vita a un’azione che è semplice reiterazione del versare l’acqua da un secchio all’altro.
Parallelamente al primo atto, il secondo si apre con una proiezione su schermo, questa volta di scritte luminose intermittenti su base nera, a cui si aggiungono le proiezioni sagomate in bianco e nero sui corpi del pubblico che partono dai tre proiettori posizionati sul palco. E qui si apre una scena che ricorda altri eventi performativi della seconda parte del Novecento: i nove uomini ritornano sul palco uno alla volta passando davanti al pubblico e prendono il loro posto in un cerchio intorno al vestito che la donna aveva lasciato a terra. La donna rientra in scena e si riveste mentre gli uomini si svestono. Ritorneranno poi ai loro posti nel pubblico rimettendosi i mantelli e i vestiti che hanno lasciato a terra verranno caricati dalla donna su una carriola e scaricati in un angolo della scena.

Relâche nella produzione del 2014 del Ballet de la Lorraine, coreografia ripresa di Metter Jacobsson e Thomas Caley. PH Laurent Philippoe. San Pietroburgo 2018, International Festival of Arts Diaghilev

Sia Relâche che Entr’acte suggeriscono una nuova definizione di ciò che può essere definito danza, decontestualizzano la ballerina come corpo teatrale tradizionale e propongono azioni e gesti quotidiani come materiale performativo, trasformabile per essere presentato come danza. Le azioni danzate o performative del primo e secondo atto mettono in scena materiali riconoscibili di  danza teatrale e di music hall o azioni che fanno uso di semplici materiali locomotori e gestuali riferibili alla quotidianità dei corpi, come camminare, fermarsi, trasportare, rovesciare, riempire, svestirsi e rivestirsi. Relâche importa questi movimenti quotidiani ricostruendoli e riorganizzandoli con variazioni di tempo, interruzioni e integrazioni di riconoscibile virtuosismo classico.
Entr’acte e Relâche condividono una modalità di tessitura coreografica di corpi e azioni resa possibile dalla tecnica del montaggio cinematografico. La discontinuità del ritmo sensoriale e visivo di Entr’acte combacia con lo sviluppo coreografico non lineare della scena di Relâche ed  è nella nozione di montaggio che la danza e il film trovano un terreno condiviso e il loro senso drammaturgico.
La scena di Relâche è interessata alla nozione di simultaneità e le azioni avvengono a un ritmo incalzante una dopo l’altra, oppure diverse azioni avvengono nello stesso momento in zone diverse del palco o della platea. La tecnica del montaggio cinematografico manipola il tempo, il ritmo e il tipo di continuità o discontinuità dei materiali di movimento e delle azioni, mentre i corpi in scena accelerano o si immobilizzano, ripetono un’azione con la stessa identica precisione o si muovono al rallentatore.
La struttura compositiva procede con la precisione metrica del montaggio cinematografico e le azioni dei performers progrediscono come in un susseguirsi di inquadrature, oppure coesistono come simultaneità di presenza di inquadrature diverse.  Le transizioni da un’azione all’altra sembrano essere nette e discontinue, come nei cambi improvvisi da un’inquadratura all’altra, senza nessuna continuità logica o direzionale, oppure sembrano essere più morbide, come nell’uso cinematografico della dissolvenza che porta a un’azione successiva attraverso la sovrapposizione.

Relâche davanti e dietro la macchina da presa, sullo schermo, sul palco e tra il pubblico lavora con corpi in movimento per ricreare la successione dinamica delle immagini cinematografiche. Il film è incorporato nella performance come elemento interattivo con la danza, il montaggio cinematografico offre la struttura per la sua composizione e il cinema suggerisce i materiali della performance che danno forma a una nuova esperienza della visione. I suoi codici drammaturgici e coreografici entreranno nella storia della performance del Novecento e verranno riattivati sia negli eventi performativi della scena visiva e della danza del post-modernismo che nel lavoro del teatro danza tedesco sino ad allargarsi alla scena teatrale delle nuove drammaturgie europee dell’ultima parte del secolo.

 

  • Hãger Bengt, The Swedish Ballet.  New York, N.H. Abrams Inc.      Publishers, 1990.

Holland Philip, Relâche Revisited,  Ballet Review, 5/1980.
Mueller John, Films: Relâche and Entr’acte. Dance Magazine, 7/1977.
Picabia Francis, Relâche.  Mario Verdone, Poemi e Scenari Cinematografici d’Avanguardia.  Roma, Officina Ed., 1975.
Gianna Valenti, Relâche: Montage as Dance, unpublished material, University of California Riverside.

Il focus di drammaturgia tedesca a BMotion Bassano 2023: intervista a Matilde Vigna, Federica Rosellini e Leda Kreider

RENZO FRANCABANDERA | All’interno dell’edizione 2023 di BMotion a Bassano del Grappa, all’interno di Operaestate festival, c’è stato un Focus sulla Drammaturgia Contemporanea Tedesca a cura di Monica Marotta, che ha portato gli spettatori all’incontro con i testi di due drammaturghe, una delle quali anche arrivata a Bassano per l’occasione.

È stato il caso del primo degli eventi programmati, ovvero la lettura scenica di Leda Kreider in dialogo con la scrittrice Sasha Marianna Salzmann, presente per il debutto della rassegna, de Nell’uomo delle essere tutto bello: Lena e Tatjana sono nate in Ucraina, ma la dissoluzione dell’Unione Sovietica le ha portate a Jena, in Germania, dove hanno cresciuto le loro figlie e sono diventate ami­che. Eppure, a più di vent’anni di distanza, quella terra, am­putata come un arto malato, continua a fare male, mentre le figlie si ostinano a ignorarne la storia. Per loro, il passato è passato e non conta più.

Gli Aristocratici, il secondo dei testi della scrittrice proposti a Bassano, vede protagonisti Sasha e Shura all’interno di un attico mentre sotto di loro si stagliano scene di una città distrutta dalla guerra e divisa su due fronti, così come i due giovani, ora divisi, ora nemici.

Il testo di Sasha Marianna Salzmann edito da Verlag der Autoren (Francoforte s.M.) e qui nella traduzione inedita di Monica Marotta ha avuto una lettura scenica di Federica Rosellini con Michele Eburnea. Qui sarà la festa per i cinquant’anni di Lena, l’occasione per un confronto da sempre rinviato. Perché non basta che un sistema politico sia crollato, non basta aver lasciato la pro­pria terra per gettarsi alle spalle anche la propria storia, le delusioni e le ferite che le donne di questo romanzo por­tano incise sulla pelle, non basta allontanarsi da un luogo per ridisegnare una nuova geografia dell’anima. Seguendo le vite delle protagoniste, Sasha Marianna Salzmann racconta dei grandi rivolgimenti negli anni dalla perestrojka, fino agli scontri che lacerano oggi le regioni ai confini della Russia.

Due testi sono stati proposti anche dell’autrice georgiana trasferita ad Amburgo Nino Haratischwili, vincitrice di diversi premi di letteratura tedesca ed edita in Italia da Mondadori e Marsilio Editori. L’attrice italiana Matilde Vigna ha dato voce alla protagonista del monologo I barbari, Marusja, una donna migrata che ha dovuto lavorare duramente per ottenere ciò che ora si ritrova, a differenza, secondo il suo punto di vista, dei nuovi rifugiati a cui l’Occidente ormai regala tutto. Attraverso i suoi pensieri, mentre pulisce il centro d’accoglienza in cui sono alloggiati i nuovi rifugiati, emergono i piani sinistri della donna. La piéce teatrale riprende l’opera scritta circa dieci anni fa per il progetto Una Cena Europea al Burtheater di Vienna e in cui la scrittrice affronta la situazione di un’Euopra prebellica ancora una volta da una prospettiva femminile e segnata da migrazioni.

L’ultima tappa del Focus sulla drammaturgia contemporanea tedesca, si concentra su uno degli ultimi e più famosi progetti teatrali di Nino Haratischwili, con un testo, L’autunno dei succubi, interpretato dalle tre attrici che hanno dato vita al progetto: Leda Kreider, Federica Rosellini, Matilde Vigna. Una pièce che si svolge in una villa signorile in una qualche parte del mondo.
Da settimane imperversa una guerra civile. Nessuno sa dove sia il generale, padrone di casa, capo dello stato. Anche tutto il personale è fuggito, tranne la vecchia cuoca, la governante e una giovane domestica. Tagliate fuori dal mondo, le tre donne sono in balia di loro stesse. In breve tempo si sviluppa una lotta di potere tra di loro, dove la più giovane, Luci, diventa un giocattolo nelle mani delle altre.

Abbiamo intervistato Leda Kreider, Federica Rosellini, Matilde Vigna, le tre attrici italiane coinvolte nel progetto.

Come è nata la proposta di Operaestate e perché proprio voi, cosa avete in comune?

MV: Credo Operaestate abbia voluto aprire questa finestra sul mondo partendo da “casa”, e che quindi la scelta dell’ideatore Michele Mele sia ricaduta su tre attrici sì riconosciute a livello nazionale, ma originarie del Veneto. In comune credo avessimo una forte curiosità per il “fuori” e il grande desiderio di lavorare insieme (di nuovo, io e Federica Rosellini, e per la prima volta con Leda Kreider).

FR: Una mattina di dicembre è arrivato il messaggio di Michele Mele che mi proponeva una telefonata, un incontro. Mi ha parlato di Bassano, di OperaEstateFestival, delle mie compagne e devo dire che immediatamente mi è sembrata un’idea meravigliosa. Tre artist* intorno ai trent’anni – mi rifiuto di dirci giovani, perché solo in Italia saremmo considerate tali, tantomeno promesse- comunque, tre artist*, interpreti e autrici, ciascuna con un suo differente posizionamento rispetto a quello che sia l’autorialità oggi e a che tipo di interprete desideriamo essere, ciascuna con un suo mondo di riferimenti, con un suo personalissimo ‘albero genealogico’ creativo. Accomunate da una regione, da una geografia dell’anima, dal Polesine a Bassano fino ai fiumi della mia pianura. Tornare a casa, mi piaceva. Il Veneto è una delle regioni in cui ho lavorato meno, se escludo la fondamentale esperienza asolana con Elisabetta Maschio. Rimettere radici, rimpiantarsi, per un po’, per qualche giorno. Siamo piante nomadi noi, chissà che sostanze potremmo ri-inmettere nel terreno dove siamo nate, in questa sospensione dal nostro peregrinare.

LK: La proposta di Operaestate è nata da Michele Mele e Monica Marotta. Io conoscevo Michele grazie alla collaborazione con Anagoor, e con l’occasione ha voluto coinvolgere attrici del “terriorio” , ma che di fatto fossero anche “partite” dal luogo natìo per poi ritornare dopo un percorso. Io nello specifico sono nata a Marostica e cresciuta a Bassano del Grappa, quindi per me significava poter tornare a casa dopo essermi allontanata lavorativamente per 10 anni. In comune con Matilde e Federica sicuramente il territorio di origine e il teatro; poi il rapporto con i testi, la personalità e presenza scenica che possiede forza, e un desiderio di sposare progetti dirompenti.

Che tipo di testualitá avete incontrato e cosa ha fatto scaturire dal vostro sensibile soggettivo?

MV: Io personalmente mi sono misurata con due testi di Nino Haratischwili, autrice georgiana residente in Germania: “ I barbari: monologo per una straniera” e “ L‘ autunno dei succubi”.
La curatela del focus, affidata a Monica Marotta, ha seguito i fili della guerra, della migrazione e del femminile, tutti temi attuali, pregnanti e viscerali. Ho sentito subito una grande connessione con quelle parole e l’attribuzione a me del monologo “I barbari. Monologo per una straniera” e del personaggio di Rina ne “L’autunno dei succubi” è stata immediata da parte della curatela e ha trovato in me un’immediata ricezione. Sono parole molto dirette e personaggi estremamente concreti, grazie anche alla traduzione limpida di Anna Benussi e Angelo Callipo. C’è un’estrema lucidità, nelle parole, che attraversa questi temi senza mai scadere nella retorica. Un grande pregio di questa autrice, che è molto rappresentata in Germania (invece in Italia è stata tradotta per la prima volta grazie a questo focus). Quindi anche un pregio delle direzioni artistiche tedesche, che fanno uno scouting continuo e non hanno paura di questa forza. (Un po’ di polemica, dai!)

FR: Due autric*: Sasha Marianna Salzmann e Nino Haratischwili. Drammaturgia contemporanea tedesca, dovrei dire in lingua tedesca, forse, più correttamente. La scrittura di entrambe le autric* cola un universo molto più complesso di origini, appartenenze, contaminazioni. Abbiamo avuto fra le mani materiali eterogenei: stralci di un romanzo, un dialogo, un monologo, un testo polifonico. Gli affreschi della sala di Palazzo Sturm sono diventati numi tutelari di un mondo ibrido, vitale, ipertrofico, bastardo, in continua mutazione. I confini della sala così architettonicamente perfetti, i marmi, gli stucchi erano continuamente messi in discussione, ri-immaginati, ri-disegnati, la stessa acustica del luogo, quell’eco che ci seguiva e ci affaticava, era un’occasione. Personalmente per affrontare “Aristocratici” di S.M.Salzmann sono partita proprio da Sala degli Specchi e dal suo modo particolarissimo di risuonare. Ho portato dei kazoo elettrici, amplificati, distorti, looppati, come se potessero diventare un clarinetto contralto della musica kletzmer ma anche come un ghigno, uno scherzo dissacrante, il grido di una scimmia che danza mentre gli affreschi nevicano in coriandoli di luce e colore.

LK: La testualità incontrata era per me nuova, e mi ha messo in connessione con il luogo di confine dell’Europa, ma che faceva riflettere anche sui propri confini interiori. Riflettere sul ruolo dell’artista in tempo di guerra con Sacha Marianna Salzmann e leggere estratti del suo romanzo con lei/lui presente è stata un’opportunità davvero rara. Di solito non succede di poter dialogare con lo scrittore o la scrittrice dei testi che si interpretano.
In me ha fatto scaturire desiderio di voler conoscere ancor più autori/autrici inserite nel panorama tedesco contemporaneo, e non solo; autori/autrici che a partire dalla propria storia personale sanno raccontare e portare storie necessarie nel nostro tempo.

Come è stato il rapporto con la autrice, che avete conosciuto di persona? Pensate che esista uno specifico del femminile teatrale e, se sì, che caratteristiche ha?

MV: L’autrice che abbiamo conosciuto di persona è Sacha Marianna Saltzmann, i cui testi io non ho attraversato personalmente. É stato molto forte però, incontrare una collega, quasi coetanea, che ci ha riportato come funziona il mondo fuori dal nostro piccolo nido. Le differenze col nostro sistema e le sfide vecchie e nuove. Credo che ci siamo sentite molto indietro, per quanto riguarda sia la libertà creativa, sia questo che tu chiami “femminile teatrale” in Italia. Come se uno sguardo femminile stesse emergendo solo ora, anche se ci sono autrici e registe che lavorano in questa direzione da anni, che poi non è una direzione, è un’essenza, uno sguardo sulla società (non riesco a ritrovare delle caratteristiche specifiche di un “femminile teatrale”, è una domanda troppo difficile per me!)
Ma ecco, le autrici e registe di cui sopra, in Italia, si contano sulle dita di una mano. Forse adesso si inizia a dare più spazio alla presenza femminile (penso alle due vincitrici del bando per autori e autrici under 40 della Biennale Teatro) forse perché noi stesse in maggior numero ne siamo consapevoli, che il nostro sguardo è importante. Sta ai direttori (tutti uomini i direttori dei teatri nazionali) capire che è fondamentale. Vorrei aggiungere che nei lavori che io ho affrontato, i due testi di Nino Haratischwili, questo femminile è coinciso col diverso nel senso di straniero. Quindi direi che questo femminile teatrale non ha paura del diverso. Forse allora, se aprire al “femminile teatrale” significa aprire al diverso, è veramente quello di cui abbiamo bisogno oggi.

FR: E’ stata un’opportunità incontrare Sasha, un regalo: per la sua generosità intellettuale e umana, per la particolarità del suo sguardo, per l’occasione che abbiamo avuto di comprendere più profondamente il testo che aveva scritto attraverso una via empatica, aerea, non tangibile. Un testo è anche la forma degli occhi del suo autore, la consistenza della sua pelle, per non parlare del suo odore, il modo in cui cammina, l’accento con cui parla, ciò di cui ama parlare, quello che eviterà di dire, le piccole ossessioni, tutto questo racconta del testo, dei suoi riferimenti, del mondo che lo ha accompagnato dalla prima parola fino all’ultima stesura. Poterci avere a che fare è una straordinaria occasione per la sincerità del lavoro, per la comprensione viscerale. Sasha mangiava un gelato prima che il reading di “Aristocratici” iniziasse, sotto gli affreschi di Palazzo Sturm, appoggiat* a una parete di marmi intagliati. Era una coppetta, era imbarazzat* e felice, silenzios*. Stava. Ci accompagnava. L’ha offerto a me e a Michele Eburnea, il mio splendido compagno di lavoro, abbiamo rifiutato. Eppure penso che i due protagonisti di “Aristocratici” mentre il mondo crollava probabilmente avrebbero mangiato proprio quel gelato, da quella coppetta.
Per il resto, non credo che esista uno specifico femminile teatrale, assolutamente. In questo caso non sarebbe comunque giusto usarlo per Sasha e il suo lavoro, ma no, in assoluto. Come non parlerei mai di un maschile teatrale. Credo però nella necessità di moltiplicare i punti di vista, di spostare le narrazioni, di aprirle, di raccontare i corpi facendoli attraversare da sensibilità di genere diverse, da storie diverse, di portare al centro ciò che è stato relegato in territorio liminale per troppo tempo. Ogni donna è una cascata, una valanga di differenti identità, di generi diversi, di specie diverse, così come lo sono gli uomini, credo che il concetto di binarismo di genere possa essere ampiamente sorpassato. La sola differenza è che alle donne è stato, e purtroppo è ancora, spesso preclusa la narrazione, l’autorialità, la direzione, la memoria. E’ necessario lavorare e combattere perché questo cambi.

LK: Credo ci possa essere sempre più una ricerca e un ascolto rispetto all’inclusività tout court, non solo riguardo al femminile, non solo riguardo al gender fluid. E forse proprio la caratteristica dell’ascolto riguarda nello specifico la sfera del femminile.

Siete interpreti e anche autrici nei vostri percorsi performativi personali. A cosa state lavorando per la prossima stagione?

MV: Oh, grazie di questo piccolo spazio pubblicità: io sono al mio secondo lavoro da autrice e interprete, che debutta per ERT al teatro delle Moline il 28 novembre (fino al 10 dicembre). Il titolo è Chi resta, in scena con me c’è Daniela Piperno e la regia è condivisa con Anna Zanetti! Vi aspettiamo.

FR: Come interprete sto per iniziare a girare il film di un autore che amo molto e di cui sarò la protagonista femminile.
Come autrice continua la mia collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano di cui sono artista associata in qualità di regista e drammaturga e per cui sto scrivendo un nuovo lavoro. Contemporaneamente è in preparazione una coreografia, un passo a due, di cui sono autrice e danzatrice insieme a Francesca Zaccaria, Nao nao che debutterà in forma di primo studio a ottobre per Aldes e Ert e un altro lavoro, di cui non posso ancora dire, per un’istituzione importante che mi chiederà di unire, con grande felicità, regia e pedagogia. E poi, in ultimo, spero che questa esperienza bassanese coltivata con Matilde e Leda, questo viaggio in seno a Opera Festival, sia solo l’inizio di un più lungo volo.

LK: Sto lavorando A un progetto personale come attrice e regista per un debutto tra il 2024 e 25. Si tratta di un testo contemporaneo inglese, di un’autrice importante poco frequentata in Italia.

La scelta di Qui e ora e Roger Bernat: libertà è partecipazione teatrale?

ELENA SCOLARI | Il teatro partecipato e il teatro partecipativo sono ormai ufficialmente codificate come branche dell’azione scenica contemporanea, molto frequentate. Teatro partecipato è quella pratica che costruisce un oggetto spettacolare con la compresenza di attori professionisti e non-attori, partendo dal lavoro coordinato da artisti e fatto tramite laboratori o lavori di gruppo che precedono il debutto; la declinazione ‘partecipativa’ riguarda invece un tipo di partecipazione hic et nunc dello spettatore, tradizionalmente seduto in platea e chiamato a ricoprire un ruolo occasionale (es. giocatore, concorrente, camminatore, giudice…), in una specifica replica.
Qui ci interessiamo a questa seconda accezione: La scelta è una produzione  di Qui e Ora Residenza Teatrale in coproduzione con Capotrave – Infinito e Kilowatt Festival, ha debuttato a Kilowatt nell’estate 2023 e PAC lo ha visto, anzi, ne è stato parte – come tutti gli spettatori – nell’ambito della stagione diffusa di Zona K, che questa volta ha fatto tappa presso Magnete, un centro culturale nel quartiere Adriano di Milano, reso vivo grazie al lavoro di Associazione Ecate che tra pochi giorni (6-7-8 ottobre 2023) vi terrà la seconda edizione di BTTF Back to the future Project, un festival organizzato con una direzione artistica partecipata e under 30. 


La scelta nasce da un’idea di Roger Bernat, attore e regista catalano, che ha lavorato riflettendo sul festival Up to you, organizzato in provincia di Bergamo dal gruppo Qui e Ora, anche in questo caso si tratta di un progetto con direzione partecipata tra professionisti e giovani under 25 coinvolti in tutte le fasi organizzative. Il meccanismo ha stimolato l’invenzione di un “dispositivo” teatrale, come dicono quelli bravi, che in buona sostanza prende le forme di un gioco di società: il pubblico viene diviso in tre gruppi, ogni gruppo occupa un’aula e vede i trailer video di tre spettacoli (quindi un totale di nove, tutti spagnoli o sudamericani), dopo ogni video una delle operatrici di Qui e Ora distribuisce a tutti cartoline colorate con una battuta numerata, sullo schermo scorrono i numeri e al proprio turno ognuno legge la battuta (quasi tutti cercano di interpretarla), l’insieme forma una specie di copione che “finge” una discussione su ciò che si è appena visto. Ci viene detto quale deve essere la nostra opinione, recitiamo il pensiero di qualcun altro. Come attori, diciamo così.
Ogni gruppo vota per scegliere uno dei tre spettacoli e poi ci si riunisce tutti in una plenaria nella quale si vedono anche i trailer degli altri gruppi, vengono consegnate altre cartoline simili alle precedenti ma senza numerazione e a questo punto viene ‘suggerito’ di scatenare una discussione disordinata in cui ognuno può dire (o ripetere più volte) la propria battuta quando vuole, quando sembra che si possa agganciare a quelle degli altri o quando può creare un effetto comico. 


C’è anche una votazione finale per eleggere lo spettacolo che si vorrebbe inserire nell’edizione successiva del festival (a noi è capitato un ex aequo) e il rito si chiude con l’apertura della busta misteriosa che contiene il titolo scelto dalla vera direzione artistica.
Avremo fatto la stessa scelta? Suspence. No, il gusto del pubblico era andato in un’altra direzione.
Ecco. Per dovere di cronaca va detto che nella nostra serata c’erano moltissimi operatori del settore (critici, attori, direttori artistici, registi, organizzatori…) che formano a loro volta una comunità, pertanto è possibile che l’andamento sia stato un po’ viziato dalla competenza – e dalla vanità – di ognuno di noi ma quali sono le riflessioni che possiamo trarre?
Probabilmente lo spettatore comune può arrivare a intuire – superficialmente – quali sono alcune delle fasi che effettivamente compongono il processo di selezione degli spettacoli che una vera direzione artistica attraversa per stilare il programma di un festival ma, al di là del mero voto, la struttura – tutta completamente indotta – impedisce un reale confronto e quindi impedisce anche di affrontare nodi tematici che, quelli sì, avrebbero potuto sorprendere o far scartare dal percorso segnato.
Per esempio, ancora Bernat
in Pendiente de voto (Voto in sospeso, del 2018) costruisce piccoli parlamenti costituiti dagli spettatori e li guida in una discussione su temi predefiniti secondo un pattern sconosciuto alla platea, chiamata a scegliere tra diverse opzioni (tramite telecomandi) su argomenti posti da una specie di Hal 9000 (il computerone di 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick) che mostra i risultati su un grande tabellone; i gruppi che si formano per omogeneità di risposte sono poi chiamati a eleggere un rappresentante che deve salire sul palco a sostenere la posizione del gruppo in un tempo determinato.
In questo caso, benché ci sia una guida nascosta, si arriva a un momento di argomentazione spontanea che produce una riflessione sul metodo democratico e sulle insidie che la vittoria della maggioranza può nascondere. Ne La scelta, invece, non c’è libertà alcuna, siamo solo chiamati a giocare le carte che ci toccano in sorte, aderendo a idee non nostre. Nemmeno sul fatto che la scelta del pubblico non coincida con quella dei professionisti, si discute. Si tratta di un gioco, certo, e il dispositivo deve essere governato per arrivare in fondo ma il risultato è un intrattenimento che rischia di banalizzare un lavoro complesso lasciando l’impressione che tutto, anche la realtà, sia un gioco.
Non si tratta di fare moralismo o di prendere un mestiere troppo sul serio e sicuramente né Qui e Ora né Bernat hanno intenzione di svilire la propria professionalità, però rimane la sensazione che ne La scelta prevalga la cornice ludica predeterminata a discapito dell’opportunità di sollecitare un dibattito, anche breve, in cui si argomentano le proprie ragioni, scoprendo contraddizioni e aprendosi al dialogo.
La vera discussione avviene alla fine di tutto, fuori dalla sala, quando les jeux son faits.

LA SCELTA

progetto di Roger Bernat
con la drammaturgia di Roberto Fratini e Marie-Klara González
con la partecipazione di Francesca Albanese, Silvia Baldini, Josephine Magliozzi e Laura Valli
programmazione e technical care di Stefano Colonna e Txalo Toloza
produzione e curatela Qui e Ora in coproduzione con Capotrave – Infinito e Kilowatt Festival
con il sostegno di Risonanze Network e del MIC

Magnete, Milano | 22 settembre 2023

Narrazioni e immagini, tra storia e futuro: il Ragazzi Medfest ospita “Eccellenze italiane – Figure per Calvino”

PAOLA ABENAVOLI | La parola che si fa narrazione, in un testo o sulle tavole di un palcoscenico; l’illustrazione che diviene racconto, oltre la parola, immagine che racchiude – o schiude – mondi. E il teatro come sintesi di tutto questo. Non poteva, dunque, non comprendere diverse forme d’arte anche la programmazione del Ragazzi Medfest, in corso, da domenica 24 settembre e fino all’8 ottobre, a Reggio Calabria, promosso dalla Compagnia SpazioTeatro.

Un’immagine della mostra (Foto Marco Costantino)

Dopo la grande festa iniziale, che ha coinvolto la città in un turbinio di musica, racconti, letture, farfalle luminose e giocolerie (grazie a Compagnia Accademia Creativa, Pagliacci Clandestini, Anna Calarco, Renata Falcone, i Patuncha, i Gatti Ostinati, Thekla De Marco), con una parata che ha animato il centro storico, il festival entra nel vivo: e lo fa con un grande evento, di portata internazionale, che guarda a Calvino (allo scrittore e all’incontro tra teatro e scienza è, infatti, dedicato il Ragazzi Medfest). Parliamo della mostra Eccellenze italiane – Figure per Italo Calvino, curata da Bologna Children’s Book Fair, Accademia Drosselmeier e Fondazione Giannino Stoppani, inaugurata proprio alla Fiera di Bologna e adesso approdata negli spazi dell’Urban Center di Reggio Calabria (dove resterà visibile fino alll’8 ottobre): un percorso affascinante, che fa rivivere l’immaginario dell’autore, consentendo al visitatore di entrare nelle sue storie, nei suoi personaggi, dando anche delle nuove letture, delle nuove visioni e spaziando tra interpretazioni, ma anche ispirazioni e tecniche differenti. La creatività della parola non viene, dunque, semplicemente accompagnata da quella visiva, ma quest’ultima diventa nuova lettura, nuova ispirazione o approfondimento di sguardi e punti di vista. E, in questo, si integra perfettamente nella proposta del festival, che celebra Calvino nel suo centenario: un programma che prende spunto dall’opera dello scrittore, contaminando teatro e scienza (come evidenzia il titolo dell’edizione 2023, Cosmo & comiche), ma anche tutti i linguaggi espressivi, partendo dalla letteratura – rivolta ai ragazzi, ma non solo – per arrivare, appunto, all’illustrazione, come forme di narrazione che si legano e si collegano, e alle quali il teatro attinge.

Una mostra che, come si diceva, trasporta tra mondi differenti, tra tratti che svelano tradizioni artistiche e influenze diverse, ma tutte ispirate dai personaggi di Calvino: “le interpretazioni sono differenti e, soprattutto le tecniche sono una diversa dall’altra – spiega la curatrice della mostra, Grazia Gotti, che, prima dell’inaugurazione dell’esposizione, ha condotto un workshop su Calvino e il suo immaginario -. Secondo me, lavorare su questo settore sarebbe molto importante per la scuola, per i giovani in generale: l’appropriarsi di questo universo, partendo dal punto di vista proprio conoscitivo, il sapere riconoscere un’interpretazione, ma soprattutto una tecnica, e praticarla, visto che il computer ha sì uniformato un po’ i nostri modi di produzione, ma sembra che i giovani abbiano già quasi reagito a questo, perchè c’è un grande ritorno delle tecniche di rappresentazione attraverso la mano. E questo è importantissimo”.

(Foto Marco Costantino)

Tecniche e influenze diverse, dunque, in questa mostra: “come Accademia Drosselmeier – spiega ancora Grazia Gotti – abbiamo fato una ricerca sui libri di Calvino pubblicati nel mondo, destinati ai ragazzi, e sugli illustratori. Quindi, la fiera ha aggiunto una seconda parte, un concorso in cui ha invitato i giovani illustratori di tutto il mondo ad interpretare queste storie”. La mostra, pertanto, si compone di due parti, “una più storica e l’altra più futuribile, perchè gli editori possono scegliere tra gli illustratori del futuro quelli a cui affidare le future edizioni dei libri di Calvino”.

Grazia Gotti (al centro) durante l’inaugurazione della mostra a Reggio Calabria

Sessanta le tavole selezionate per l’esposizione reggina (30 per ciascuna delle sezioni), che offrono un percorso tra grandi nomi, da Emanuele Luzzati a Sergio Tofano, dai francesi George Dubois e Geraldine Alibeu, ad Alessandro Sanna e Grazia Nidasio, fino, appunto, agli sguardi dei giovani artisti: influenze surrealiste incrociano quelle classiche ed echi delle scuole di illustrazione asiatiche, rielaborazioni fotografiche incontrano i tratti a china, il disegno e l’acquarello, la grafica e l’astrattismo. Interpretazioni di personaggi e storie in cui l’ironia e la profondità dei temi di Calvino trovano diverse dimensioni e sfumature, offrendoci visioni delle fiabe o del barone rampante, o lo sguardo su Marcovaldo (Tofano e Sanna) o sul visconte dimezzato (Luzzati).
Immagini e stili che si susseguono in questa mostra che, sottolinea Grazia Gotti, “nasce ed è promossa dalla Fiera del libro per ragazzi di Bologna in collaborazione con la Regione Emilia Romagna e il Ministero degli esteri perchè, da qualche anno, questi tre enti collaborano insieme al fine di promuovere, specie all’estero, le eccellenze italiane”. E l’esposizione sta già viaggiando anche fuori dall’Italia: dopo Parigi, dove è stata ospitata lo scorso aprile, “andrà, tra l’altro, a Madrid, a New York, e poi negli anni a venire in tutti gli istituti di cultura italiani, come già accade per le mostre di illustrazione che la Fiera organizza”.

www.ragazzimedfest.it

Gli Olimpici a Vicenza: tra classico e nuova digitalità

RENZO FRANCABANDERA | Dal 1585 il Teatro Olimpico di Vicenza è il teatro coperto più antico nella storia della cultura occidentale. Per la sua meravigliosa architettura palladiana, il Teatro è stato inserito dall’Unesco nella lista dei Patrimoni dell’Umanità. Dal 1934 è sede di uno dei più antichi, significativi e continuativi, “cicli di spettacoli classici”, un programma di rappresentazioni teatrali dedicate al teatro classico. Nell’ambito del Ciclo di Spettacoli Classici il palcoscenico del Teatro Olimpico a Vicenza ha sempre ospitato i massimi interpreti e registi nazionali e internazionali del XX secolo. Quest’anno è stato Sette a Tebe,  spettacolo ispirato alla tragedia di Eschilo, drammaturgia di Gabriele Vacis che ha firmato anche la regia, ad aprire il 76° Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza rassegna intitolata Stella meravigliosa, con la direzione artistica di Giancarlo Marinelli.

Ma perché questo titolo per la rassegna? Stella Meravigliosa è un romanzo del 1962 dello scrittore giapponese Yukio Mishima, tradotto in Italia solo nel 2008, che incarna il dilemma atroce e dilaniante tra conservazione e annientamento, tra creazione e distruzione, la storia di eventi straordinari che condizionano la vita e le scelte dei componenti di una famiglia.
Secondo Marinelli non dobbiamo rassegnarci all’idea che siamo arrivati alla fine, che tutto sommato l’idea stessa della morte è più affascinante del continuare a vivere, che prima o poi una guerra ci vuole, e che la volta buona la guerra buona è quella che annienta tutto, in cui nulla sopravvive.
Forse così verrà il momento in cui “la Terra tornerà a essere una Stella Meravigliosa, meravigliosa come ogni cielo dopo lo scanno d’un fuoco d’artificio, ché poi interverranno gli dèi a plasmare nuovi uomini creature progetti o aborti di fantasmi che ripopoleranno ciò che sarà e che rimarrà, rassegnarci che l’amore la compassione la patria la lingua il pensiero la sapienza la rettitudine il sesso la redenzione la civiltà siano enormi castelli di carta elucubrati da popoli che se polverizzati, se saltati per aria, porteranno via con sé nel Bang Big retroattivo delle tenebre la Biblioteca di Celso e il letto degli amanti, gli occhi di Borges e le traiettorie degli aerei, la frazione impossibile di Joseph Gratry e il quaderno di tabelline d’un bimbo conservato nelle soffitte trafitte dal sole, rassegnarci all’idea che tanto prima o poi l’atomica farà scintillare il mondo e che magari il fungo polifemico crescerà non per cattiveria, non per malvagità, né per sete di potere o conquista, ma si leverà per un capriccio, forse per tedio, stanchezza di quelle dita rafferme da decenni sopra un pulsante, dita che non appartengono a Borges, né al bibliotecario di Efeso, non a Gratry, non al bimbo che studia, né al pilota volante, no, a un uomo destinato a non lasciare traccia, appena alfabetizzato, appena raccomandato, appena educato, molto represso, sconfinatamente frustrato da chiedersi: Ma se lo premo, se queste mie dita che han toccato solo donne mediocri, cibi mediocri, regali mediocri, toccano questo pulsante, cosa succede? Come sarà?”
Nell’idea di Marinelli, l’Olimpico è quella fessura. Il pubblico dovrà decidere: riproduzione o annientamento.
Con una cornice concettuale di questa natura, in questo weekend, oltre a riproporre Histoire du Soldat per la regia dello stesso Marinelli e con la voce narrante di Drusilla Foer, nell’ambito invece di Olimpico Off, la parte più sperimentale della rassegna, è in programma anche con due appuntamenti giornalieri nelle giornate di 29/30 Settembre e 1 Ottobre, Still Novo, concept e regia Daniele Bartolini, artista italo canadese formatosi, tra l’altro, alla scuola di uno dei grandi maestri della scena digitale italiana, Giancarlo Cauteruccio.
Si tratta di un lavoro che fin dal titolo rimanda a un universo ampio di rimandi alle radici della poesia italiana per un verso, e per altro alla digitalità e al nuovo modo di rileggere il poetico. L’originale spettacolo itinerante audience-specific per 25 spettatori a replica, disponibile anche in lingua inglese, proporrà due percorsi che si snoderanno in alcuni luoghi storici e monumentali del centro storico della Città, due tragitti collettivi e introspettivi che avranno uno sviluppo diverso a seconda della scelta fatta dai partecipanti. Anche il titolo sta ad indicare il potere dirompente della performance: partendo dalla rivoluzione linguistica del “dolce stil novo”, la proietta nel contemporaneo, ricercando lo stesso cambiamento, “ancor” nuovo, “still” novo; si pone come oggetto di indagine partecipata dallo spettatore, chiamato in causa ad esporsi, esplorarsi, dimenticarsi e reinventarsi, per unirsi a presenze, in attesa da centinaia di anni.

In una recente intervista l’artista Bartolini ha dichiarato: “Questa invasione nella vita delle persone senza una vera barriera tra ciò che è reale e ciò che non lo è, è delicata. Chiedo molto al mio pubblico, è importante tenere a mente che sono persone”. Mettendo insieme in occasionali gruppi di spettatori, individui che sono estranei fra di loro, costruisce micro-comunità che esistono per la durata dei suoi progetti: “Per dirlo in modo molto semplice, a volte le persone hanno bisogno di sentire il loro cuore battere un po’ più velocemente, e mi piace farlo. Quello che sta succedendo ora è che sempre più compagnie stanno cercando di raggiungerlo affibiando un’etichetta immersiva alle loro creazioni, ma sta diventando un termine di marketing e voglio mettere una certa distanza tra questo e quello che faccio”.
Proseguendo un percorso iniziato a La Biennale di Venezia dall’artista italo-canadese Daniele Bartolini, Still Novo è un’esperienza interattiva costruita per la che indaga sul momento di radicale trasformazione del mondo occidentale.
Il momento è adesso. Un momento in cui l’arte non è più ispirazione, finzione o architettura concettuale, ma autobiografia. Precipitiamo nella vertigine che precede la saggezza. Siamo pronti?

 

STILL NOVO

concept e regia Daniele Bartolini
scritto, co-creato e agito da Ada Aguilar, Daniele Bartolini, Maddalena Vallecchi Williams, Stefania Vitulli, Marta Zannoner
dramaturg Stefania Vitulli
production design e produzione DLT
installazione sonora in latino scritta e detta da

Danza Urbana pt. 2: corpi, anime e colori nel vibrante impeto del movimento

SARA PERNIOLA | Da sempre la danza, come forma d’arte per narrare il corpo e le emozioni, è un prezioso mezzo di comunicazione su cui si fonda la vita quotidiana e che si caratterizza come interazionale e performativo, collaborativo e variamente coordinato con gli altri. È, così, infatti, che il sociale penetra nell’individuale, rendendo l’esperienza vissuta, estetica e sensoriale di un’irriducibile soggettività comune a tutte e tutti. 
Il festival 
Danza Urbana a Bologna  raccontato qui da Renzo Francabandera in riferimento alle giornate del 6 e 7 settembre   anche quest’anno si è rivelato essere, così, un motore di spettacolo e di partecipazione sociale necessario e di successo: dal 5 al 10 di questo mese, infatti, nell’abitare spazi urbani della città, ha mostrato codici d’espressione fruibili per un’ampia platea di cittadini, affidando il risultato della sua esperienza, prima ancora che alla materia, alla parola o alla voce, al fascino del corpo e del movimento.  

Come neve di Adriano Bolognino è una performance vincitrice del Premio Danza & Danza 2022 e rappresentata al Museo Mambo il 9 settembre che racconta un sentimento impossibile da esprimere verbalmente. Se per il coreografo quest’emozione è da ricondurre inizialmente all’immagine della neve che si osserva quando si è piccoli alla finestra e alla conseguente sensazione di benessere che accompagna questi momenti, poi, probabilmente, essa si arricchisce della complessità della maturità: dell’anima che batte dietro il silenzio e della velocità della caduta della neve, quasi in procinto di erodere corpi e spiriti, e sempre arginata. Una di quelle cose che non si può spiegare a nessuno; una malinconica tristezza che non può prendere forma, ma che si accumula quietamente nel cuore. Come la neve, appunto, in una notte senza vento.
Le talentuose interpreti
Rosaria di Maro e Noemi Caricchia sono molte cose: alcune volte possiedono l’aurea inquieta tipica degli adepti, altre la postura nitida e scattante dei burattini, altre ancora l’antica soavità di ciò che non muta. Meravigliosamente vestite con abiti lunghi tessuti in filato multicolorerealizzati dal club dell’uncinetto di Napolicostruiscono la meccanica visiva e la spettacolarità della pièce: componendo movimenti speculari di diversa ampiezza e fluttuando con le musiche iniziali di Ólafur Arnalds e poi con le sperimentazioni sonore di Josin, infatti, le danzatrici ora si seguono e si rincorrono dolcemente, ora compiono gesti sincronizzati che sembrano fusi in un unico corpo danzante. Narrano, così, un’avventura quotidiana che si trasforma continuamente proiettandosi nel tempo e nello spazio, forse un’operazione nostalgica che ha raccolto meritati applausi e consensi.  

ph. Gino Rosa

Sempre al Mambo e subito dopo Come neve, ci spostiamo in un’altra sala per assistere al raffinato e intenso Breathe With Me A Moment della coreografa, designer e insegnante israeliana Or Marin: il duetto fa parte di una creazione più ampia intitolata Raining Men che esamina la percezione sociale sull’eroismo che ci si aspetta dal genere maschile, immergendosi nella reale uscita dalla tradizione culturale. Attraversando quest’universo alla ricerca della dimensione egualitaria tra i generi, dunque, la pièce si concentra sull’intimità e sulla fragilità della vicinanza, sull’amore e la passione.
Gli interpreti sono i bravissimi danzatori
Uri Dicker e Tomer Giat i quali, seminudi e con solo degli slip neri, si muovono e si intrecciano su un tappeto bianco mantenendo quasi sempre il contatto, bocca a bocca, tramite un’armonica. Soffiandola da entrambi i lati le bocche producono suoni e i respiri sono condivisi; i corpi generano una meravigliosa tensione estetica e poetica grazie a braccia che scivolano e contatti tra le mani, i piedi, le spalle; per poi avere riguardo per i capelli, gli occhi e gli sguardi.
Successivamente
movimenti più dinamici e dolcemente acrobatici costruiscono un crocevia di azioni e traiettorie che riempie la scena, che provoca negli spettatori una sensazione di pathos lirico a cui affidarsi, restituendo l’intreccio tra esperienza vissuta e dimensione sociale; tra corpo, sé e società. Si è, quindi, partecipi della rappresentazione di un collegamento tra due corpi che sono un unico strumento musicale; una carismatica fusione altamente contemporanea di diversi linguaggi corporei che si carica di modernità quando, alla fine, uno dei due ballerini veste l’altro e lo spazio viene invaso da musica dal ritmo allegro e coinvolgente: mentre i performer smontano live l’allestimento entro cui si sono esibiti, noi spettatori assistiamo estasiati, in bilico tra la certezza della forza dell’unione e la delicatezza che ne consegue.
 

ph. Gino Rosa

Il giorno dopo, domenica 10, a essere invaso dal potere della danza è Parco 11 Settembre 2001: lo spettacolo è un’opera della compagnia ERTZA  nata nel 2004 sotto la direzione del danzatore e coreografo Asier Zabaletae si chiama Otempodiz, risultato di un progetto di scambio e creazione artistica che si svolge tra il Mozambico e i Paesi Baschi grazie al sostegno dell’AECID, della residenza artistica SORTUTAKOAK e del festival ATLANTIKALDIA di Errenteria e che ha come proposito la possibilità di offrire a due danzatori di Maputo un’occasione di lavoro e gli strumenti necessari per crescere in maniera autonoma all’interno del circuito internazionale della danza.
Nello spazio largo del parco ciò a cui assistiamo è una danza teatrale che si caratterizza come attività di spettacolo in cui è marcata la differenza tra pubblico e danzatori per capacità coreografiche e stilistiche, ma di certo non per quelle inerenti lo spirito. I movimenti sincronizzati e ritmici dalla natura sia pacata sia scattante, che attingono dal repertorio dell’hip-hop e della danza contemporanea, da quella popolare alla neoclassica -, infatti, esprimono un’esperienza che vede il tempo come posseduto, concreto: il tempo è in ogni stagione che passa, in ogni ieri e in ogni domani, ma soprattutto è in ogni momento. É vissuto in un presente assoluto, fluttuando le cose dentro sé stessi nell’adesso.
La danza ha poi una sua diretta corrispondenza e compresenza con la musica, che è sensuale e trascinante, perfettamente ritmica e istintuale: il simbolo di un’unica cultura, arretrata e selvaggia. Come se fosse un’imprescindibile estensione dei movimenti dei ballerini, contribuendo a ricreare il contesto di ritualità in cui noi spettatori ci perdiamo. Un pezzo magico e pieno di poesia, in cui due artisti si divertono e fanno divertire, esplorando anche l’ampio spettro emozionale che la danza contempla con la creazione di diversi mondi emotivi e sensoriali. 

ph. Gino Rosa

 

Come neve

coreografia Adriano Bolognino                                                                              danzano Rosaria di Maro Fanzini e Noemi Caricchia                                              produzione Körper – Centro Nazionale di Produzione della danza / Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza – Festival Danza in Rete                                         con il supporto di KOMM TANZ/PASSO NORD progetto residenze Compagnia Abbondanza/ Bertoni in collaborazione con il Comune di Rovereto
con il sostegno di Orsolina28, Nitja Senter samtidskunst, Italian Institute of Culture in Oslo, and the Italian Embassy in Norway                                                               musiche Olafur Arnalds/Josin                                                                                       costumi Club dell’uncinetto, Napoli                                                                              revisione testi Rosa Coppola                                                                                         di ringraziano C.A.M. Museum, Francesco Aurisicchio Photographer, Mirko Ingrao

 

Breathe with Me a Moment 

di Or Marin                                                                                                                   con Uri Dicker e Tomer Giat                                                                         drammaturgia Oran Doran                                                                                     musiche dal vivo realizzate dai danzatori

 

Otempodiz 

idea, direzione e coreografia Asier Zabaleta
con Fenias Nhumaio e Deissane Machava                                                               produzione ERTZA SORKUNTZA ARTISTIKOVA S.L                                                       con il sostegno di AECID, SORTUTAKOAK (Gipuzkoako Dantzagunea), ATLANTIKALDIA

Festival Danza Urbana                                                                                                 9 e 10 settembre 2023 | Bologna

Uno spazio polifonico aperto alle sperimentazioni: festival Castel dei Mondi 2023

Festival Internazionale Castel dei Mondi

LILIANA TANGORRA | #OVERTIME è il titolo della XXVII edizione del Festival Internazionale Castel dei Mondi tenutosi ad Andria dal 25 agosto al 24 settembre.

Questa edizione del festival ha invitato lo spettatore a riflettere sulla definizione di ‘schema’, stimolandolo a trasbordare da modelli pre-definiti della realtà ‘coatta’ fuori e dentro il palcoscenico. La scelta degli spettacoli e delle mostre ospitati durante la kermesse ha condotto alla buona riuscita di un festival storico della regione Puglia, che anche quest’anno è stato guidato da Riccardo Carbutti.

Il festival si veste da anni sempre più di interdisciplinarità e si arricchisce di mostre temporanee e laboratori, oltre che di performance teatrali.

Ad aprire le porte agli spettatori, ormai per tradizione in piazza Vittorio Emanuele II, una scultura dell’artista Dario Agrimi:Golem. Ispirato alla mitica figura dalle sembianze umane, dotata di una forza sovrumana, della tradizione ebraica, il Golem di Agrimi è paradigma dell’uomo che imbratta la natura con il suo disastroso e avventato passaggio, ma è anche denuncia di un cataclisma ambientale che colpisce l’uomo – di qui la sua maschera d’argilla – e la natura.

Nella chiesa di Porta Santa gli spettatori hanno ammirato l’installazione artistica di Renato Meneghetti, Optional.  Optional è un gigantesco encefalo costruito in vinile trasparente, gonfiabile come una mongolfiera e alimentato da meandri di tubi trasparenti; dopo un alert sonoro, improvvisamente, il cervello di plastica di fronte allo spettatore si sgonfia e successivamente si gonfia lentamente a ri-formare una cupola encefalica. Un’esortazione dell’artista a utilizzare il cervello, a sviluppare il senso critico, il nutrimento per il nostro organo vitale che, altrimenti, si ‘svuoterebbe’. 

Infine nel museo diocesano San Riccardo è stata ubicata l’installazione interattiva Geometric music del collettivo Superbe composto da artisti, informatici e designer con sede a Nanur in Belgio. Superbe ha creato un’installazione musicale collegata a dei box in cui erano intagliate figure geometriche alle quali erano collegati dei microfoni e dei magnetofoni. Dopo aver registrato un suono le box creavano un ritmo che raggiungeva contemporaneamente gli occhi e alle orecchie. Un chiaro rimando all’opera pittorica di Kandinskij, il quale associava colori e suoni, e che il gruppo belga ha tradotto in installazione.

Come ogni anno molteplici sono stati gli spettacoli ospitati dal festival, tra i quali prime nazionali e regionali.

Saga salsa noir
Saga salsa noir, ph. Qui e Ora residenza teatrale

Per questa edizione si è assistito allo spettacolo, in prima regionale, Saga salsa noir di Silvia Baldini e Giovanni Guerrieri di Qui e ora Residenza teatrale. La performance si è svolta negli ambienti del Museo diocesano San Riccardo, confermando la volontà del festival di occupare spazi non esclusivamente ‘teatrali’. Lo spettacolo con Francesca Albanese, Silvia Baldini, Laura Valli per la regia di Giulia Gallo e Giovanni Guerrieri ha declinato con ironia e vivacità un dramma familiare legato ai segreti mai espressi – tramutatisi in omicidio – di tre generazioni in scena: nonna, mamma e figlia.

Saga salsa noir è stato, per i trenta spettatori in scena seduti attorno a una tavola imbandita come in un consolo meridionale, un calarsi nell’intimità delle calde vite di tre donne, per leggerle attraverso il culto del cibo, un cibo caro alla cultura italiana: la salsa. Attorno a un desco, fra una portata e l’altra, Qui e ora ha messo in tavola – assieme agli spettatori – gli intrighi di un passato remoto e di un presente prossimo in cui tutti i sensi sono stati chiamati a partecipare alla scoperta di un mistero, come se si assistesse a una Cena con delitto. Coinvolgenti le protagoniste che hanno creato un’atmosfera conviviale e piacevole, non particolarmente incisive a livello attoriale, ma incontrovertibilmente travolgenti nell’atmosfera.

Robe dell’altro mondo, ph. Compagnia Carrozzeria Orfeo

Sicuramente più profondo, collocabile in quella verve sarcastica tipica della poetica della compagnia Carrozzeria Orfeo, è stato lo spettacolo Robe dell’altro mondo (Cronache di una invasione aliena). In un mondo che accoglie con speranza e audacia degli invisibili alieni, si dipanano le storie di comune razzismo, scetticismo, divario socio-culturale. Una coppia di anziani – all’apparenza collocabili in quel ceto sociale basso-borghese, polite e ricco di convenevoli – ragiona intorno alla presenza di immigrati, rovina del proprio paese. A incrociare il loro dialogo la storia di una coppia gay di stranieri, a cui gli alieni hanno donano una bambina muta-forme. Come in tutte le storie che intrecciano la diffidenza e la surrealtà al quotidiano – un quotidiano influenzato dai preconcetti e dalla propaganda – gli alieni immaginati nel testo di Gabriele Di Luca, da benefattori e portatori di miracoli si tramutano in mostri bruti da sconfiggere perché ‘diversi’. I dialoghi, interpretati dagli attori estremizzando gli accenti, hanno stabilito volontariamente un linguaggio bizzarro, intrecciando momenti ironici e pungenti, critica sociale e assurdità. L’impianto scenico è stato definito dalla presenza dei quattro impeccabili disegnatori/attori Federico Bassi, Sebastiano Bronzato Massimiliano Sette, Giacomo Trivellini, che hanno creato in scena ambientazioni tridimensionali e che hanno incluso, nell’assetto scenico, attori proiettati in video. La musica persistente, il video ‘interattivo’ e il disegno dal vivo, hanno costituito una solida impalcatura scenica definita dalla regia di Gabriele Di Luca e Massimiliano Setti. I vari personaggi interpretati si sono innestati sul palcoscenico alle maschere di gomma indossate dagli attori, che ricordavano sia i rapinatori dei film polizieschi, sia l’immaginario creato da Familie Floz. La maschera ha aiutato a creare quei personaggi grotteschi, il cui dialogo serrato ha determinato una posizione politicamente scorretta che ha fatto convogliare l’attenzione dello spettatore attento su stereotipi ancora da scardinare. Una riflessione su schemi e preconcetti sociali che nemmeno gli alieni hanno potuto demolire, perfettamente innestata nella XXVII edizione di Castel dei Mondi.

Confermato il valore specifico del festival Castel dei Mondi, uno spazio polifonico e aperto alle sperimentazioni della performance e dell’arte dal vivo che restituisce al territorio, non solo andriese, un’attenzione alla produzione artistica nazionale e non, vetrina per le nuove produzioni teatrali in un territorio affamato di novità.

SAGA SALSA NOIR
di Silvia Baldini e Giovanni Guerrieri
con Francesca Albanese, Silvia Baldini, Laura Valli
regia Giuila Gallo e Giovanni Guerrieri, I Sacchi di Sabbia
produzione Qui e Ora Residenza Teatrale
con il sostegno del MIBAC

ROBE DELL’ALTRO MONDO
(cronache di un’invasione aliena)
drammaturgia Gabriele Di Luca
regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti
con (in o.a.) Federico Bassi, Sebastiano Bronzato, Massimiliano Setti, Giacomo Trivellini
voci reporter Alessandro Tedeschi, Valentina Picello
musiche originali Massimiliano Setti
illustrazione / grafica / animazioni Federico Bassi, Giacomo Trivellini
uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo, Le Canaglie

 

 

FESTIVAL CASTEL DEI MONDI
Andria
25 agosto – 24 settembre 2023

Milano (e Catania) Off: ai due estremi dello stivale torna il Fringe – intervista a Francesca Vitale

RENZO FRANCABANDERA | Sta per tornare e anno dopo anno le cose vengono fatte sempre più in grande, con nuovi palcoscenici e collaborazioni internazionali a premiare i migliori fra i partecipanti: prende il via il 28 settembre a Milano la quinta edizione del festival del teatro Off e delle arti performative Milano Off Fringe Festival, che per due settimane coinvolge la città di Milano e i suoi quartieri con 49 spettacoli190 repliche in 12 diversi spazi e oltre 80 eventi gratuiti tra focus, workshop, incontri, con una grande festa inaugurale il 27 Settembre al Mercato Centrale.
Il calendario è assai fitto, dal giovedì alla domenica (28/29/30 Settembre e 01 Ottobre e poi a seguire 05/06/07/08 Ottobre) con 3 opere al giorno (pomeriggio, preserale e serale) e con orari alternati in ciascuna delle location: Casa Museo Spazio Tadini, Isolacasateatro, Fabbrica di Lampadine, Aprés Coup, Tencitt Cantine piemontesi, Scuola Puecher, WOW Museo del Fumetto, Quarta Parete, Slow Mill, Società Umanitaria, le due sale di Imbonati 11 Art Hub.
Si tratta di un appuntamento che troverà poi riscontro nella seconda metà ottobre dall’altra parte dello stivale, a Catania, come già successo l’anno passato per la prima volta.
La
direzione artistica di Francesca Vitale e Renato Lombardofondatori delle Associazioni culturali Milano OFF e La Memoria del Teatro sta consentendo al festival di crescere e aderire con più coerenza non solo al tessuto cittadino, ma anche ai grandi network internazionali del sistema Fringe.
MiOff rientra infatti nelle attività che il Comune di Milano ha scelto tramite il bando “Milano è viva”, per la valorizzazione dei quartieri e la loro connessione in una rete diffusa, con i patrocini del MIC, della Regione Lombardia e della Fondazione Cariplo e la collaborazione dei Municipi 1, 2, 3, 4, 8, 9.
Un radicamento e una crescita percepiti anche dalle compagnie che si sono candidate per questa edizione. Se il buongiorno si vede dal mattino, sono state un successo già le selezioni, considerando che sono state oltre 150 le compagnie che hanno aderito al bando del MI OFF 23. Gli spettacoli andranno a portare in scena ogni forma di rappresentazione, dal musical alla nuova clownerie, dai monologhi ai divertissement multilingue, includendo anche spettacoli in lingua inglese.
Fra gli spazi coinvolti in eventi del Festival anche il sogno di ogni teatrante italiano, il Piccolo Teatro di Milano, e poi l’Auditorium Cerri e il CAM Garibaldi, dove si svolgerà l’OFF dell’OFF, che consiste nella proposta di spettacoli ed eventi offerti gratuitamente alla città.
Novità di quest’anno sarà poi Il Village, presso il Mercato Centrale  Milano, punto informativo e di incontro tra compagnie, operatori, turisti e dove si svolgono molte iniziative: speed dates, focus, workshop, concerti, eventi e che diventa sede anche della biglietteria centrale, dove sarà possibile quindi acquistare i biglietti per tutti gli spettacoli. Sempre a Mercato Centrale, il 27 settembre avrà luogo una grande festa per l’apertura del Festival.
Non si può non menzionare il secondo ordine di legami e quindi il beneficio derivante dall’appartenenza di Milano Off al World Fringe, il Network Mondiale dei Fringe, che consente di accrescere anno dopo anno le partnership con importanti Festival internazionali, come Fringe Encore Series, Festival Off d’Avignon, Hollywood Fringe, Prague Fringe, Stockholm Fringe, Civil Disobedience, Gothenburg Fringe, Reikyavik Fringe, Azores Fringe, Colchester Fringe, Thessaloniki Fringe, Richmond Fringe, Dundee Fringe, che diventano partner per repliche e stage dei vincitori: una giuria composta da direttori artistici, producer, critici teatrali darà l’opportunità di portare i migliori spettacoli all’estero.
Coinvolte anche le scuole nel progetto Lo Studente in Giuria e borse di studio per permettere a chi merita di realizzare il proprio sogno. 

Abbiamo intervistato Francesca Vitale, organizzatrice e direttrice con Renato Lombardo del MI OFF.

Francesca, una nuova edizione del Fringe: quali elementi di continuità e quali novità rispetto alle scorse edizioni?

Gli elementi di continuità, che ogni anno cerchiamo di incrementare, quali punti forti del Festival, sono: la partecipazione dei partner stranieri direttori di altri Fringe che possono così valutare gli spettacoli in scena e sceglierli per le trasferte nei loro Festival, gli eventi collaterali e gratuiti e i workshop pensati appositamente per gli artisti. In particolare alcuni Focus sono organizzati per approfondire con specialisti del settore e gli stessi attori protagonisti alcuni argomenti di rilevanza sociale, come la ludopatia e le opportunità di reinserimento sociale per i detenuti. Tra le novità in primis la collaborazione con Mercato Centrale Milano dove si trova il Village di questa edizione. Ancora,  la collaborazione con Zelig per una nuova stand up,  una novità assoluta per il Festival. Alcune cose si confermano e incrementano al tempo stesso, come la collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano, che oltre ad ospitare due eventi darà un riconoscimento a uno spettacolo di sua preferenza.

È un Fringe che ormai abbraccia tutta l’Italia, da Milano a Catania. Che tipo di riscontri avete da queste due geografie così distanti?

Sono due città molto diverse, Milano alla quinta edizione (nasce nel 2016 ma si ferma due anni per la pandemia) il Catania alla seconda, ed è stimolante confermare i due Fringe ai poli estremi dello stivale. Milano è una città accogliente ma che offre al tempo stesso un’enorme molteplicità di eventi e proposte. Il Fringe sta sempre più prendendo piede come Festival del teatro indipendente e ci fa piacere rilevare una sempre maggiore partecipazione anche di chi non è un’abitudine del teatro, cosa che è per noi  un obiettivo primario. Catania, a sua volta, è una città esplosiva e il festival sin dalla prima edizione ha suscitato entusiasmo e un passaparola immediato tra la gente.

Che risposta il pubblico? Cosa è possibile dire dopo queste prime edizioni della partecipazione degli spettatori al Fringe?

Quello che ci rende davvero felici è proprio l’apprezzamento del pubblico, che ci riporta impressioni molto positive sugli spettacoli e in particolare sulla loro genuinità e aderenza alla contemporaneità. Sembra quasi di poter dire che la mancanza di un impianto scenografico o di contorno importante, tipica del teatro “IN”, crei un forte coinvolgimento del pubblico e lo avvicini empaticamente agli attori. Va poi detto che nel Fringe gli attori rimangono a contatto con il pubblico anche dopo lo spettacolo, confrontandosi con gli spettatori e condividendo le loro impressioni.

Che riscontri ha avuto il vostro Fringe dalle compagnie? Che tipo di rapporto si è creato e che consigli sentite di voler dare a chi si candida per proporre il suo spettacolo dentro la rassegna?

Le compagnie creano tra loro un legame bellissimo, fatto di solidarietà e di sostegno reciproco. Il festival presta il fianco a questa vibrazione, ad esempio anche con il progetto “ospita un artista”, in cui le famiglie che adottano a casa propria gli artisti fanno il tifo per loro e li accompagnano e sostengono per tutto il Festival. Da parte nostra cerchiamo anno dopo anno di migliorare le condizioni e opportunità che offriamo. Il consiglio che posso dare a chi candida uno spettacolo al MIOFF è quello di capire cosa è veramente un Fringe, anche confrontandosi con gli altri Fringe del mondo. Nel Fringe ci si mette in gioco, umanamente ed economicamente, per ottenerne opportunità di scambi culturali e connessioni che non possono che arricchire e far crescere chi accetta la sfida.