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martedì, Giugno 17, 2025
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The Seer di Milo Rau: Ursina Lardi vede e fa vedere il corpo della verità

ph Nurith Wagner Strauss

RENZO FRANCABANDERA e ELENA SCOLARI | RF: La premiazione di Ursina Lardi con il Leone d’Argento 2025 è stata una delle più pirotecniche e politiche degli ultimi anni: un discorso di ringraziamento che non ha avuto nessun timore per la presenza del ministro di un governo di destra che l’aveva appena premiata per la sua multiforme carriera ma ancor più, ovviamente, per questi ultimi anni quali interprete feticcio delle inquietudini del regista Milo Rau. Lardi è in quattro dei suoi maggiori successi, compreso quello di cui andiamo a parlare: Compassion. The History of the Machine Gun* (2016), LENIN (2017),  Everywoman (2020), e Die Seherin (The Seer) (2025), in cui interpreta una fotoreporter di guerra la cui figura si sovrappone, nel controluce drammaturgico, a quella di una moderna Cassandra. Diciamo che, se Dafoe cercava una incarnazione metaforica del corpo attore, tema a cui ha voluto dedicare questa edizione della Biennale 2025, l’attrice svizzera è davvero esemplare. La sua carriera interseca teatro, cinema e impegno civile.

ES: Se non ti dispiace entro subito in medias res, dicendoti la cosa che più mi ha colpito e fatto pensare, vedendThe seer (trad. La veggente): Ursina Lardi è in scena, lei e il suo corpo in jeans e camicia, ed è bravissima; Hassan Azad, l’altro interprete dello spettacolo, appare solo in video, il suo corpo è per noi un insieme di pixel proiettati su uno schermo (per giunta parla in arabo) e chissà cosa sta facendo mentre noi siamo alla Biennale, eppure è una presenza magnetica, vigorosa, tanto appuntita da rimanere in testa per giorni. Rau realizza il paradosso di rendere dannatamente vero ciò che è assente, chiedendo a Lardi – che invece è lì con noi al Teatro alle Tese dell’Arsenale di Venezia, in quella specifica sera – di interpretare il difficilissimo ruolo di tramite. Lei diventa un ponte per la verità, un Caronte narrativo che traghetta il pubblico verso una dimensione inesistente ma dove si scorge il senso. Il senso ultimo delle cose.

RF: Su questo ti dico solo che al momento degli applausi mi aspettavo di veder uscire a prendere il tributo del pubblico anche il giovane professore di Ninive, che porta al pubblico il racconto della sua vita sotto l’ISIS fino al drammatico episodio di una mutilazione fisica, per dire di quanto la sua presenza a video è concreta e viva ancorché mediata e mediale.

ES: In una Biennale dedicata al corpo – inteso come corpo teatrale, corpo narrativo, corpo politico – questo ultimo lavoro del regista svizzero ci mostra, ancora una volta, quanto possa essere forte il corpo della parola, perché la sua è una bellissima scrittura. L’egregio lavoro di Bettina Ehrlich sulla drammaturgia permette di far emergere – senza che ce ne si accorga, durante la visione – la curva del respiro dello spettacolo: c’è un ritmo, c’è un equilibrio “giusto” – per niente facile da ottenere – tra l’alternarsi di cronaca, racconto, informazione, angoscia, spirito, orrore, indignazione, ossessione, tenerezza, incredulità, umanità.
È una curva data non solo dalla scrittura in senso stretto: mi riferisco ai movimenti dell’attrice sul palco, ai tempi dell’intreccio tra la sua storia e quella di Hassan, ai colori della scena e del video, al montaggio complessivo che risulta molto ben calibrato e quasi naturale, nonostante l’evidenza dell’artificio. Sei d’accordo?

RF: Totalmente d’accordo. Durante lo spettacolo mi è capitato più volte di pensare alla maestria della parola portata in scena ed è un altro dei temi che Lardi ha affrontato a margine della sua premiazione, toccando tantissimi temi, anche di metodo di lavoro al servizio del teatro. È la scrittura che unisce le manie di un Rau appassionato di foto che rimandano ad atti violenti, e la limatura delle frasi barocche delle quali a volte ci si innamora ma che poi, come ha sottolineato l’attrice, vanno tolte via perché la scena le boccia.
Tutta la formazione di Lardi alla Schaubühne di Berlino, la collaborazione con registi visionari come Thomas Ostermeier, Romeo Castellucci e Michael Haneke, l’approccio testuale sempre rigoroso nel suo lavoro ne fanno una interprete capace di aiutare il regista e il drammaturgo a scolpire la parola per portarla all’essenziale. Con Rau in particolare, ha sviluppato fino a una raffinatezza estrema quel linguaggio teatrale ibrido, fondato su testimonianze reali (come in questo caso quelle delle vittime di guerra e delle rivolte in ambiente mediorientale) e sulla poetica della resistenza politica che qui è diventato un lavoro a sei mani. Non per tornare ripetutamente su di lei, ma l’attrice incarna davvero l’artista totale e qui si ripropone in altra forma quanto già c’era in Everywoman, dove la mediazione video e la presenza fisica interrogavano i limiti della rappresentazione. Diciamo che questo genere di performance, in cui appare spesso priva di difese, trasforma il palco in uno spazio di vulnerabilità condivisa, elevando il teatro a strumento di catarsi etica.

ES: L’unicità e la ricerca maniacale di fatti, perlopiù cruenti, è ciò che La veggente del titolo, la fotografa di guerra interpretata da Lardi, mette nei suoi scatti. Come se ci fosse qualcosa di soprannaturale, ci racconta di “sentire” dove sta per accadere qualcosa: è un po’ come se vedesse nella sua mente prima di vedere nella realtà. E corre a scattare la foto, a catturare l’immagine di un fatto che, senza la sua presenza, lì, in quel momento, non sarebbe accaduto. Certo, è abbastanza impressionante sentirle spiegare che, se ti trovi a fotografare una fossa comune, devi cercare la giusta angolazione, la prospettiva che dia il senso dell’accumulo dei cadaveri e che riveli l’odiosa geometria secondo cui sono accatastati. E vedi, senza vedere.

ph Nurith Wagner Strauss

Nelle chiacchiere lagunari tra amici, artisti e colleghi che la salsedine veneziana sempre favorisce, serpeggiava l’osservazione (l’invidia è veramente una brutta bestia) che Rau si sia ormai ingabbiato in un “metodo” per cui continua a fare la stessa cosa, cambiando paese di contesto o argomento ma senza più innovare e costringendosi in uno schema sempre uguale, legato alla moltiplicazione dei piani narrativi e dei livelli di realtà e finzione. Per altro è una cosa che moltissimi stanno facendo, dopo di lui.
Mi dirai cosa ne pensi tu ma il mio debol parere è che, a 47 anni, Rau è già stato indiscutibilmente il più potente innovatore teatrale mondiale degli ultimi decenni e potrebbe pure starsene tranquillo per un po’, ma la mia sensazione è che stia invece andando semplificando quello schema. Mi spiego meglio: in questo spettacolo io ho sofferto alcune ridondanze formali: l’uso del cellulare da parte di Ursina per proiettare un paio di volte il proprio volto o lo stinco ferito, le luci stroboscopiche per la scena della violenza subìta (si dice che c’è la musica techno ad alto volume e metti la musica techno ad alto volume); però ho trovato che la volontà profonda del regista stesse andando in una direzione più semplice e diretta: un’attrice descrive il suo lavoro e le sue esperienze di reporter di guerra davanti a microfono ad asta, ci dice che ha conosciuto Azad in Iraq e lui (un non attore che si è però preparato molto bene) dal video ci racconta di come l’Isis abbia applicato la legge coranica del taglione su di lui e sul fratello. E la sua è una storia tremenda, che apprendiamo poco a poco, intuendo un po’ per volta, e imparando un po’ per volta a conoscere Azad, dalla sua distanza.

RF: Che l’innesco creativo parta da episodi violenti che diventano emblematici per attivare un’indagine socio-documentale mi pare un fatto evidente. Diciamo che in tutti i testi su come costruire la drammaturgia, il tema del conflitto è cruciale. Yves Lavandier nel suo L’ABC della Drammaturgia, edito in Italia da Audino, dedica a Rau, non a caso, il primo capitolo. Poi, il fatto che abbia una passione particolare per la truculenza del conflitto umano come innesco per le sue indagini nello spazio scenico andrebbe visto con lo stesso sguardo con cui si guarda all’uso della bambola negli spettacoli di Emma Dante o alle presenze militari nelle performance di Castellucci o ai cagnolini nelle tele di Tiziano. Sono un ineludibile marchio di fabbrica. Quando un artista tira fuori un suo segno forte, un suo specifico espressivo, definisce una geografia anche formale che a volte, certo, rischia di imprigionarlo. Ho sempre evocato il dramma di Fontana e dei suoi tagli: alla fine magari gli avranno rimproverato  i tagli, ma poi, gli stessi che l’hanno fatto, dovendo scegliere quale opera accogliere nel proprio salotto, avrebbero scelto per sé qualche tela tagliata o dei disegni liberi dell’artista? È la potenza della forma espressiva specifica (le sculture di Pomodoro o di Tony Cragg) cui un artista arriva a compimento del suo percorso autorale.
Il teatro, a differenza di altre arti, non lascia tracce materiali, un quadro, una statua. Ma una stessa specifica struttura scenica, un modo di fare, può essere utile per indagare questioni molto diverse, se devo soffermarmi sul tema della forma di Rau. Sento molto più rilevante, invece, la sua continua riattivazione del mito, ad esempio, dove le narrazioni archetipiche vengono smontate e riassemblate per interrogare le fratture della modernità. Fin dagli esordi, il regista svizzero ha utilizzato i miti classici non come repertorio sterile, ma come lenti per porre il focus su tragedie globali, dal colonialismo alla violenza di guerra, dalla crisi migratoria alle derive dell’individualismo neoliberale. Questa metodologia di re-enactment, che trasforma il mito in un dispositivo critico, si avvicina, nel caso di The Seer, a Orestes in Mosul (2019), in cui l’Orestea di Eschilo veniva trasposta nell’Iraq post-ISIS, con attori locali che recitavano le loro storie personali accanto al testo antico.

ph. Nurith-Wagner-Strauss

In The Seer, il mito diventa un ponte tra l’epica greca e i traumi contemporanei, rivelando come alcuni temi che riguardano la testimonianza ma anche la sopravvivenza alla ferita di Filottete, siano temi ancora pulsanti. Potremmo allungare la fila con Antigone in Amazzonia (2022) o Medea’s Children (2024) a favore di una tesi che direi Rau stesso appoggia, a partire finanche dai titoli…

ES: Dici bene del riferimento al Filottete di Sofocle: in sintesi la mia idea è che, agganciandosi al mito, Rau si voglia avvicinare sempre più alle energie arcaiche, ai sentimenti radicali dell’uomo, alle forze primigenie e ineludibili che dall’inizio dei tempi ci muovono. Ci fa guardare un’illusione, per capire la realtà.

RF: Con The Seer, Rau completa questa trilogia ideale sui miti greci partita nel 2022, concentrandosi qui su Cassandra e Filottete. Lardi interpreta una fotoreporter/Cassandra, e la sua trasformazione in vittima della violenza che documenta richiama Filottete, l’eroe sofocleo emarginato per la sua ferita. Non a caso lo spettacolo inizia con la ferita alla gamba, come per il personaggio mitologico.
L’interrogativo/ossessione di Rau mi pare possa essere sintetizzato nel dilemma: l’arte può lenire il dolore o è solo un’altra forma di voyeurismo? Il regista – che mi pare di aver capito collezionasse immagini truci fin da giovane – tratta il mito come un archivio di violenza sistemica e quindi, come tutti gli artisti, gira con l’arte intorno alle sue ossessioni. L’idea di mito come allegoria universale e The Seer rappresentano l’apice di questa ricerca: Cassandra non è più la veggente inascoltata ma la testimone che, pur mutilata, continua a documentare. Rau usa il mito per smascherare la nostra complicità con la violenza, chiedendoci se siamo spettatori o complici.
E come facciamo a non chiedercelo ogni giorno?

THE SEER
prima italiana

tratto da Filottete di Sofocle
testo e regia Milo Rau
con Ursina Lardi, Hassan Azad
scene e costumi Anton Lukas
musica Elia Rediger
video Moritz von Dungern
luci Stefan Ebelsberger
ricerca Ursina Lardi, Milo Rau
drammaturgia Bettina Ehrlich
traduzione, language coach Susana Abdul Majid
consulenza e coordinamento (Iraq) Sarder Abdullah
produzione Schaubühne Berlin
coproduzione La Biennale di Venezia, Vienna Festival (Wiener Festwochen) | Free Republic of Vienna

Biennale Teatro – Arsenale, Teatro alle Tese (Venezia) | 12-13 giugno 2025

Corpi, miti e dissolvenze: la giornata del 14 giugno al Festival Opera Prima

LEONARDO DELFANTI | Benvenuti a Rovigo, una delle province più dimenticate d’Italia. Terra sospesa tra la geometria delle risaie e la malinconia verticale delle ciminiere, contesa dai fiumi Adige e Po, che da sempre ne scandiscono i ritmi, i fasti, le sciagure. Qui, dove il tempo della seconda industrializzazione sembra essersi accartocciato su sé stesso, il 14 giugno è andata in scena una nuova giornata del Festival Opera Prima, giunto alla sua ventunesima edizione.
Badate bene: Opera Prima non è un festival come gli altri. Qui la parola “teatro” non indica mai una comfort zone, una replica rassicurante, un luogo di contenimento. Al contrario, è promessa di attrito, di scoperta, di confronto vivo. È uno spazio dove l’esposizione non è scelta estetica ma necessità, dove l’immersione è totale, e l’incontro – tra corpi, pensiero e presenza – accade davvero.
Questa è la seconda parte del nostro reportage. La prima, firmata dal direttore Renzo Francabandera, è disponibile qui.

Il nostro viaggio comincia dentro la Fabbrica dello Zucchero, imponente reliquia post-industriale alle porte della città. Una cattedrale di mattoni, ruvida, concreta, che tutto rimbomba e amplifica. L’ambiente è denso, il calore opprimente. Ma forse è giusto così: stiamo entrando in un corpo-fabbrica, in un organismo in cui la materia e il suono vibrano assieme. A inaugurare la giornata è la performance silenziosa della compagnia iracheno-svedese ibodies, Freedom, At Last, dedicata, almeno nelle intenzioni delle autrici Anmar Taha e Josephine Gray, alla condizione femminile nei territori medio orientali della privazione e della resistenza.
La scena si apre su una figura completamente velata, isolata. Una presenza più che un personaggio. Due altre donne, anch’esse velate, entrano portando secchi d’acqua, accentuando il tono rituale del gesto scenico. Poi, come contraltare, emerge una donna nuda da una scatola. Capelli sul volto, anonimato e nudità si fondono. La tensione visiva tra i due poli – l’occultamento e l’esposizione – struttura l’intero impianto drammaturgico.
Le registe orchestrano un’azione lenta, in cui le due figure velate, attraverso movimenti grotteschi, danno corpo a una pantomima che si contrappone al candore della figura scoperta. Quest’ultima, presto distesa (forse morta?) su un tavolo, viene lavata, profumata, sepolta. Il corpo come oggetto sacro e saccheggiato, campo di negoziazione politica e di senso.
La composizione è ieratica, quasi onirica. L’attenzione alla cura estetica è evidente, ma manca una linea narrativa capace di orientare lo spettatore verso una riflessione politica. Il titolo promette un’affermazione – la libertà, finalmente – ma sulla scena resta un’inquietudine palpabile anche tra gli spettatori. Il teatro di ibodies non racconta, evoca. Lavora per tableaux, più che per sviluppo drammaturgico. Il risultato è un’esperienza ipnotica – complice anche l’afa – che interroga lo spettatore più sul piano percettivo che su quello analitico. Ma si pone una domanda: che cosa resta della libertà, quando il corpo è il primo campo di battaglia?

Il sole cala su Rovigo mentre ci spostiamo al Teatro Studio per Attorno a Troia. Lo spettacolo, firmato da Massimo Munaro, direttore del Teatro del Lemming, non è una semplice messinscena: è un’esperienza immersiva, sensoriale, poetica. Il pubblico viene privato dei propri oggetti personali e, guidato mano nella mano da un attore, entra in uno spazio sospeso tra sogno e trauma. Ma qui, a differenza di molte proposte più estetizzanti, la politica è presente fin dall’inizio. E non se ne va più.
La privazione iniziale – quasi kafkiana – mette in una condizione diversa: più vulnerabile, più esposta. L’ascolto si fa percettivo, profondo. Si entra in una Troia che non è solo rovina e pianto epico, ma paradigma di ogni civiltà sull’orlo del collasso. Uno specchio deformante, eppure fedelissimo, della nostra condizione contemporanea: “Anche se lo spettatore non segue più il flusso delle parole, queste entrano dentro di lui in una dimensione forse più ipnotica, più onirica, ma forse anche più profonda” spiega Munaro. E in effetti è proprio questa sospensione del logos a rendere possibile il coinvolgimento, che è anche politico e affettivo.

I performer – in gran parte giovani attori in formazione – restituiscono con particolare intensità l’oscillazione tragica tra eros e pietas, tra distruttore e distrutto, tra migrante e carnefice. La regia rinuncia all’impatto scenografico e lavora per sottrazione, scolpendo il buio e la luce radente in otto quadri evocativi. Ogni spettatore attraversa un proprio itinerario emotivo: c’è chi riconosce la perdita di un figlio, chi quella di un amore, chi la fine della propria quiete quotidiana. Ogni gesto, sussurro, frammento sonoro diventa una chiamata: a sentire, a restare, ad agire.
In questa dinamica si rivela la funzione trasformativa del teatro di Munaro, che affida al simbolo – non come allegoria da decifrare, ma come coccio spezzato – una parte fondamentale della drammaturgia: “Io a te le offro come la mia parte del coccio, che tu come spettatore completi quando le prendi in mano”, spiega il regista. Non è il significato a essere imposto, ma l’interpretazione a essere condivisa: “Per quello io chiamo il mio il teatro dello spettatore, perché per me è lo spettatore l’ermeneutica”.
Le liriche di Omero si intrecciano così con le cifre dell’industria bellica contemporanea, con immagini e oggetti dal forte potere evocativo: una rosa gialla, un bambolotto. “Per qualcuno significa qualcosa, per qualcun altro qualcos’altro”, sottolinea Munaro, consapevole che il senso nasce nella relazione, non nella regia. Il mito, del resto, non ha bisogno di essere compreso: “Anche se io non capisco niente della guerra di Troia, questi miti già abitano uno spettatore”, sono archetipi, memorie collettive che ci abitano anche inconsciamente. Ed è in questa zona liminare che il teatro può ancora incidere, spostare, cambiare:
Il percorso si chiude con una lettera. Non un souvenir, ma un appello. Un invito a prendere posizione, a rispondere. A testimoniare – al Lemming e a noi stessi – che non siamo rimasti indifferenti.

Quando scende la notte su Piazza Vittorio Emanuele II, l’aria si fa più leggera e la scena si apre a un altro tipo di racconto. È quello delle sorelle Charly ed Eriel Santagado, fondatrici della compagnia Mignolo Dance, con sede tra Stati Uniti e Belgio. In We’re too young to write a memoir le due performer danno corpo a una ricerca coreografica che nasce dall’intimità più radicale: quella del legame di sangue e dell’infanzia condivisa.
Il titolo è già una dichiarazione di poetica: siamo troppo giovani per scrivere un’autobiografia, ma non per esplorare come il confronto costante – tra sorelle, tra corpi, tra stili – lasci tracce nel modo in cui ci muoviamo, ci esprimiamo, ci relazioniamo. L’una è lo specchio e il limite dell’altra e in scena il loro dialogo si sviluppa come una scrittura a due mani che, invece di fondersi in un unico stile, rivendica la diversità, in primis nel linguaggio coreografico.
La performance, della durata di venti minuti, alterna momenti di precisione tecnica a derive giocose, quasi buffonesche, in cui si avverte il background condiviso di teatro fisico, danza contemporanea e arte circense. Il gesto è ora lieve, ora puntuto, ma sempre esatto, sostenuto da una relazione autentica che riesce a coinvolgere e divertire il pubblico della piazza. Il gioco tra imitazione e rottura, simmetria e divergenza, genera una tensione che tiene viva la scena.
Peccato solo che l’ambiente urbano, con i suoi rumori imprevisti e le sue distrazioni visive, sembri più interferire che arricchire la ricerca delle performer. Abituate probabilmente a spazi chiusi e controllati, le sorelle Santagado appaiono a tratti in difficoltà nel gestire la dispersione tipica della scena all’aperto. Forse questa fragilità finisce per raccontare qualcosa in più delle due autrici: che l’intimità, quando esposta allo sguardo pubblico, è sempre un rischio, forse, necessario per continuare a danzare.

FREEDOM, AT LAST

regia Anmar Taha
drammaturgia Josephine Gray
con Josephine Gray, Milda Sutkevičiūtė, Adele Cammarata
scene, luci, suono, costumi, oggetti Anmar Taha, Josephine Gray

ATTORNO A TROIA
Ilio, Troiane, Aeneas
con Diana Ferrantini, Katia Raguso, Veronica Di Bussolo, Maddalena Dal Maso, Cosimo Munaro, Chiara Tosti, Riccardo Perin, Nicole Crespi

drammaturgia, musica e regia: Massimo Munaro

WE’RE TOO YOUNG TO WRITE A MEMOIR

di e con Charly Santagado, Eriel Santagado

Festival Opera Prima, Rovigo | 14 giugno 2025

Opera Prima: la musica irrompe sul palco delle nuove generazioni performative

RENZO FRANCABANDERA | Nella trama viva della scena teatrale italiana, il Teatro del Lemming emerge come un crogiolo di sperimentazione, dove il gesto artistico si fa indagine filosofica sul linguaggio. Fondato a Rovigo diversi decenni fa, il collettivo, guidato dalla carismatica figura di Massimo Munaro, ha saputo innestare nella comunità locale un’inquietudine creativa, trasformando il teatro non solo in rappresentazione, ma in un vero e proprio laboratorio del pensiero. La sua ricerca, sospesa fra corpo e parola, interroga i limiti della comunicazione, sfidando le convenzioni con una poetica che è insieme critica e visionaria, e che da sempre si aggrappa al mito per indagare spesso anche la psiche dello spettatore. In questi giorni, il festival Opera Prima offre, nel capoluogo polesano, una nuova occasione per misurare l’impatto del Lemming: qui, tra debutti e riflessioni condivise, si conferma quella vocazione a fare del palcoscenico uno spazio di dialogo comunitario, riconosciuto perfino dal governatore Zaia, il quale ha voluto rilasciare un attestato di benemerenza nei giorni di inaugurazione della rassegna.

Ph L. Slaviero

Speriamo che anche il Comune di Rovigo, che non abbiamo visto esprimere presenze di prima linea negli eventi legati al Festival, vorrà leggere l’indicazione interessante che lo storico governatore di questo territorio ha lanciato per tornare a esprimere la sua vicinanza e il suo sostegno alla compagnia a un Festival grazie al quale giungono in città artisti e pensatori dall’Italia e non solo. Il teatro, in questa logica, cessa di essere mero intrattenimento e diventa rito collettivo, dove ogni gesto è una domanda aperta che stimola la comunità a crescere insieme ma nel rispetto delle differenze. In un’epoca di linguaggi impoveriti, il Lemming ricorda che la scena può ancora essere un luogo di azione poetica, un’oasi di senso in un deserto di rumore.

Durante la giornata del 12 giugno si è disegnata una costellazione di pratiche sceniche con le quali il teatro si fa strumento di resistenza, indagine e riscoperta. MOMEC con Dunque, siamo! ha trasformato il Loggiato della Guardia in un laboratorio di emancipazione individuale: quindici minuti per ogni spettatore chiamato a compiere un gesto di ribellione contro l’immobilismo contemporaneo. Le presenze quasi silenziose di Fiorella Tommasini e Antonia Bertagnon, accompagnate dalle musiche di Guðnadóttir e Glass, hanno c reato, dentro ambienti ovattati ma non isolati dal contesto sonoro della città, un rito laico che sfida la passività senza retorica ma con un’essenzialità che lascia il segno e che invita lo spettatore partecipante a riferire al microfono quale sia la propria personalissima rivoluzione.

Poco dopo, nel bellissimo chiostro del Convento dei Carmelitani, Annalisa Limardi in NO inscena una battaglia per l’autodeterminazione dove il microfono diventa simbolo delle pressioni esterne, in uno scontro fisico e vocale che, dalla sottomissione, approda alla riconquista della propria voce. La performer accoglie gli spettatori di spalle. Annuisce a qualcuno fuori scena con la testa. Lo spettacolo è di fatto un percorso per passare dall’obbediente Sì sociale al No soggettivo.

Ph L. Slaviero

La performance, singolare per la commistione fra gesto coreografico e, nella seconda parte, rima rap, rivela una ricerca sul corpo che definisce l’evolvere di un personale linguaggio di resistenza; un linguaggio ancora in crescita e che può trovare ulteriore sofisticazione e accuratezza nella scelta delle parole e dei gesti, eliminando progressivamente la cifra più didascalica e riconoscibile per giungere a un risultato di cui si vedono già interessanti potenzialità.

La serata si è chiusa con Veni di Alot Teatro, dove undici corpi immobili, in schiera nel buio silenzioso del Teatro Studio, hanno dato vita a un paesaggio sonoro di polifonie mediterranee, canti sacri spogliati della loro dimensione religiosa per diventare invocazioni universali. Nicola Fadda guida questo giovane coro contemporaneo verso una prospettiva di purezza formale che trasforma la tradizione orale in atto politico; un lavoro che sfida la frettolosità dello sguardo contemporaneo. Il progetto è interessante e fondato, oltre che sull’idea del canto corale come epifania scenica e che affonda nella storia delle pratiche di fine Novecento da Grotowski in avanti, anche su un rigoroso impianto formale, che si nutre di simmetrie visive nella disposizione dei costumi e dei performer rispetto allo sguardo degli spettatori. Simmetria cercata ma poi rotta per evitare proprio la prevedibilità. Il controluce iniziale nel quale i performer escono dal buio di fondo sala con grande lentezza, guarda chiaramente a ai ritmi coreografici di Sciarroni e ai gesti dilatati in stile Chiara Bersani, ma con un’afflato poetico specifico.

Ph Marina Carluccio

La cifra più interessante di questo esperimento – che guadagnerà con le repliche in pulizia del suono e dell’intreccio fluido delle voci – è proprio la capacità di creare nello spettatore una stranissima sensazione di attesa che, più che con le partiture sonore ha a che fare con il modo in cui vengono offerte, sia dal punto di vista acustico che performativo, con gesti minimali, specifici spazi di riverbero e in alcuni casi al bordo della trance, come in un paio di sequenze monocordi delle cantanti, che sembrano riprodurre l’eco di ammalianti campane.
Bella e molto ben pensata la relazione fra pieni e vuoti, fra suono e silenzio, con una poetica consapevolezza dell’intervallo e della pausa come spazi del poetico. Lo spettatore viene così amabilmente obbligato a quel rispetto del silenzio e alla fine viene coinvolto in una educante pratica di ascolto. È un lavoro che è giusto possa avere nuove opportunità per crescere, circolare e incontrare nuovi e ulteriori pubblici.

Torniamo a casa con la sensazione di aver preso parte a tre esperienze apparentemente distanti ma unite da una stessa urgenza: usare il teatro non per rappresentare ma per agire, per scavare nelle memorie individuali e collettive, per tracciare confini e poi superarli. Qui non si trattava di assistere a spettacoli ma di partecipare a esperienze che continuano a risuonare anche oltre la durata formale delle performance, lasciando nello spettatore non risposte ma domande aperte.

DUNQUE, SIAMO!

da un’idea di Mario Previato
con Fiorella Tommasini, Antonia Bertagnon
allestimento Fioreria Boscolo di Marta
assistenza tecnica Alessio Papa
musiche Hildur Guðnadóttir, Philipp Glass, Matt Haimovitz
produzione Festival Opera Prima

NO

di e con Annalisa Limardi
sound design Saverology
occhio esterno Penelope Morout
con il supporto di Centro Servizi Culturali S.Chiara, AriaTeatro ETS, Pergine Festival, Tuttoteatro.com


VENI
uno studio

con Sebastiano Amidani, Cecilia Braga, Rachele Bonini, Maddalena Borghesi, Margherita Caviezel, Diego Finazzi, Luca Rella, Matilda Morosini, Giorgia Paolillo, Cecilia Uberti Foppa, Ludovica Tagariello, Giulia Villa
ideazione, drammaturgia musicale, cura dei cori Nicola Fadda
assistenza drammaturgica Margherita Caviezel
costumi Ludovica Tagariello
produzione Alot Teatro

Festival Opera Prima, Rovigo | 12 giugno 2025

Il Sicilia Queer filmfest ricorda il “poeta del sottosuolo palermitano”. Intervista a Massimo Verdastro, vincitore del Premio Nino Gennaro

RITA CIRRINCIONE | Primo festival internazionale di cinema lgbt in Sicilia, concepito, nato e realizzato a Palermo nel 2010 in risposta alla domanda di una cultura attenta ai diritti della persona e di un pensiero critico e non omologato sul mondo, da quindici anni il Sicilia Queer filmfest è riuscito a conquistarsi un posto anche nel panorama nazionale e internazionale con nuove visioni e rappresentazioni di una contemporaneità in continuo movimento.
Svoltasi a Palermo dal 25 al 31 maggio 2025, sotto la consueta direzione artistica di Andrea Inzerillo al Cinema De Seta ai Cantieri Culturali alla Zisa, anche questa XV edizione del SQff ha avuto inizio con l’assegnazione del Premio Nino Gennaro.
Intitolato alla memoria del poeta, drammaturgo e attivista corleonese sin dalla prima edizione, il premio viene attribuito “a un/a artista o intellettuale che si sia distinto/a in modo particolare per la sua attività e il suo impegno finalizzati alla diffusione internazionale della cultura queer, alla valorizzazione delle differenze e alla difesa dei diritti delle persone glbt”. Assegnato negli anni passati agli autori teatrali Ricci e Forte, al filosofo spagnolo Preciado, al rapper americano Mikki Blanco, a Massimo Milani e Gino Campanella, storici attivisti palermitani per i diritti lgbti+, allo scrittore statunitense David Leavitt, solo per citare alcuni nomi, il Premio Nino Gennaro quest’anno è andato a Massimo Verdastro.

Attore e regista, Massimo Verdastro ha alle spalle una lunga e intensa attività teatrale, iniziata a Roma nel 1977 con Silvio Benedetto con il quale nell’80 è approdato a Palermo dove ha conosciuto Nino Gennaro durante la stagione del Teatro del Vicolo. Qui frequenta la scuola di teatro Teatès con Michele Perriera, dove si diploma. Ha collaborato successivamente con registi del teatro italiano tra cui Federico Tiezzi, Luca Ronconi, Giancarlo Cauteruccio, e ha ricevuto importanti riconoscimenti come il Premio UBU nel 2002 e il premio ETI nel 2007.

Da anni amorevole custode e ostinato divulgatore dell’opera di Nino Gennaro, Massimo Verdastro come regista e attore ha portato il teatro dell’amico su alcuni dei più importanti palcoscenici italiani dando una visibilità nazionale impensabile per una figura di intellettuale indipendente, insofferente agli ambienti mainstream, che metteva in scena i suoi spettacoli in “luoghi non teatrali” come gli appartamenti o i centri sociali. Grazie a Verdastro opere come Una Divina di Palermo, La via del Sexo, Rosso Liberty, Alla Fine Del Pianeta, Non ho tempo di badare ai miei killer, hanno avuto la possibilità di raggiungere e farsi apprezzare da importanti personalità del mondo del teatro e della critica come Nico Garrone. Quest’ultimo, in una interessante lettura critica di Teatro Madre, intravide nei suoi personaggi alcune “affinità elettive” con i Sei personaggi pirandelliani, echi verghiani nella figura di nonno Teodoro e, nel passaggio dalla società contadina e patriarcale a quella metropolitana e postindustriale che attraversa l’opera di Gennaro, quella mutazione antropologica della società italiana degli anni ’60 e ‘70 profetizzata da Pier Paolo Pasolini, al quale spesso è stato accostato insieme ad autori come Genet, Ginsberg o Koltés.

Nino Gennaro e Maria Di Carlo – ph Mariano La Cavera

Nino Gennaro inizia a Corleone – suo paese natale, terra di mafia e patria di Luciano Liggio – le sue battaglie contro il “tardo mafioso impero”, contro il patriarcato e in difesa dei diritti delle persone omosessuali. Lì fonda un circolo intitolato a Placido Rizzotto, sindacalista corleonese ucciso dalla mafia, e diventa promotore di una serie di iniziative culturali e politiche che portano nel piccolo centro dell’entroterra siciliano temi scomodi e provocatori. Tra i giovani che lo seguono c’è l’allora minorenne Maria Di Carlo, poi divenuta sua compagna di vita fino alla sua morte, che arriva a denunciare e a far condannare il padre padrone, un medico molto conosciuto in paese. Dopo la risonanza mediatica della vicenda, diventata irrespirabile l’aria di Corleone, Gennaro si trasferisce a Palermo dove prosegue le sue lotte “urbane” e la sua militanza nel movimento lgbt, e dove inizia la sua attività poetica e drammaturgica dopo l’incontro con il regista e pittore italo-argentino Silvio Benedetto. Siamo negli anni Ottanta e con un gruppo di attori non professionisti della nuova famiglia “queer” porta il suo Teatro Madre nelle università, nei circoli e nelle case con messinscene artigianali in cui le torce sono le luci di scena e le basi musicali provengono da gracidanti registratori.
Per sua natura refrattario a prendere una forma definita, il teatro/vita di Nino Gennaro, pur esprimendosi per frammenti, in un mix fatto di corpi marginali, lotte, disobbedienza, provocazioni, affetti, riesce a dare vita a un unicum riconoscibile, grazie anche alla sua inconfondibile lingua costellata di neologismi, di termini anglosassoni o dialettali (il suo siciliano distillato è quanto di più lontano da quello maccheronico di Camilleri) che ha dato vita a frasi iconiche diventate manifesto della comunità queer e non solo.
Per origini, momento storico, vissuto biografico e orientamento sessuale, Gennaro ha incarnato laceranti conflitti riuscendo tuttavia a trovare sintesi impossibili e a unire mondi per la sua capacità di guardare il fondo umano al di là di ruoli e maschere. Nino era portatore di istanze collettive ma anche intime e privatissime; era irriverente e dissacrante fino alla ferocia e sapeva essere dolce e poetico; era scomodo ed eversivo ma anche accogliente e inclusivo; era provocatorio e di rottura e allo stesso tempo bisognoso di amore e di pacificazione. Anche la sua vita sessuale fu segnata dal paradosso: onnivora e scandalosa eppure venata da un sottile misticismo che si accentuò negli ultimi anni, già malato di Aids, portandolo a morire quasi in odore di una santità laica.

Incontriamo Massimo Verdastro per commentare il Premio appena ricevuto e per ripercorrere alcune tappe di un viaggio umano e artistico che l’ha visto al fianco dell’amico poeta e drammaturgo, a partire dagli esordi nel mondo teatrale fino agli ultimi giorni di vita prima della sua prematura morte nel 1995.

Massimo Verdastro, in quindici anni dalla sua istituzione, il Premio Nino Gennaro è andato a scrittori, filosofi, registi, fotografi e attivisti di varie nazionalità che hanno promosso la cultura queer. L’assegnazione di quest’anno mi ha fatto pensare a un cerchio che, dopo un giro largo, si chiude in una scelta scontata, quasi dovuta. Sembra che esserti fatto “voce e corpo” di Nino Gennaro finora ti abbia impedito di vincere il Premio Nino Gennaro. Come hai vissuto questo riconoscimento?

Mi ha fatto piacere certamente. A dire il vero non me l’aspettavo. Quando Andrea Inzerillo, direttore del festival, me lo ha comunicato quasi non ci credevo. Voglio ringraziarlo assieme a tutto il Sicilia Queer filmfest per l’accoglienza e l’attenzione che mi hanno riservato. Sono stati giorni davvero belli e intensi. Probabilmente non c’era momento migliore di questo per il conferimento del premio, visto che il 2025 è l’anno in cui ricorrono trenta anni dalla morte di Gennaro e il festival festeggia la quindicesima edizione.

Con Ho un progetto: includervi hai trasformato il momento della premiazione in vera e propria performance in omaggio a Nino chiamando a raccolta figure come quella di Rori Quattrocchi, Massimo Milani, Nando Bagnasco, Silvio Benedetto, Pippo Zimmardi, quasi a ricreare il mondo di Nino. Ci racconti l’idea che hai seguito per costruirla?

Per il giorno della premiazione Andrea Inzerillo mi ha proposto di creare un momento in cui io avrei potuto raccontare al pubblico la storia umana e artistica che mi lega a Nino Gennaro. E così ho voluto accanto a me alcune figure, tra le più significative, che hanno fatto e fanno parte della mia vita: persone amiche molto vicine a Gennaro, che in questi anni mi hanno sostenuto collaborando alla realizzazione dei tanti progetti dedicati a lui. E così si è venuto a creare un momento performativo molto articolato in cui ognuna di queste persone ha offerto una propria testimonianza oltre a proiezioni di immagini e video. Sono riuscito in un’ora e mezza, non dico a dire tutto, sarebbe stato impossibile, ma comunque a restituire alcuni momenti importanti di un percorso umano e artistico che è parte fondante della mia esistenza. È stato bello, davvero emozionante.

Massimo Verdastro riceve il Premio Nino Gennaro da Rori Quattrocchi

Forte della tua importante storia artistica, dopo la sua morte hai portato avanti l’attività di divulgazione dell’opera di Nino Gennaro in modo costante e sistematico. Farti carico di custodirla e promuoverla è stato un preciso progetto sin dall’inizio o è si è sviluppato negli anni? Ci racconti le tappe più importanti? Ci sono stati momenti in cui questa sorta di “identificazione” ti ha pesato?

Credo che si sia sviluppato negli anni. E comunque fin dal debutto del primo spettacolo su testi di Gennaro “Una divina di Palermo”, sentivo che quelle parole avrebbero sfondato la “quarta parete”, e così è stato. Il successo di pubblico e di critica con cui è stato accolto lo spettacolo nelle molte città italiane ha rafforzato poi la mia convinzione e rinnovato l’entusiasmo di voler portare avanti questo progetto teatrale che ancora di più mi univa a Nino. Dopo “Una divina di Palermo” sono nati altri spettacoli tra i quali uno prodotto dal Teatro Biondo Stabile di Palermo, dal titolo “Non ho tempo di badare ai miei killer” nato in collaborazione con Giuseppe Cutino. In questa occasione Gennaro è stato annoverato tra gli autori più significativi di Palermo, insieme a Perriera, Scaldati, Licata. Certo non è stato semplice per me. Si incontrano spesso difficoltà a proporre drammaturgia contemporanea, figuriamoci nel promuovere un autore misconosciuto, ma la convinzione, la perseveranza e la dedizione che sempre ho riposto in questo progetto, alla fine hanno portato ottimi risultati. E poi ci tenevo che questo autore così speciale potesse avere visibilità, che potesse essere conosciuto, letto, apprezzato. Per quanto riguarda il mio lavoro di attore e regista in relazione alla scrittura di Gennaro, non credo che si possa parlare di “identificazione” ma direi piuttosto di interpretazione. Non mi sono identificato in lui, non l’ho sostituito, sono stato il suo “portavoce”, “un medium bello di cose belle” come lui amava definirmi, ho dato corpo e voce alla sua parola, l’ho fatta mia.

Nel tuo periodo palermitano hai fatto parte della famiglia elettiva che Nino – maestro nella (p)ars construens come nella (p)ars destruens – seppe comporre attorno a sé sulle ceneri della famiglia tradizionale che aveva demolito, quasi precorrendo la famiglia queer concettualizzata da Michela Murgia. Come ricordi quegli anni?

Nino Gennaro transfuga da Corleone nel 1978, l’anno in cui ci siamo conosciuti, assieme a Maria Di Carlo e a sua sorella Giusi, creò a Palermo la sua famiglia di elezione in opposizione alla famiglia d’origine con la quale aveva rotto i ponti. Fu quella una scelta liberatoria, ma anche molto dolorosa. Nel testo teatrale “Teatro Madre” che poi è anche il nome della sua compagnia fondata a Palermo nel 1980, Nino nelle vesti di autore e attore assieme agli altri componenti di questa nuova famiglia, che saranno quindi i sei personaggi della pièce, tenta un dialogo di riavvicinamento, di ricucitura con quelle figure parentali da cui si era allontanato, considerandole non più come portatrici di un ruolo, ma semplicemente come persone con i loro desideri, le loro aspirazioni, le loro fragilità. “Teatro Madre” è un’opera bellissima, toccante, commovente. La misi in scena nel 1999 ai Cantieri Culturali della Zisa con il sostegno del Comune di Palermo e la collaborazione della compagnia di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi con la quale lavoravo. Sì, credo che Nino Gennaro abbia anticipato di gran lunga il pensiero che Michela Murgia ha sviluppato in questi ultimi anni. Nino ci ha lasciato trenta anni fa, ma la sua famiglia di elezione è viva, presente, le persone che ne fanno parte: Maria, Giusi, Nino Rocca, Giuliano, sono sempre pronte ad accogliere, aiutare, amare gli altri. Sono onorato di farne parte da sempre. È la mia famiglia palermitana.

In Ho un progetto: includervi è stato previsto un intervento video con Silvio Benedetto che ha aperto un mondo, quello della Palermo della metà degli anni ’70 e degli anni ’80, dell’esperienza pioneristica del teatro negli appartamenti di cui, insieme a Nino Gennaro, Michele Perriera, hai fatto parte. Erano gli anni formidabili del Teatro del Vicolo. Che ricordo ne hai?

Per questa serata ho chiesto a Silvio Benedetto, il grande pittore e regista italo argentino, di mandarci un saluto e così con la generosità che da sempre lo contraddistingue ci ha inviato un video che ha emozionato tutti. Oltre ad esprimere parole di affetto e ammirazione per me e per Nino, ha ricordato gli anni del Teatro del Vicolo. Nell’estate del 1978 arrivai a Palermo per la prima volta con la compagnia teatrale di Silvio Benedetto e dell’attrice Alida Giardina. Soggiornavamo all’Hotel Centrale dove ogni sera facevamo spettacoli nel cortile dell’albergo. Gli spettatori accedevano dall’adiacente Vicolo Marotta. Questi spettacoli ideati e diretti da Benedetto si basavano su testi di Artaud, De Ghelderode, Mishima e prevedevano il coinvolgimento del pubblico. Noi attori e attrici cercavamo di relazionarci con i singoli spettatori creando momenti di dialogo a volte molto intimi. Il teatro diventava un pretesto per parlare di noi, delle nostre vite, dei nostri desideri. Si cercava il contatto con l’altro, l’ascolto reciproco, l’abbraccio. Nino si unì a noi condividendo quell’esperienza così anticonvenzionale, lontana da stereotipi e protezioni. Mettemmo in scena anche un testo di Michele Perriera che poi incontrai proprio durante questi spettacoli. Perriera di lì a poco avrebbe fondato la scuola di teatro Teatès, la prima nel meridione d’Italia, che frequentai e che determinò la mia permanenza a Palermo per i successivi sei anni. Credo che questa mia scelta sia stata qualcosa di unico in quegli anni: abbandonai Roma e la mia famiglia per andare a Palermo a studiare alla scuola di Perriera. Al Teatro del vicolo conobbi anche Letizia Battaglia e Franco Zecchin; un giovanissimo Giovanni Sollima; i fratelli Cuticchio e tante altre persone meravigliose.

A margine della manifestazione c’è stata la presentazione di Caro amico ti scrivevo. Lettere 1991/1995 e altri scritti che raccoglie la corrispondenza tra te e Nino e che mette in luce la sua attività di amanuense degli ultimi anni della sua vita quando scrisse a mano per gli amici oltre duemila esemplari di libretti GioiaAttiva. Questa iniziativa è stata solo una coincidenza o è stata voluta?

Per ricordare Nino Gennaro a trenta anni dalla morte, ho voluto raccogliere nel libro “Caro amico ti scrivevo”, una selezione di sue lettere a me inviate durante il periodo della malattia, tra il 1991 e il 1995, anni in cui Gennaro intraprende un percorso spirituale scrivendo tantissime copie del Libretto Gioiattiva in cui coniuga la filosofia Zen con gli insegnamenti di Francesco d’Assisi, la sapienza dei monaci Sufi con l’esperienza di Madre Teresa di Calcutta, il tutto riverberato di solarità mediterranea. Piuttosto che tenerle chiuse in un cassetto, ho sentito il bisogno di condividerle con coloro che vorranno leggerle, perché credo che, oltre ad essere testimonianza viva di una profonda amicizia accomunata da un progetto teatrale che proprio in quegli anni cominciava a svilupparsi, rivelino uno spessore umano e poetico di rara e lucida intensità; una voce di fine novecento di cui oggi più che mai si sente la mancanza. Il libro si avvale di una bellissima prefazione di Lina Prosa e dei preziosi contributi di Silvio Benedetto, Giuseppe Cutino, Massimo Milani e Andrea Inzerillo oltre ad una serie di fotografie di importanti fotografi: Letizia Battaglia, Riccardo Liberati, Achille Le Pera e altri. Il volume è stato pubblicato da EFG, una coraggiosa casa editrice di Gubbio.

Per concludere, vista la complessità e la vastità della figura di Nino Gennaro e della sua opera, da suo profondo conoscitore come descriveresti in modo epigrafico il suo lascito artistico, culturale e politico?

Resta il suo lavoro di scrittore, le sue opere. La scrittura come atto creativo, come ponte di congiunzione tra sé e l’altro. La parola come atto d’amore. La parola come motore di accoglienza. Concluderei con l’incipit di uno scritto di Nino Gennaro che compare in “Teatro madre” in cui sono raccolti quattro testi teatrali e altri scritti – volume curato da me, con la prefazione di Goffredo Fofi e pubblicato nel 2005 da Editoria & Spettacolo –: “Fate che le vostre case siano luoghi di ascolto per i figli del mondo, se altre case prima della vostra non vi avessero accolto che ne sarebbe di voi ora?”.

HO UN PROGETTO: INCLUDERVI
Massimo Verdastro racconta Nino Gennaro
con Aurora Quattrocchi, Francesca Della Monica, Nando Bagnasco, Massimo Milani, Pippo Zimmardi.
Intervento video di Silvio Benedetto

Cinema De Seta – Cantieri Culturali alla Zisa
24 maggio 2025

L’après-midi d’un ange_primo studio: il lavoro in progress di Loris Petrillo

Foto di Valeria Tomasulo

SOFIA BORDIERI / PAC LAB* | Durante l’ultima settimana di maggio, Scenario Pubblico ha ospitato Loris Petrillo con una residenza artistica per la nuova produzione L’après-midi d’un ange_primo studio. Come è facile evincere dal titolo, il riferimento è a Vaslav Nijinsky, figura di ispirazione per il nuovo progetto, a partire dal quale il coreografo indaga il genio creativo e la relazione con il divino.
Giovedì 29 abbiamo assistito alla restituzione pubblica e, il giorno dopo, abbiamo incontrato il coreografo per dialogare, in sala, e sapere di più di questo nuovo lavoro in creazione.

Cominciamo da un breve sguardo sui venti minuti presentati. Aby Koshy Biju e Yoris Petrillo, in maglia rossa e pantaloni ampi grigi, hanno danzato insieme una frase coreografica andante, tendenzialmente sviluppata al pavimento e a media altezza, frammista con momenti di partnering. Dopo questa breve introduzione, accompagnata da una traccia ritmata, è seguito l’iconico tema de L’après-midi d’un faune di Claude Debussy con un solo di Biju presenza che ben restituisce l’immagine sinuosa e auratica – a tratti femminea – di Nijinsky. Il danzatore ha concluso il momento del fauno con la sua voce e la ripetizione in loop di frasi (costruendo come una litania) su cui si è sovrapposto un monologo di Yoris Petrillo. Senza soluzione di continuità dall’inserto vocale, i corpi agiscono con due oggetti – una spada e un elmo da scherma – generando un momento simbolico di ferita fisica e psicologica.
Come ha raccontato il coreografo a seguire, l’interesse per Nijinsky lo accompagna sin dalla sua formazione. Una figura che per molti e molte è stata fonte di ispirazione, è per Petrillo il punto di partenza drammaturgico e, in particolare, lo sono i diari e la sua idea secondo cui Nijinsky, in realtà, non fosse pazzo.

L’aprés-midi d’un ange e non d’un faune. Perché la scelta di questo titolo?

L’apres-midi d’un faune è un titolo che identifica chiaramente Nijinsky, e pertanto è molto riconoscibile. Ora, la mia fonte d’ispirazione iniziale è stata sì la figura di Nijinsky e, in particolare, i suoi diari – tant’è che uno dei titoli a cui avevamo pensato era proprio Il diario di Nijinsky – ma gli studi preliminari alla creazione mi hanno condotto ad ampliarne l’oggetto, estendendolo alla figura del genio creativo e della sua follia, dell’artista in senso lato. Facendo dunque una commistione di queste due premesse, il “faune” è diventato un “ange”: da un lato, nei suoi diari, Nijinsky manifesta un contatto costante con il divino. Tra le pagine si leggono ripetutamente frasi come “io sono Dio”, “Dio è in me”. Questo continuo enunciare Dio mi ha ricordato l’immagine di un angelo, alla ricerca di un dialogo con il divino; dall’altro lato, il genio, l’artista, allorché venuto meno l’atto creativo e tornato in sé, si sente abbandonato a se stesso, ai suoi pensieri che lo atterrano, ed ecco di nuovo l’angelo, questa volta divenuto angelo caduto, abbandonato dal padre, finito nel dimenticatoio e quindi destinato alla morte, perché ritornato umano. A livello visivo, una delle fonti d’ispirazione da questo punto di vista è stata l’incisione “Melancholia I” di Dürer. Ad ogni modo, non escluderei che il titolo possa modificarsi ancora, con la ripresa della creazione.

Valentin de Boulogne Allegory of Virtuous Love

Certo, la sua carriera è stata piuttosto breve, tuttavia di ineguagliabile impatto. I testi, invece, sono vostre rielaborazioni tratte dai diari?

Sì, abbiamo estrapolato dei concetti ricorrenti come il continuo riferimento a Dio, già citato, ma anche una profonda inquietudine e la preoccupazione di non essere compreso, che affiora continuamente nei suoi diari. A ciò si aggiunge poi l’immanente contraddizione che caratterizza i suoi scritti. Proprio questa sua tendenza a dire tutto e il contrario di tutto nell’arco di poche righe potrebbe essere interpretata come segno indiscutibile della sua pazzia; io la interpreto invece come una parte della sua straordinaria personalità che non è affatto ascrivibile alla follia, intesa in senso medico; al contrario, diventa un tratto peculiare del suo essere artista. È un’idea diffusa quella che vuole l’artista un po’ folle, strano, fuori di testa. Tuttavia, ho sempre trovato sbrigativo questo modo di concepire il genio creativo. Solo perché ho forse un po’ più di coraggio nel dire qualcosa che gli altri non osano dire, questo mi rende un folle?

Nel frammento che ha presentato ieri c’è uno spazio apposito, separato, per la parola. Perché e da dove viene la scelta di rendere quel momento “staccato”, come interno a una bolla?

La mia risposta – l’ho già testato in passato – non piacerà a molti: non sempre ho una motivazione. Una volta conclusa la fase di studio, dopo aver letto ed essermi documentato approfonditamente sull’oggetto della mia creazione, arriva un momento in cui ne prendo le distanze. Quel momento è la fase di creazione in sé, in cui spesso non faccio neanche più riferimento a quello che ho letto. La ragione per me è molto semplice: trovo che l’istinto sia molto importante nel mio lavoro, e preferisco questo approccio rispetto alla tendenza a cercare il risultato migliore, quello che sembra funzionare di più.
Il mio lavoro di coreografo è simile a quello di un pittore: nell’atto creativo esistono solo lui, la sua tela e i suoi colori, e il suo bisogno di partorire l’immagine che lo invade. Sarà poi appannaggio del pubblico preoccuparsi di valutare il livello del quadro che ne verrà fuori. È una mia prerogativa: l’istinto governa il mio processo creativo, perché secondo me la creatività è qualcosa di estremamente fisico, un bisogno fisiologico, ergo istintivo.

Foto di Valeria Tomasulo

La ripetizione in loop di Biju crea una musicalità, quasi una litania. Invece la voce di Yoris si inserisce con una dizione più controllata, con tono quasi enfatico. Ho percepito queste due voci prima sovrapporsi ma poi intrecciarsi.

È molto interessante per me sapere cosa hanno visto gli altri, le loro riflessioni a riguardo. Come quando andiamo al cinema o leggiamo un libro e dopo ne parliamo con gli altri, inevitabilmente le riflessioni, le sensazioni e l’esperienza di ognuno saranno diverse.
Ecco, mi piace molto lasciare questa libertà di interpretazione a chi viene a vedere i miei spettacoli, anche perché, una volta prodotta, l’opera non è più di chi l’ha creata, non è più mia. Per ciò che riguarda la tua riflessione, per me i due danzatori, Aby e Yoris, sono sempre due sfumature della stessa persona, tranne quando Aby indossa la maschera, che coincide con il momento in cui inizia la sua litania. In quel momento avviene una rottura, una separazione, forse quel sovrapponimento di voci di cui parli viene da lì. È interessante che tu abbia percepito a un certo punto le due voci intrecciarsi…

Riguardo ciò, resta la curiosità di capire se durante la creazione capita di identificare Nijinsky in uno dei due corpi oppure, come si diceva, sono sfumature della stessa persona?

Tendenzialmente per me si tratta della stessa persona. Non escludo però che uno dei due, a un certo punto, possa anche rappresentare Diaghilev, figura che ha avuto un grosso impatto nella vita di Nijinsky.Nel portare a termine il progetto e arrivare alla versione integrale, forse ci sarà anche l’inserimento di un terzo interprete, probabilmente femminile, ma non ho ancora deciso. In ogni caso, anche la terza figura non rappresenterà necessariamente una delle persone che gravitano attorno alla vita di Nijinsky, ma è certamente interessante poter condurre la creazione su chiavi di lettura differenti.

 

 

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Un’altra linea d’ombra: CollettivO CineticO riscrive [age] per Bonsai Festival

OLINDO RAMPIN | Non è una semplice palestra quella che nella prima periferia di Ferrara ospita il riallestimento site specific di <age>, per festeggiare il 18° del CollettivO CineticO nell’ambito del Bonsai Festival, organizzato da Ferrara Off. È quasi un palasport, e ne ha per gli adulti di oggi la forza evocativa del passato: funzionale cornice dentro cui questo ritratto di nove adolescenti di oggi rigenera negli spettatori la loro adolescenza, specchiandosi empaticamente in essa, alla fine della performance. La gradinata, il parquet, le vetrate opacizzate che schermano a fatica questo sole spietato del climate change, il tabellone elettronico sulla parete in alto con il punteggio di Locali e Ospiti, le protezioni in gommapiuma arrotolata delle strutture metalliche, le gabbie piene di palloni, i canestri mobili per il minibasket.

È lo spazio-tempo ideale per una creazione, diretta e coreografata da Francesca Pennini, anche drammaturga con Angelo Pedroni, che rinviene un nuovo nucleo di interesse nel suo valore documentario di una linea d’ombra, che diversamente da quella del romanzo di Conrad racconta il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza, invece che dalla giovinezza alla maturità. Il tempo passato dalla prima rappresentazione, con le trasformazioni eccezionali che hanno accompagnato questo decennio, ha aggiunto un sovrappiù di significazioni: germi probabilmente già soggiacenti a questa creazione. Age è età nel senso di anni, ma è anche era, periodo storico, e questo doppio senso del titolo dello spettacolo sembra particolarmente pertinente nel tempo presente.

ph Cinzia Campana

Ma è forse uno spettacolo questo che sta iniziando? L’apparizione di Angelo Pedroni, capelli e barba rossastri non coltivati, occhi chiari che sembrano non battere mai le palpebre, produce una lieve, piacevole ipnosi. È un giovane monaco in t-shirt e chinos che dispone metodicamente, come se stesse preparando la cerimonia del tè, umili oggetti componibili che serviranno a officiare un cerimoniale. Due panchine vengono montate e unite per ospitare nove adolescenti, cinque femmine e quattro maschi: Nicola Cipriano, Piero Cocca, Francesco Gelli, Giulio Mano, Beatrice Monesi, Alice Ada Petrini, Nicole Raisa, Sofia Russo, Adele Verri. Di fronte ai quali siede lui, Pedroni, come loro ambiguamente muto, come loro inespressivo, con lo stesso strano passo tra marionettistico, marziale e indolente. Come una piccola compagnia di esseri indefiniti coinvolti in un gioco in cui non si ride, almeno per il momento.

Lui è seduto davanti a un tavolinetto che in questo campo da basket non può non ricordare quello dei giudici della pallacanestro. Il computer portatile contiene la salmodia drammaturgica che verrà proiettata sulla parete, senza essere recitata, frutto di un questionario che negli anni ha raggiunto numeri da saggio sociologico. Un brevissimo passaggio bachiano, continuamente ripetuto, evoca la sigla di Superquark. Del resto anche questo è un viaggio nell’etologia animale: studia i sapiens in un’età precisa e decisiva per la loro vita futura. Infine, due gong, o meglio campanelli da reception d’hotel, di diversa ampiezza, per mostrare, con due funzioni diverse, di azione e inazione, la loro natura di esemplari, di oggetti di studio e di verifica.
Non può essere causale che una compagnia che ha fatto della cinesi, del movimento, la cifra del proprio teatro fin dal nome, parta da una estremizzazione dell’anti-cinesi, con cui viene sottoscritto un non semplice, ma benaccetto patto con lo spettatore, che prevede l’accettazione attiva di una lentezza prossima all’immobilità.

ph Cinzia Campana

Questi nove esemplari di adolescenti sono gli agenti di una ricerca che per certi versi reinventa artisticamente i metodi della psicologia evolutiva e della pedagogia novecentesca. Non a caso ogni sequenza performativa collega una umoristica tassonomia con un correlato tag comportamentale. I performer rispondono a uno stimolo, una frase che appare sulla parete, proiettata dal “libriccino magico” governato da Pedroni. La loro reazione ne definirà il comportamento. Habitat, esemplari e comportamento: sì, siamo di fronte a un game etologico, in cui la partecipazione soggettiva dei performer aumenterà gradualmente, passando da un iniziale amorfismo, da una assenza di espressività corporea, a una crescente creatività individuale. Sono evidenti anche echi della psicologia della Gestalt in questa idea che dopo una fase di tentativi si viene definendo un’intuizione: l’insight.

ph Cinzia Campana

È impossibile non pensare, nella prima parte del lavoro, a una prolessi distopica di un futuro popolato di esemplari di un nuovo genere, post-umano, parzialmente automatizzato e catalettico, integrato con l’intelligenza artificiale. Invece, nella seconda parte, l’atlante antropologico disegnato dalle intuizioni degli adolescenti, a cui non per nulla nei crediti si intestano l’azione e la creazione della performance, originato dalle loro essenziali scritture corporee, dalle geometrie e dalle composizioni di immagini e di lettere che creano con le loro figure, ci mette di fronte a una comunità coesa, concentrata e credibile di volti e corpi che nulla hanno di teatralmente sgrammaticato o di precario. Emerge, al contrario, una sorprendente capacità di gestione del corpo sulla scena o, più ancora, della propria presenza mentale davanti allo sguardo voyeuristico degli spettatori. Attraverso un itinerario esperienziale questi giovani “organismi animali umani” pervengono a una zona di contatto con il loro ambiente e soprattutto a percepire l’intenzionalità di questo contatto, a generare i valori estetici che ne possono germogliare.

ph Cinzia Campana

Sicché, alla fine di questa “partita” iniziatica, anche gli spettatori acquistano una nuova percezione del carattere, nei performer, della persona e del personaggio. Il game ingaggia così anche il pubblico, che da uno sguardo un po’ imbarazzato e umoristico trascorre a uno sguardo più attivo, empatico.
È, anche questa, un’ intuizione, che fa vedere con occhi nuovi i vari attori del rito. Il ragazzo con i capelli corti, alto, con un cappellino che somiglia a una papalina, la canottiera bianca e i pantaloncini cortissimi. Il compagno con i capelli lisci e lunghi come un rocker britannico dei Settanta, felpa rosa, collana di perle e apparecchio ortodontico, i jeans tenuti su da uno spago fluorescente. La ragazza con l’abito lungo un po’ middle-aged e l’acconciatura anti-glamour, corretta però da bellicosi stivaletti da pugile. La ragazza con i sopraccigli alla Frida Kahlo e negli occhi uno sguardo attonito e lontano, da fille sauvage; l’altra con i capelli color mogano e un “costume” tra dark e rockabilly giapponese; quella con la chioma raccolta con le orecchie alla Minnie, il corpetto aderente Adidas, la pancia nuda e la giacca di acetato color glicine e verde. Ci vengono ora incontro, loro e i loro compagni di scena, come usciti dal bozzolo e nuovamente nati. E così anche l’officiante, Angelo Pedroni, smette infine la sua maschera inespressiva e accenna a un sorriso di compiacimento e gratitudine.

<AGE>
Site Specific

regia e coreografia Francesca Pennini
drammaturgia Angelo Pedroni, Francesca Pennini
azione e creazione Nicola Cipriano, Piero Cocca, Francesco Gelli, Giulio Mano, Beatrice Monesi, Alice Ada Petrini, Nicole Raisa, Sofia Russo, Adele Verri
cura e organizzazione Matilde Buzzoni, Carmine Parise
co-produzione CollettivO CineticO, Fondazione Romaeuropa, Centrale Fies Art Work Space, Fondazione Sipario Toscana
con il supporto di Goldonetta Firenze, Ferrara Off Teatro, Fondazione Armunia, L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale Centro di Residenza Emilia-Romagna

Palestra Bonati, Ferrara | 31 maggio 2025

Se Winnie vivesse nel Rione Sanità: per la prima volta a Roma il monologo Felicissima Jurnata

LAURA NOVELLI | Immersi in un vestito-montagna a forma di cono che lascia intravedere la sagoma di qualche oggetto al suo interno, il volto e il busto di una donna affiorano dal buio bluastro della scena mentre voci, grida, canzoni, clacson, motori riempiono lo spazio di un vitalismo concreto e materico. Si resta rapiti. Assorti. Catturati da un tappeto sonoro pullulante di echi partenopei i quali sembrano quasi collidere con la sacralità ancora misteriosa di quel catafalco/mondo che eleva e insieme imprigiona.

È bastato qualche minuto di spettacolo per avere la riprova di quanto il successo di Felicissima Jurnata, monologo del collettivo napoletano Putéca Celidònia ispirato a Giorni Felici di Samuel Beckett e insignito di numerosi premi importanti, non sia solo un successo più che meritato ma anche – e soprattutto – un successo sintomatico di quella preziosa “lentezza” con cui si costruiscono i progetti artistici più coesi, più originali, più poetici e più duraturi. Il lavoro, che PAC ha raccontato nel dicembre del 2023 con una corposa intervista di Ilena Ambrosio vanta, infatti, una genesi molto lunga e, dopo aver girato l’Italia per diverse stagioni, è finalmente approdato a Roma  al Teatro Vascello qualche settimana fa.

Si resta rapiti, dicevamo. Difficile stabilire, però, quale elemento della composizione scenica colpisca l’attenzione di noi spettatori prima e più degli altri. Cerchiamo Winnie, “interrata fin sopra alla vita”, al centro di un monticello di erba inaridita con l’ombrellino che la ripara dal sole e la grande sporta nera che contiene tutta la sua vita. E invece troviamo Lina, interpretata da una superba Antonella Morea (attrice di solida tradizone napoletana, candidata all’Ubu nel 2023 proprio per questo ruolo). Lina ha i capelli scuri, un’espressività passionale, la voce dirompente; è la Winnie dei bassi, trascorre la sua esistenza tra i vicoli del Rione Sanità, in un casa-trappola piccola e buia che le toglie il respiro. Eppure il suo monologo lo recita dall’alto: statuaria presenza viva di un dispositivo scenico che, ideato da Rosita Vallefuoco (nomination all’Ubu 2023 anche per lei), ci costringe a guardare in su e poi, poco a poco, ad abbassare lo sguardo per carpire le viscere di quel vulcano-mondo che, in tutta la sua altezza, racconta – per ossimoro – un luogo di sprofondamento, di radicamento, di resilienza.

Poi, cerchiamo Willie, “sdraiato per terra” a dormire poco lontano dalla moglie, e invece troviamo Lello, un omone silenzioso e cauto cui Dario Rea regala una prova di raro equilibrio, indaffarato ad aggiustare una radio, a mettere ordine, ad accendere luci, ad ascoltare in silenzio il logorroico bisogno di dire della donna. Si muove in penombra, dentro la trama di fili che lo lega alla moglie, a quel luogo, a quelle tante voci che avvolgono il loro stare in un caos metropolitano restituito con vivida nettezza dal suono perfetto di Hubert Westkemper.
Ed ecco che questo “stare” assume i lineamenti di una consapevolezza quasi sacra, condivisa con Pasqualotto, Angela, Assunta e altri abitanti di un quartiere ad altissima densità dove le vite si fondono, le abitazioni affacciano direttamente sulle strade e le strade stesse costringono a una prossimità quotidiana con gli altri. A questi abitanti il collettivo partenopeo – formatosi nel 2018 e attivo proprio nel Rione Sanità dove gestisce due spazi confiscati alla camorra – ha dedicato una ricerca di stampo sociologico e antropologico votata a comprendere direttamente sul campo cosa significhi vivere nei bassi. Ne sono derivate preziose testimonianze documentarie che restituiscono le coloriture più varie di un’umanità caparbiamente e orgogliosamente inchiodata alla sua condizione. Tanto che la “felicissima jurnata” del titolo, al di là di Beckett e passando per Beckett, sembra quasi un grido. Una pulsione luminosa. Un imperativo categorico rassegnato ma non per questo insofferente o ribelle.
Dunque, il cuore di questo prezioso monologo sta proprio nell’idea fondativa che ne informa la drammaturgia (la firma Emanuele D’Errico, anche regista): connettere insieme la rarefatta e disarmante angoscia esistenziale del grande autore irlandese – in quella che è una delle sue opere più desolate e sconsolate – al sanguigno dinamismo di un popolo capace, malgrado le difficoltà e dentro le difficoltà, di trovare un’anima, un senso, un destino. Certamente l’assolo di Lina/Morea attraversa la tragedia, la malinconia, il chiaroscuro. Ma dentro vi vibra un’intera geografia di sentimenti che, complici le belle musiche di Tommy Grieco, appartiene a Napoli e solo a Napoli.

L’aver messo insieme due lingue così apparentemente lontane è il grande merito di questo intenso lavoro. E il risultato non può che dirsi straordinario. Winnie è insabbiata nel suo immobilismo e vi sprofonda sempre di più mentre il giorno passa e gli oggetti sbiadiscono. Anche Lina è inchiodata nel suo basso, non può muoversi dentro quel vestito-carcere (che per molti versi ricorda l’abito da sposa di Manuela Lo Sicco in Carnezzeria di Emma Dante o quello circense di Manuela Cescon nella Giulietta felliniana di Valter Malosti), ma forse neanche vorrebbe farlo. Anche lei viaggia nei ricordi, fa continui richiami a quel marito “ctonio” portando l’attenzione sulle cose, sul quotidiano, sulla casa. E Lello la asseconda a fatica. Sembra malato. Eppure si avverte un attaccamento sentimentale tra i due, un amore stanco ma ancora chiamato a unire, a tessere fili.
Alto e basso si congiungono. Cielo e terra stanno insieme. Sempre e comunque. E sarà così per tutte le “felicissime jurnate” a venire.

FELICISSIMA JURNATA

drammaturgia e regia Emanuele D’Errico
con Antonella Morea Dario Rea
e con le voci delle donne e degli uomini del Rione Sanità
musiche originali Tommy Grieco
suono Hubert Westkemper
scene Rosita Vallefuoco
costumi Rosario Martone
luci Desideria Angeloni
produzione Cranpi, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Putéca Celidònia
in collaborazione con La Corte Ospitale – Forever Young 2022
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo e di C.RE.A.RE Campania Centro di residenze della Regione Campania

Roma, Teatro Vascello | 16 maggio 2025

La Biennale Teatro di Dafoe: dal troppo umano al transumano fino al buco nero del digitale

RENZO FRANCABANDERA | Ha preso il via lo scorso weekend la Biennale Teatro 2025, sotto la direzione artistica di Willem Dafoe, un’edizione dal titolo Theatre is Body – Body is Poetry, dedicata a un’esplorazione del teatro come corpo, poesia e rituale, con un focus sulla presenza fisica e sull’essenza performativa dell’arte scenica. Dafoe ha concepito la rassegna attorno a un manifesto che celebra l’intelligenza del corpo e la sua capacità di creare connessioni immediate con il pubblico, soprattutto in un’era dominata dal virtuale: “Il corpo, la sua presenza, la sua intelligenza oltre il nostro controllo, è il cuore pulsante del teatro. Guida l’incontro tra palco e pubblico, creando una comunità istantanea”.
Questa visione si traduce in spettacoli che privilegiano la fisicità, la riflessione sul corpo e sulla migrazione stessa della pratica attorale dal corpo alla digitalità, e di cui si fanno rappresentazione esplicita due delle maggiori proposte del primo weekend di programmazione, ovvero Call Me Paris di Thönnes e Symphony of Rats di The Wooster Group, di cui Dafoe fu cofondatore e che viene premiato con il Leone d’Oro a Elisabeth LeCompte.
Sempre a quel gruppo di ricerca e in particolare a Richard Foreman è dedicato anche No Title (An Experiment), performance di Dafoe con Simonetta Solder .
È un’edizione che guarda ai Maestri che hanno ispirato il teatro degli ultimi 50 anni, da Eugenio Barba (presente con una versione made in Odin dell’Amleto) a Ronconi, presente con una mostra fotografica sulla mitica edizione di Biennale 1975; fino ai maestri contemporanei che si avvicinano ai nuovi linguaggi: la sezione “Today’s Maestros” include I mangiatori di patate di Romeo Castellucci (site-specific sull’isola del Lazzaretto Vecchio). Die Seherin di Milo Rau, con Ursina Lardi, Changes di Thomas Ostermeier in prima italiana e nuovi registi della scena internazionale come Yana Eva Thönnes con Call Me Paris di cui parleremo di seguito, e Anthony Nikolchev (The (Un)Double), che esplorano temi come identità e violenza digitale.

Attraversiamo piacevolmente la cerimonia che trasforma in Leonessa dorata Elizabeth LeCompte, fondatrice di The Wooster Group: presentata dall’emozionato Willem Dafoe, suo ex compagno di vita e d’arte, che viene da lei persino giocosamente rimbrottato sulla postura fisica da tenere a inizio cerimonia, la regista, che neanche qui perde il gusto di dirigere la scena, fautrice dell’avanguardia teatrale USA degli anni Ottanta e Novanta, incanta per spirito e presenza. Buttafuoco premia la dama dello sperimentalismo scenico americano che in 50 e più anni ha rivoluzionato il teatro d’Oltreoceano, unendo classici, tecnologia e politica in opere come Hamlet e LSD. Nel discorso, allegro e scanzonato, LeCompte ha dedicato il premio alla compagnia, definendo il loro lavoro “un esperimento di corpi, macchine e fantasmi”. La cerimonia si è conclusa con un’intervista del giornalista radiofonico Lorenzo Pavolini, celebrando una pioniera che ha ispirato generazioni di sperimentatori teatrali, accompagnata nella brillante e ironica conversazione da Kate Valk, co-regista di questa ripresa di Symphony of Rats, spettacolo del 2024 proposto qui a Venezia in prima europea.

Nel pomeriggio di Domenica 1 giugno, partiamo dal Piccolo Arsenale con Yana Eva Thönnes, regista tedesca classe 1990 già nota per le sue sperimentazioni post-human e neoliberali con il collettivo The Agency, che ci consegna Call Me Paris, prima assoluta qui alla Biennale Teatro 2025 (poi il 21 e 22 marzo 2026 al Teatro Arena del Sole di Bologna con ERT che coproduce).
Si tratta di un’opera che è insieme memoir teatrale, autopsia generazionale e atto d’accusa contro la violenza dell’ipervisibilità.
Attraverso il dispositivo del ‘doppelgänger’ (il doppio, il sosia, il gemello), Thönnes sovrappone due biografie apparentemente distanti ma unite da un trauma speculare: quella di Paris Hilton, it-girl globale il cui sex-tape 1 Night in Paris (2004) divenne il primo scandalo pornografico virale dell’era pre-social, e quella di un’anonima adolescente di Bergisch Gladbach, Germania, soprannominata “Paris” per via di una somiglianza fisica con la più celebre icona, e vittima di una simile appropriazione indebita dell’intimità.
La scena, progettata da Katharina Pia Schütz come una stanza da letto lussuosa in tonalità Barbie-core (rosa satinato, letto rotondo), si trasformerà di fatto in un set cinematografico, smascherando la regia occulta che trasforma l’esperienza femminile in merce visiva. Le quattro ottime performer (Jule Böwe, Holger Bülow, Ruth Rosenfeld, Alina Stiegler) incarnano non solo le due Paris (quella vera e quella di borgata, più imbolsita dell’originale e in pigiama) ma anche le proiezioni collettive che le hanno ridotte a icone senza agenzia: il gioco di specchi tra Hilton e la sua sosia tedesca rivela come, negli anni Duemila, ogni piccolo paese avesse “la sua Paris”, sacrificata all’altare della pornografia amatoriale e del gossip digitale. Thönnes dissocia abilmente i piani temporali: gli stessi anni che per Hilton furono l’apice della fama (The Simple Life, i profumi da due miliardi di dollari) coincidono con l’incubo della ragazza di Bergisch Gladbach, il cui corpo diventa merce di scambio in una rete di violenza domestica e digitale.
Thönnes adotta un approccio chirurgico, definendo lo spettacolo “teatro anatomico”: sezionando il fenomeno Hilton, ne estrae il nucleo traumatico — la non-consensualità del sex-tape, il sessismo strutturale che trasformò una vittima in “sgualdrina” mentre assolveva l’ex fidanzato Rick Salomon. La regista riprende le tecniche immersive sviluppate con The Agency (come in Perfect Romance, 2018) per creare a più riprese un effetto di straniamento: prima una serie di flash luminosi, poi i tecnici di scena che irrompono verso il finale dello spettacolo quasi a interrompere le riprese e ripulire il set, espongono in controluce drammaturgica la macchina narrativa che costruisce il “personaggio Paris”, sia esso la star o l’anonima adolescente.

Il design sonoro di Ville Haimala amplifica questo cortocircuito, alternando un sottile e opprimente ambiente interno a una seconda parte di voci off che raccontano l’incontro fra l’involontaria star di periferia e il suo aguzzino, mentre i costumi di Elke von Sivers giocano con l’uniforme della femminilità tossica (tute Juicy Couture, parrucche bionde platinate che rendono tutti i personaggi in scena simili, replicanti di un modello-bambola).
La regista individua negli anni Duemila — definiti “l’ultimo decennio davvero misogino” prima del #MeToo — l’origine della sessualizzazione algoritmica dei corpi femminili. Thönnes mostra come Hilton, pur essendo un prodotto di quell’epoca, ne sia stata anche prigioniera: il memoir teatrale cita il documentario This Is Paris (2020), in cui l’ereditiera rivela gli abusi subiti alla Provo Canyon School, suggerendo che la sua iperfemminilità performativa fosse una maschera per sopravvivere al trauma. Parallelamente, la sosia tedesca rappresenta le Paris senza privilegi, quelle il cui corpo è stato espropriato senza la possibilità di trasformare il dolore in capitale simbolico, che la giovane alla fine proverà a rivendicare come risarcimento per quanto subito, in un incontro di cui ascoltiamo solo il sonoro off, come una registrazione nascosta, mentre in scena la ragazza si è trasformata in fatina.
Se la drammaturgia di Nils Haarmann è efficace nel mostrare la sistematicità della violenza di genere talvolta cade in una dicotomia semplificata: Hilton viene quasi santificata come vittima, mentre la complessità del suo personaggio — che ha sfruttato la notorietà del sex-tape per costruire il suo brand — rimane in ombra. Tuttavia, la scelta di usare il tedesco e l’inglese (con sottotitoli) crea un frattura linguistica che riflette l’irriducibilità del trauma a una singola narrazione.

Call Me Paris è un esperimento di teatro politico, che trasforma il palco in una ‘forensic room’ dove sezionare i cadaveri digitali dell’era pre-#MeToo. Manca forse di ironia (elemento che invece ha caratterizzato alcuni lavori precedente di Thönnes) ma guadagna in potenza eversiva, specialmente quando smonta il mito dell'”empowerment sessuale” come copertura per nuove forme di sfruttamento. Un monito necessario, in un’epoca in cui il revenge porn e l’AI deepfake ripropongono, in forme ancor più subdole, la stessa violenza che colpì Paris Hilton e la sua sosia tedesca.

Il Symphony of Rats che Elizabeth LeCompte e Kate Valk presentano all’Arsenale non è una semplice rivisitazione dell’opera di Richard Foreman del 1988 (che fu una delle creazioni di maggior successo per The Wooster Group) ma un vero e proprio palinsesto stratificato dove convivono la memoria del Performing Garage newyorkese e l’immaginario algoritmico contemporaneo. Se lo spettacolo originale, nato dalla collaborazione tra The Wooster Group e l’Ontological-Hysteric Theater, era un esercizio di “teatro come macchina metafisica” (per usare le parole di Foreman), questa nuova versione – definita dalle registe “un musical lisergico” – trasforma quel dispositivo in un’installazione live sull’impotenza politica nell’era dell’iperconnessione.
Lo spettacolo del 1988 ruotava attorno alla figura di un Presidente degli Stati Uniti grottesco, intrappolato in un labirinto di segni dove linguaggio e potere si neutralizzavano a vicenda. Quella figura ritorna nel remake ma, mentre Foreman lavorava su un’astrazione quasi beckettiana (“un uomo in una stanza che cerca di capire se esiste”), LeCompte e Valk inseriscono il personaggio (interpretato da Ari Fliakos con occhiali alla Top Gun e un giubbotto giallo fluorescente che ricorda quasi Star Trek e gli astronauti sull’Enterprise) in un ecosistema digitale. In primo piano un lungo tavolo ingombro di apparecchiature – lavagne, schermi OLED e una punching ball – ricrea la topografia caotica degli studi del Wooster Group, ma qui ogni oggetto è interfaccia: i dialoghi con IA (voci distorte che rispondono a comandi vocali), i Mukbang di YouTube (trasmissioni coreane online in cui una persona mangia del cibo mentre interagisce con il proprio pubblico) proiettati sullo sfondo diventano metafore del reale decostruito dallo streaming.

La colonna greca mozzata e sormontata da un pallone da basket – immagine simbolo di questa produzione – sintetizza l’approccio: un reperto archeologico (il classicismo foremaniano) ibridato con la cultura pop (il basket come simbolo del sogno americano). Non a caso LeCompte, nel discorso per il Leone d’Oro, ha parlato di “sedute spiritiche con i fantasmi del teatro”, rivelando come il lavoro sul testo sia stato un atto di ‘mediumship’ più che di regia.
Foreman aveva concepito l’opera come una “sinfonia” di non-sense, ma il Wooster Group ne ha esasperato la musicalità trasformandola in un concerto post-punk. Le tre canzoni inserite (Door Song, Human Feelings Song, Ice Cream Song) con testi originali di Foreman ma arrangiate da Suzzy Roche, creano un cortocircuito tra il vaudeville e l’autotune. Quando il Presidente canta “You call it music. I call it delivery mystification” davanti a un microfono che ne altera la voce in tempo reale, lo spettacolo raggiunge il suo apice: la democrazia come distorsione digitale, dove ogni discorso è processato da algoritmi. Non c’è quindi bisogno che questo presidente assomigli a nessun presidente reale, che la satira si impersonifichi. Siamo in un ambiente letteralmente etimologicamente “saturo” (l’etimologia del termine satira – dal latino “satura lanx”, il piatto ricolmo di primizie offerto agli dèi – trova una sorprendente corrispondenza nella scenografia ipertrofica di Symphony of Rats). Come nel vaso rituale traboccante di offerte eterogenee, lo spazio ideato da Elizabeth LeCompte e Kate Valk è un catalogo di oggetti disparati: lavagne, palloni da basket, punching bag, schermi OLED, colonne greche mozzate. Questa accumulazione non è casuale: riattiva la radice stessa della satira come genere della sovrabbondanza critica, dove l’affastellamento di segni vuole essere strumento di decostruzione del potere.

la scena di Symphony of Rats

Se nella Roma antica la satira mescolava linguaggi e registri per colpire le ipocrisie sociali, oggi il Wooster Group seppellisce il testo foremaniano sotto stratificazioni tecnologiche, dalle Voci distorte da IA che trasformano i monologhi del Presidente in vocaloid grotteschi, parodia dell’autorità svuotata di senso, agli schermi che moltiplicano corpi (come nel video-mukbang ispirato a YouTube), in una continua citazione dell’horror vacui della cultura digitale, in cui noi spettatori non capiamo più su quale piano narrativo ci troviamo e quale vicenda sia “reale”, ammesso che di reale si possa parlare.
In un collasso visivo continuo tra alto e basso, tra classico e trash, il disordine formale anche qui vuole destabilizzare, con un overload di segni che replica il cortocircuito della comunicazione contemporanea, dove l’informazione si fa rumore bianco.
Non a caso, il Presidente (Ari Fliakos) è un burattino che recita cliché da tweet mentre algoritmi ne manipolano la voce. Le canzoni di Suzzy Roche interrompono di tanto in tanto il flusso della vicenda surreale con una serie di melodie pop che ricordano le “cantica” della satira menippea, mentre l’IA trasforma il testo in nonsense. Anche gli attori (Niall Cunningham, Jim Fletcher) sono “appendici” della scenografia, come i satiri del dramma antico, ibridi tra umano e meccanico.
Nell’era dei deepfake, la satira di Wooster Group adotta e cita le tecnologie di sorveglianza (face tracking, voice modulation) per mostrarne l’assurdità. L’uso dell’IA non è mera sperimentazione tecnologica, come già in The B-Side (2016), il gruppo trasforma gli strumenti digitali in complici della narrazione: i sottotitoli proiettati (in italiano e inglese) a volte anticipano, a volte contraddicono i dialoghi, mentre i video di Yudam Hyung Seok Jeon propongono mappe neurali generative, un omino stilizzato che diventa estensione del carro dell’Orsa Maggiore. Siamo immersi nella “psico-robotica” citata nel programma di sala: se nel 1988 il potere si esercitava attraverso il controllo linguistico, oggi passa dalla manipolazione dell’attenzione: una satira post-digitale che ha l’intenzione di riattivare la forza originaria del genere, il rito caotico per esorcizzare il potere. Se Foreman nel 1988 scriveva “il teatro è un incidente che ci ricorda cosa abbiamo dimenticato di aver dimenticato”, qui il piatto troppo pieno si rovescia sugli spettatori, costringendoli a fare i conti con il disordine che hanno normalizzato.

Se del costume design di Antonia Belt che veste il Presidente come un Tom Cruise cyberpunk abbiamo già detto, e così pure del sound design di Eric Sluyter che usa il doppiaggio con voci fake e frequenze subacquee per simulare l’effetto “voce di Dio” dei video governativi, ulteriore effetto da wunderkammer transumana arriva dal lighting di Jennifer Tipton, che illumina i molti oggetti presenti in scena quasi come reliquie in un museo post-apocalittico.
La scelta di mantenere il testo integrale ma di frammentarlo in unità metriche (con intermezzi musicali e inserti video) trasforma lo spettacolo in un autoritratto del Wooster Group. Gli oggetti di scena – dalla sedia a rotelle riciclata da Brace Up! (1991) al mappamondo usato in Hamlet (2007) – sono citazioni della loro storia (come se questa ripresa fosse una sorta di narrazione di un percorso artistico lungo quarant’anni), mentre il Presidente, più che riferimento politico a qualcuno di esplicito, diventa paradossalmente una maschera per riflettere sul ruolo dell’artista in un mondo dominato dagli algoritmi. Insomma, si poteva pensare a una parodia di un qualche Trump ringiovanito  e invece in controluce si può intuire che la protagonista sia la manipolazione, la violenza sul codice teatrale stesso. E che la vittima di questa parodia dell’onnipotenza della rappresentazione sia l’attore stesso. Significativamente, Foreman – di solito iper-controllore delle sue opere – ha concesso piena libertà di rifare, di manipolare: “fatelo irriconoscibile, perchè voglio essere in prima fila a gridare: il mio era diverso!”, come ha confessato Lecompte durante la cerimonia di premiazione “da leonessa”.


In fondo questa versione, dall’estetica così poco europea e che quindi risulta interessante dal punto di vista critico, oltre il tormentone del piaciuto/non piaciuto, ci è utile per immaginare un nuovo teatro dell’assurdo ibridato e digitale.
Symphony of Rats non tradisce lo spirito originale: era già un’opera sulla perdita di controllo, e la nuova versione da questo punto di vista ne radicalizza il presupposto: difficile acciuffare un bandolo e tenerlo saldo. Qualche spettatore, all’uscita, scava nelle sue reminiscenze, invocando i lari dell’assurdo, la trimurti Beckett-Ionesco-Genet. Si cercano appigli in qualcosa di conosciuto, per decodificare questa nuova sensazione di vuoto, di noia e smarrimento così infarcita di dolby surround e visione digitale.
A conti fatti, di quei protocolli alcune consistenze vengono convocate: dai dialoghi circolari alla trama non lineare, con un’atmosfera di disperazione meta (e pata)fisica. Si ripetono frasi vuote, che rivelano l’alienazione del linguaggio, dentro uno scenario sociale che si intravede, fatto di conformismo e totalitarismo, con un medico che assomiglia tanto allo scienziato pazzo di Ritorno al futuro.
L’uso di situazioni grottesche e ripetizioni evidenziano il nonsenso di una scena piena di stimoli da iperconnessione. Fatichiamo a pensarci, ma effettivamente assomiglia alla vita quotidiana, ancor più del teatro di Ionesco, che non a caso rifiutava l’etichetta di “assurdo”, preferendo “teatro del non-senso”. Ed effettivamente, un po’ come in Genet, i personaggi in scena, abitanti di una sorta di stazione spaziale, recitano ruoli di piccolo potere in un gioco che ricorda quasi il finale di Arancia Meccanica, esplorando identità fluide e dinamiche di dominazione. Quando il Presidente/Fliakos imita il discorso del Grande dittatore di Chaplin giocando a palla con il globo terrestre, la citazione non è solo politica: è una riflessione sul teatro come ultimo spazio dove esercitare la possibilità di incidere sulla realtà ormai impossibile altrove.
A distanza di 37 anni, questo Symphony of Rats dimostra che l’avanguardia non intende invecchiare ma si vuole  riprogrammare. Mentre la colonna mozzata ricorda che ogni classico è un frammento da riassemblare, gli schermi OLED dimostrano che persino i topi (metafora foremaniana dell’umanità) hanno oggi un doppio digitale. In un’epoca di deepfake e guerre memetiche, la “sinfonia” diventa il soundrack perfetto: un caos organizzato dove, come scriveva Foreman, “l’unica verità è la vertigine”.

CALL ME PARIS

Testo e regia Yana Eva Thönnes
Con Jule Böwe, Holger Bülow, Ruth Rosenfeld, Alina Stiegler
Scenografia Katharina Pia Schütz
Costumi Elke von Sivers
Design sonoro Ville Haimala
Drammaturgia Nils Haarmann
Design luci Marcel Kirsten
Coproduzione La Biennale di Venezia, Schaubühne Berlin, Emilia Romagna Teatro ERT – Teatro Nazionale
Con il supporto di Heinz und Heide Dürr Stiftung
Lingue Tedesco, Inglese,
Durata 100’ (prima assoluta)

SYMPHONY OF RATS

Testo Richard Foreman
Regia Elizabeth LeCompte, Kate Valk
Creato da The Wooster Group
Con Niall Cunningham, Jim Fletcher, Ari Fliakos, Andrew Maillet, Tavish Miller, Michaela Murphy, Guillermo Resto
Scenografia Elizabeth LeCompte
Design sonoro e musica Eric Sluyter
Design video Yudam Hyung Seok Jeon
Design luci Jennifer Tipton, Evan Anderson
Luci aggiuntive David Sexton
Costumi Antonia Belt
Assistente alla regia e direttore di scena Michaela Murphy
Suono e video aggiuntivi Andrew Maillet
Tecnico audio e video Dan Dobson
Drammaturgia Matthew Dipple
Assistente regia Alessandro Magania
Direttore tecnico Tavish Miller
Direttore di produzione Aaron Amodt
Produttore Cynthia Hedstrom
Organizzazione Monika Wunderer
Traduzione e adattamento sovratitoli Matilde Vigna
Produzione The Wooster Group
Coproduzione piece by piece productions
Anno e durata 2024, 75’ (prima europea)

Biennale Teatro, Venezia (Arsenale, Teatro alle Tese) | 1 giugno 2025

 

Un viaggio nel furore: Ginesio Fest 2025 raccontato da Leonardo Lidi

ILENA AMBROSIO | Dal 20 al 25 agosto 2025, il suggestivo borgo marchigiano di San Ginesio si trasformerà ancora una volta in un palcoscenico a cielo aperto per accogliere la sesta edizione del Ginesio Fest, confermatosi ormai tra i festival teatrali più apprezzati del panorama italiano. Sotto la direzione artistica di Leonardo Lidi, al timone per il quarto anno consecutivo, il festival proporrà un’intera settimana di appuntamenti intensi: spettacoli, debutti in prima nazionale, residenze artistiche, incontri con gli autori, laboratori e mostre animeranno strade, piazze e luoghi d’arte del centro storico. A fare da filo conduttore dell’edizione 2025 sarà il tema Furore – scelto da Lidi -, una parola potente che attraverserà e darà slancio a tutte le proposte in cartellone. Spiega Lidi: «Il furore, come nel capolavoro di Steinbeck, spesso nasce da una costrizione, un viaggio obbligato che l’individuo o il gruppo deve compiere per salvarsi. Il furore creativo dei giovani che richiedono di avere una voce, il furore di chi vuole ribellarsi a un sistema troppo stretto, il furore della passione che ti fa perdere il controllo e poi il furore impetuoso generato dal risentimento; quello salvifico della creatività e quello distruttivo, di chi desidera colpire l’altro»
Il programma si preannuncia ricco e articolato, con la partecipazione di alcuni tra i protagonisti più interessanti della scena teatrale contemporanea e si chiuderà il 25 agosto con la cerimonia di consegna del prestigioso Premio San Ginesio All’arte dell’Attore.

In attesa di agosto abbiamo raggiunto telefonicamente Leonardo Lidi per farci raccontare qualcosa di questa edizione del Festival.

Dunque, quarta edizione di direzione artistica del Ginesio Fest. Quale il bilancio di tre anni? Cosa credi si sia sviluppato in questo tempo?

Di certo il quarto anno inizia con un cambio di passo. Innanzi tutto perché, se fino ad ora avevamo ospitato prevalentemente monologhi, quest’anno, nonostante gli spazi a disposizione continuino a essere limitati perché non c’è ancora il teatro, abbiamo deciso di aprire alle compagnie e a spettacoli quasi sempre con quattro/sei attori. Questo per me è decisamente sintomatico rispetto alla crescita che abbiamo avuto in questi quattro anni: ci siamo accorti che è un festival che funziona, ce ne rendiamo conto nell’ospitare artisti che vengono non solo a fare ma anche a vedere spettacoli da tutta Italia, che vengono per conoscere questa realtà. Era proprio questo l’obiettivo iniziale: ridare vita a un luogo grazie al teatro, facendolo diventare il borgo degli attori.

Ecco, una volta compresa la riuscita di questo progetto ci siamo detti – anche insieme alla direttrice Isabella Parrucci, che mi ha sostenuto molto in questo – che era tempo di fare un passo in avanti e andare verso una certa complessità. Una complessità che inizialmente avevamo tenuto in equilibrio per far sì che le persone del posto, che di fatto non hanno un teatro da anni, potessero stare insieme a noi: avevamo cercato certamente titoli più accattivanti, più diretti. Da quest’anno invece penso di poter dire che Ginesio Fest diventa un festival di teatro complesso nel senso bello del termine. Siamo riusciti ad avere nomi nazionali e internazionali che inizialmente non sarebbe stato possibile ospitare. E quest’anno lo è stato anche grazie ad alcune partnership, come quella con Piemonte dal Vivo che ci sostiene anche economicamente e ci dà questa possibilità. Però penso fermamente che tutto questo, la rete che si è creata, sia da ricondurre alla sincerità del contenuto e di un progetto molto semplice ma molto ambizioso: da un luogo terremotato, che non ha un teatro e che abbiamo conosciuto in certe condizioni, far partire un percorso proprio attraverso l’arte del teatro per riempire durante una settimana il borgo, rivalutarlo e allo stesso tempo creare uno spazio dove l’attore è il padrone di casa.

Parli di spazio e di spazi. Quali sono gli spazi fisici in cui vengono accolti gli spettatori e gli attori? Ma anche: che tipo di spazio emotivo si crea avvenendo tutto in un luogo così particolare?

Gli spazi fisici sono le strade, le piazze e i siti d’arte di San Ginesio, ma ovunque si crea uno spazio di convivenza costante, un dialogo su quello che si è visto, su quello che si farà, su quello che si è fatto: esci dal chiostro, dalla palestra, dall’auditorium – luoghi adibiti a teatro ma che non lo sono nella loro natura – e si crea subito un contesto di comunicazione e condivisione, nel senso che ti ritrovi a cena insieme alla persona che ha appena fatto lo spettacolo e ne parli, ne discuti. Non ci si può nascondere, non ci sono quinte. Questo è anche il motore del festival: essere sempre in costruzione, in divenire.  E del resto siamo in un luogo che ha subíto una tragedia della distruzione e nel quale si vuole ricostruire attraverso il teatro.

Come si inserisce il ruolo da direttore artistico di un festival nel tuo percorso attuale? Qual è la spinta a farlo, insomma?

Questo è un momento molto fortunato per me, sia con il teatro che con il cinema, e ovviamente mi sono chiesto come e se andare avanti. Si va avanti solo se c’è un motivo: io il motivo lì lo vedo, vedo una grande possibilità: creare un rapporto molto diretto con la comunità. A San Ginesio si crea perché il festival non è una bolla chiusa, non siamo noi teatranti con i critici e gli operatori, a dirci quanto uno spettacolo sia bello, si forma proprio una dimensione aperta e questo per me è un grande stimolo, soprattutto perché devo fare i conti con lo spettatore, anche con quello che non è mai entrato in teatro, o l’ha fatto solo tramite il confronto televisivo.
Questo secondo me è un tema che, se fai il direttore artistico oggi in Italia, devi sempre tenere in considerazione: come non svendere il teatro? Come non ricorrere a scorciatoie? Come tenere alta l’ambizione del teatro ma allo stesso tempo non creare una distanza inesorabile con lo spettatore che magari del teatro conosce poco?
Per me è una palestra enorme, sto imparando tantissimo dalle persone di San Ginesio e non solo dalla parte istituzionale ma anche proprio dagli abitanti del borgo. Sono loro l’obiettivo e lo stimolo e anche rispetto a questo, ribadisco, è proprio molto coerente, molto radicale la mia scelta di far fare tutto agli attori. Per fare un esempio, le serate di apertura e chiusura le condurrà Christian La Rosa, un attore che attualmente è in Argentina, che tutti conosciamo; proprio un attore di teatro che conosce il teatro e che ho ritenuto certamente più adatto rispetto un presentatore che magari non conosce nulla del percorso del festival.

Possiamo parlare di una militanza dell’attore?

Sì, certo. A San Ginesio fanno tutti gli attori e questa è una richiesta di apertura da parte di un mondo che spesso dimentica purtroppo di essere all’interno di un Paese, di una comunità. Quando il teatro si parla addosso e si guarda l’ombelico smette di avere la sua funzione politica.

E cosa ci dici dei giovani? Immagino che la popolazione giovane di San Ginesio, in qualche modo, fruisca ciò che accade nella settimana del festival. Come si pone rispetto a questo?

Io penso che uno dei motivi per cui è importante portare anche da fuori tanti giovani sia proprio creare un dialogo. Da quattro anni lavoro cona scuola del Teatro Stabile di Torino e da un anno ne sono il direttore. Ebbene, da quattro anni porto gli allievi, tra i 18 e i 24, a San Ginesio per tutta la durata del festival, proprio per creare un dialogo tra i giovani attori e i giovani del borgo, perché non sia solo uno scambio di un’ora durante lo spettacolo ma uno scambio continuativo: tra una chiacchiera e l’altra, un aperitivo e l’altro, si parla di teatro ma si parla anche di vita, si parla di interessi, si parla di “l’anno prossimo io inizio l’università… io vado a finire in quella città più grande… chissà cosa ne sarà di me…”. Creare luoghi aperti e non chiusi crea delle conseguenze e le conseguenze spesso sono il vero motore della vicenda, nel senso che vedere quaranta ragazzi che si parlano, lontano dai telefoni e occhi negli occhi, dei loro sogni e delle loro ambizioni è sicuramente una vittoria per noi.

Ma perché, secondo te, questo è così raro da trovare, in riferimento a contesti teatrali soprattutto?

Guarda io sono molto attento, ad esempio, al teatro tedesco che mi ha formato e penso che al Deutsches Theater di Berlino c’è il calcio Balilla nel foyer, c’è il dj set… Alcuni luoghi in Italia hanno cominciato ad approcciare questo tipo di impostazione; penso al Teatro delle Passioni, penso al Teatro Bellini di Napoli. Il teatro deve essere un luogo che crea dialogo quotidiano e questa non è una battaglia adolescenziale, è una battaglia molto importante, più importante del fare bene uno spettacolo, creare un luogo che sia attraente e non respingente per le nuove generazioni è fondamentale e questo passa innanzi tutto dal prezzo dei biglietti, passa banalmente dal calcio Balilla… Lo prendo a esempio ma è un simbolo: io ho un calcetto, un pingpong, un bar e un dj set, quindi io ventenne, anche se non frequento solitamente il teatro, mi sento accolto, vedo uno spazio che mi racconta, una grammatica che riconosco. E poi in sala ti capiterà lo spettacolo più vicino al tuo grado, al tuo percorso, che ti parlerà un po’ di più, un’altra volta in cui sarà un po’ più complesso e ti parlerà di meno; ma magari l’anno dopo ti ci avvicinerai ancora e lo sentirai più tuo. La macchina è complessa, è molto complessa, perché non si tratta di appiattire la grammatica e di semplificare per aprire, si tratta di trovare la giusta mediazione senza abbassare mai l’offerta.

A proposito di offerta: il tema si quest’anno è Furore. Raccontacene un po’…

Ovviamente il romanzo di Steinbeck ha fatto il suo: racconta un viaggio verso il sole, fallimentare e doloroso ma comunque un viaggio bellissimo. Leggendolo l’anno scorso mi sono detto: che bel termine furore, quanto siamo abituati a usarlo solo in accezione negativa, e invece ha una sua bellissima complessità. E poi mi piace ascoltare gli spettacoli, gli artisti, cosa mi raccontano gli spettacoli che vedo, quale filo rosso ricostruiscono.
In quest’anno di teatro il furore è tornato spesso. Per esempio, vedendo Wonder Woman di Latella – un testo che noi ospiteremo – i ragazzi della scuola hanno discusso animatamente su cosa sia giusto portare in teatro e cosa no, perché questo furore può essere politico. Poi ho visto il Tondelli di Licia Lanera e ho pensato che è bello ritrovare in scena un autore che, come Testori, è rappresentante di qualcosa che può essere assolutamente definito come furore. Quindi ho ripensato a quale spettacolo me l’ha raccontato anche in passato, per accogliere un lavoro storico come il Pinocchio della Compagnia del Carretto, con il furore di questo oggetto-uomo e la violenza che da esso scaturisce.
Tanti autori e tante le compagni, che mi hanno riportato questo furore.
Un furore che però è prima di tutto creativo: quello dei giovani che si approcciano al teatro, e che magari può rendere alcuni spettacoli sporchi, meno precisi ma vivi. È il sentimento del romanzo, del viaggio: spero che vedremo un viaggio all’insegna del furo.

Ginesio Fest 2025 | San Ginesio 20-25 agosto 2025

Arare la scena: il vomero teatrale in Works and days di FC Bergman

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RENZO FRANCABANDERA e ELENA SCOLARI | ES: È di pochi giorni fa la notizia che l’Italia si posiziona al primo posto in Europa per valore aggiunto dell’agricoltura nel PIL, superando Francia e Spagna. Chissà quale posto occupa il Belgio. Certo è che nell’ultima creazione del collettivo belga FC BergmanWorks and days – ispirata a Le opere e i giorni di Esiodo – tutto comincia con l’arare la scena, per seminarvi immagini e quadri – muti – che germogliano in azioni coreografiche di grande impatto scenico e dalla eccellente armonia corale: un grande aratro spinto a mano dai performer crea un vero e proprio solco sul palcoscenico ligneo, saltano i trucioli e la semina porterà una messe di situazioni legate all’arte dell’agricoltura ma anche al rapporto dell’uomo con gli animali e con la Natura, fino all’avvento delle macchine.
Un’apertura possente. A te cosa è parso dell’inizio di questo lavoro “campagnolo”?

RF: Distruggere e creare. Addomesticare ed essere addomesticati. I grandi interrogativi del genere umano nella sua forma sociale sono tutti qui da millenni. Innanzitutto Esiodo: nel poema Le opere e i giorni, duemila e settecento anni fa rifletteva sulla condizione umana attraverso miti e precetti pratici, unendo etica e sopravvivenza. Racconta la caduta dall’età dell’oro a quella del ferro, dove l’umanità corrotta dall’ingiustizia deve riscattarsi con il lavoro e il rispetto di Dike, la giustizia; un po’ l’equivalente della cacciata dal giardino dell’Eden. Un manuale di vita rurale e morale, che esorta a un’esistenza equilibrata, in armonia con gli dei e la natura, un inno alla dignità del lavoro come unica via di salvezza in un mondo decaduto. Ecco quindi il ciclo delle stagioni, il ritmo della natura, che innerva tutta la prima parte di questa creazione scenica, con Joachim Badenhorst che esegue al clarinetto variazioni su Le quattro stagioni di Vivaldi mentre gli attori del collettivo con l’aratro fanno letteralmente saltare le assi del pavimento di legno dello Strehler.

Chi è FC Bergman? Il collettivo esiste dal 2008, fondato da sei artisti poliedrici – Stef Aerts, Joé Agemans, Bart Hollanders, Matteo Simoni, Thomas Verstraeten e Marie Vinck – e si è affermato come una delle realtà più originali del teatro contemporaneo europeo. Hanno base artistica al Toneelhuis di Anversa dal 2013, e hanno sviluppato negli anni un linguaggio teatrale unico, anarchico e visivamente potente, dove l’assurdo, l’attorale puro si mescolano a un’intensa poesia dell’immagine. Al centro delle loro opere c’è sempre l’essere umano: fragile, ridicolo ma ostinatamente in cerca di significato. Dopo i primi riconoscimenti, il gruppo ha conquistato la scena internazionale con produzioni site-specific che sfidano i confini tra teatro, cinema e arti visive. Una cifra stilistica inconfondibile, fatta di scenografie monumentali e narrazioni frammentarie. Het land Nod (2015) – definito dalla critica un incrocio tra i linguaggi di Castellucci, Marthaler e Pina Bausch – li aveva poi portati nei festival di Avignone e Zurigo. Il culmine arriva con i successivi JR (2018)The Sheep Song (2020-2021), performance senza parole su una creatura in rivolta contro il proprio destino. Tu l’avevi visto se non sbaglio…

ES: Sì, l’avevo visto, fu presentato allo Strehler nella prima edizione del festival internazionale Presente Indicativo nel 2022. Quel lavoro raccontava – senza una parola – un processo di trasformazione da animale a uomo, più precisamente da pecora a uomo. Le pecore in scena erano vere, ordinate, bianche e lanose; si srotolava il nastro di una vita nuova su un lungo tapis roulant in continuo movimento. Trovo che Works and days sorprenda meno; ci sono però alcune immagini molto molto belle e un connubio di suoni e figure curato e decisamente pregevole. Il senso drammaturgico che ne emerge è di carattere universale, non più indirizzato all’esistenza del singolo individuo quanto alla collettività. È evidente il richiamo alla relazione Uomo-Natura che si è persa, ma il passaggio sull’introduzione della macchina a vapore mi ha lasciata perplessa: quel liquido nero e vischioso che cola sui corpi nudi in pose seduttive vuole secondo te alludere a un tentativo di soggiogare la natura che fallisce rendendo l’uomo schiavo del lavoro oppure alla fascinazione subìta dall’uomo per la tecnologia?

RF: Io direi più la seconda, con un finale un po’ apocalittico, e vado a spiegarmi. Intanto beneficio del fatto di non avere un termine di paragone con il lavoro precedente, cosa che in arte può essere insidiosa perchè fa perdere allo sguardo la verginità su un progetto estetico specifico, leggendo invece la creazione in prospettiva “evolutiva”. Mi pare che i due spettacoli abbiano alcune continuità, ovvero l’assenza di testo e il notevole impatto visivo, e alcune discontinuità, nella consequenzialità drammaturgica.
Come Esiodo legava il lavoro ai ritmi della terra, FC Bergman esplora la caducità dell’esistenza attraverso un’estetica pastorale, dove gli attori interagiscono con elementi naturali (terra, acqua, fuoco) in un flusso di nascita, vita e morte. Se The Sheep Song (2022) celebrava la libertà individuale, Works and Days nella sua prima parte è un inno al potere inarrestabile del gruppo e alla forza della natura, riprendendo l’idea di una comunità legata alla terra ma minacciata da nuove ambizioni. Si respira quasi una nostalgia per quella civiltà contadina che costruiva le case a mano, che pigiava con i piedi, che gioca intorno all’albero della cuccagna; ma poi costruisce case, e poi le abbellisce. Il dramma sta nell’arrivo del superfluo, della decorazione (i veli colorati alla casa, che una bambina raccoglie). Eliminando ogni riferimento verbale al testo esiodeo, FC Bergman ricorre a immagini potenti (ispirate mi pare di poter dire anche alla pittura rinascimentale, come Brueghel) dentro una colonna sonora mirabilmente eseguita dal vivo oltre che da Badenhorst anche da Sean Carpio.

Ma a un certo punto, come anticipavi, arrivano la macchina a vapore, la tecnologia, il mostro, Matrix: nella rappresentazione che ne viene data scenicamente, questa super macchina si innalza come un’astronave extraterrestre che soggioga il genere umano, riducendolo all’inattività oziosa. Dieci anni fa, nel 2015, a Vie festival, commentavo il Go down Moses di Castellucci: ugualmente in quello spettacolo (come in Bros) c’è il bivio esistenziale di dominio inverso umano/macchina. Il grande rotore assordante di Castellucci, faceva tremare le sedie. Qui, con un’estetica più espressionista, in stile Metropolis di Lang, la macchina si innalza in una dimensione sovrumana, diventa divinità. E gli omuncoli appaiono poca cosa. Prendono il sole e non si rendono conto di quello che sta per venire.
Ho letto la pioggia finale, che sommerge la povera contadina sola, come la profezia di Einstein sull’umanità che finisce fuori controllo e torna all’età della pietra dopo l’autodistruzione.

ES: La formazione belga (vincitrice del Leone d’argento alla Biennale di Venezia nel 2023) mostra sempre maestria nel costruire architetture umane creative e di splendido effetto visivo, qui hanno un obiettivo critico che discute il comportamento della nostra specie nei confronti dell’ambiente e degli altri esseri viventi. Non si tratta però di una banale riflessione sulle nostre colpe, c’è anche la rappresentazione della spinta verso il progresso: bello infatti il riferimento al fuoco prometeico donato agli uomini nella scena con le piccole fiammelle. Works and days è anche un inno alla cooperazione, al confronto tra le generazioni e al passaggio dei saperi, tutto realizzato in forma di rituale, ciò che forse ci manca di più in un’epoca di disorientamento e di ribaltamento dei valori.
C’è alta cura estetica di luci, costumi, suoni e scene d’insieme. Quei costumi fatti di tanti pezzetti di legno colorato che rendono i personaggi simili a totem aztechi – divinità multicolore che lentamente creano un ritmo sempre più rumoroso, prima singolarmente poi in gruppo – sono bellissimi, come la costruzione a vista della struttura centrale, o l’ironica presenza di una gallina vera che si aggira in scena; e queste immagini restano nella memoria estetica dello spettatore.

RF: Se alcuni simboli appartengono a estetiche del rito anche distanti fra loro, devo dire che comunque non c’è scollegamento degli anelli narrativi. Anzi, la dinamica drammaturgica evolve in modo conseguente di scena in scena: arano, allevano, diventano stanziali, costruiscono la casa, generano, umani e animali. L’accumulazione capitalistica permette il salto tecnologico, e qui il meccanismo si inceppa: l’esortazione esiodea al fare salta, mentre il tempo dell’oggi è fatto di unghie lunghe e scroll sui display. Mia nonna prendeva le braci con le mani per portarle dal fuoco acceso in giardino nel braciere in casa. Non so se era felice, ma la sua semplicità l’ha fatta campare in salute fino a 90 anni con una serenità di interrogativi e prospettive che oggi le invidio. Immaginare i feti dell’umano come batterie per qualche server di intelligenza artificiale non sembra più lontana distopia, purtroppo. E anche il malefico cagnolino robot che fa sorridere il pubblico, in Cina l’hanno già usato per dissuadere i cittadini dall’uscire di casa ai tempi del Covid e controllare chi faceva cosa. Assai poco rassicurante. Da questo punto di vista l’Apocalipse now lo sentiamo tutti dietro l’angolo.
ES: C’è anche da dire che i facoltosi mezzi del gruppo permettono scenografie importanti e l’utilizzo di strumenti non nuovi ma ancora in grado di stupire – la pioggia sotto la quale una donna matura continua la sua opera contadina, le esplosioni di frutti della buona vecchia terra che sputa ananassi – ma, arrivando al finale, devo dire che la scelta di introdurre quell’elemento completamente contemporaneo mi ha fatto pensare a una scorciatoia che non dà chiavi di lettura del futuro. Come dice Edgar Morin (104 anni) dovremmo invece riflettere seriamente sul fatto che “il progresso tecnico non implica progresso morale, anzi: spesso coincide con una regressione etica”.
Resta un’inquietudine ancora tutta da indagare. E questo sta a noi, nel mondo fuori dalla scena.

RF: Il pubblico nella mia replica era molto coinvolto. Una standing ovation. E gli attori sono bravi. Anzi, mi pare che, usando macchinari molto analogici, niente di  superdigitale, anzi, carrucole e pioggia da qualche americana un po’ di fumo e di luci ben date, mi pare appunto che il lavoro si fondi proprio sull’antico mestiere dell’attore. Lo spettacolo coinvolge le giovani generazioni, forse non sconvolge vecchi polli dell’aia del teatro perché si torna a strumenti antichi, alla recitazione di gruppo, al lavoro sul collettivo, rigorosità da anni Settanta; ma è un lavoro molto organizzato e ben fatto. Magari qualche punta di didascalia, ma se devo pensare all’evoluzione del linguaggio della scena dell’ultimo decennio, rifletto sul fatto che il processo di metaforizzazione e di trasformazione del segno in simbolo sia sempre più difficile per un pubblico che ha una propensione all’attenzione sempre più scarsa.
Lo spettacolo, in alcuni casi, per potenza scenica, ha l’ambizione dello spettacolone, con la costruzione della casa in stile Casa nella Prateria, con i grandi assi di legno issati a forza dagli attori (lo avevano fatto nel 2019 per La valle dell’Eden di Latella, e sempre Latella aveva mezzo distrutto la scena nel 2014 per Il servitore). Questo monta e smonta del genere umano in fondo è condanna biblico-esiodea. Anche il teatro se la porta addosso. A più riprese, ciclicamente, di generazione in generazione, alcuni simboli, alcune epifanie ritornano.

Di sicuro i componenti di FC Bergman comunque lavorano tanto (e bene): se la pensano e se la sudano. Poco digitale, pochi effetti speciali, molto lavoro manuale e analogico. Bellissimo il parto della vacca, la macchina volante, la casa; un ottimo lavoro di attori affiatati che restituiscono uno specifico di spazi e mondi, distinti e distanti, che lo spettatore collega alle inquietudini della modernità. Forse non sarà sconvolgente come il precedente lavoro, ma in fondo è ampiamente coinvolgente per un pubblico nuovo, per la nuova generazione, e “iddiosolosà” quanto abbiamo bisogno di spettacoli anche per nuovi spettatori, oltre che per noi, polli viziati e corrotti da tanta visione, e che rivediamo dovunque cose che, personalmente, in trent’anni posso aver già viste o smozzicate. Il linguaggio dell’arte reimpasta sempre tutto. È un continuo fare e disfare. Opere e giorni.
Sono immagini di un fare scenico che meno male che ogni tanto viene riproposto, come impegno performativo a farsi i calli, a non pretendere che con una voce off e due laser si gridi al genio.
Questi faticano, sono molto esiodei.
Gliene va dato atto.

 

WORKS AND DAYS
prima nazionale

regia, drammaturgia e scenografia Stef Aerts, Joé Agemans, Thomas Verstraeten e Marie Vinck (FC Bergman) 
con Stef Aerts, Joé Agemans, Maryam Sserwamukoko, Yorrith De Bakker, Marie Vinck, Fumiyo Ikeda, Geert Goossens, Bonnie Elias 
composizione musicale e performance live Joachim Badenhorst e Sean Carpio 
costumi An d’Huys 
luci Stef Aerts e Joé Agemans 
produzione Toneelhuis
in coproduzione con Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg 
con il supporto del Tax Shelter del Governo Federale del Belgio, Gallop Tax Shelter