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sabato, Luglio 27, 2024
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Mittelyoung 2024: un festival per giovani, fatto da giovani

Brindisi inaugurale curatore Mittelyoung 2024

VALENTINA SORTE | Mentre a Cividale del Friuli è in corso la 33^ edizione di Mittelfest, si è da poco concluso Mittelyoung. Giunto alla sua quarta edizione, è una delle novità più originali introdotte dal nuovo direttore artistico Giacomo Pedini non solo nell’ambito di Mittelfest – festival con una storia più che trentennale alle sue spalle e molto radicato sul territorio – ma anche nel panorama dei festival italiani ed europei a direzione partecipata. 

Curatores, Mittelyoung 2024 © Luca A d’Agostino

Mittelyoung investe fortemente sulle generazioni under30 con un’operazione trasversale: è un festival multidisciplinare per i giovani, fatto da giovani. Da una parte desidera catalizzare e promuovere giovani artisti di teatro, musica, danza e circo provenienti dall’Europa centrale, attraverso un vero e proprio sostegno produttivo; dall’altra parte punta su un vero e proprio progetto di curatela, accordando ai giovani anche un ruolo chiave nella direzione artistica. 

Ogni anno una giovanissima commissione di curatrici e curatori – i curatores – coordinata dalla direzione artistica di Mittelfest, individua, tra tutte le candidature ricevute, una rosa di nove spettacoli per comporre il cartellone di Mitteyoung. Gli stessi curatores hanno poi il compito di selezionare, a rassegna conclusa, tre spettacoli che avranno la possibilità di tornare in scena, nel quadro di Mittelfest, nei giorni successivi. 

René – Sinking Sideways – © Luca A d’Agostino

Il festival non è dunque solo una fucina di giovani talenti mitteleuropei ma si dimostra un interessante incubatore di professionalità, grazie anche al fortissimo legame di Mittelfest con il territorio. Il gruppo di curatrici e curatori è infatti costruito grazie alla stretta collaborazione tra Mittelfest e le istituzioni e le realtà artistiche e/o formative del Friuli Venezia Giulia, come ad esempio l’Associazione culturale Arearea, la Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe, il Conservatorio Statale di Musica Giuseppe Tartini di Trieste, il Conservatorio Statale di Musica Jacopo Tomadini di Udine, la Fondazione Luigi Bon, l’Associazione culturale Circo all’incirca, l’Istituto Tecnico Arturo Malignani, la Scuola di Danza Erica Bront. Solo per citarne alcuni.  

Grazie a questo progetto le nuove generazioni imparano a guardare e a valutare le diverse proposte artistiche da più punti di vista, uscendo da quello puramente estetico o emotivo, per fare esperienza diretta della complessità e dei criteri che regolano una programmazione culturale.  

Manual – Platform 13 © Luca A d’Agostino

La novità di questa quarta edizione è stata però la creazione di una giuria di esperti – formata da Alberto Bevilacqua, Veronika Brvar, Roberto Canziani ed Elisa Marcon – chiamata a valorizzare le migliori proposte della rassegna. La giuria ha avuto due compiti importanti: quello più palese e ufficiale di fornire un prezioso occhio esterno ai lavori delle giovani compagnie, e quello più urgente e intimo di aprire uno spazio di pubblica discussione attorno agli spettacoli. Ed è proprio durante gli incontri con gli artisti, condotti per la prima volta dagli stessi curatores, che si sono poste le basi per una sorta di comunità allargata e dialogante. Nell’ottica di Mittelyoung le arti performative nelle loro diverse declinazioni (teatro, danza, musica, circo) diventano così un luogo privilegiato di visione – privata e personale – e di discussione pubblica, in una dimensione circolare, democratica e intergenerazionale. 

Nello specifico di quest’anno, tra le 250 proposte arrivate da tutta Europa sono stati selezionati due spettacoli di teatro, due di danza, due di musica e tre di circo, che hanno provato a interpretare in modo originale i Disordini, tema scelto da Pedini per raccontare il nostro presente e il complesso rapporto tra destino, caos e responsabilità che guida le nostre scelte individuali (e collettive).  

Twisted World – Ucci Ucci © Luca A d’Agostino

I vincitori decretati dalla giuria dei curatores sono stati Twisted World della compagnia UCCI UCCI, per la categoria teatro, Home di Bai Li Wiegmans, per la categoria danza e Marquis noir di Marquis noir per la categoria musica. La giuria di esperti ha assegnato, a sua volta, diversi premi. Innanzitutto ha confermato il talento di Marquis Noir premiando il loro concerto come migliore spettacolo della rassegna con la seguente motivazione: “Uno show energetico, in cui il dialogo tra musicisti di diverse provenienze si trasforma in uno spettacolo dinamico, fluido, con un impatto radiante sul pubblico”. 

Anche Home di Bai Li Wiegmans è stato premiato per la capacità della giovane artista olandese di affrontare il tema delicato e molto attuale delle adozioni internazionali in un formato che congiunge il documentario autobiografico alla danza, riuscendo a essere originale ed emozionale.  

Marquis Noir – Marquis Noir © Luca A d’Agostino

La migliore performer di Mittelyoung è stata, invece, la giovane artista rumena del collettivo Platform 13, Anca Stoica, per il suo “talento grande e ambiguo”, e aggiungiamo, per la forte presenza scenica e l’esuberante energia profusa sul palcoscenico.
Infine, la menzione speciale della giuria è andata a René della compagnia Sinking Sideways per aver costruito “una partitura corporea e spaziale nella quale minime variazioni e continui rimbalzi vengono trasmessi al pubblico e rovesciano i tradizionali confini della danza e del circo. Ipnotico”. 

Home – con Bai Li Wiegmans © Luca A d’Agostino

PAC ha partecipato alle prime due giornate del festival, il 16 e 17 luglio. Dalle proposte che siamo riusciti a seguire e dalle scelte operate dalle due giurie, possiamo ricavare alcune importanti considerazioni: per prima cosa i lavori più interessanti e originali di Mittelyoung sono stati quelli che hanno abbandonato strade troppo battute e hanno optato, al contrario, per soluzioni formali meno immediate, più coraggiose. In un’edizione in cui si interrogano artisti e pubblico sul disordine e sullo smarrimento che segnano il nostro presente, spiccano quelle figure che come equilibristi su un filo, con occhio attento e umile sono riuscite a rimanere sospese, a precipizio sul mondo, senza mai cadere. Sempre consapevoli e curiose della possibilità della caduta. 

Allo stesso modo ci auguriamo che Mittelyoung possa crescere ancora, per creare quello spazio di discussione pubblica di cui si vedono chiaramente le impalcature. 

Per vedere la videointervista:

 

MITTELYOUNG 2024, Cividale del Friuli | 16-18 luglio

PAC LAB | Visioni in Danza 2024 presenta in prima assoluta Seven Layers di Sharon Fridman

CHIARA AMATO* | In occasione di Visioni in Danza 2024, al Castello Sforzesco di Milano, sono state messe in scena quattro performance di danza molto diverse tra loro: Taboo di Francesca PagninidancehALL e Endeca di Niccolò Abbattista e Christian Consalvo.
La manifestazione, a cura di ArteMente (Centro di Alta Formazione per la Danza) e Compagnia Lost Movement, ha ospitato in prima assoluta anche Seven Layers di Sharon Fridman, la creazione originale del pluripremiato danzatore e coreografo israeliano, residente in Spagna con la sua compagnia Sharon Fridman Company ormai dal 2006.
L’artista iniziò la sua carriera come danzatore nel 1999 (con Kibbutz Contemporary Dance Company e Vertigo Dance Company), per poi proseguire dal 2000 anche come coreografo.

ph. Pamela Rovaris
In questa breve performance i danzatori (Sara Cavada, Luca Filoscia, Alice Fornara, Elisanna Gagliardi, Sofia La Rosa, Benedetta Lupo, Angelica Maltese, Giada Motta, Francesca Pagnini e Laura Volta) compaiono in scena vestiti a lutto, uno di fianco l’altro e opposti al pubblico, con in sottofondo un assolo di chitarra sullo stile del flamenco. Si tengono al corpo del prossimo vicino mantenendo sempre un punto di contatto; alcuni stringendosi per mano, altri incrociando i corpi con le braccia e le gambe del compagno che segue.
Questa composizione crea una catena umana visivamente molto d’impatto: effetto, poi, amplificato dall’espressione facciale contrita e assorta dei ballerini. Sembrano legati da un filo invisibile e passano da una sequenza all’altra come all’interno di una rappresentazione di tableau vivant, in maniera molto rapida, poi più lenta e graduale. Le luci, durante tutta l’esibizione, giocano come nella pittura di Caravaggio, a evidenziare le parti illuminate in maniera molto netta e in contrasto rispetto alla scena e i costumi scuri, creando un gioco di figure plastiche.
L’abbraccio è sicuramente l’elemento che torna più spesso ed è accompagnato sempre da una reazione di rilassamento del volto e di abbandono dagli affanni.
I singoli danzatori restano connessi alla vibrazione e ai movimenti della collettività: in alcuni passaggi si appoggiano gli uni sugli altri, letteralmente a peso morto, come a comunicare la necessità di doversi affidare realmente al prossimo, in maniera totale. Alcune immagini ci ricordano la Pietà di Michelangelo, quella in San Pietro in Vaticano, dove il corpo defunto è portato inerme in braccio e mostrato sotto i nostri occhi emotivamente partecipi. In conclusione, i danzatori si dividono sparendo ai due lati del palco, lasciando in scena un’unica figura, in silenzio, forse a comunicarci che solo dopo il confronto con l’altro possiamo arrivare alla consapevolezza del dolore superato e alla quiete personale raggiunta.
Il risultato è uno spettacolo coinvolgente ed emozionante, che colpisce il pubblico per la sua estetica molto pulita e comunicativa: l’impatto è forte, anche grazie alla bravura dei performer, che fanno scivolare i loro corpi senza frizioni, gli uni sugli altri, diventando un unico “magma umano”.
La creazione dello spettacolo è stata pensata da Fridman per portare a galla gli strati più profondi dell’elaborazione del lutto, dall’analisi dei propri sentimenti, fino al bisogno di essere sostenuti dagli altri. I suoi lavori vogliono sempre toccare temi quali l’interazione sociale e il contatto umano, anche grazie l’utilizzo della tecnica della contact improvisation. Qui, proprio partendo dal contatto fra i corpi, che tale tecnica prevede, la forma si fa sostanza e contenuto.
SEVEN LAYERS
Prima assoluta
 

di Sharon Fridman
interpreti Sara Cavada, Luca Filoscia, Alice Fornara, Elisanna Gagliardi, Sofia La Rosa, Benedetta Lupo, Angelica Maltese, Giada Motta, Francesca Pagnini e Laura Volta
assistente alla coreografia Enrico Luly

Castello Sforzesco, Milano | 22 luglio 2024*PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

PAC LAB | Le moltitudini di Kilowatt Festival

MARIA FRANCESCA SACCO* | Il titolo di Kilowatt 2024 (il Festival ideato e diretto da Lucia Franchi e Luca Ricci) è denso: «Contengo moltitudini», tratto da Walt Whitman, richiama una pluralità comunitaria forse dimenticata. Abbandonare il concetto di persona come singolo individuo è l’atto proposto ai partecipanti: sentirsi parte del mondo intero sposta, infatti, l’asticella della consapevolezza più in alto, laddove si dimentica l’io, l’individualità ego-centrata, e ci si muove in direzione dell’universalità. Ci si concede, così, il privilegio di sentirsi infiniti e indefiniti come l’Arte insegna da sempre e come il Festival ricorda in questa XXII edizione.
Nella città natale di Piero della Francesca, a Sansepolcro, in provincia di Arezzo, gli spettacoli si snodano tra diversi, suggestivi luoghi, e gli spettatori si muovono dall’uno all’altro insieme, come in processione, rievocando quel concetto di comunità caro a Kilowatt.

ph Luca Del Pia, AI LOVE, GHOSTS AND UNCANNY VALLEYS<3

Il primo spettacolo che vediamo nella giornata del 15 luglio è una performace digitale nell’oratorio di Santa Maria delle Grazie: AI LOVE, GHOSTS AND UNCANNY VALLEYS <3 // ho rotto con la mia intelligenza artificiale e non la scaricherò mai più. L’amore ai tempi del digitale è una tematica calda, ma il modo in cui MOC, Mara Oscar Cassiani, la presenta, colpisce lo spettatore con crudezza, forse perché la sorta di confessione alla quale si assiste (quasi come testimoni) è, in realtà, il risultato agghiacciante di una ricerca di MOC stessa.
In scena c’è uno schermo sul quale l’artista racconta, in streaming, la sua relazione con un’identità creata dall’intelligenza artificiale (il cui nome è AI Love) e la scoperta sul web di un gruppo di uomini Incel, celibi involontari che, interrotta ogni relazione con donne, hanno deciso di crearsene una come pare a loro, grazie alla AI. Mentre gli spettatori rabbrividiscono, l’artista prosegue il suo racconto dettagliato su come vengano scelti i pezzi di corpi femminili da assemblare per creare avatar paurosamente puerili e provocanti.
Lo streaming si conclude e gli spettatori sono invitati ad avvicinarsi allo spazio in cui vi è lo schermo nel quale è apparsa l’artista, intorno a cui giacciono cuscini a forma di cuore, su cui sono stampate alcune creazioni dell’AI. Si tratta di una sorta di testimonianza con cui si vuole dare un volto alle identità costruite a partire da corpi di donne esistenti, poi cancellate a piacimento dagli utenti, tanto che improvvisamente esse non esistono più.
La struttura della performance risulta intrigante, perché prevede una parte in streaming e una in presenza: l’artista infatti, dopo il racconto online, raggiunge gli spettatori per continuare con loro la conversazione. Purtroppo, a causa di un intoppo comunicativo, in questa seconda parte molti spettatori hanno lasciato la sala prima dell’arrivo di MOC, perdendosi il costruttivo confronto con lei.
Resta, comunque, uno spettacolo che porta con sé la responsabilità di una denuncia e di consapevolezza dei pericoli del web, in cui gli esseri umani sfogano i propri disagi sociali oggettificando i corpi, per poi godere del potere di distruggerli con un clic. La speranza e la richiesta dell’artista alla comunità presente sta nel creare una rete di esseri umani consapevoli e uniti per arginare questo terrificante fenomeno, che potrebbe investire soprattutto le nuove, giovanissime generazioni.

ph. Giacomo Brini, Futuro Anteriore.

Nell’Auditorium di Santa Chiara, Futuro Anteriore di Ferrara Off è un’intima rappresentazione di un avvenire fatto di anzianità. Sulla scena vuota, Gloria Giacopini, con un leggio quasi come in una stand-up comedy, annuncia l’argomento, immaginando sé stessa da vecchia in un mondo «anziano». Si compone un salotto in cui gli attori (Matilde Buzzoni, Antonio De Nitto e Matilde Vigna e Gloria Giacopini) costruiscono la narrazione che corre fluida, raccontando gli acciacchi di un’età fatta di dimenticanze, di frasi ripetute, di dolori. Immagini familiari agli occhi dello spettatore, talvolta amare (ad esempio, la reticenza di un anziano nel chiedere aiuto), ma sempre ammantate di delicatezza e, al contempo, mai prive di ironia.
I movimenti sono tutti piccoli e reiterati, i passettini incerti (ma precisissimi, incredibilmente resi dagli attori), le parole storpiate e tremanti. Il futuro (anteriore) sembra accadere in slow motion: quei movimenti così minimi acquistano, però, una potenza enorme a teatro, tanto da far scordare se vi sia qualcos’altro su cui riflettere, oltre alla vecchiaia stessa.
La vecchiaia coglie tutti indistintamente e questo spettacolo, in cui i ruoli degli attori sono sempre intercambiabili, porta lo spettatore a specchiarsi e identificarsi in uno o nell’altro e, nondimeno, in ciascuno presente in sala, tutti accomunati dal medesimo destino. Si avverte quasi la tentazione di salire sul palco con loro, metafora di vita in cui, alla fine, siamo tutti uguali.

Nello spazio del Chiostro di San Francesco, dove va in scena Photographs della regista Lyto Triantafyllidou, lo spettatore è protagonista di un’asta in cui viene messo in vendita quel che resta di un amore. Il concetto di universalità di questo sentimento, il suo esaurirsi, nello specifico, viene rappresentato attraverso lettere, foto, qualche poesia. Promesse, dichiarazioni e bugie che, a volte, appaiono come cliché sentiti e risentiti. Risuona la disperazione del protagonista, che tira in ballo poeti e filosofi che hanno tentato – invano – di descriverlo, quell’amore mai eterno.
È uno spettacolo che trascina il pubblico nella musicalità della lingua greca, nei movimenti degli attori (Electra Fragiadakis e Dimitris Passas), fatti di allontanamenti e avvicinamenti, contatti e distanze (in uno spazio, forse, troppo dispersivo), descrivendo la relazione a ritroso. Si analizza all’indietro tutta la storia d’amore, fino a individuarne l’inizio, quando i due protagonisti, seduti accanto, si mettono a parlare per la prima volta.
Siamo davanti a una sorta di terapia collettiva in cui si rivive il trauma, questo amore uguale a quello di tutti i presenti, in cui resti sono consegnati nelle mani di un pubblico che se li è accaparrati alzando le palettine ricevute a inizio spettacolo e puntando cifre immaginarie, proprio come si farebbe a un’asta. C’è chi esce dalla perfomance con brandelli di poesie, chi con fotografie, ma ognuno con l’impressione di conoscere bene quell’epilogo, uguale in tutte le lingue del mondo.

ph Luca Del Pia, Quanon Revolution

Il suggestivo Chiostro di Santa Chiara accoglie l’ultimo spettacolo della serata: Qanon Revolution, composto da Riccardo Tabilio per Evoè!. Si parla di complottismo, in particolare di Q, entità anonima che nel 2017 si diceva infiltrato nei luoghi di potere degli Stati Uniti, dichiarando di voler diffondere informazioni utili.
Su uno schermo in scena scorrono le chat di Qanon che si alternano alle storie di tre personaggi, seguaci (insieme a moltissimi altri) di Q e autori di gesti estremi: la storia di Edgar, che assaltò una pizzeria e di Ashil e Jake partecipi dell’effrazione al Campidoglio. Questi tre comuni cittadini decidono di rinunciare alla loro individualità per immedesimarsi nelle idee che ritengono verità: il sacrificio avviene nel nome di un ideale, ma soprattutto per la salvezza della comunità. Ma, affinché l’identificazione accada, è necessario sacrificare una parte di sé per il gruppo, nella speranza di poter così riconoscere/conoscere sé stessi attraverso gli occhi degli altri.
Le vite dei protagonisti, che lo spettatore scopre poco alla volta, accadono alternate: i ritmi incalzanti, i movimenti sincronici degli attori e la loro bravura tecnica (Emanuele Cerra, Alice Conti, Gabriele Matté) sono elementi in grado di catalizzare l’attenzione, mentre la regia di Silvio Peroni, così ben strutturata, permette un’analisi del fenomeno e delle personalità dei protagonisti. Il tema, complesso e attuale, è reso in scena in maniera attenta, accompagnato da musiche elettroniche (sound designer Mattia Nardon) che sottolineano la dimensione drammatica, quasi apocalittica.
In 70 minuti, che volano come quelle chat sullo schermo, si ha l’intenzione di restituire l’influenza di questo fanatismo: non lo si vuole tanto smascherare, quanto mostrarne l’impietoso e insensato effetto conseguente su quei gruppi che qui non sono comunità, bensì massa. E nessuna tematica poteva risultare più contingente.

AI LOVE, GHOSTS AND UNCANNY VALLEYS <3
// ho rotto con la mia intelligenza artificiale e non la scaricherò mai più

di Mara Oscar Cassiani
produzione Re:Humanism 2023, Associazione Culturale Super Bubble

FUTURO ANTERIORE

con Antonio Anzilotti De Nitto, Matilde Buzzoni, Gloria Giacopini, Matilde Vigna
drammaturgia Margherita Mauro
regia Giulio Costa
produzione Ferrara Off

PHOTOGRAPHS

basato sul racconto di Vassilis Vassilikos
regia e adattamento drammaturgico Lyto Triantafyllidou
collaborazione alla drammaturgia Giorgos Kritharas
con Giorgos Kritharas, Electra Fragiadakis, Thanasis Kefalas

QANON REVOLUTION

di Riccardo Tabilio
regia Silvio Peroni
con Emanuele Cerra, Alice Conti, Gabriele Matté

Sansepolcro, Arezzo | 15 luglio 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Terre d’Arte: a Castellarano fra rievocazione e presente delle arti

LEONARDO DELFANTI | Il Comune di Castellarano è nel preappennino reggiano-modenese, la zona un tempo nota per l’industria ceramica, ultimamente un po’ in affanno. Il borgo, dominato da un castello e una piccola zona fortificata, è anche noto per essere stato teatro di un dolorosissimo eccidio nazista nei drammatici mesi della più tenace resistenza.
In questo contesto di storia e storie così particolare, la giovane amministrazione comunale, in collaborazione con la compagnia di danza e arti performative Sanpapié, ha promosso lo svolgimento a inizio giugno della terza edizione di Terre d’Arte, festival di teatro, danza e musica che si è svolto in questo comune in provincia di Reggio Emilia. Cifra peculiare è stata la partecipazione del pubblico, delle performance site-specific e il basso impatto ambientale, in un comune contornato da una bellissima area verde e un grande parco, che è stato teatro di diverse manifestazioni fra quelle in programma.
Il borgo di 15.000 abitanti in provincia di Reggio Emilia è tornato, quindi, a essere un grande teatro a cielo aperto fra parchi, cortili, dimore antiche e strade del centro storico: il progetto multidisciplinare promosso dal Comune di Castellarano con la direzione artistica di Lara Guidetti (con natali castellaranesi), come ha sottolineato anche la Vicesindaca con delega alla cultura Cassandra Bartolini, concentra l’attenzione sul tema ambientale e la sostenibilità, con il territorio che diventa protagonista insieme agli interpreti, grazie agli spettacoli site-specific e all’attivo coinvolgimento delle persone di Castellarano.
E così è stato: i cittadini hanno potuto prendere parte a un lungo e intenso laboratorio di teatro partecipativo, che ha portato alla realizzazione di uno spettacolo di comunità davvero intenso, che ha rievocato i drammatici fatti della seconda guerra mondiale e della strage nazista.

Quel XX luglio è stato il titolo scelto per lo spettacolo itinerante nato da  un percorso laboratoriale di Teatro Civico Totale intergenerazionale di scrittura partecipata e messa in scena, volto alla realizzazione della performance che prende vita nei luoghi simbolo di Castellarano. Il laboratorio è stato condotto da Saverio Bari e Marco Marzaioli in collaborazione con Temple Theatre di Sassuolo e il Centro L.I.F.E. che ne ha ospitato gli incontri. Si tratta di un lavoro sulla memoria, coltivata per la sua possibilità di essere seme».
I partecipanti, infatti, sono stati autori e interpreti di una rievocazione di grande impatto emotivo che si è conclusa davanti alla piazza del municipio con un momento di particolare intensità emotiva. Un percorso iniziato nella parte alta del borgo, in un ambiente quasi bucolico e contadino, per poi scendere nell’abisso della memoria.

Una delle serate più interessanti dell’estate performativa è stata quella che ha visto tornare in scena STAND BY ME di Sanpapiè al Parco dei popoli in una serata a doppio spettacolo introdotta da Renzo Francabandera e un aftertalk con i coreografi protagonisti della serata.
Dopo il trio di Sanpapiè, difatti, è andato in scena A peso morto / Lui, un solo interpretato da Carlo Massari, coreografo di C&C Company e intelligenza assai versatile nell’universo dei linguaggi della scena. Si tratta di due lavori con molti punti di tangenza.
Lo spettacolo della compagnia Sanpapiè è ispirato all’autobiografia di Dennis Nilsen, omicida seriale inglese, che svela con dovizia di dettagli i suoi 12 omicidi tra emozioni, ragioni e rigorose ritualità. Tre figure sono in scena, con un sembiante di due donne e un uomo.
Siamo nell’Inghilterra dei primi anni ‘80, intorno a un rituale del tè da cui prende le mosse lo spettacolo con i tre performer seduti e iscritti dentro un grande cerchio di luce. Il grande tema, qui come nello spettacolo che seguirà, è la solitudine.
È la notte di Natale, la paura del vuoto e dell’abbandono schiaccia la mente, il “mostro” entra in azione e uccide, e Nilsen trattiene con sé il corpo del suo ospite, lo conserva, e con lui convive. Qui viene portata in scena una versione leggermente ridotta del progetto coreografico, che elide la parte dell’atto criminale, ma che fa comunque emergere bene i temi del tangibile e intangibile, della caduta e della pietà, della doppiezza e dell’inarrivabile, fra amore e morte.
Sanpapié è nata a Milano nel 2008 da un gruppo di studenti della scuola Paolo Grassi e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore con l’obiettivo di esplorare contaminazioni, derive, possibilità e limiti del linguaggio fisico, diretto da Lara Guidetti. Si tratta di un nucleo artistico in costante apertura, composto da danzatori, coreografi, attori, compositori, registi e artisti visivi, in cui le tecniche della danza classica e contemporanea si incrociano con pratiche fisiche come l’acrobatica, il ballo popolare e lo studio del teatro fisico e di parola.

Carlo Massari presenta invece A peso morto / Lui, performance graffiante parte di un dittico sulla solitudine delle periferie. Qui il protagonista arriva da fuori scena, dalla cima della collina, vestito di una tuta e con una busta da homeless. La musica va con una cassa bluetooth che l’uomo si porta dietro, musica di balera, una sorta di emblema-fotogramma di una periferia senza tempo e identità. L’uomo si agita, corre fino a sfiancarsi, lancia baci ammiccanti verso la platea, lui con un sembiante da senescente decrepito (è bellissima la maschera di Lee Ellis che raffigura l’interprete da anziano).
È una comparsa passiva di una periferia voluta, desiderata, prospettiva di solitudine in un ambiente urbano in cui il tessuto familiare è saltato. Fatica e vecchiaia, solitudine e appiccicaticcia sensazione di mendicare un ritorno a esistere, a essere conosciuto e riconosciuto. Esattamente come l’assassino, anche lui è individuo mascherato, e dietro ogni maschera potrebbe esserci chiunque. Potremmo esserci anche noi.

una produzione Sanpapiè
coreografia e regia Lara Guidetti
con Sofia Casprini, Gioele Cosentino, Matteo Sacco
drammaturgia Saverio Bari in collaborazione con Gianluca Bonzani
elaborazioni sonore Marcello Gori
maschere Maria Barbara De Marco
scenografia Maria Croce
costumi Fabrizio Calanna
con il sostegno di Mic-Ministero della Cultura

​​A PESO MORTO

creazione originale ed interpretazione Carlo Massari
maschere Lee Ellis
produzione C&C
in co-produzione con Margine Operativo

Selezionato Contact Zones 2019

Premio TrenOFF 2017

“Balla per cambiare, crea un po’ di arte, se puoi”. Le parole di Cristina Caprioli, Leone d’oro alla Biennale Danza

GIAMBATTISTA MARCHETTO l «Sono onorata. E sono davvero sorpresa. Mai nella mia vita avrei potuto immaginare di ricevere un simile riconoscimento. Io, così intrinsecamente marginale, assolutamente precaria. Deliberatamente estranea al valore di mercato, per amore della perseveranza sotto copertura, ho trascorso tutto il mio tempo su un oggetto nodoso, coltivando una relazione diretta con l’inafferrabile». Cristina Caprioli viaggia su livelli siderali nel commentare l’assegnazione, a Venezia, del Leone d’oro alla carriera in occasione della Biennale Danza 2024.

«Custodirò questo Leone con la massima cura e onorerò la tua fiducia con la mia danza più dignitosa», ha dichiarato rivolgendosi a Wayne McGregor, direttore della Biennale Danza, alla cerimonia in cui ha ricevuto il prestigioso riconoscimento dalle mani del presidente Pietrangelo Buttafuoco. E nel ringraziare l’intero staff della Biennale, ha regalato a Venezia una lezione di stile e di pensiero.

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Cristina Caprioli alla consegna del Leone d’oro della Biennale Danza tra il direttore McGregor e il presidente Buttafuoco

IDENTITÀ POLIMORFA

La scelta stessa di McGregor di proporre Cristina Caprioli come Leone d’oro partiva dalla consapevolezza di avere a che fare con una danzatrice, coreografa, insegnante, scrittrice, accademica e curatrice. «Il suo corpus di lavori innovativi ha consolidato la sua indiscutibile posizione quale una delle più importanti coreografe in Svezia – scriveva il direttore nelle motivazioni – mentre la sua portata internazionale ha silenziosamente e sostanzialmente influenzato più generazioni di coreografi durante i suoi tre decenni di provocatoria ricerca fisica e di condivisione».

A metà degli anni Novanta, Caprioli ha fondato l’organizzazione indipendente ccap, con la quale ha prodotto un’ampia gamma di performance, installazioni, film, oggetti, pubblicazioni e altre “coreografie”, oltre a progetti di ricerca interdisciplinari a lungo termine.
«La coreografia di Caprioli è caratterizzata da precisione, complessità e forme emergenti di virtuosismo fisico – ha aggiunto McGregor. Tutte le sue produzioni sfidano i format normativi e le economie di scambio del settore; le basi filosofiche del suo canone hanno bilanciato una rigorosa ricerca concettuale con esperienze impersonate, coinvolgenti e altamente accessibili. L’impegno di Caprioli per il progresso, l’evoluzione e lo sviluppo della nostra forma d’arte è stato fonte di ispirazione per il settore e il suo approccio “sotto traccia” a tutto ciò che intraprende sottolinea l’eccezionale qualità e integrità del suo processo creativo a 360 gradi, dove il movimento, la danza, la coreografia e la creatività possono guarire, dare energia e cambiare le prospettive».

LA DANZA CHE TESTIMONIA

Lo speech di accettazione del premio di Cristina Caprioli è una sintesi di raffinata leggerezza e profondo rispetto per il pubblico. «Il lavoro è quello che deve essere, sulle montagne russe tra dubbi senza un piano di riserva. Di conseguenza, il mio compito deve essere quello di sostenere l’incertezza e mantenere viva una situazione di stallo. Urgenza, cura, incoscienza e il minor ego appiccicoso possibile».

Con queste parole l’artista dichiara che il premio le ha ricordato il suo “privilegio”. E aggiunge: «Evidentemente questo Leone conferma il mio privilegio e induce a osare un nuovo “atto di fede”. Ma nessun “salto” garantisce in alcun modo un atterraggio. Né può pretendere nulla che il lavoro non abbia già guadagnato. Quindi continuerò a lavorare, sapendo che ogni mossa deve portare le proprie prove, testimoniare e dimostrare, spiegare, argomentare ed essere costantemente difesa. In modo che qualcosa (una danza?) possa andare in scena senza dover indicare la sua (propria) giustificazione».

Che meraviglia! Un’artista che non pretende di spiegare al pubblico quel che dovrebbe aver visto in scena, compreso tra le righe, intuito in mezzo a bislacche associazioni di idee, scenografie, movimenti. No, è l’opera in sé che deve parlare, deve essere autoportante, almeno quanto l’episteme per un filosofo.

Cristina Caprioli, Leone d'oro alla carriera della Biennale Danza 2024 - ph. Jens Wazel
Cristina Caprioli, Leone d’oro alla carriera della Biennale Danza 2024 (ph. Jens Wazel)

IL LAVORO CONDIVISO

Non c’è solo il rispetto del pubblico, ma anche di chi lavora con lei e finanche di poeti e drammaturghi a cui ha scelto di “rubare” le parole e i sogni. «Oggi è una giornata straordinaria – ha dichiarato l’artista – una giornata che condivido con tantissimi colleghi: ballerini, amministratori, tecnici, designer, compositori e tutti. Ogni giorno sono benedetta dalla vostra fiducia, ogni giorno il lavoro prende vita grazie ai vostri preziosi contributi. E tutti i pensatori, poeti e scrittori, vivi e morti, i miei compagni ballerini per procura, le cui parole continuano ad alimentare e sfidare ogni mio movimento. Grazie a tutti per avermi tenuto al sicuro in punta di piedi».

DANCE FOR A CHANGE

C’è poi una postilla al discorso, che Caprioli non ha pronunciato integralmente, ma che merita una citazione (almeno parziale) per la bellezza delle sue parole. Collegandosi al titolo dell’edizione 2024 della Biennale Danza We Humans – dichiara la crisi del “Noi Esseri Umani”. In che senso? «Incapaci di stare insieme, ci aggrappiamo al nostro privilegio (rifiutiamo di muoverci) mentre urliamo senza controllo (fingiamo di muoverci). Noi umani non balleremo. La nostra promessa non è altro che uno slogan assordante».

I proclami successivi sono poesia e umanità distillate. «Io dico: balla per cambiare, crea un po’ di arte, se puoi. Che si tratti di una “cosa”, un santuario, un’oscillazione o qualunque coreografia. Lasciamo che la danza mantenga il suo impegno e coreografi un noi diverso. Abbraccia la danza, riconosci il suo potenziale. Metti esigenze più elevate nel ballare. Rivendica uno scopo, e l’onestà».

E ancora. «Io dico: forniamo il luogo e le circostanze per stimolare (arricchire) la partecipazione. Assicuriamo l’accesso a esperienze sensoriali che amplino la comprensione comune del chi è un corpo, di come muoviamo il movimento e il movimento ci muove. Dobbiamo abbracciare la differenza, rispettare lo straniero. Coltivare il valore estetico e aggiungerlo al mondo, così come lo percepiamo e come non lo possiamo ancora immaginare».

Kilowatt Festival: cosa vedi racconta chi sei

Miserella. Foto di Luca Del Pia

MATTEO BRIGHENTI | Viaggiare, restando fermi. Cioè, dentro di sé ma con altri occhi. Non per le «nuove terre» di cui parla Marcel Proust nell’abusata e, per altro, spesso storpiata citazione da Alla ricerca del tempo perduto, ma per le tue terre, attraversate dai tuoi cammini, diretti verso le tue mete. Il titolo scelto per Kilowatt Festival 2024 parla chiaro: “Contengo moltitudini”. Viene dal Canto di me stesso di Walt Whitman. Me stessǝ sono io. Io, però, non è uno solo: sono tanti. Me stessǝ, allora, siamo io.
La singolare pluralità di vedute di ognunǝ è la sfida che la direzione artistica di Lucia Franchi e Luca Ricci per questa XXII edizione – tornata stabilmente a Sansepolcro, là dove tutto è cominciato – ha scelto di raccogliere e, se possibile, rilanciare. Una simile traiettoria di ricerca e curatela, propiziata da Sandro Lombardi e Federico Tiezzi, i padrini di quest’anno, nei giorni di apertura del festival (12 e 13 luglio) ha brillato soprattutto per A Duet di Dovydas Strimaitis, La cantautrice fantasma di Ivan Talarico, Miserella del Teatro dell’Argine e Shaking Shame di Melyn Chow.

A Duet. Foto di Luca Del Pia

Un passo a due con l’assenza, con quello che c’è ma non si vede o meglio, non si sente: la musica. Clara Davidson e Ibai Jimenez hanno entrambɜ gli auricolari. A noi arriva solo il silenzio, rotto ritmicamente dai loro rimbalzi sul palco. A Duet è danza che toglie tradizione alla tradizione della danza, facendo qualcosa di inaspettato quanto incredibile, per altro in stretto dialogo con Monumentum DA di Cristina Kristal Rizzo e Diana Anselmo, visto a Inequilibrio Festival 2024. Difatti, la coreografia di Dovydas Strimaitis, basata sul Petit Allegro del balletto classico, sono segni disegnati nell’aria, le risposte sono da ricercare altrove, nei costumi, nei corpi, nelle luci.
Davidson e Jimenez indossano una sorta di calzamaglia glitter, qua e là tagliata: il corpo riempie i vuoti a partire da quelli che ha addosso. Così, si ritaglia il suo spazio per l’esecuzione del gesto. Le linee sono precise, geometriche, a volte i due procedono insieme, all’unisono, altre volte ognunǝ per conto proprio, quasi descrivendo il modo di Strimaitis di intendere la relazione tra un uomo e una donna. Comunque, non c’è mai freddezza o distacco, non sembra possibile.

Foto di Luca Del Pia

Poi, la musica arriva. In un attimo cambiano le luci, lo spazio si modifica, e i due iniziano danzare davanti agli spettatori di un solo lato mentre prima spaziavano su tutti e quattro i fronti e su tutte le porzioni di pubblico nel Chiostro di San Francesco. Ma lo spettacolo “canonico” non è che un momento del lavoro di un interprete: termina la musica, dunque, ma loro continuano. Le luci cambiano ancora, un taglio dopo l’altro. La scena respira insieme a loro: è, a tutti gli effetti, un “attore in commedia”. Nella semioscurità danzano l’impegno nascosto del cuore che batte, sottolineando di nuovo tutto quello che continua, anche se non lo vedi.
Clara Davidson e Ibai Jimenez sono strepitosɜ: riescono a restituire la musica “suonando” il palco, nel battere del loro incedere rimbalzato. Pure se non la senti, la intuisci, la percepisci. E quando pensi che sia arrivata la fine, ballano ancora per un istante sulla registrazione audio dei loro passi, fino a quando non resta che questa. E il ticchettio di un metronomo, inizio e fine di A Duet, quasi fosse stato tutto un sogno deɜ due ballerinɜ durante una prova di allenamento.

La cantautrice fantasma. Foto di Luca Del Pia

Rilegge e ribalta la storia, alla luce dell’assenza, anche La cantautrice fantasma. Stavolta la musica c’è. Ivan Talarico, una vera scoperta per me, canta e suona nell’Auditorium di Santa Chiara tra le più belle e famose canzoni di sempre, ripercorrendo la colonna sonora del nostro immaginario pop, se non delle nostre vite. Chi manca è la loro vera autrice. Ovvero, Agata Facci. Lei rappresenta tutto ciò che sarebbe potuto essere e non è stato o meglio, che è stato e non abbiamo mai conosciuto, perché rimpiazzato da quello che il sistema ha ritenuto più funzionale alla propria sopravvivenza.
La natura fantasmatica di Facci si manifesta fin all’inizio, durante l’attesa dell’ingresso in scena di Talarico. Un vuoto di quasi 5 minuti che ci porta volutamente al limite della sopportazione, espresso con un crescendo di colpi di tosse, risatine, ventagli sventolati e occhi al cielo. Quando entra, ci basta quello, la spiegazione pare un di più, una battuta a cui fare caso o no.
Invece, è l’avvio di un’investigazione sui grandi nomi della musica leggera italiana e internazionale per risalire all’ignota Facci, un’artista evanescente in un mondo per soli uomini competitivi. Ivan Talarico esegue i brani originali di lei e poi li confronta con le versioni famose. Com’è possibile che sia sparita? La vicenda ricostruita nasconde, in fin dei conti, la natura di un intelligente “giallo” sulla creatività e la fama, sul plagio e sul diritto d’autore, e sul non bruciare un’intera carriera sull’altare di un singolo errore.

Foto di Luca Del Pia

L’ironia che attraversa surreale e dolceamara La cantautrice fantasma, ci parla di qualcosa che riconosciamo ma non conoscevamo. È legata, in particolare, al prendere e mettere in fila i dati di fatto e non, la cronaca e la leggenda, esaltandone, in ogni caso, il lato più sconvolgente. È un’avventura dell’incredibile, dove il talento niente crea, niente distrugge, ma tutto trasforma in successo. Certo, se si ha fede di trovarlo, riconoscerlo e coltivarlo. E non da ora: da quando Dio ha creato il mondo.

Nel tempo che passa e tutto dimentica, Miserella del Teatro dell’Argine abita il tempo che ti cambia. Lasciandoti tracce sul corpo, cicatrici che sono impronte di possibilità perdute. La giovinezza è volere e potere insieme. Invecchiare, invece, aumenta la distanza tra ciò che vuoi e ciò che puoi.
Micaela Casalboni vuole rialzarsi in piedi: lo vuole fortissimamente. Ma non ci riesce, le sue forze le bastano appena per tirare su la testa dal palco del Teatro alla Misericordia. Ma non chiede aiuto. Aspetta, semplicemente. Aspetta di trovare un nuovo accordo con il mondo, una volta sceso alla sua altezza, come ha fatto, prima di lei, con Bastianazzo di Michele Santeramo. Le stanno comunque a fianco, senza lasciarla un momento, Caterina Bartoletti, Giulia Franzaresi, Ida Strizzi. È un coro tragicomico che la sprona e schernisce, più per ingannare il tempo – che certo un giorno farà cadere pure loro – che per convinzione.

Miserella. Foto di Luca Del Pia

Dunque, quattro attrici affiatate, autrici ispirate del testo, con Casalboni che dona delicatezza anche alla regia e, dietro le quinte, i compagni di viaggio di sempre, Nicola Bonazzi e Andrea Paolucci, a far da sponde al lavoro drammaturgico e di direzione attoriale.
L’ambiente di Miserella è un salotto di simil modernariato, con geometrie quasi espressioniste, cubiste, come a figurare l’opera trasformativa del tempo passato che distorce prospettive e visioni (la scenografia è di Nicola Bruschi). Qui, tra pouf, microfoni, finestre cieche e soffice moquette a pelo lungo, il duro impatto degli anni si traduce in una frenesia ripetuta di azioni e situazioni grottesche che i giudizi della società impongono alle donne. Soprattutto quando invecchiano, ma non soltanto.
È il contraltare fisico dell’ascolto sul palco di ricordi ed esperienze delle persone – donne e uomini, over 45, come no – incontrate all’ITC Teatro a San Lazzaro di Savena, la casa trentennale del Teatro dell’Argine, e nelle altre residenze artistiche lungo un anno di studio e di prove. E quando i pensieri restano muti, “parlano” con la danza i corpi delle attrici (la cura del gesto coreografico è di Daniele Ninarello), dimostrando quanto è assurda l’idea di imporre un canone alla bellezza, e quanto è illusoria la pretesa di mantenere il controllo sull’avanzare dell’età.

Foto di Luca Del Pia

«È una gran fatica fiorire». Può sembrare sconfitta, Micaela Casalboni. Ma lei è una Miserella, cioè una di quelle piante che mettono fiori pur su un gambo all’apparenza secco. Come ogni donna, come ogni persona, per cui la vita non è una questione di età, ma di tempo. Finché c’è luce, lo spettacolo può cominciare in qualsiasi momento. Anche alla fine.

Il corpo com’è, mostrato esattamente così com’è, è la provocazione disturbante e definitiva di Shaking Shame di Melyn Chow, dentro la chiamata di Kilowatt Festival 2024 a interrogarci su di noi, su cosa e come guardiamo. La stessa Chow, Estela Canal Parejo, Rita Bifulco, Sjaid Foncé, Laura Boser, nello scuotere i propri genitali – le “vergogne” rievocate dal titolo – mettono a nudo il fatto che vediamo quello che vogliamo vedere o, meglio, che siamo pronti a vedere.

Shaking Shame. Foto di Luca Del Pia

Siamo sul palcoscenico del Chiostro di San Francesco, danzatorɜ e pubblico insieme. Glɜ unɜ al centro, sopra una superficie riflettente a mo’ di specchio, gli altrɜ strettɜ intorno. Comunque, tuttɜ protagonistɜ. C’è chi è in piedi, chi sedutǝ, chi accovacciatǝ. Io resto in piedi, nella posizione, però, dell’osservatore non partecipante, di chi sceglie per sé la prospettiva del racconto. Cioè, con un piede su e l’altro giù dal palco: là dentro e, contemporaneamente, qui fuori.
Inizialmente, la danza è il risultato che la musica produce sul corpo. Poi, quando finisce, il movimento assume un carattere meccanico. Il corpo si riduce a muscolo che simula ossessivamente atti sessuali continui. Chow, Canal Parejo, Bifulco, Foncé, Boser, si toccano, si scuotono, si piegano, si rigirano. Da solɜ, in due, in tre, tuttɜ insieme. I movimenti, però, sono spogli come loro, non generano alcuna eccitazione. Una tale improduttività restituisce, fin qui, unicamente fragilità e solitudine.

Foto di Luca Del Pia

È una condizione claustrofobica, eppure siamo all’aperto. Shaking Shame è una percussione che ti scuote dentro, prodotta da cinque corpi che, come dita, ti si stringono alla gola. La durata è la chiave di volta per un cambio di sguardo. Persistere porta a familiarizzare con un simile spettacolo e a trovare e riconoscere in quell’agitare e scuotere anche la sacralità di azioni votate a replicare la gioia dentro il piacere. Nel momento, poi, in cui invadono il nostro spazio, si fa largo un’insospettabile, divertita ironia.
Shaking Shame è un’esperienza davvero indimenticabile, possibile grazie all’abnegazione eroica di Melyn Chow, Estela Canal Parejo, Rita Bifulco, Sjaid Foncé, Laura Boser. E che ti lascia con la radicata convinzione che un corpo è solo un corpo: non c’è da averne paura mai.

A DUET

coreografia Dovydas Strimaitis
con Clara Davidson, Ibai Jimenez
luci Lisa M. Barry
costumi Taylor Wishneff
ingegnere del suono Maxime Jerry Fraisse
musiche Adolphe Adam – No. 20 Allegro feroce (Giselle, London Symphony Orchestra, Michael Tilson Thomas)
produzione Still Waiting (FR), Be Company (LT)
finanziato da Lithuanian Council for Culture
co-produzione CCN-Ballet national de Marseille, les Espaces Mimont
con il supporto di Théâtre de Vanves, Montévidéo, Lithuanian Culture Institute
grazie a Austė Zdančiūtė, a Cultural Atachée of Lithuania in France, to Daniel Alwell and Aya Sato

Prima nazionale

LA CANTAUTRICE FANTASMA

di e con Ivan Talarico
grazie a Roberto Castello, Aldes, Giulia Zeetti

MISERELLA

parole Caterina Bartoletti, Nicola Bonazzi, Micaela Casalboni, Giulia Franzaresi, Ida Strizzi
con Caterina Bartoletti, Micaela Casalboni, Giulia Franzaresi, Ida Strizzi
regia Micaela Casalboni
collaborazione alla regia Andrea Paolucci
scenografia Nicola Bruschi
costumi Sabrina Beretta
musiche originali Davide Sebartoli
luci William Sheldon
cura del gesto coreografico Daniele Ninarello
assistente scenografa Carmela Delle Curti
assistente alla regia Laura Gnudi
responsabile di produzione Francesca D’Ippolito

Prima assoluta

SHAKING SHAME

ideazione, regia, interpretazione Melyn Chow
e con Estela Canal Parejo, Rita Bifulco, Sjaid Foncé, Laura Boser
luci Minna Tiikkainen
suono Maoyi Qiu
scene Lena van Drie
drammaturgia Renée Copraij
mentore e consigliere Floor van Leeuwen
voce e space holder Leela May Stokholm
ringraziamenti Audre Lorde, Sarah Ringoet, Jela Nieuwstraten, Merette van Hijfte, Jing Hong Okorn-Kuo, Marijn de Langen, Kim Zeevalk, Mime Opleiding
co-produzione Campo
con il supporto di City of Amsterdam, Ministry of Education, Culture and Science, Ammodo

Prima nazionale

Sansepolcro, Arezzo | 12, 13 luglio 2024

La danza come esplorazione dell’intelligenza nel corpo. Intervista a Wayne McGregor sulla Biennale 2024

Wayne McGregor - Courtesy La Biennale di Venezia ph. Andrea Avezzů

GIAMBATTISTA MARCHETTO l «Nuovi modelli di co-creazione, processi collaborativi sperimentali al di fuori dei mezzi e delle forme artistiche tradizionali, in conversazione con la natura, la scienza, la tecnologia e la politica, ci catapultano in sinergie insolite con intuizioni inaspettate». È una Biennale Danza nel segno della contaminazione tra corpo e tecnologia quella disegnata quest’anno da Wayne McGregor, fresco di riconferma alla direzione del Festival per il prossimo biennio.

La scelta di un titolo come We Humans è una dichiarazione d’intenti. «Svelare la grande complessità, le contraddizioni e il mistero della vita umana – scrive McGregor – è una delle priorità della carriera dei creativi del movimento invitati alla Biennale Danza 2024. Tutti gli artisti e le compagnie di quest’anno adottano il mezzo della danza come atto filosofico di comunicazione – mettendo alla prova i fondamenti della nostra conoscenza, sfidando le nostre nozioni di realtà ed estendendo la comprensione della nostra esistenza. Attraverso il loro lavoro – continua – ci invitano a chiederci da dove veniamo e dove siamo diretti, sondando l’essenziale all’interno, il cosa e il perché della sensibilità. Al centro del loro lavoro ci sono verità fondamentali, espresse – conclude il direttore – in oggetti coreografici viventi, realizzati in modo unico che ci parlano profondamente, risvegliano i nostri istinti e stimolano la nostra immaginazione”.

Ecco allora convocati a Venezia artisti che sfruttano le capacità dell’essere umano per superarne il potenziale, mentre ci ricordano «con calma, grazia e urgenza» che ciò che Noi Esseri Umani condividiamo è molto più grande di tutto ciò che ci divide. Con loro il 18. Festival Internazionale di Danza Contemporanea – che avvolge la città lagunare fino al 3 agosto – esplora la complessa area delle connessioni umane e tecnologiche.

Wayne McGregor. ph Linda Nylind

Wayne McGregor, c’è un filo conduttore nell’indicazione dei Leoni d’oro in questi anni di direzione?

Penso che in tutte le forme d’arte ci siano artisti molto celebrati nel corso della loro vita, molto famosi e conosciuti dal pubblico, nelle istituzioni e nei festival. E ci sono anche artisti incredibili, che hanno dedicato una vita alla sperimentazione e alla messa in discussione dell’arte rimanendo under the radar. Sono un po’ più invisibili e penso sia interessante che sia Simone Forti che Cristina Caprioli abbiano dato un contributo incredibile alla danza. Sono state spesso poco in vista e penso che una delle incredibili possibilità della Biennale sia quella di poter far luce su una pratica che forse è meno comune.
Nel caso di Cristina, è una maker e lavora sulla messa in scena, ma anche in video/film e gallerie, che di per sé non è insolito. È però insolito il suo rapporto con il mondo accademico, il suo percorso di ricerca molto forte e il suo approccio teoretico, ma anche il suo attivismo sociale. Infatti, ha lavorato per molto tempo con delle comunità. Quindi, penso che l’immagine globale di un’artista stia emergendo e molti sentono il bisogno che venga celebrata e resa più visibile.

Qual è il bilancio di questi anni di percorso del progetto Biennale College?

Ancora una volta confermo l’attenzione su chi forma i giovani e su quali sistemi siano aperti e accessibili al giovane artista. Per me è davvero importante. I giovani artisti maturano un background e un’eredità reali per poi creare mondi, per coreografare e comprendere come sviluppare la composizione. Comprendere come la generazione di contenuti e la pratica artistica più in generale si collocano nel mondo è più facile se lo si scopre con alcuni degli incredibili coreografi che tutti conosciamo. Ed è fantastico vedere come questi maestri vengano a lavorare direttamente con il College.
Questo è incredibile: nel corso degli anni di College, i Leoni d’oro hanno effettivamente lavorato con gli studenti. E i ragazzi sono stati in grado di entrare in contatto con quegli artisti in un modo davvero straordinario e questo dà loro una spinta davvero esponenziale. Li fa davvero crescere molto rapidamente e offre loro un set di strumenti completamente.
Ovviamente, devi avere talento, devi sviluppare le tue capacità. È un’esperienza di apprendimento permanente. Devi avere tenacia, ma una delle cose di cui hai veramente bisogno è la prospettiva e penso che sia davvero straordinario quando artisti con una prospettiva e una visione unica del mondo lavorano con i giovani trasmettendo la loro.
Credo che siamo stati molto fortunati ad avere Cristina Caprioli in studio per oltre un mese con i giovani artisti. In passato abbiamo anche avuto Carolyn Carlson, con prospettive molto diverse, e penso sia una delle possibilità davvero straordinarie che possiamo offrire qui a Venezia.

biennale danza 2024 Cristina Caprioli, Leone d'oro alla carriera della Biennale Danza 2024 - ph. Jens Wazel
Cristina Caprioli, Leone d’oro alla carriera della Biennale Danza 2024

Qual è la linea che lega il programma We Humans ai festival precedenti?

Prima di tutto, vogliamo costruire su ciò che abbiamo sviluppato negli ultimi quattro anni. Una parte del programma è un’evoluzione del lavoro che abbiamo iniziato e la scelta è di investire sui giovani artisti, perché possano creare l’opera che desiderano realizzare. Si tratta di investire in lavori che non sono stati visti in Italia, ma spesso nemmeno in Europa e nel mondo, quindi stiamo cercando artisti che spesso lavorano under the radar e l’impegno nei confronti dei giovani talenti e dei molti modi in cui possiamo sviluppare giovani talenti è davvero fondamentale per il programma della Biennale Danza. Questi sono elementi costitutivi del lavoro nelle ultime quattro stagioni.
Abbiamo poi esaminato tutta una serie di idee che hanno a che fare con l’intelligenza fisica, su cosa rende un corpo alfabetizzato. Il corpo ha intelligenza e qual è la natura di quell’intelligenza lo esploriamo in questo festival, We Humans, cercando una comunicazione molto diretta. Il corpo comunica per l’80% in modo non verbale, più delle parole. Quello che leggiamo con il corpo è più di quanto ascoltiamo effettivamente nelle parole. La calibrazione di ciò che è intelligenza fisica mi sembra davvero importante. Penso che lo vedrete in questo festival anche con artisti che lavorano con la scienza e la tecnologia, e si può vedere l’impatto dell’intelligenza artificiale.
È essenzialmente una delle domande più grandi del nostro tempo: l’intelligenza artificiale potrebbe essere creativa? Esiste la possibilità di costruire strumenti che in qualche modo forniscano una nuova forma di espressione in relazione all’intelligenza artificiale? Penso che tutto ciò sia davvero importante.

E guardando avanti, come sarà la Biennale Danza dl prossimo biennio?

Attendo artisti globali che siano under the radar. Artisti che hanno qualcosa da dire sull’identità, sulla politica, sull’intelligenza artificiale e sul cambiamento climatico. Sono le domande centrali del momento, ecco a cosa dovrebbe prestare attenzione un festival di danza contemporanea. E poi c’è l’incredibile costellazione di luoghi che abbiamo qui a Venezia, il tessuto molto speciale di edifici, il modo molto particolare in cui devi passeggiare e interagire con la città è molto diverso dall’avere un festival in qualsiasi altra città. La consideriamo una ricchezza ulteriore.

biennale danza 2024 Waves di Cloud Gate - ph. Liu Chen-hsiang
Biennale Danza 2024 – Waves di Cloud Gate

L’incrocio con la tecnologia porta a un superamento del corpo, dell’unicità del movimento? Porta a un superamento dell’umano?

Penso che sia compito dell’artista interrogare la condizione umana e interrogare il corpo stesso come tecnologia. Penso che lo sia ancora di più se si pensa ai segni per comprendere il corpo dall’interno in un modo diverso – come fanno Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor in De Humani Corporis Fabrica che utilizzano tecnologie microscopiche per vedere l’interno di un corpo. È un lavoro davvero profondo che ci fa guardare dentro e realizzare che tu e io siamo abbastanza vicini guardati da dentro, perché condividiamo così tanto.
Quanto al post-umano, va detto che è guidato e non subìto dagli umani. Sono i programmatori e gli scienziati a scrivere i programmi. L’intelligenza artificiale nasce dall’intelligenza e dalla creatività nell’innovazione degli esseri umani. Questo non è qualcosa di separato da noi.
C’è una continuità e quindi è altrettanto eccitante o rilevante o potente riportare la mente all’essenza di ciò che il corpo umano è e può fare e può essere. Quando guardiamo un corpo “aumentato” e vediamo cosa cambia, non è qualcosa di diverso da noi. Siamo noi e dobbiamo avere la capacità emotiva ed etica per far funzionare questa interazione. Noi esseri umani siamo capaci di questo, siamo capaci di lavorare con l’intelligenza artificiale. E come siamo capaci di essere distruttivi, siamo capaci di mostrare grande empatia. Siamo capaci di essere molto complessi e penso che il nostro lavoro come artisti sia esplorare questa complessità e farci riflettere su noi stessi, con progetti interessanti.
Quello che stiamo facendo è riunire un gruppo di persone reali in un tempo reale. E penso che questo sia il potere assoluto della convocazione di persone che respirano insieme in un teatro. Sentirsi insieme è qualcosa di insostituibile. Quindi, per quanto lavoriamo con la tecnologia, non mi preoccupo mai che possa interrompere o cambiare quella connessione empatica che hai con un essere umano.
In questo festival ci sono artisti che lavorano con l’intelligenza artificiale e altri che portano un lavoro molto politico, ma ciò che accade è comunque una transizione diretta di energia. Questo è un elemento insostituibile della ricerca nella danza, questa è la ragione per cui la amo.

Il titolo We Humans indica una collettività, una comunità che va oltre l’individualità. Eppure la fruizione da spettatore passivo fa perdere la dimensione liturgica della danza come impatto sulla comunità. È così?

Penso che in parte questo dipenda dal pubblico. Sei tu pubblico a incarnare il rituale, perché stai rilasciando quelle endorfine e sei quel corpo fisico che sta interagendo.
Quando balli, hai la sensazione del ritmo corporeo di qualcun altro insieme al complesso spaziale, alla mappa che stai costruendo con il tuo partner. Questo è molto diverso rispetto a ricevere quel trasferimento di energia mentre sei in una posizione oggettiva, in cui sei testimone dalla platea. Eppure, c’è comunque una relazione forte. Sono un grande sostenitore del fatto che i sistemi fisici molto complessi siano condivisi in modo fisico con altre persone.
Ecco perché vogliamo portare al festival pensatori radicali. Noi comprendiamo perché com-prendiamo, attraverso e con il corpo, non solo con il cervello. È per questo che la nostra capacità insieme è maggiore della nostra capacità come individui. È una questione di potere. Basta guardare altre esperienze collettive, come ad esempio i corpi vengono utilizzati nella protesta politica: è un atto comunitario in cui un corpo collabora con altri corpi per influenzare un particolare tipo di cambiamento.
È molto interessante il fatto che abbiamo sempre avuto il corpo al centro, per cui possiamo effettivamente comunicare non verbalmente in un grande gruppo, perché questo trascende tutti i confini del linguaggio.

Cosa è dunque il corpo?

Una delle cose interessanti riguardo al corpo è che è un palinsesto. È letteralmente una storia. Gli artisti in questo festival portano nel palinsesto del corpo un particolare momento culturale o un particolare tipo di temi e valori che hanno espresso attraverso il loro lavoro. Era loro intenzione lavorare in quel modo, per rivelare o aprire il loro corpo come un archivio.
Penso che la relazione tra valori, domande, etica e risposte sia davvero importante. Anche se l’approccio degli artisti invitati è differente, tutti condividono l’umanità, condividono un sistema di valori reali.

Un attore deve poter brillare: bisogna saper gestire il suo valore e le sue fragilità. Intervista a Fausto Russo Alesi

Fausto Russo Alesi durante la presentazione di Bottega XNL Fare Teatro_foto Del Papa

GIAMBATTISTA MARCHETTO l Ha debuttato un paio di settimane fa al Festival di Teatro Antico di Veleia con la sua rilettura di Ifigenia in Aulide, adattata a un contesto novecentesco e contrappuntata dal sottotitolo Un miracolo scandaloso (qui la recensione di Olindo Rampin). Ma prima Fausto Russo Alesi ha lavorato intensamente con un gruppo di giovani interpreti (selezionati con bando per il corso di alta formazione Bottega XNL-Fare Teatro di XNL Piacenza) per attraversare i sentieri scoscesi della formazione. Soltanto dopo è arrivato alla messinscena.
Qual è il senso del lavoro – perché di lavoro duro si tratta – dell’attore in questo teatro di oggi, che divora i suoi figli con la smania di produzioni veloci e sempre nuove? Quale senso ha compiere sforzi intellettuali, fatiche fisiche, gesti feroci e azioni d’arte… se poi tutto si spegne in un pugno di repliche?
Vale la pena, allora, affrontare il tema del talento, un concetto che può sembrare apodittico e che, invece, trova nel lavoro (ancora) e nella fatica la sua via crucis verso la resurrezione, ogni sera, in scena. Per questo, PAC ha chiesto a Russo Alesi di approfondire il percorso compiuto a Velleia, ma anche di scavare nella riflessione sul ruolo dell’artista in teatro e nel mondo.

Fausto, quanto conta la formazione nel percorso di costruzione di un talento?

Conta moltissimo. Ogni professionista deve specializzarsi e deve studiare per raggiungere una formazione adeguata e i migliori risultati. Il talento è qualcosa di innato, è qualcosa che ti può permettere di fare anche dei percorsi non tradizionali, non convenzionali. Probabilmente il talento, a cui si aggiungono motivazione e determinazione, è qualcosa che ti porterà a raggiungere l’obiettivo e il risultato indipendentemente dal tipo di formazione, dal tipo di percorso che strutturerai, ma certamente il talento va coltivato, va alimentato con la preparazione e lo studio della tecnica, per affrontare al meglio il mezzo di comunicazione con cui decidi di lavorare.
Formazione significa anche avere l’opportunità di incontrare “Maestri”, altri punti di vista, altre storie, esseri umani, confrontarsi direttamente con chi sta facendo il tuo stesso percorso e con chi lo ha già fatto. Soprattutto credo che la formazione sia indispensabile per attrezzarsi ad affrontare quello che è poi il mondo del lavoro: bisogna essere solidi. Anche se noto una sempre più diffusa omologazione del luogo della formazione col mondo del lavoro. Credo sia indispensabile non solo preparare professionisti, ma considerare il tempo dello studio come un luogo protetto e di diritto alla ricerca e alla conoscenza di limiti e potenzialità.
Bisogna avere un bagaglio strutturale forte che ti consenta di costruire un tuo percorso personale e autentico. È necessario acquisire strumenti di consapevolezza, indipendentemente dal talento. E solo con un meticoloso e appassionato lavoro di studio si possono ottenere grandissimi risultati. La recitazione è un lavoro di profonda conoscenza di se stessi, che non si esaurisce (qualora sia fertile) con gli accademici anni di studio, ma è un percorso che va avanti negli anni indipendentemente dall’età, perché fa parte del nostro essere dentro al mondo e della capacità di abitare i suoi misteri e le sue contraddizioni, traghettandoli in una realtà parallela.
Ciò che noi facciamo in quanto artisti è farci veicolo di quello che ci succede, di quello che è successo, del sentore di quello che potrebbe succedere, muovendoci, appunto, tra la verità e la finzione.

Ifigenia in Aulide al Festival di Velleia (foto Gianfranco Negri)
Ifigenia in Aulide al Festival di Velleia (foto Gianfranco Negri)

Il lavoro quotidiano (fisico e mentale) è necessario per affinare le doti?

Il lavoro quotidiano di studio, ascolto, di saper guardare intorno a te, studiare gli individui, conoscere il mondo in cui vivi, le sue crepe: l’allenamento è certamente indispensabile. Diciamo che non tutti gli attori lo fanno e probabilmente ci sono anche fasi della vita in cui prediligi un allenamento fisico piuttosto che un allenamento di studio.
Eimuntas Nekrosius diceva: «Adesso voi siete molto forti fisicamente, dovete allenare lo spirito, dovete accrescere la vostra cultura, lavorare con l’immaginazione». Tenersi in allenamento è fondamentale, perché il nostro è uno strumento che va accordato in continuazione, vanno sciolte le tensioni, va conosciuto. Bisogna mettersi nella condizione di superare i propri limiti, prendere consapevolezza del proprio corpo e del proprio corpo nello spazio: l’allenamento quotidiano serve a questo, serve a tenere un’energia pulita che organicamente scorre.
Il nostro corpo a volte è a conoscenza di cose che sottovalutiamo, attraverso il lavoro fisico respiriamo, creiamo relazioni, facciamo vivere e sosteniamo le potenzialità della parola. Allo stesso tempo, dobbiamo allenare il nostro strumento emotivo, i muscoli del cuore, essere capaci di far suonare tutti i sentimenti e le emozioni implicandoci in quello che raccontiamo.

Utilizzi dei “modelli” o dei paradigmi nel percorso di formazione?

Non paradigmi specifici, ma certamente sono figlio – come tutti – di qualcosa e di qualcuno. Non dimentico mai di osservare chi ho davanti e cosa mi sta insegnando e quello che cerco di fare e di portare il mio punto di vista sul mondo, come lo vedo io, ma cercando di sollecitare anche gli allievi nel costruire il loro punto di vista e avere il coraggio di raccontarlo. Poi, ovviamente, fare formazione significa, come prima cosa, avere la voglia di passare a qualcun altro ciò che hai appreso durante gli anni con la tua esperienza, con il tuo lavoro quotidiano, con gli incontri che hai fatto. E quindi, ogni volta è anche fare un bilancio e relazionarsi alle persone che incontri e capire come i tuoi fondamentali incidono nell’allievo e se lasciano qualcosa.
Quello che cerco di passare è quello che ho imparato lavorando in profondità con dei grandissimi Maestri. Dai primi forti riferimenti alla Paolo Grassi – Gabriele Vacis, Armando Punzo, Gigi Dall’Aglio – a quelli che ho incontrato successivamente: Nekrosius, Stein e soprattutto Luca Ronconi, con una grandissima collaborazione e, per me, un’ulteriore formazione durata dieci anni.
Ma certamente non dimentico in lungo sodalizio con Serena Sinigaglia, talentuosissima regista e grande amica. Ci siamo formati insieme alla Paolo Grassi e il nostro scambio quotidiano ci ha fatto crescere l’una con l’altro, abbiamo condiviso grandi avventure e abbiamo compreso tanto del nostro stare nel lavoro, in questo mondo, della nostra voglia di comunicare. E poi, i grandi Maestri che ho avuto la fortuna di incontrare al cinema e non posso che citare, in primis, Marco Bellocchio. Ma anche operatori culturali straordinari come Natalia Di Iorio.

Ifigenia in Aulide al Festival di Velleia (foto Gianfranco Negri)
Ifigenia in Aulide al Festival di Velleia (foto Gianfranco Negri)

Qual è il valore aggiunto che l’interprete deve portare nella messinscena?

Il valore aggiunto è l’implicazione di un artista nel lavoro che fa. Credo profondamente che ogni attore sia insostituibile e ciò che può dare un attore non può darlo un altro. L’implicarsi personalmente nel lavoro, il farsi veicolo, il mettere in campo con generosità tutto il proprio bagaglio di vissuto, il bagaglio emotivo, il bagaglio culturale, il bagaglio di pensiero. Sul palcoscenico, ma anche davanti a una telecamera, indipendentemente dal filtro della finzione, quello che cerchiamo di fare è un atto di verità.
Per cercare di dare qualcosa di autentico devi essere generoso, devi regalare qualche cosa di te, devi lavorare per qualcosa che non sei solo tu, per qualcosa in qualche modo di più grande, il senso e l’obiettivo di un testo, di uno spettacolo o di una tematica che ti sta a cuore. Io credo che il valore aggiunto sia il dare qualcosa di unico, ecco, non affidarsi ai cliché e provare a dare il massimo sempre come se fosse l’ultima volta che hai la possibilità di prendere parola. Io credo che stare sul palcoscenico o stare davanti a una telecamera è un atto di presenza e vuol dire assumersi la responsabilità di esserci.

Come si bilanciano formazione e rapporto con la regia?

Rapporto con la regia certamente vuol dire incontrare l’immaginario di qualcun altro. Un regista che è anche pedagogo deve, a mio avviso, saper dividere le due cose e potenziare le qualità personali dell’allievo indipendentemente dal suo immaginario autorale. La regia vuol dire scegliere un punto di vista, stare dentro a un contenitore che in maniera non generica ti racconta una visione sulla questione scelta e l’incontro con un grande regista, una grande regista e un grande Maestro o Maestra trasuda di insegnamenti determinanti e illuminati a tal proposito.
Sicuramente l’attore – indipendentemente se in formazione o già formato – è colui che mette il suo corpo, la sua faccia, le sue emozioni in primo piano, colui che si espone al giudizio degli altri ed è quindi per me fondamentale saper lavorare con gli attori, saper gestire, saper dialogare col “potenziale umano” che l’attore deve sempre mettere in campo.
Saper dirigere un attore significa saperlo mettere nelle condizioni migliori di dare il meglio di sé e quindi esprimere al meglio il suo talento. Un attore, nel momento in cui è su un palcoscenico o dietro una telecamera a imprimere le immagini di un film, deve poter brillare, deve poter veramente prendere al meglio la luce che gli si mette addosso e, per far questo, bisogna che l’attore sia disponibile e che chi dirige l’attore sappia gestire il suo valore prezioso e le sue fragilità.
Ci vuole molta accortezza perché, per quanto mi riguarda, lavorare con un attore significa andare assolutamente in profondità affinché quello che va in scena sia estremamente autentico e personale… come conoscere qualcosa di nuovo che non ho mai visto prima, che non somiglia a nient’altro. Per far questo, per dare la possibilità a un attore di aprirsi, di donare, bisogna creare le condizioni migliori. Quindi regia per me significa anche questo… regia degli attori, regia sugli attori, oltre che indirizzare tutti gli attori verso un unico obiettivo, verso l’abitare un tempo, un luogo e un territorio comune.

Ifigenia in Aulide al Festival di Velleia (foto Gianfranco Negri)
Ifigenia in Aulide al Festival di Velleia (foto Gianfranco Negri)

Perché hai scelto Ifigenia per la messinscena con il gruppo di lavoro?

Quando mi è stato chiesto di essere il “Maestro di bottega” per questo bellissimo progetto che è “Fare teatro” e di mettere in scena una tragedia antica, inizialmente pensavo fosse meglio proporre la commedia antica. È un momento storico talmente tragico, di triste rimozione di quello che ci accade intorno, che l’idea di affrontare la tragedia antica mi creava un enorme disagio. Volevo trovare un modo possibile per parlare di guerra, di ciò che accade vicino a noi e dentro di noi, qualcosa di terrificante e di cui non siamo in grado di occuparcene, di fare in modo che le cose vadano diversamente: spettatori e complici.
Poi, invece, pensando a Ifigenia in Aulide di Euripide, che è un grido contro l’orrore e l’insensatezza di qualsiasi guerra, sebbene molto pessimista nei confronti dell’uomo, ho cambiato idea. Questa tragedia è interessantissima, perché è come se fosse il prologo, un antefatto alla tragedia e all’atrocità, alle vendette e alla guerra. È qualcosa che avviene prima.
Questa Aulide, dunque, è qualcosa di forte che risuona in me e spero nello spettatore: una condizione, non un luogo geografico, il luogo della scelta, quel luogo dove ancora abbiamo la facoltà di appellarci alla nostra coscienza per decidere quale può essere il corso della storia e fermarsi in tempo, guardare in faccia le più bieche e violente pulsioni e decidere che si può perdere in virtù di un’empatia nei confronti dell’altro, in virtù di un di un sentimento di umanità.
Era quel luogo che mi interessava raccontare, immaginarlo con 22 attori e attrici in un tempo di studio, che per me vuol dire anche indagare e interpretare insieme un testo e tematiche che, purtroppo, risuonano protagoniste nel nostro presente. Questo testo poi ha dato l’opportunità a questi 22 attori e attrici di confrontarsi con personaggi straordinari della storia del teatro, personaggi che puoi interpretare a 22 anni come a 60. Parlo di Agamennone, di Clitennestra, di Menelao, ma parlo anche dell’opportunità di fare un forte lavoro sul coro, un mondo maschile e un mondo femminile in uno spettacolo corale che sia uno stimolo all’immaginazione e che vada a dialogare e a specchiarsi con la Polis.

Qual è il rapporto tra percorso formativo e testi classici?

Tendenzialmente se è un classico è senza tempo e bisogna lavorare in modo che quel senza tempo, cioè quella complessità così connaturata all’essere umano, ai bisogni dell’essere umano, alle contraddizioni dell’essere umano risuoni nell’oggi in maniera diretta. Per questo, sono fondamentali le traduzioni, una traduzione dell’oggi ci può aiutare a capire molto meglio cosa l’autore stesse tentando di raccontare. Per far questo è indispensabile che i riferimenti siano comprensibili nell’oggi e la lingua possa emozionarci.
D’altronde, i grandi scienziati, filosofi e intellettuali questo fanno: cercare di raccontarci le cose più alte e apparentemente distanti riferendosi alla concretezza della nostra vita di tutti i giorni. E anche i grandi classici questo fanno: ci parlano in maniera diretta e poetica della nostra vita quotidiana e dei sentimenti più naturali.
Certamente io faccio sempre appello all’esperienza e la conoscenza dei grandi maestri, dei grandi registi, dei grandi autori della letteratura, del cinema e del teatro. In un percorso di formazione non si può che parlare continuamente di Euripide, di Shakespeare, di Cechov, di Pirandello, di Eduardo o di Dostoevskj, così come non si può che parlare di Peter Brook, di Giorgio Strehler, di Luca Ronconi e di grandi attori come Volonté, Mastroianni, oppure Anna Magnani.

Il classico è sempre senza tempo? È una radice ineludibile?

I classici sono testi universali che ci parlano della complessità dell’essere umano. Se un testo di Euripide ci parla ancora oggi, vuol dire che ciò di cui parla è estremamente legato alla natura umana.
Quanto più un classico risuona nell’oggi, tanto più è necessario portarlo in scena, vuol dire che ha ancora qualcosa da dirci, ha qualcosa da insegnarci, ha qualche domanda da porci, perché credo che l’arte ci possa dare questa possibilità: evolverci come esseri umani. Credo che nella formazione sia indispensabile sia confrontarsi con i classici che con la nuova drammaturgia, con il sentire del presente, che senz’altro non può che tenere conto di tutto ciò che è stato scritto fino a questo momento.

Ifigenia in Aulide al Festival di Velleia (foto Gianfranco Negri)
Ifigenia in Aulide al Festival di Velleia (foto Gianfranco Negri)

Cosa significa essere attori nel tempo dell’immagine riflessa, dei video sui social, dell’AI?

Credo che essere attori significhi veramente implicarsi profondamente, non essere bidimensionali, ma cercare una stratificazione della propria presenza artistica. Sicuramente significa approfondimento, significa essere in grado di mutare, di “comprendere” man mano che si fa il proprio percorso, si portano in scena determinati testi o personaggi.
L’intelligenza artificiale sicuramente non può restituire un continuo lavoro di messa in discussione, o l’ambizione alla ricerca, il tentativo di trovare la strada per accedere a luoghi che in genere nella vita quotidiana cerchiamo di lasciare nell’ombra assopiti. Andare in scena, per me, è un’esperienza totalizzante e i social, invece, sono qualcosa di estremamente estemporaneo e superficiale, qualcosa che dura 24 ore e muore o che comunque dà la possibilità a chiunque di dire la sua, senza veramente fare esperienza di ciò di cui ci parla.

L’attore in scena è nel mondo, ma non è del mondo? Oppure si innesta in un flusso di energie che sono il contemporaneo quotidiano?

Io credo che l’attore in scena abiti un mondo parallelo, ma questo mondo parallelo è la metafora del nostro mondo quotidiano. L’attore è e deve essere nel mondo, perché del mondo ci racconta altrimenti non ci interesserebbe, ma per far questo può utilizzare codici e modalità espressive anche impreviste e atipiche. D’altronde, attraverso la distanza, credo che si possa guardare molto meglio e vedere in maniera più nitida ciò che ci riguarda.

Pergine Festival, elogio della disobbedienza

Annalisa Limardi - ph Elisa Vettori

OLINDO RAMPIN | Pergine ha qualcosa di sfuggente, come una lingua che non si comprende appieno. È una cosa che capita in queste ordinate contrade di mezza montagna del Triveneto. Questa piccola città di provincia a pochi chilometri da Trento ci rivela qualcosa di questa sua identità contrastante, anche grazie alla relazione che intrattiene con il festival estivo diretto da Babilonia Teatri: esito non scontato del dialogo che può crearsi tra teatro e territorio.
Uscendo dalla ex rimessa carrozze, garage riadattato a sala teatrale, dopo aver visto lo spettacolo di una giovane coreografa e danzatrice, Annalisa Limardi, osserviamo con occhio più attento gli edifici storici, con quel curioso stile ibridato in cui la base costruttiva veneta è trasformata dall’abbraccio montanaro-tirolese.

Annalisa Limardi – ph Elisa Vettori

Il quartetto di spettacoli che abbiamo visto comincia e si conclude con un invito alla disobbedienza. Non è una disobbedienza civile, una critica sociale organizzata in un discorso ordinato e consapevole della propria forma e dei propri fini. No, titolo parlante dell’assolo con cui Limardi ha vinto il bando Non addomesticabili del Centro Santa Chiara e di Pergine Festival, è più un grido giovanile di auto-difesa dal caos narcisistico del presente. Un’insofferenza impulsiva che, prima che dallo spirito, sembra provenire da un rigetto dell’organismo, del soma: scheletro, nervi, muscoli, denti, volto.
Con repentine scattosità, fughe rientrate, furori improvvisi, sorrisi che mutano in dinieghi, Annalisa Limardi si oppone con l’intera anatomia e con una contagiosa ansia espressiva alle pressioni del paesaggio umano, amicale, amoroso e famigliare, che la prevaricano, richiamandola strumentalmente alla sua disponibilità, al suo senso di responsabilità. È una repulsione che vince ogni possibile tentazione, anche sessuale, di un pansessualismo maschile sessista, che pretende e comanda, depotenziato dalla sua stessa identità anaffettiva e reificata. Ne mima gli ansimi, ma non perde mai un suo timido e schivo sorriso.
Partito come assolo danzato senza parole, lo spettacolo svela poi compiutamente sé stesso, integrando la verbalità al linguaggio del corpo. La danzatrice afferra un microfono, con cui combatte un definitivo corpo a corpo, ed è credibile mentre esprime con coerenza una sua nuova acquisizione esistenziale, fondata sulla libertà di sottrarsi, sulla raggiunta capacità di dire
“no”.

AriaTeatro – ph Elisa Vettori

Di tutt’altra natura è la disobbedienza del clochard parigino Andreas, protagonista della Leggenda del Santo Bevitore, l’ultimo e postumo racconto di Joseph Roth, da cui è tratto Il Santo Bevitore, messo in scena al Teatro Comunale di Pergine dalla compagnia locale AriaTeatro. È una disobbedienza pregressa, che ora si muta nella più clamorosa delle adesioni, chiamando in causa una solenne promessa d’onore, nel nome di Santa Teresa di Lisieux.
Lo sfondo narrativo e simbolico di intensa religiosità cattolica è inedito per l’ebreo galiziano Roth, cantore dell’ebraismo orientale e del tramonto del rimpianto impero asburgico. Nell’ultima fase della sua vita, trascorsa a Parigi, l’inclinazione al bere e la conseguente rovina psico-fisica si erano accompagnate in Roth a una regressione politica, che lo portò a farsi seguace di un’ideologia reazionaria, propugnatrice di un ritorno al legittimismo, all’ordine monarchico. Era un’adesione politica fondata più su una base emotivo-artistica che su un percorso di presa di coscienza ideologica.
Il racconto, non a caso, fu trasferito sullo schermo, 36 anni fa, da Ermanno Olmi, regista sensibile a un cristianesimo neo-evangelico, a una religione dei poveri e degli scartati. Ma mentre Olmi ne ricavò un’essenziale e misteriosa trama di silenzi, di sguardi, di piogge, di interni, di simboli, la compagnia trentina lo allestisce con copiosa abbondanza di segni, di costumi di variegata foggia, di soluzioni registiche, di estetiche e di stili recitativi, e con il commento live di un musicista.
La figura del santo bevitore, ispirata in Roth a un dimesso rigore e a una solenne essenzialità, deve così raccordarsi con la vivace recitazione degli attori, che interpretano più personaggi, con la musica e con una scena dominata da un’informe catasta di stracci che si trasforma, infine, in un’immensa e inquietante testa di statua classicheggiante.

Kronoteatro – foto Nicolò Puppo

È una disobbedienza che si ravvede anche quella di Renart – Processo a una volpe di Kronoteatro, spettacolo jeune public che fa leva su una favola francese medievale per raccontare un percorso di sopraffazione, di pentimento e di perdono, interpretato da una volpe prepotente. La struttura è un ambizioso e ricco intarsio di stili e di tecniche: narrazione d’attore, video in diretta, teatro di figura, potenziati ulteriormente con inserti trap, con immagini evocative e dialoghi fuori scena tra attore e tecnico, in una dimensione di “teatro nel teatro” che svela la natura di finzione di ciò che accade davanti agli occhi dei giovani spettatori, chiamati infine ad assumere la funzione di giudici.
La proliferazione di forme  e l’inserimento di linguaggi prossimi alla sensibilità del pubblico giovane dà vita a un discorso ricchissimo di ingredienti, che non arretra davanti al rischio di dispersività drammaturgica. Il giovane interprete, Filippo Tampieri, alto, dal fisico atletico, la chioma bionda dal taglio trendy, affronta con coraggio e vigore una non facile prova di funambolismo performativo, e con la sua energia contagiosa percorre con slancio i passaggi dal trap al racconto, dal racconto al teatro di figura.

La Rappresentante di Lista – ph Elisa Vettori

Gli spettacoli programmati a Pergine invitano a scoprirne la duplice anima. La parte moderna, attraversata dalla trafficatissima statale, puntellata da anonimi condomini e attività commerciali, avvolge l’edilizia storica del centro. L’appuntamento che chiude la nostra presenza al festival ci fa scoprire una terza, arcaica Pergine. Basta uscire dalla statale e percorrere pochi metri in salita per trovarsi improvvisamente in uno scenario radicalmente diverso, un intatto paesaggio montano dove un intenso odore di letame bovino e una graziosa chiesetta di pietra puntellano una radura dove, nella semioscurità, sostano immobili mucche.
Alla fine di una salita nel bosco, mentre assistiamo all’atteso concerto-reading de
La Rappresentante di Lista, alle nostre spalle incombe la mole minacciosa della fortezza di Castel Pergine, sorta di cupo Spielberg valsuganese. La cantante Veronica Lucchesi e il chitarrista Dario Mangiaracina intitolano questo live Parole politiche d’amore e disamore, ma le loro intenzioni politiche sembrano parenti della negazione di Annalisa Limardi: più implicite che manifeste, più private che pubbliche, più emotive e intimistiche che argomentate. I testi inediti del prossimo album, letti dal duo, hanno una natura di abbozzo non rifinito, su cui opereranno una necessaria opera di revisione.
Ma il fatto sorprendente e istruttivo è che il passaggio dal reading alle canzoni ha rivelato come la parte musicale e canora, seppur su testi maggiormente controllati perché compiuti, determina per sé stessa una metamorfosi, che conferisce alle canzoni una forza espressiva inimmaginabile rispetto alle lyrics in sé. Fatto che, se è intrinseco alla natura stessa della canzone pop d’autore anche negli esempi più illustri, in questo caso è davvero straordinario. 

NO
di e con Annalisa Limardi
sound design Saverology
co-produzione Centro Servizi S.Chiara di Trento, AriaTeatro ETS e Pergine Festival
occhio esterno Penelope Morout
con il sostegno di Tuttoteatro.com

LA LEGGENDA DEL SANTO BEVITORE
da Joseph Roth
regia Giuseppe Amato
drammaturgia Chiara Benedetti e Giuseppe Amato
con Giuseppe Amato, Chiara Benedetti, Stefano Detassis, Christian Renzicchi e Candirù
musiche Candirù
scenografie Andrea Coppi
produzione AriaTeatro

RENART – PROCESSO A UNA VOLPE
da “Il Romanzo di Renart la volpe” a cura di Massimo Bonafin
regia ed adattamento Tommaso Bianco
con Filippo Tampieri
sculture Francesca Marsella
responsabile tecnico e disegno luci Alex Nesti
produzione Kronoteatro

PAROLE POLITICHE D’AMORE E DISAMORE
La Rappresentante di Lista
di e con Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina

Pergine (TN) | 9, 10 luglio 2024

PAC LAB | L’allunaggio del Performare Festival – Parte 2

Foto di Giovanna Mangiù

SOFIA BORDIERI* | Dopo aver partecipato ai giorni d’apertura del Performare Festival, raccontiamo la seconda parte della settimana. Il week end ha inizio con Viva la mamma di Gioia Morisco, visto lo scorso anno a Catania (ne ho parlato qui). Il lavoro si è presentato con un’altra maturità che ha portato ad alcuni cambiamenti relativi soprattutto alla durata, ora allungata, di una partitura fisico-espressiva privata dalla voice-off che rendeva la messa in scena più narrativa. La danzautrice bolognese, che in questi giorni ha condotto un laboratorio per donne di tutte le età incentrato sulla figura della Madonna, è tornata con il suo corpo presente e ricettivo. Lo spettacolo, lo ricordiamo, è incentrato sulla figura della madre post partum. In un momento finale su La Cavalcata delle Valchirie, passando dalla finzione alla realtà, Morisco si è rivolta direttamente a un gruppetto di giovanissimi spettatori rumorosi in prima fila, rendendo la temperatura estremamente tragicomica.

Foto di Giovanna Mangiù

A condividere la serata sono state due performance di Nicola Simone Cisternino. La prima è stata la restituzione del laboratorio di movimento fatto con otto ragazze tra i 16 e i 22 anni guidate in scena da un testo evocativo-immaginativo, sussurrato dall’autore in regia (le stesse giovani studentesse hanno partecipato al Tavolo PAC, il laboratorio di scrittura critica che abbiamo curato per il festival). Cisternino ha guidato un montaggio delle pratiche esperite durante i cinque giorni di studio e ricerca. Tra coriandoli e sorrisi, la scena è stata abitata da corpi che ho più volte osservato durante le giornate di lavoro, e che sono risultati via via più coraggiosi e più consapevoli della loro presenza, sollecitati verso una direzione performativa per loro nuova.
A seguire lo stesso Cisternino, in leggins di pelle e stivaletti da boxe, ha dato vita a Billi, parte della ricerca in corso relativa al lavoro ROI che abbiamo seguito durante la residenza a Scenario Pubblico (intervista qui).
La sua presenza è ambiguamente divina, rotea come un oggetto che si mostra dentro una teca di cristallo. Vortica virtuosamente, ora in velocità, ora in lentezza, accompagnato da sonorità che spesso si configurano come manifestazioni di un caos eccitante e drammatico. Il lavoro è in progress, pertanto la resa scenica ha bisogno ancora di tempo per maturare, ma il concept e gli elementi di questa prima restituzione promettono già un interessante lavoro di ricerca.

Foto di Giovanna Mangiù

La sera seguente veniamo accolti durante l’ingresso da una serie di “doni danzanti”. Le danzatrici sono quelle che hanno seguito il laboratorio di Silvia Gribaudi e che girano tra noi con delle cuffie che vengono offerte alla spettatrice o allo spettatore scelto, a cui viene chiesto: «Posso regalarti una danza?» I loro corpi in scena, poi, rimettono in azione A corpo libero di Gribaudi, che abbiamo visto due giorni prima in versione site-specific.
Stavolta in ensemble, l’oggetto centrale è sempre quello gribaudiano: la libertà e la gioia del corpo – adattivo a spazi, situazioni, altri corpi – intese come condizioni da ricercare, raggiungere e mantenere nell’esposizione in scena. Così ha luogo una festa di corpi (allenati) disinteressati alle preoccupazioni di una resa estetica canonica.
Prima di questo momento abbiamo assistito a Striptease di e con Claudio Cremonesi, la cui presenza è stata per alcuni momenti minacciata dall’eruzione dell’Etna e dalla temporanea chiusura dell’aeroporto di Catania. La scena è abitata solo dalla sua figura curiosa, in completo fucsia e sneakers bianche, che gioca con una pallina bianca. Ne perde una, poi tante, ma alla fine ci chiede sempre sorridendo: «Cosa perdo?».
Tra tricks di giocoleria con oggetti e indumenti che via via toglie, il suo spogliarello non seduce i sensi, ma produce riflessioni immerse in un’atmosfera di comicità. Il “giocoliere a perdere”, infatti, accompagna l’intera performance con domande sull’utilità delle cose, smascherando il feticismo con cui “vestiamo” gli oggetti.

Passiamo all’ultima giornata. Nell’ambito del progetto Paesaggio e Comunità si è tenuta una mini-residenza di Cie MF | Maxime & Francesco che con Chef D’œuvre ha intrapreso una ricerca sulle tradizioni, la memoria, gli archivi effimeri nell’ambito della cucina.
La performance è iniziata con una breve passeggiata. I due danzatori con grembiuli e guantoni da cucina hanno poi coinvolto il pubblico in una serie di assaggi di produzione del Caseificio Terra Mia, chiedendo ai presenti di tradurre il sapore dei formaggi con il movimento delle braccia.
Dopo una serie di domande rivolte ai presenti, i due danzatori hanno sviluppato una breve coreografia ispirata al processo di caseificazione e agli stadi del latte, da liquido a solido, utilizzati come task di movimento.

La sera ci rincontriamo al Cliché, un pub in una delle vie principali del paese. Siamo immersi in un via vai di gente che passeggia, bambini che giocano, ragazzi e ragazze che chiacchierano davanti a una birra. Nella veranda esterna del pub, dove è stato ritagliato un piccolo angolo teatrale, è posizionato un bancone con sopra e intorno diverse bottiglie di alcolici.
Emanuela Serra in jeans, felpa, cappellino e anfibi, striscia una bottiglia sul tavolo producendo un rumore metallico riverberato, un’eco distorta. «Il concetto dei soldi ha fottuto i miei amici»: inizia così il fittissimo flusso di coscienza di Loose Dogs che occupa tutto il tempo e lo spazio dell’azione. La parola è nel corpo e si esprime attraverso esso con movimenti spezzati e fluidi, ebbri e lucidissimi.
Serra è “un malato d’umano” e la sua performance è come una lama in quella bolla di vita serale, tra il rumore dei locali vicini, le persone che si fermano, ma poi proseguono, e la spensieratezza di chi per caso si trovava già seduto al pub, ma non ha prestato troppa attenzione a questa opera maestra firmata da Serra/Balletto Civile.

Foto di Giovanna Mangiù

Concludiamo con un passo indietro. Tra terra e luna: per un’e(est)etica del margine è stato l’incontro curato la prof.ssa Simona Scattina dell’Università di Catania che ha dato avvio alla giornata di domenica. Il dibattito incentrato su danza, territorio e buone pratiche ha coinvolto diversi ospiti, tutti e tutte legate a realtà culturali fuori dai grandi centri.
Insieme si è dialogato delle molteplici esperienze, sul senso dell’operare con la cultura in luoghi difficili, e su quali possibili direzioni intraprendere. Durante l’incontro sono stati proiettati tre cortometraggi di videodanza a cura di COORPI e del Contest Internazionale di videodanza La danza in 1 minuto: Wasteplanet di Susanna della Sala, BreathIn di Roberto Zuccalà ed Eros Brancaleon e Study on the Faun di Giuseppe Tiralosi.

VIVA LA MAMMA
coreografia, drammaturgia e danza Gioia Morisco
disegno sonoro Ricardo de Sonis
produzione Scenario Pubblico
con il sostegno di Habitat, Rete per gli Spazi Urbani
in collaborazione con AlmaDanza, Crexida, Fienile Fluò, Leggere Strutture

BILLI
di e con Nicola Simone Cisternino
assistente alla drammaturgia Elena Giannotti
ambienti sonori Spartaco Cortesi
light designer Massimiliano Calvetti
produzione Twain Centro di Produzione Danza
co-produzione Movimento Danza – Organismo di Promozione Nazionale
vincitore di bando ACASA, progetto di residenze coreografiche Centro di Rilevante Interesse Nazionale per la Danza Scenario Pubblico/Compagnia Zappalà Danza Festival Racconti di altre danze – Atelier delle arti Supporto al progetto Company Blu danza
con la partecipazione di Allieve del Liceo Coreutico R. Settimo di Caltanissetta e GEMA corpo contemporaneo di Annalisa Di Lanno

A CORPO LIBERO
di e con Silvia Gribaudi
elaborazioni musicali Mauro Fiorin
disegno luci David Casagrande Napolin, Silvia Gribaudi
produzione Associazione Culturale Zebra

STRIPTEASE
di Claudio Cremonesi e Silvia Gribaudi
con Claudio Cremonesi
regia coreografica Silvia Gribaudi
testi e giocoleria Claudio Cremonesi
assistente alla regia Francesca Albanese
luci Alessandro Palumbi
styling Erica Sessa
musica autori vari e LSKA/ Luca Scappellato
produzione Ass. Cult. Piazzato Bianco e Zebra
con il sostegno di Spazio Magnete (ECATE), Milano e Centro Culturale Rosetum, Milano

CHEF D’OEUVRE
regia, coreografia e interpretazione Francesco Colaleo, Maxime Freixas
produzione CIE MF | MAXIME & FRANCESCO
progetto realizzato da Performare Festival 2024 nell’ambito della residenza Paesaggio e Comunità

LOOSE DOGS
ideazione Emanuela Serra, Alessandro Pallecchi, Guido Affini
interpretazione Emanuela Serra
suono Guido Affini
testi Emanuela Serra
produzione Balletto Civile
grazie al Teatro della Tosse Fondazione Luzzati

Performare Festival | 2-13 Luglio, Serradifalco (Cl)

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.