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giovedì, Gennaio 16, 2025
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La bombetta di Aristofane: Brecht, i f.lli De Rege e Le Rane del Teatro Due

ph Andrea Morgillo

OLINDO RAMPIN | Qualche settimana fa abbiamo assistito al Teatro Due di Parma a I diciassette cavallini, multi-speziata creazione di Rafael Spregelburd. Non supponevamo di ritrovarvi, con Le Rane di Aristofane, un altro pastiche, diversamente assemblato. Composto nel 2012 e ripreso ora, può sembrare un suo antenato esemplarmente discorde, benché venerando e molto più accessibile.
Quanto l’autore argentino metteva a cimento spettatori e attori in un arduo puzzle di personaggi, temi, azioni, tanto il riallestimento aristofaneo mostra la sua esplicita natura di manifesto: breviario di virtù civiche travestito da farsa, Carta deontologica dei Teatranti & Cittadini consapevoli.

Non era estraneo al greco Aristofane un fine militante e ideologico quando scrisse quella che non è, come vuole la vulgata, una discesa all’inferno per cercare un poeta e salvare Atene dalla sua crisi culturale. È piuttosto una condanna feroce della nuova cultura e un elogio della poesia tradizionale, formatrice di una coscienza civica integrata. La nuova letteratura è rappresentata dal “furfante” (panoúrgos) Euripide, la vecchia letteratura dagli “onesti” (chréstoi) Sofocle ed Eschilo. Il conservatore Aristofane scrive quindi un’intera commedia per additare Euripide come il mandante culturale della disgregazione morale e politica della polis attica. Il titolo, più che il depistante Le Rane, che vi occupano un brevissimo cammeo, potrebbe essere “L’anti-Euripide”.

ph Andrea Morgillo

Firmata collettivamente dall’ensemble parmigiano – Gigi Dall’Aglio fu allora intervistato da Pac – questa riscrittura della commedia greca, rispettata nella sostanza dell’impianto originale, ne amplifica selettivamente, con una interpretazione legittimamente “infedele”, la natura di appello al pubblico a difendere insieme la cultura e il teatro dall’attacco dei nuovi barbari. Per farlo compone un blend di culture e generi, in cui la commedia dell’arte, la farsa, il cabaret, l’avanspettacolo prendono le forme di una singolare commistione. Brecht e i fratelli De Rege, la commedia dell’arte e il Fellini prima della Dolce vita, Ruzante e l’avanguardia protonovecentesca sono funzionali ad allestire un centone che ammonisce mentre diverte. Vi trova espressione un omaggio all’arte degli attori, un’orchestrazione duttile e adatta all’espressione della loro abilità interpretativa e di un certo clima, verace e accogliente, di teatro all’antica italiana.

Di questa filiazione grottesca e basso-comica, didattica e sentenziosa, il maggior emblema è la bombetta nera. Tutti, o quasi, dal Coro alle Rane, da Dioniso al servo Xantia, la indossano, con funzioni diverse quante sono le risonanze evocate. Adorna di grappoli d’uva, grottesca parrucca, la porta Dioniso, con cui Roberto Abbati costruisce un dolce-amaro e sapiente ritratto di capocomico, memore delle compagnie di rivista nella eterna e immobile provincia italiana, recitato con i toni, i gesti, la dizione di un compassato e ironico accademismo. Il suo servo Xantia, Davide Gagliardini, la abbina a un papillon e a una giacca oversize. La sua amabile furfanteria si veste linguisticamente di una parlata romanesca. I due copricapi richiamano più quelli dei fratelli De Rege, che quelli di Vladimiro ed Estragone.

ph Andrea Morgillo

Ne restano significativamente esonerati due soli personaggi: Eracle ed Eschilo, entrambi interpretati da Massimiliano Sbarsi, la cui allampanata figura cozza felicemente con quella forzuta del selvaggio figlio di Zeus e Alcmena. Alla bombetta deve sostituire una testa leonina di peluche, alla quale regredisce la leggendaria pelle del felino ucciso, mentre i muscoli erculei sono costruiti con un’imbottitura che lo rende debitore dell’energumeno che nel Monello è vessatore di un altro celebre indossatore di bombetta, Charlot. Eschilo, dal canto suo, rivive in lui con raccapricciante credibilità in un burosauro con grisaglia e medaglie al petto, reduce dall’Europa oltrecortina pre-1989. La bombetta conferma la sua funzione drammaturgica quando, con Euripide, si tramuta in cilindro: Luca Nucera lo ritrae, camicia bianca e gilet nero slacciato, con gli abiti di un Rino Gaetano intellettualizzato e stravaccato su una Ektorp bianca con i braccioli disegnati con i pennarelli in forma di colonne ioniche, in un aberrante duello tv.

Vagamente beckettiane, ma soprattutto brechtiane, sono le bombette del Coro, impersonato tra gli altri da Cristina Cattellani e Laura Cleri. Le sostituiscono con una parrucca e un abito giallo fluo quando interpretano le rane, quasi un café chantant virato al camp. La vorace inclinazione accumulatoria non rinuncia a inserire anche un estratto, più filologicamente inteso, delle tragedie dei due duellanti. Trova modo di farsi strada anche qui l’impressione che queste Rane trovino il loro fine più autentico nella dimensione interpretativa: atto di amore e di fede verso l’artigianato attoriale, verso il teatro come arte dell’attore e del drammaturgo. Non a caso lo spettacolo, dopo la prevedibile sconfitta di Euripide e il trionfo di Eschilo, termina con l’ascensione al cielo di tanti palloncini gonfiabili colorati, ognuno dei quali impersona il ricordo e l’omaggio commosso agli scrittori accolti nel pantheon della compagnia.

ph Andrea Morgillo

 

LE RANE
di Aristofane

ripreso e interpretato da
Roberto Abbati, Cristina Cattellani, Laura Cleri,
Davide Gagliardini, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi

regia di
Roberto Abbati, Paolo Bocelli, Cristina Cattellani,
Laura Cleri, Gigi Dall’Aglio, Luca Nucera,
Tania Rocchetta, Marcello Vazzoler

musiche Alessandro Nidi
scene Alberto Favretto
costumi Marzia Paparini
luci Luca Bronzo

produzione Fondazione Teatro Due

Teatro Due, Parma | 11 gennaio 2025

Kids Festival 11: l’energia e la magia del teatro tout public

ILENA AMBROSIO | Anche quest’anno è stato Kids Festival. Un rito ormai, per quanto ci riguarda, con il quale concludere l’anno vecchio e iniziare il nuovo nel segno dell’entusiasmo. E questa edizione, lo forniamo come dato introduttivo, di entusiasmo ne ha contenuto a dismisura: l’affluenza nei vari spazi di Lecce che ospitano da 11 anni la rassegna dedicata alle nuove generazioni e firmata da Factory Compagnia Transadriatica e Principio Attivo Teatro, è stata impressionante, con spettacoli sold out e lunghe liste di trepidante attesa.
Tutto è possibile il claim di questa edizione nella quale ci siamo ritagliati la finestra iniziale, una due giorni (28 e 29 dicembre) che si è aperta con una rilettura di La Bella e la Bestia. La drammaturgia tout public di Massimiliano Burini e Giuseppe Albert Montalto – il primo anche regista – sa ben vestire il nocciolo della storia di un abito contemporaneo, cosi che la dolce Bella (Chiara Mancini) è una ragazzina dall’intelligenza vivace e curiosa e la Bestia (Raffaele Ottolenghi) un uomo che rifiuta di accettare il proprio aspetto e vive rintanato nel buio del suo palazzo, lontano da tutti. La romantica storia d’amore tra i due si declina qui, più in generale, in una giocosa relazione di reciproca conoscenza grazie alla quale sia lui che lei riescono ad abbattere i propri muri interiori per aprirsi a un nuovo affetto. Essenziale e bella la scena di Marco Lucci – tre grandi lampadari adagiati in terra che si rialzeranno e illumineranno solo nel finale – che si avvale anche di giochi d’ombra dietro due lunghe tende poste sulla sinistra dello spazio. Ben integrate a sostenere le diverse temperature del racconto le musiche di Gianfranco De Franco. Manca, forse, nell’interpretazione, un guizzo che dia maggiore energia e compattezza alla rappresentazione la quale rischia, in alcuni frangenti, di perdere smalto. Ma nonostante qualche lentezza arriva ben chiaro il semplice eppur significativo messaggio che «l’essenziale resta invisibile agli occhi e la vera bellezza non la si vede che con il cuore».

Più complessa, invece, l’operazione del Teatro del Piccione di Genova che, con Verso B, ha voluto realizzare una drammaturgia per bambini e ragazzi (dai 7 anni) ispirata all’universo biblico e in particolare alla rappresentazione che di quell’universo hanno dato i testi e le immagini di Una Bibbia di Philippe Lechermeier e Rebecca Dautremer.
È la storia del viaggio di un padre e un figlio (Paolo Piano e Dario Garofalo) alla ricerca del «destino ultimo di una umanità post catastrofica», destino che ha il nome impronunciabile – B appunto – di una misteriosa città nella quale uomini e donne stanno costruendo una torre altissima, simbolo di unione ritrovata e rinnovata. Un percorso le cui tappe vengono scandite dai racconti del padre che rievoca le vicende di Abramo, Isacco e Sara, così da renderlo anche un viaggio di crescita e formazione per il figlio.
All’essenziale ruolo del piano narrativo si accompagna una resa scenica altrettanto significativa: un carretto da nomadi, pieno zeppo di oggetti del vivere quotidiano, abiti e accessori vari, tende, riempie lo spazio teatrale facendo da “cassetta degli attrezzi” per la notevole abilità rappresentativa, potremmo dire artigianale, dei due attori. Grazie a questo bellissimo oggetto/scenografia vengono realizzate immagini suggestive e accattivanti e gli interpreti sanno incarnare una variegata gamma di situazioni emotive capaci di tenere viva l’attenzione. A dispetto di ciò, però, tende a slabbrarsi la tessitura drammaturgica: le diverse rievocazioni bibliche sembrano giustapporsi alla storia dei due personaggi e non si legano sufficientemente al senso che sembrerebbe il più urgente da trasmettere, quello di un viaggio – non necessariamente di impronta religiosa – verso una dimensione di umanità nuova e più sincera.

Altro giorno, altri spettacoli. Il 29 dicembre una sorpresa grande. Quest’anno il Festival ha aperto la programmazione a lavori per le nuovissime generazioni, neonate, a dire il vero: nel cartellone, infatti, lavori indirizzati anche a bambini di pochi mesi. Su stimolo della direzione artistica abbiamo vinto lo scetticismo e ci siamo trovati di fronte un vero gioiellino. Koro Koro del Wonderland Collectief (Olanda) è un’esperienza sensoriale e insieme emotiva di grandissimo impatto. Dedicato a cuccioli di umano piccolissimi (da 6 a 18 mesi, ma noi abbiamo assistito alla replica per “adulti” dai 2 ai 5 anni), il lavoro è una vera e propria indagine di stampo piagetiano sulle modalità di reazione da parte dei bambini a stimoli di diversa natura che vanno dal semplice rumore – un martellino battuto sul pavimento – ai suoni – di percussioni o campanelli – alla musica – di flauto o fisarmonica; oppure dal mero sguardo, al movimento, alla danza.
Il Collettivo, di quattro componenti diversissimi tra loro ma in perfetta e simpatica sintonia, sviluppa una performance improvvisata perché ogni volta condizionata dalle reazioni del piccolo pubblico, durante la quale rimane però come costante un’impressionante attenzione a ciò che quegli spettatori, a loro volta, lanciano istintivamente come input. Circondati da loro e dai rispettivi genitori, i performer riempiono lo spazio circolare in ogni suo centimetro, così che ciascun bambino possa essere intercettato in uno sguardo, in un sorriso o anche in una smorfia di timore e possa divenire a suo modo, secondo la sua specifica sensibilità, parte dello spettacolo. Un gioco meraviglioso ma non uno scherzo: la seria consapevolezza di questi quattro artisti rispetto alla particolare fragilità del materiale umano con il quale lavorano e la delicata maestria con la quale lo fanno lascia a bocca aperta – letteralmente, noi adulti lo eravamo tutti. Ma non solo: Koro Koro crea da subito e sempre più con lo scorrere dei minuti, una speciale magia tra i piccoli e gli artisti ma anche un entusiasmo negli adulti che normalmente sembrerebbe immotivato – chi ride o si commuove per un campanellino che trilla? – ma che lì, in quel luogo, di fronte alla semplicità della bellezza sembra la cosa più naturale e sensata del mondo.

Un altro bel viaggio è stato lo studio di Alessandro Nosotti Orsini, Emotus – un mondo di emozioni. L’artista, supportato dal circuito TRAC Teatri di Residenza Artistica Contemporanea – Centro di residenza pugliese, ha ideato una poetica performance utilizzando una grande palla gonfiabile bianca che anima variamente dall’interno e poi manovra dall’esterno. Un metaforico itinerario attraverso le varie emozioni con le quali ci si trova ad avere a che fare nel corso della vita – l’imbarazzo, la sorpresa, la rabbia, la tristezza e la solitudine – e, insieme, un percorso di formazione che insegni a conoscerle, accettarle e amarle. Orsini è sinceramente ed evidentemente appassionato: ne sono prova la cura del gesto, mai eccessivo o superfluo, la precisa e calibrata espressività del volto, l’attenzione alla gestione dello spazio. Lo accompagnano poi un disegno luci e una partitura sonora e musicale che, nella loro semplicità, risultano assai efficaci nel colorare visivamente e acusticamente i disegni emozionali tratteggiati dal corpo del performer. Peccato soltanto per la valutazione della fascia d’età cui indirizzare il lavoro, dai 3 anni: probabilmente un pubblico che partisse almeno dai 6 avrebbe potuto meglio comprendere e quindi apprezzare la sensibilità di uno studio che necessita certamente di una elaborazione concettuale più matura.

La nostra due giorni si è chiusa con una delle presenze più rinomate del Festival, nonché un gradito ritorno, il Circo El Grito che ha presentato il magico Luz de Luna realizzato con la regia e la drammaturgia di Michelangelo Campanale (qui la recente intervista di PAC). Una donna (Fabiana Ruiz Diaz), la sua piccola casa che sembra un dipinto, fatta di piccoli oggetti che ne dettagliano i contorni. Tutto, posto in proscenio, è quotidiano, normale, consueto. Un piccolo e poetico mondo di Amelie. Poi il sonno, la notte e la luce della Luna. La casa – una meravigliosa struttura su ruote – arretra e l’ampio boccascena diventa lo spazio di un sogno durante il quale, tableau dopo tableau, sullo sfondo di luminosità avvolgenti e sulle note di una playlist dal sapore antico, lei si libra in aria con la leggerezza di una piuma e il guizzo giocoso di un aquilone, con la grazia di una danzatrice e insieme la forza e quella specifica maestria tecnica che solo l’arte del circo sa insegnare.
Ma il sogno è anche mistero, ignoto, surreale: strane figure, buffe ma un po’ inquietanti, appaiono ad accompagnare o a disturbare i viaggi immaginifici della donna, i suoi voli e i suoi volteggi. Andando oltre il semplice susseguirsi di numeri acrobatici, la tessitura drammaturgica fa di questo meraviglioso esempio di circo contemporaneo anche un’elegante pièce che, con le sue inaspettate virate di straniamento meta-teatrale, sa vestirsi di intelligente ironia e auto-ironia. Un affascinante e riuscito matrimonio tra teatro e circo.

E quindi, sì, il rituale si è compito anche quest’anno: Kids Festival ha concluso e iniziato in bellezza, la bellezza che continua da 11 anni a preservare e alimentare, a diffondere per i luoghi di Lecce e a offrire ai suoi piccoli e grandi spettatori. Ci convinciamo, anno dopo anno e fuori da ogni retorica, che sia qualcosa di prezioso, necessario e urgente, perché magari, queste nuove generazioni riusciranno a farne tesoro per il futuro e a rendere il loro mondo un posto che sia anche solo un po’ migliore.

LA BELLA E LA BESTIA

con Chiara Mancini, Raffaele Ottolenghi
drammaturgia Massimiliano Burini, Giuseppe Albert Montalto
luci Giuseppe Bernabei, Luigi Proietti
musiche Gianfranco De Franco
costumi Kim Hyoung Hui
scenografia e ombre Marco Lucci
regia Massimiliano Burini

VERSO B

di e con Dario Garofalo e Paolo Piano
liberamente ispirato ai testi e alle immagini di Una Bibbia” di Philippe Lechermeier e Rebecca Dautremer
drammaturgia Flavia Gallo
regia Dario Garofalo e Danila Barone
realizzazione scene Simona Panella, Danila Barone e Valentina Albino
costumi Monica Mancini
voce della bambina Elisabetta Totonelli
video Lorenzo Marianeschi
Produzione Teatro del Piccione Genova
In residenza presso
Il Funaro (Pistoia), Teatro del Lido (Ostia), Fondazione Luzzati/Teatro della Tosse (Genova), Teatro Comunale (Sasso Marconi), Teatro delle Formiche (Tagliolo Monferrato), Teatro Corte di Giarola (Collecchio).

KORO KORO

direction Makiko Ito
music Kristján Martinsson (accordeon, flaut, voce), Alan Gunga Purves (percussioni)
dance Manuela Tessi, Makiko Ito

EMOTUS – un mondo di emozioni (studio)

da un’idea di Alessandro Nosotti Orsini
con Alessandro Nosotti Orsini
regia Alessandro Nosotti Orsini
consulenza coreografica Riccardo Meneghini e Serena Marossi
consulenza drammaturgica Samanta Cinquini
musiche originali Mirko Zambelli con il supporto di Simone Moretti
disegno luci Simone Moretti
con il supporto di TRAC Teatri di Residenza Artistica Contemporanea – Centro di residenza pugliese – Compagnia Abbondanza/Bertoni

LUZ DE LUNA

di e con Fabiana Ruiz Diaz
regia Michelangelo Campanale
e con Gennaro Lauro
scenografie Michelangelo Campanale e Fabiana Ruiz Diaz
costumi Beatrice Giannini
luci Tea Primiterra
macchinisti Michele Petini, Maxime Morera
produzione SIC / Stabile di Innovazione Circense
realizzato grazie al contributo di Ministero Italiano della Cultura e Regione Marche

Kids Festival 2024/2025 |  Lecce 27 dicembre – 6 gennaio
Foto di Giovanni William Palmisano

Festival ScienzaInScena: al PACTA Salone la meravigliosa vita della marchesa du Châtelet

MARIA FRANCESCA SACCO / Pac Lab* | Che il teatro sia un luogo di stimoli, confronti e punti di vista differenti è ben noto. È il luogo in cui si verifica quella fondamentale relazione tra l’attore, su uno specifico spazio scenico, e lo spettatore che osserva, testimone dell’atto. Parafrasando Jodorowsky “il teatro serve ad attraversare le frontiere tra te e me” e in generale, crea una comunione tra chi porta se stesso e i propri temi in scena e chi li riceve aggiungendovi una propria riflessione. Dunque, un luogo di una ricchezza tale da permettere di sviluppare un pensiero critico, di conoscere nuovi argomenti, di entrare in contatto con la dimensione creativa capace di generare riflessioni.

ph Emma Terenzio

Questo è proprio ciò che vedremo accadere durante il Festival ScienzaInScena che, alla sua ottava edizione, occuperà le scene del PACTA Salone di Milano dal 7 al 21 febbraio e che quest’anno presenterà ben 15 spettacoli tutti incentrati su personaggi di scienza o questioni scientifiche. Un evento che, da anni, vanta collaborazioni come il Politecnico di INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica, CNR – Consiglio Nazionale delle Ricerche, Department of History University of California, Berkeley, Civico Planetario di Milano e quest’anno per la prima volta ci sarà anche Rai Pubblica Utilità, il dipartimento Rai che ha lo scopo di promuovere lo sviluppo sociale e culturale dei cittadini.
La curatrice Maria Eugenia D’Aquino tiene a sottolineare che ciò che caratterizza la rassegna sta nella possibilità di esplorazione, attraverso la scienza, di tutte le espressioni del genio umano che comprendono filosofia, tecnologia, poesia, danza, in un costante dialogo tra questi modi di esprimere creatività e ingegno.
Tra i titoli abbiamo ad esempio ECHI DI LUCE e l’universo che bussò alle porte dell’Aria (10/11 gennaio), spettacolo commissionato l’anno scorso dall’Istituto Nazionale di Astrofisica per raccontare le conquiste nell’osservazione dell’universo e riproposto quest’anno.


Ci soffermiamo sul titolo che andrà in scena dal 15 al 19 gennaio: La doppia vita di Emilie – Madame du Châtelet tra Newton e pompon in cui si indaga la meravigliosa figura della marchesa Émilie du Châtelet. Lo spunto viene dal libro di Paola Cosmacini, La ragazza con il compasso d’oro, la drammaturgia è di Riccardo Mini (autore anche di Echi di luce) e la regia di Alberto Oliva.
Ebbene, nel secolo dei Lumi, nonostante conoscenza e studio fossero ancora cosa degli uomini, sono esistite donne che hanno saputo distinguersi e hanno saputo dare il proprio contributo alla scienza. Del resto, è in questo periodo di grande progresso che le donne appartenenti alla noblesse iniziano, benché timidamente, ad avere sempre più possibilità di studio. Questa scienziata, ritratta con precisione e ammirazione da Cosmacini nel suo libro, è da sempre nota per essere stata l’amante di Voltaire. E in effetti era anche quello.
Alla stregua di ciò che ancora vediamo accadere ogni giorno, non importa che si vinca un Nobel o una medaglia alle Olimpiadi, quello che definisce una donna è un «di chi»: moglie di, mamma di, amante di. Nel suo libro, già dalla prefazione, Cosmacini ribalta questa prospettiva, concentrandosi sulla vita appassionata che conduceva la marchesa, definita da tutti una vera femme savante, e le cui parole vedremo intrecciarsi sulla scena alle coreografie di Giorgio Rossi (co-fondatore di Sosta Palmizi).

ph Emma Terenzio


Sul palco del PACTA Salone, scienza e danza celebreranno in questo modo la passione per la vita di Émilie du Châtelet, all’anagrafe Émilie Gabrielle Le Tonnelier, figlia del barone de Breteuil e poi moglie del marchese du Châtelet. Già da piccola Émilie traduce il latino, parla lingue diverse, conosce a memoria Orazio e Cicerone ma non solo: suona il clavicembalo, tira di scherma e cavalca all’amazzone: tutto ciò che fa le riesce, chissà se per caparbietà e perfezionismo o per naturale inclinazione. Quel che è certo è che tutto le riesce superbamente, compresa la selezione di pizzi e gioielli, sua grande passione e che facevano di lei, a detta dell’amante Voltaire, la più colta delle donne frivole, riassumendo così il suo eclettismo, il suo amore per le scienze tutte e per i piaceri della vita, tutti anche quelli. La sua doppia vita, insomma.
La marchesa du Châtelet era in grado di capire questioni matematiche e filosofiche con grande facilità: traduce e commenta infatti i Principia Mathematica di Newton, opera fondamentale per la fisica e la matematica; inoltre, con la sua opera Institution de Physique, rende la fisica accessibile a un pubblico più ampio, grazie alla sua capacità di scrittura lineare e semplice.
La marchesa non è musa di nessuno se non di se stessa, è donna attiva e protagonista di un secolo illuminato – nel quale ha avuto la possibilità di muoversi grazie al suo status sociale – in cui si è però anche assunta la responsabilità di parlare per quella parte di donne che non poteva ancora farlo, inserendosi prepotente nella querelle femminile. Denunciò infatti la condizione delle donne del Settecento ancora tenute nell’ignoranza, e rivendicò l’uguaglianza con gli uomini, in particolare soffermandosi sul diritto allo studio, unica cosa che permette a tutti, indipendentemente dal genere, di essere liberi e uguali. Scrisse infatti: “le donne avrebbero più valore, gli uomini guadagnerebbero un nuovo soggetto di emulazione”.
Una donna privilegiata, la Marchesa, appassionata della propria vita e con una grande fiducia nelle sue idee, tanto da condizionare scelte e promuovere la nascita di nuove consapevolezze.


LA DOPPIA VITA DI ÉMILIE – Madame du Châtelet tra Newton e pompon

prima assoluta
drammaturgia Riccardo Mini
regia Alberto Oliva
coreografia Lorenzo De Simone e Olimpia Fortuni
con Maria Eugenia D’Aquino, Lorenzo De Simone, Olimpia Fortuni
scene e costumi Francesca Ghedini
direttore luci Alessandro Tinelli
assistente alla regia Fabrizio Kofler
consulenza drammaturgica e scientifica Paola Cosmacini, autrice di La ragazza con il compasso d’oro. La straordinaria vita della scienziata Émilie du Châtelet Ed. Sellerio
consulenza musicale Carlo Centemeri
produzione PACTA . dei Teatri

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Il Circo El Grito a teatro con Luz de Luna, omaggio all’inconscio tra voli acrobatici e paesaggi surreali.

Fabiana Ruiz Diaz_ph Simona Albani

ELVIRA SESSA / PAC LAB*| Prodotto dal SIC, Stabile di Innovazione Circense fondato da Circo El Grito con il contributo del Ministero Italiano della Cultura e della Regione Marche, Luz de Luna è tornato a Roma, dal 2 al 6 gennaio al Teatro Vascello, dopo il fortunato debutto dello scorso anno all’Auditorium Parco della Musica.
La pièce, di e con Fabiana Ruiz Diaz e la regia di Michelangelo Campanale, rientra in OPS!, prestigiosa rassegna di circo contemporaneo diretta dal SIC in collaborazione con Fondazione Musica per Roma. Questa terza edizione ha avuto luogo dal 27 dicembre al 6 gennaio sui palchi romani dell’Auditorium Parco della Musica e del Teatro Vascello.

Luz de Luna è il viaggio onirico di una donna (Fabiana Ruiz Diaz) che, chiusa la porta della sua stanzetta per ripararsi da un furioso temporale, approda in paesaggi surreali e in mondi dove l’umano supera se stesso, sfiorando il divino o dialogando con gli animali. Fabiana così ora balla con un personaggio (il danzatore Gennaro Lauro) che – con un cuscino al posto della testa – sembra uscito da un quadro di Magritte, ora gioca con la luna – un enorme pallone luminoso che attraversa la scena – ora dialoga con una rana e un coniglio (rispettivamente i macchinisti Maxime Morera e Michele Petini), mentre con un pesce (Lauro) nasce una romantica, ironica e impossibile storia d’amore.
Fabiana Ruiz Diaz, ispirandosi a Little Nemo – personaggio dei primi del Novecento del fumettista Winsor McCay – si destreggia, con scioltezza e grazia, su un letto volante che si trasforma in trapezio da danza aerea, vascello, altalena.

Tutto, nello spettacolo, suggerisce incanto e poesia. Le luci (Tea Primiterra) sono soffuse, creano un ambiente intimo, ovattato. I costumi dei personaggi (Beatrice Giannini) privilegiano colori gioiosi (giallo, arancio, verde, bianco), la gonna della protagonista si apre in volo come petali di porcellana. I movimenti dei personaggi sono morbidi, sinuosi, ispirano tenerezza e simpatia.
C’è poi un armonioso dialogo tra personaggi ed elementi scenici: la protagonista, per sfuggire all’uomo-cuscino, si aggrappa alle tende del sipario, poi, in una leggiadra danza autunnale, gioca con le foglie gialle e arancioni che le si riversano dall’alto come coriandoli; i personaggi della rana e del coniglio dirigono con gesti delle mani l’inizio e la fine di musiche e luci.
C’è un silenzioso dialogo anche con il pubblico. Ci si illude di essere sulla scena, come è accaduto a una bimba in platea che con le mani e il corpo ha seguito la danza, sentendosi parte di essa. La complicità si cerca con più escamotages, ad esempio quando il sipario si chiude, le luci in platea si accendono e non si sa se lo spettacolo sia finito. Finché si sente dall’ultima fila la voce della protagonista che sulle note di Summertime passa attraverso gli spettatori, dirigendosi sul palco.
Il panorama sonoro concorre alla narrazione e amplifica lo spazio e il tempo, grazie all’accurata scelta di brani registrati che attraversano epoche, culture e generi diversi, dalle arie di Bizet alle composizioni del contemporaneo Alberto Iglesias.

Fabiana Ruiz Diaz_photo by S.Teodori

Abbiamo avuto il piacere di intervistare Fabiana Ruiz Diaz, acrobata aerea di origini uruguayane, considerata tra i pionieri del circo contemporaneo in Italia insieme  all’artista multidisciplinare Giacomo Costantini; con lui ha fondato a Bruxelles, nel 2007, la compagnia circense El Grito.

Come nasce quest’opera?

Luz de Luna è un inno alla femminilità e alla forza dell’immaginazione che permette anche a una donna sola di affrontare le catastrofi. La luce della luna, elemento regolatore delle maree e delle emozioni, simbolo della donna per la sua ciclicità, rischiara la notte della protagonista aprendole un orizzonte di magia e stupore.
Si tratta del secondo lavoro di una trilogia sui sogni e sulla solitudine di una donna, iniziata con Liminal nel 2022 e che vedrà nei prossimi anni una terza creazione.
È una indagine nell’universo femminile che nasce dagli incontri con bisnonne indigene della mia terra di origine, l’Uruguay, e da una esperienza personale: nata nel 1981, a 17 anni sono partita dal mio Paese per esplorare il mondo. Avevo tutti contro. Tranne le mie nonne che mi hanno incoraggiata a sognare, a creare. Il tempo ha dato loro ragione. In fondo, noi donne siamo anche biologicamente delle dee, la natura ci predispone a partorire.
Ho poi incontrato Raffaella Giordano, danzatrice e coreografa proveniente dalla scuola di Pina Bausch, che ha sostenuto e accompagnato questa mia ricerca artistica. È la mia “nonna italiana”.

A differenza di Liminal, questo è un sogno senza incubi…

È così. La scelta è dettata da due ragioni: dal desiderio di trasmettere, in questo periodo storico, un messaggio di speranza, e dall’ambientazione: Luz de Luna si svolge infatti in un teatro, Liminal invece è ambientato nello chapiteau del Circo El Grito, una tenda da circo dove entrano spifferi e si sente il vento fuori che meglio si presta a evocare paure, tensioni.

I virtuosismi atletici e i verticalismi spettacolari sono resi con grande naturalezza e mai ostentati. Al pubblico arriva la leggerezza non la tensione dell’esibizione.

In effetti, questo è il “circo di creazione” che stiamo portando avanti. Attinge alla tradizione circense ma, arricchendola con musica, danza e teatro, spinge alla riflessione più che alla visione di un numero acrobatico.

L’attenzione alla potenza espressiva della voce sembra emergere proprio dal nome della compagnia, El Grito, e dal titolo Luz de Luna, un omaggio all’omonimo brano riprodotto in scena e interpretato dalla voce vibrante di Chavela Vargas.

La voce e la musica sono colonne portanti di tutti i nostri lavori. Basti pensare alla musica visiva dello spettacolo d’esordio, Scratch & Stretch.
Il nome El Grito, invece, deriva dai nostri vicini marocchini di Bruxelles. Gridavano tutto il tempo…

Quali sono i vostri prossimi appuntamenti?

Luz de Luna verrà riproposto in altri teatri europei mentre Liminal andrà in scena nello Chapiteau Circo El Grito dello Spazio Agreste di Recanati (Macerata) tra maggio e settembre di quest’anno.

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

 

Il sogno di una notte di mezza estate secondo Rifici, natura e relazioni a confronto

Francesca Pozzo / Pac Lab * | Varcando la porta del Teatro Studio Melato di Milano, è impossibile non notare la terra che ricopre il perimetro scenico. Il Sogno di una notte di mezza estate (commento continuo) di Carmelo Rifici accoglie così lo spettatore, con il profumo del bosco e le impronte lasciate da chi si sistema nelle prime file. Gli spazi risultano raddoppiati: sul fondo si staglia una parete di specchi che riflette i numerosi microfoni sparsi, un divano situato vicino all’entrata e la platea che osserva ciò che sta per iniziare. Una scelta registica di senso che riprende l’originale, in cui ogni dinamica è accuratamente duplicata, con continui riverberi che analizzano i rapporti umani nella loro bellezza e vanità.

Ph Masiar Pasquali

È buio e gli effetti sonori ci annunciano l’arrivo di una tempesta. Un occhio di bue illumina Ippolita (Cecilia Fabris), la regina delle Amazzoni. Smuove il suolo e va a rannicchiarsi all’interno di quella che sembra una vasca. Man mano che la scena si rischiara, si notano diversi strumenti che ne occupano i margini: un pianoforte, delle chitarre, una tastiera e un violino. La pluralità sembra rappresentare già una chiave di lettura dello spettacolo, non solo per il cast, che conta oltre una ventina di attori e altrettante parti, ma anche per il trattamento riservato al testo. Rifici, infatti, ci regala una versione integrale e filologica del Sogno, intervallandola, però, con inserti del drammaturgo Riccardo Favaro, che danno alla pièce una rilettura più moderna, grazie a una rivisitazione dei personaggi secondari. Un tentativo che potrebbe sembrare di difficile comprensione, ma che, invece, grazie alla fluidità della resa, risulta perfettamente naturale: le “aggiunte”, spesso rivolte al pubblico, vengono sempre pronunciate al microfono, creando, così, un netto distacco.

Fra queste, vale la pena ricordare il monologo di Ippolita, uno dei più potenti, sia per interpretazione che per scrittura. Come riporta il play shakespeariano, la donna è stata presa con la violenza e, nonostante il voto di verginità, deve unirsi a Teseo (Stefano Carenza), colui che l’ha abusata. Come una novella Cassandra ci annuncia una catastrofe: «È estate, ma l’inverno arriverà». Egeo (Edoardo Sabato), longa manus del potere maschile, le toglie il microfono. Straniera e isolata, viene ridotta al silenzio e nel suo strazio si legge la condizione in cui sono costrette molte minoranze.
Lo stesso meccanismo di sottomissione si verifica con gli innamorati: Ermia (Simona De Leo), figlia di Egeo, deve sposare Demetrio (Ion Donà), pur nutrendo dell’affetto per Lisandro (Simone Severini). Il sovrano cerca di costringerla all’obbedienza, ma i giovani rimangono fedeli a loro stessi e scappano nel bosco. In questo triangolo amoroso, si inserisce, però, un altro addendo: Egeo stesso. «Un uomo a metà», come confessa al microfono, dimezzato dalla bramosia che prova nei confronti di Demetrio e disposto a usare Ermia, pur di tenerselo vicino.

Ph Masiar Pasquali

Ippolita si getta nella vasca, suggerendo un tentativo di suicidio, e nello stupore generale si ha il primo assaggio della grandiosità dell’assetto scenico. Si tratta di una piattaforma che sale e scende, permettendo le entrate e le uscite. L’Amazzone scompare e al suo posto ci viene presentata Elena (Miruna Cuc), nella sua decisione di informare Lisandro della fuga degli amanti. Vittime di un’attrazione non corrisposta, i due indossano il nero, in contrasto con il bianco di Ermia e Demetrio; una scelta che, però, investe anche gli altri personaggi, e che rivela la visione binaria che “abita” questo universo. In una sorta di scacchiera, tutti sono costretti a indossare un costume: quello della normalità.

Elena entra nel bosco, implorando Demetrio di amarla e si mettono entrambi sulle tracce dell’altra coppia. Poco dopo, in un gioco di teatro dentro il teatro, ci viene presentato il comic relief della vicenda: una compagnia amatoriale che decide di presentare ai regnanti la propria versione di Piramo e Tisbe. Tutti in salopette, i falegnami, gli stagnini e il resto delle maestranze tentano di spartirsi i ruoli. Nel farlo risultano in perfetta sintonia, sia nelle singole caratterizzazioni che nel rapporto con gli altri, contraddistinguendosi grazie a un approccio recitativo improntato alla fisicità.
Nick Bottom (Daniele Di Pietro) domina la scena con i suoi manierismi da primadonna, mettendo in crisi il capocomico e generando nel resto dei partecipanti un misto di ammirazione e sgomento. Inavvertitamente è proprio lui a entrare in contatto con l’altro mondo, quello che si cela dietro la parete di specchi, che crolla a terra, rivelandosi un sipario.

Entra così in gioco l’ultima linea narrativa, quella connessa al sovrannaturale, che intreccia i drammi degli umani con quelli del piccolo popolo. Appare una fata e ci introduce il conflitto che consuma i suoi sovrani: Titania (Giada Francesca Ciabini) si rifiuta di cedere un servo indiano a Oberon (Giacomo Antonio Maria), che lo brama ardentemente; si tratta, infatti, del figlio di una sua amica e lei non vuole distaccarsene.
Le loro motivazioni, sebbene ruotino attorno al concetto di proprietà, fanno emergere diverse declinazioni del desiderio. Una, al femminile, vissuta nel ricordo di un amore puro, l’altra semplicemente dettata dal possesso. L’egoismo, però, non risparmia nessuno, la natura è in subbuglio e le stagioni cominciano a confondersi. La selva e la città sono spazi che si mescolano e si contaminano, come le emozioni disordinate che infestano gli animi dei personaggi.

A porvi rimedio è il potere costituito, con una soluzione artificiale: un filtro versato sulle palpebre che, al risveglio, fa innamorare il malcapitato della prima creatura di cui incrocia lo sguardo. Il compito viene affidato a Puck, che qui viene intelligentemente sdoppiato. Infatti, Pasquale Montemurro e Joshua Isaiah Maduro condividono il ruolo, interpretando l’indole a tratti imbranata, a tratti maligna del folletto. Fra scambi di persona e colate di liquido colorato sul viso dei malcapitati, le variabili impazzite dei sentimenti si confondono ulteriormente. Lisandro e Demetrio giurano fedeltà a Elena e Titania si infatua di Nick Bottom, tramutato in asino. Legato a una corda, simbolo di una passione tossica, il tessitore diventa centrale nei pensieri della regina, facendole cedere l’oggetto della precedente contesa.

Ph Masiar Pasquali

Avendo raggiunto il proprio proposito, Oberon annulla la magia. Con la passata di una spugna custodita dietro al divano/trono fa dimenticare a tutti dell’accaduto. Sorge il sole, i fanciulli vengono illuminati da una luce arancione; sia loro che Titania non ricorderanno ciò che è accaduto durante la notte. I giovani tornano in città, puliti, cambiati d’abito, tutti in nero, nonostante lo sposalizio dei reali di Atene. Demetrio è l’unico che continua a subire gli effetti della pozione; lui ed Egeo si guardano, fra loro si percepisce una sorta di amarezza, perché «la regola giusta è quella che rifugge il difetto».
Così, tramite l’inganno e la violenza, viene fatta la volontà dei re: Ippolita viene condotta all’altare, Titania è stata annichilita nella sua volontà. Il maschile riesce a mettere un freno al bosco, luogo per eccellenza dell’irrazionale, delineando limiti e ponendo gerarchie. Ma, come viene riportato, c’è un prezzo da pagare: «Non ci sono più uomini, non ci sono animali, non cresce più nulla».

Ricco di stratificazioni sul senso dei legami, questo Sogno mette in gioco un ampio repertorio di simboli, senza, però, risultare criptico o pretenzioso. La disparità fra i generi viene esemplificata dal disequilibrio dell’ecosistema che, invece di generare vita, crea una catena di soprusi. Quel che potrebbe fiorire viene tagliato via, normato dalle imposizioni di una “giustizia” che rimette ogni cosa al proprio posto. Ciò viene esemplificato dall’istituzione del matrimonio, che assume la sua forma peggiore: costrizione e obbedienza.

Tutto è tornato all’ordine e a infrangerlo, seppur per poco, è la messinscena di Piramo e Tisbe. Assistere alla recita fa quasi male, per quanto sono esatte e imbarazzanti le loro sbadataggini. Una comicità disagiante che, invece di risollevare gli animi, lascia un senso di sconforto, e apre la strada per una delle battute finali, che sembra riassumere tutto il senso di questa rilettura: l’altro è semplicemente l’io che non si sa amare.

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE
(commento continuo)

di William Shakespeare / Riccardo Favaro 
regia Carmelo Rifici 
scene Paolo Di Benedetto 
costumi Margherita Baldoni 
luci Manuel Frenda 
cura del movimento Alessio Maria Romano 
musiche Federica Furlani
assistente alla regia Ugo Fiore 
con Giacomo Antonio Maria Albites Coen, Andrea Bezziccheri, Agnese Sofia Bonato, Clara Bortolotti, Stefano Carenza, Bianca Castanini, Simone Pietro Causa, Giada Francesca Ciabini, Miruna Cuc, Simona De Leo, Silvia Di Cesare, Daniele Di Pietro, Marco Divsic, Ion Donà, Ioana Miruna Drajneanu, Cecilia Fabris, Joshua Isaiah Maduro, Pasquale Montemurro, Sofia Amber Redway, Edoardo Sabato, Caterina Sanvi, Pietro Savoi, Simone Severini, Lorenzo Vio
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Prima Assoluta

Teatro Studio Melato, Milano | 13 dicembre 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Mistica e ascesi ne L’Infinito Carnale di Claudia Castellucci

RENZO FRANCABANDERA | Quando si parla di eremiti, di scelte di vita estrema dedicate a una traslazione del proprio vissuto dentro una pratica spirituale, arte, filosofia e religione si avvicinano.
La fascinazione del misticismo non può lasciare indifferenti le artisti e gli artisti che alla pratica creativa dedicano l’anima e il corpo: gli artisti, come Artaud insegna, ci mettono il corpo, il carnale.
Quella teatrale, poi, come osservava qualche giorno fa in una riflessione socialmediale il direttore del Teatro Metastasio di Prato, Massimiliano Civica, ha davvero a che fare con la vita consacrata.
Egli assimilava, sotto questo punto di vista, l’artista Claudia Castellucci, prescelta per dirigere la creazione site-specific che celebra l’anniversario dei 60 anni del Teatro Metastasio e Leone d’Argento alla Biennale danza di Venezia 2020, ad altre grandi recenti figure delle arti performative, come Grotowski, non ovviamente nel sistema simbolico e di segni, ma proprio nelle pratiche e in quella dedizione che ha a che fare con regole strutturate in modo non dissimile da quelle che reggono gli ordini monastici.
E, guarda caso, l’artista, che come si ricorderà è stata una delle fondatrici della Socìetas Raffaello Sanzio, ha scelto come ispirazione per questa creazione commemorativa intitolata L’infinito carnale due mistici ed eremiti che hanno scelto un rigore esemplare come base per la propria condotta di vita, fino all’estremo di portarsi addirittura nel deserto, allontanandosi per parte della vita dal consesso sociale.
Antonio d’Egitto, ovvero Sant’Antonio Abate (sì, proprio quello commemorato con la benedizione degli animali e con i riti invernali di purificazione pirica) e Ilarione di Gaza non hanno lasciato scritti personali, ma le loro vite e il loro pensiero sono giunti a noi grazie a biografie redatte da autori a loro contemporanei o successivi.
La figura di Antonio è principalmente conosciuta attraverso la Vita di Antonio scritta da Atanasio di Alessandria, fra lotte spirituali, tentazioni demoniache e il suo ruolo fondamentale nella nascita del monachesimo cristiano. A lui sono attribuite anche alcune lettere di contenuto spirituale, sebbene la loro autenticità sia oggetto di dibattito.
Per quanto riguarda Ilarione, la sua storia è narrata da San Girolamo nella Vita Sancti Hilarionis, un testo che sottolinea la sua austerità, i miracoli attribuiti e il suo impegno nella diffusione del monachesimo in Palestina.
Queste opere, pur non scritte direttamente dai due, rappresentano testimonianze cruciali per comprendere l’ascesi e il pensiero spirituale dell’epoca.

Antonio d’Egitto e Ilarione da Gaza visitano Paolo Eremita

Ma quali erano i fondamenti di pensiero di questi due personaggi, il primo dei quali fu maestro del secondo?
Antonio d’Egitto, nato nel 251 d.C. a Coma, nell’attuale Egitto, di origini abbienti, profondamente colpito dalle parole del Vangelo, distribuì i suoi beni ai poveri per ritirarsi nel deserto e dedicarsi alla preghiera, al digiuno e alla meditazione. Visse per molti anni come eremita, conducendo una vita austera in isolamento. Sebbene non abbia fondato comunità monastiche strutturate, la sua vita ispirò molti altri a intraprendere il cammino ascetico, tra i quali appunto Ilarione. L’incontro con Antonio fu decisivo per la sua vita: affascinato dalla vita eremitica, decise di seguire l’esempio di Antonio e di consacrare la sua vita al credo religioso e dopo un breve periodo trascorso accanto a Sant’Antonio nel deserto egiziano, tornò in Palestina e si stabilì anche lui nel deserto vicino a Maiuma, nei pressi di Gaza. Qui visse in preghiera, digiuno e austerità estrema, nutrendosi di cibo semplice come fichi, lenticchie e pane d’orzo. La sua santità e il suo stile di vita attrassero molti discepoli, portandolo a fondare le prime comunità monastiche nella regione.
Antonio, invece, trascorse gli ultimi anni della sua vita nel deserto, in un luogo remoto e chiese di essere sepolto in segreto per evitare che la sua tomba diventasse un luogo di culto: morì nel 356 d.C. all’età di 105 anni.

La suggestione di Claudia Castellucci per figure come Antonio e Ilarione può essere compresa nel contesto della sua ricerca artistica e filosofica, che esplora temi legati all’ascesi, al ritmo, alla spiritualità e al corpo come veicolo di trasformazione interiore. La vita degli asceti cristiani rappresenta evidentemente per Castellucci un paradigma di disciplina, trascendenza e dialogo tra materia e spirito, tutti elementi centrali nel suo lavoro coreografico e filosofico. I due asceti incarnano un modello di vita che si colloca al confine tra corporeità e metafisica, tra isolamento e comunità, tra rinuncia e creazione. Questo si riflette nell’approccio di Castellucci alla danza, in cui il movimento non è solo un atto fisico, ma una pratica ritmica che indaga la relazione tra il corpo e il tempo, una dimensione tanto spirituale quanto concreta. L’ascesi diventa così un’analogia per la ripetizione e la precisione dei gesti, strumenti che trasformano il quotidiano in un’esperienza simbolica e rituale.

L’Infinito Carnale. Foto di Luca Del Pia

Prima di entrare in sala, il pensiero andava a come l’artista e i suoi collaboratori avrebbero reso scenograficamente il deserto, vista la profondità comunque limitata del palcoscenico, pur grande, del Metastasio. Ma allo schiudersi del sipario, il pubblico resta affascinato da una scena vuota, contornata da un tendaggio altissimo. Considerando che da scheda tecnica il boccascena del Metastasio misura qualcosa oltre i 10,5 mt di larghezza per 7,5 di altezza, vedere questi tendaggi ambrati salire, restringendosi, verso l’alto con una prospettiva dello sguardo che, invece che essere orizzontale, si sviluppa asceticamente verso l’alto, beh, lascia onestamente senza fiato, per semplicità e capacità simbolica di affascinazione. Il drappo verticale non abbraccia in modo perimetrale le tre pareti, ma ha alcune rientranze, per muovere il paesaggio visivo, come pure una “macchia nera” di netta discontinuità dello sguardo, sulla sinistra, una sorta di paesaggio sintetico con una collina e un borgo a incoronarla, per simboleggiare la distanza dal consesso civile. Lo sguardo resta avvinghiato per tutto il tempo a questi veli e al loro creare l’illusione di un deserto infinito, contribuendo a un’esperienza ipnotica e monumentale.

Di lì a poco, in abiti semplici e quotidiani, addirittura indossando comunissime scarpe da ginnastica, entrano in scena i due giovani e interessanti performer, Sissj Bassani e Pier Paolo Zimmermann (di entrambi abbiamo parlato per le creazioni di Parini Secondo).
I due si relazionano verbalmente, ma il dialogo è pre registrato e risuona come interrotta voce off per tutto il tempo dello spettacolo, cosicché effettivamente la loro presenza in scena è fattualmente silenziosa, condensata nel movimento. Le loro bocche non si muovono. Una traduzione scenica diremmo perfetta della radicalità dei due eremiti nel loro perseguire una visione interiore, un atteggiamento che risuona, evidentemente, con la ricerca di Castellucci di un segno essenziale. Parrebbe quasi che la parola proferita in scena possa sporcare la focalizzazione dello sguardo sul movimento, mai didascalico o in relazione esplicativa con quello che si ascolta.
Lo spettatore, quindi, ha davanti a sé un movimento silenzioso, la scenografia come luogo di potenziale e di vuoto, dove il corpo si confronta con la vastità del silenzio e della solitudine, elementi spesso presenti nelle creazioni di Castellucci, e due corpi performativi, che come ne La Tempesta di Giorgione, sembrano minuscoli davanti all’immanenza del paesaggio desertico.
La composizione sonora e musicale di Stefano Bartolini, che in modo tenute accompagna la creazione, propone dapprima suggestioni ambientali -il solo suono del vento-, per poi arrivare, in un finale di agitazione, spasmi e tentazioni, a dissonanze di dodecafonia postindustriale, invero suggestiva. Su queste sonorità scorre il continuo scambio di pensieri di natura filosofica fra i due protagonisti, dialoghi affidati alle voci di Adele Masciello e Pier Paolo Zimmermann: anche questa una scelta di evidente semplicità e pulizia, sebbene sacrifichi, in parte, l’evocatività teatrale della creazione. Magnifiche per semplicità le luci di Gianni Staropoli.

Gli scritti e le testimonianze sulla vita degli asceti cristiani cui il testo, scritto dalla Castellucci riteniamo si ispiri, con la loro tensione tra fragilità umana e aspirazione divina, offrono alla regista e coreografa una narrazione densa di immagini e significati, che vengono traslati in forma coreografica, per riflettere la lotta interiore e il cammino verso una forma di perfezione ritmica e spirituale. Avvicinamenti e allontanamenti, assonanze e dissonanze, distanze radicali e trascinamenti, in cui domina il tema dell’essere, dell’esistere, del senso della vita incarnata, appunto. Le eterne domande rilette in una lotta spirituale e fisica costante, per raggiungere la perfezione e l’unione, attraverso il dominio di sé e il distacco dal mondo materiale.
Lo spettacolo suggerisce che, in realtà, anche il deserto è falsamente vuoto, poiché è popolato di immagini mentali di ogni specie. Gli antichi anacoreti lo consideravano un luogo in cui arricchirsi spiritualmente e trovare risposte alle grandi domande dell’umanità. A un certo punto, nella seconda parte, affiora una traslazione del rapporto fra i due, idealmente maestro e allievo, verso una sorta di dura genitorialità: appare finanche in mano a uno dei due performer una bacchetta, di quelle che si usavano nelle scuole di un secolo fa per indurre i meno disciplinati al silenzio immobile. Un fronteggiarsi che passa dalle grandi domande al loro traslarsi nel senso della vita “pratica”.
Dall’infinito al carnale, all’umano, che è umano in quanto in relazione con altri umani, pare forse suggerire la creazione. Ma il portato di pensieri, l’effluvio verbale di considerazioni filosofiche è così continuo, ipnotico nel suo piano srotolarsi, che come sempre in queste condizioni ambientali, e come in fondo è giusto che sia, la mente di chi ascolta finisce ovviamente per agganciarsi magari a qualche parola, considerazione, per iniziare a viaggiare e a interrogarsi sul proprio vissuto, su quanto quelle riflessioni impattino sulla nostra vita.

Foto di Luca Del Pia

La scelta scenografica minimalista e simbolica, gli elementi semplici, ma potenti, creano un ambiente sicuramente spirituale che stimola la riflessione e l’immaginazione del pubblico, che in questa immanenza scenografica si confronta con un pensiero mistico allineato, per certi versi, alla tradizione stoica e platonica, che poneva l’accento sul controllo delle passioni come via per il raggiungimento della saggezza e della felicità, indagando, come avviene in scena, il dialogo fra corpo e anima in costante tensione (forse proprio questo giustifica la scelta della voce off, come se a dialogare fossero le anime).
L’ascesi viene letta come metodo per armonizzare le dualità, liberando l’anima dalla schiavitù dei desideri materiali. Il movimento continuo da un luogo all’altro della scena, cui i due performer danno vita per tutto il tempo, simboleggia una ricerca incessante, radicata nell’idea che, forse, la perfezione non è mai completamente raggiungibile in questa vita. I movimenti sono studiati per creare una sincronia che esprime l’essenza del ritmo, in linea con il segno artistico di Castellucci, che vede il corpo come strumento per incarnare il tempo e lo spazio.
Contemplazione e azione restano per i due asceti e probabilmente anche per Castellucci strettamente interconnesse nel cammino verso la rivelazione. È un percorso di ricerca, questo che, dopo l’esperienza con la Socìetas Raffaello Sanzio, Claudia Castellucci ha intrapreso e che si è da subito focalizzato sull’insegnamento del movimento ritmico. Sono passati oltre 20 anni da quando, nel 2003, l’artista ha fondato la Stoa, una scuola dedicata al movimento ritmico. Ebbi personalmente a intervistarla nel 2009 nel periodo dei “Balli”, le danze orientate verso un’interpretazione del movimento che considerava il tempo come dimensione principale. Castellucci ha poi fondato prima la Scuola (2015-19) e poi la Compagnia Mòra, dalla nomenclatura agostiniana della minima pausa necessaria per distinguere due suoni.
Di quella ricerca fanno parte anche le creazioni Verso la specie, modellata sulla metrica della poesia greca arcaica, All’inizio della città di Roma, che esplora le prime transazioni sociali dell’umanità, e Il trattamento delle onde, basata sul suono delle campane. Un percorso che ha continuato a esplorare le profondità del movimento ritmico, integrando elementi di filosofia, musica e tradizioni antiche.
Da questo punto di vista, L’Infinito Carnale esprime una sua concettuale continuità con il passato, sebbene il tempo percepibile qui quasi sparisca nel suo definirsi scandito. Nessun battere e ritmare di passi, nessuna continuata sincronia a imporre il ritmo (sociale) in questo deserto, e forse la chiave di lettura è proprio nell’essere lontani dalla società. Il tempo sensibile, quello del tic tac o del battere e levare quasi si dissolve, come pure lo spazio, in cui si perde L’Infinito Carnale, dicono che i due concetti sono umani, mentre appena ci si allontana da quella macchia nera, tempo e spazio diventano relativi. Lo spazio scenico, descritto come «un deserto allo stesso tempo reale e immaginario», serve da sfondo per l’interazione dei due danzatori, i cui corpi si uniscono e si separano all’interno di questo ambiente evocativo.

Rispetto alle precedenti creazioni, oltre al vuoto scenico e allo studio (più o meno scandito, ma comunque sempre presente, dei ritmi e dei movimenti), un elemento di continuità è nella scelta dei costumi dell’Epilogo, affidati alla stilista Haimana, che riprende quella sorta di paggi rinascimentali con cappelli a larghe falde e con costumi aderenti di strana foggia al busto, già apparsi in precedenti creazioni della Castellucci, come appunto La seconda Neanderthal, ma in quel caso era stata l’artista stessa a disegnare i costumi (ebbi a scriverne qui, a testimonianza di quella pratica laboratoriale).
Il nero, nella sua semplicità, riduce al minimo il superfluo e pone l’accento sui movimenti e sulle forme del corpo, elementi centrali in questa ricerca teatrale e coreografica. La neutralità cromatica contribuisce a spostare l’attenzione dallo specifico individuale al messaggio universale, creando una dimensione di astrazione e apertura interpretativa, una sorta di rimando al manichino di De Chirico, perso in uno spazio metafisico, che qui si perde in una dimensione rituale e contemplativa, attraverso la quale l’artista indaga tematiche spirituali e filosofiche. Anche lo spettatore a suo modo si perde in questo deserto, nell’immanenza infinita della natura e del silenzio che sovrastano il vociare umano, a cercarne un senso distillato, compito quantomai arduo, nel vociare chiassoso e pieno di barocchismi inutili del mondo in cui siamo immersi, la macchia nera della società.
Solo prendendo debita distanza, portandoci soli a parlarsi in pochi, a riattivare la comunicazione delle anime, pare dire Castellucci, e comunque non senza fatica e duri turbamenti, si può arrivare a un concetto profondo del sé, dell’esistere, al cospetto dell’infinito, di cui l’umano è comunque impercettibile granello.

 

L’INFINITO CARNALE
un omaggio alla forma del melodramma di Pietro Metastasio

interpreti Sissj Bassani, Pier Paolo Zimmermann
dialogo e coreografia Claudia Castellucci
composizione sonora e musicale Stefano Bartolini
recitazione del Dialogo Adele Masciello, Pier Paolo Zimmermann
autore delle luci Gianni Staropoli
abiti dell’Epilogo Haimana, Moldova
produzione Teatro Metastasio di Prato / Societas, Cesena

Prima Assoluta

Teatro Metastasio di Prato | 19 dicembre 2024

Evelina Nazzari in Torna fra nove mesi, testimonianza feroce di un dramma mai superato

ph tratta da spazio18b.com

ELVIRA SESSA / PAC LAB*| Un viaggio rabbioso nel dolore di una madre che prova a ricostruirsi una nuova identità dopo la tragica morte del figlio. La madre è Evelina Nazzari e il figlio è il suo Leonardo che nel 2006, all’età di 26 anni, si è tolto la vita.
Torna fra nove mesi, atto unico scritto da Nazzari e da lei interpretato insieme a Maddalena Recino, e andato in scena al teatro Spazio 18b di Roma dall’11 al 22 dicembre (produzione La Compagnia dei Masnadieri), non lascia spazio a sentimentalismi.
Il testo (pubblicato nel 2022 per IkonaLiber) e l’efficace messa in scena – regia di Angelo Libri, costumi e scene di Lodovica Cantono di Ceva, disegno luci e musiche a cura di Francesco Crisafulli – affondano impietosamente come una lama affilata nelle emozioni degli spettatori.
E mentre le parole urlano, con ironia e lucidità, una cruda verità autobiografica facendosi liriche solo a tratti, costumi e allestimento scenico risultano efficacemente poetici, simbolici ed evocativi.

ph da La Compagnia dei Masnadieri

Nazzari e Recino, scalze, indossano un abitino bianco strappato, tutt’uno con l’ambiente. La scena è cosparsa di fogli di carta bianca crespa che diventano coriandoli, occhiali da vista, giocattoli e perfino una cinepresa. Sul fondale, un enorme pupazzo di carta bianca con le gambe divaricate, nella posa di una donna in sala parto, viene un po’ alla volta ridotto a brandelli fino a diventare un moncherino con intorno pezzi di carta appesi ai fili, spettro del suicidio. Al centro, una cassa di legno grezzo e corde si fa ora letto, ora brandina, ora viene attraversata come un tunnel. Metafora di vita e morte.
L’alternarsi di luci fredde e calde enfatizza lo scontro di violente emozioni che solo alla fine sembrano placarsi nella struggente consapevolezza di una perdita irrimediabile, mentre si sente da lontano la giocosa melodia di un violino, eco del figlio bambino che suonava.
Abbiamo approfondito qualche aspetto dell’opera intervistando Evelina Nazzari.
Figlia degli attori Amedeo Nazzari e Irene Genna, ha lavorato per cinema e teatro accanto ad attori come Alberto Sordi, Pino Micol, Alida Valli, Carlo Giuffrè, Arnoldo Foà, recitando autori classici, comici e drammatici, tra i quali Ibsen, Cechov, Wilde, Pinter.
In questa creazione mette a nudo la sua intimità e vulnerabilità, attrice e testimone dell’esperienza più drammatica della sua vita. Nella pièce ha i capelli legati, lo sguardo intenso, modi composti e misurati. Le fa da contraltare il personaggio di cui è interprete Recino (attrice di teatro e cinema che ha lavorato con registi come Antonio Latella, Orazio Costa, Marco Tullio Giordana): capelli sciolti, battute ciniche e sarcastiche, gesti scattanti; è la voce dell’istinto e dell’ira espressi in modo credibile, mai eccessivo o caricaturale. Due anime che si agitano nella stessa donna/personaggio, due ruoli che si integrano e scontrano e, sul finale, si invertono.

Evelina Nazzari-ph da www.spazio18b.com

Perché hai scelto di raccontare pubblicamente questo tragico evento personale?
Il teatro dà la possibilità di elaborare il lutto in forma artistica e di condividerlo con il pubblico toccando le sue corde più profonde. Sublima il dolore. Inoltre, dà modo di affrontare più liberamente il dramma del suicidio. Quando ho scritto quest’opera andavo spesso in Francia dove questo tema è affrontato pubblicamente e con serenità. In Italia è ancora tabù.

Torna fra nove mesi è un titolo che sembra contenere un’attesa…
No. È un titolo disperato. Ma il fatto stesso di aver dato una veste artistica a questa perdita insopportabile è un esercizio di catarsi, generativo.

Veniamo al pubblico. Il suo coinvolgimento è parte centrale della pièce. Le due interpreti lo scrutano, provocano, scuotono, incrociano i suoi sguardi facendo leva sulle paure ancestrali della morte, della perdita degli affetti più cari, vecchiaia, solitudine, incomprensioni, abbandoni.
È un lavoro che vuole creare intimità e complicità tra attori e platea. Perciò abbiamo pensato ad un teatro come Spazio 18b, predisposto per una quarantina di spettatori seduti intorno alle attrici, che avvolge il pubblico anche strutturalmente. Chi osserva il dramma non può farlo voyeuristicamente perché è direttamente in scena.

La prima rappresentazione è stata a Roma al teatro Lo Spazio nell’anno 2013, l’anno dopo sempre a Roma al teatro Sala Uno – attuale Teatro Basilica – e nel 2022 al Teatro di Documenti. In questi dieci anni cosa è cambiato?
La scenografia è stata arricchita nel tempo, con l’aggiunta, ad esempio, del pupazzo sullo sfondo. È stato replicato anche fuori dal contesto teatrale, a Padova nell’ambito di un master di psicologia sul lutto e a Ferrara per un gruppo di persone colpito da gravi perdite.

Prossimi appuntamenti?
Al Teatro di documenti di Roma con Quando verrà la fin di vita (e questa storia è già finita)? scritto e diretto da Stefania Porrino.

 

 

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Dammacco nel futuro: un Arlecchino di alta scuola per sopravvivere all’ infantilismo digitale

Foto Matilde Piazzi

RENZO FRANCABANDERA | Era già apparso vestito da Arlecchino lui stesso in uno spettacolo di due anni fa, in cui aveva condiviso la scena con Roberto Latini oltre che con la sua interprete storica, Serena Balivo, che lo accompagna anche in questa nuova avventura.
Quindi, ragionando sulle piccole ossessioni creative che sempre si affacciano nella vita degli artisti, l’icona Arlecchino si era già palesata nell’immaginario scenico di Mariano Dammacco. Anche allora il drammaturgo e regista di origini pugliesi, che negli anni ha regalato diverse scritture per voce sola alla sua interprete feticcio, Serena Balivo, si confrontava con una scrittura a più voci.
Pare quasi che l’epifania drammaturgica di Arlecchino corrisponda per Dammacco all’intenzione – magari non voluta esplicitamente ma che si fa con questo atto più concreta – di rimando psicologico, di sovrapposizione fra l’artista e una delle maschere più emblematiche della commedia dell’arte, figura dalle mille sfaccettature, capace per un verso di adattarsi ai contesti culturali e storici con straordinaria fluidità, per altro, dal punto di vista psicologico, di offrire un’interessante riflessione sul rapporto tra identità, istinto e società.

Foto Matilde Piazzi

Nella tradizione della Commedia dell’Arte, Arlecchino è il servitore furbo e opportunista, ma al tempo stesso ingenuo e talvolta impulsivo. La sua personalità sembra sfuggire a ogni definizione univoca, riflettendo un’identità frammentata e capace di mutare. La fame, intesa sia come bisogno fisico sia come simbolico desiderio di soddisfazione, è il motore principale delle sue azioni, emblematico dell’essere umano nella sua dimensione primordiale. Qui tuttavia, la maschera è alle prese con la sopravvivenza.

Alle soglie della grande estinzione di massa, come in Interstellar, Dammacco spinge la maschera nello spazio, nel futuro, nel 2124, per tornare a noi con un intento rivelatorio e profetico. Il suo caos, d’altronde, non è mai fine a sé stesso: Arlecchino, pur nel disordine che lo circonda, riesce a creare soluzioni ingegnose, incarnando così la tensione tra istinto e razionalità, tra ribellione individuale e ordine sociale. Un po’ come l’individuo contemporaneo, Arlecchino è costretto a destreggiarsi tra molteplici ruoli e identità, spesso in conflitto tra loro. A sua volta, proprio come il personaggio teatrale, anche l’individuo di oggi si trova a indossare diverse maschere, una frammentazione dell’identità che rispecchia la natura trasformista e camaleontica di Arlecchino, rendendolo una figura incredibilmente vicina alla nostra esperienza quotidiana.

Arlecchino nel futuro si inserisce, dunque, in una corrente teatrale che utilizza la distopia per riflettere sulle contraddizioni del presente. La figura di Arlecchino, tradizionalmente simbolo di astuzia e adattabilità, diventa veicolo per una critica alle manie contemporanee, come l’ossessione per la digitalità e la fiducia cieca nell’intelligenza artificiale. Impiegato in un negozio di congegni elettronici di ultimissima generazione, il protagonista si finge androide per accompagnare il rintontito e infantile nipote di un anziano e rassegnato Pantalone verso la salvezza in una colonia extra mondo, come in Blade runner.

Disegno live di Renzo Francabandera

La scelta di collocare Arlecchino in un futuro dominato da androidi e migrazioni lunari, sicuramente rappresenta un’analisi critica delle derive tecnologiche e ambientali della nostra epoca. Dammacco utilizza la farsa, genere teatrale storicamente associato alla critica sociale, per esplorare i temi della crisi climatica, ma anche le sfide dell’intelligenza (e anche della deficienza) umano/artificiale e la sempiterna aspirazione all’immortalità (Padre, voglio più vita! recitava Rutger Hauer nel film di Ridley Scott che portava in scena un romanzo di Philip Dick).

La drammaturgia di Dammacco, sviluppata in collaborazione con lo studioso di teatro Gerardo Guccini, si avvale di un linguaggio che mescola l’italiano a un dialetto veneto italianizzato, richiamando la musicalità delle commedie goldoniane. La scelta linguistica non solo omaggia la tradizione della Commedia dell’Arte, ma crea anche un contrasto con l’ambientazione futuristica, sottolineando l’universalità e la resilienza delle maschere tradizionali in contesti temporali diversi.
Questa dicotomia tecno-tradizionale si legge anche nella scenografia, ideata dallo stesso Dammacco con Gioachino Gramolini e che vuole trasportare il pubblico in un mondo immaginifico che fonde tradizione e fantascienza. Gli elementi scenici includono una navicella/macchina del tempo (forse visivamente un po’ ingombrante) che campeggia su una pedana teatrale/zattera di legno illuminata da colori vivaci: strutture che evocano un “carro dei comici del futuro”, creando un connubio tra la modernità e la storicità della Commedia e che si arricchiscono di alcune trovate geniali, come le bellissime ragnatele sotto il palco che hanno anche funzione di oscurare quanto avviene sotto il palco, permettendo così i frequenti scambi di persona fra le due ottime interpreti, Serena Balivo e Eleonora Ruzza. Le due, in un continuo scambio di sembianze che però lo spettatore quasi non arriva a percepire, interpretano alternativamente Arlecchino e altri personaggi, indossando maschere (anche queste tradizionali ma futuristiche allo stesso tempo, come i costumi, disegnati da Dammacco stesso) realizzate dal Maestro Renzo Sindoca e dall’artigiano Leonardo Gasparri. Questa scelta registica enfatizza la fluidità dell’identità e la versatilità delle maschere, elementi cardine della Commedia dell’Arte. Bella, poi, fra Kraftwerk e suoni da video game, la colonna sonora, composta da Marcello Gori, che accentua i temi emotivi e contribuisce a scandire il ritmo narrativo della farsa.

Notevole come sempre, ma verrebbe da dire anche più di sempre la prova di Serena Balivo, con una ricerca sul movimento nella Commedia dell’Arte invero di grande valore. ll sodalizio artistico fra Dammacco e Balivo è ormai quasi ventennale: dopo il loro incontro nel 2007, hanno fondato nel 2009 la Piccola Compagnia Dammacco, un progetto indirizzato alla creazione di spettacoli incentrati, da un lato, sul lavoro d’attore, dall’altro, su drammaturgie originali. Da questa collaborazione Balivo ha tratto un significativo percorso artistico, ricevendo diversi riconoscimenti, tra cui il Premio UBU nel 2017 come miglior attrice o performer under 35 e il Premio Internazionale Ivo Chiesa del Teatro Nazionale di Genova nella categoria “Futuro della scena” nel 2021. Qui l’attrice è affiancata da Eleonora Ruzza che non sfigura affatto e anzi, genera una interessante dualità fisica.

La creazione tutta è realizzata con cura, grande cura e attenzione ai particolari. Arlecchino/Dammacco gioca con la figura archetipica, quella del trickster, simbolo di caos creativo e sovversivo, enfatizzandone non solo la sua capacità di adattarsi alle circostanze, ma anche quella di scoprire verità nascoste attraverso l’inganno o il gioco e di affrontare la vita con resilienza. Attraverso di lui, la Commedia dell’Arte, un rinnovato artificio della scena sempre capace di infuturarsi, continua a parlare all’oggi, interrogandoci su cosa si nasconde dietro le nostre maschere.

Foto Matilde Piazzi

La fruizione è gradevole, ci fa bambini, ma con le consapevolezze e le disillusioni dell’adulto. In una società dominata dalla visibilità e dal giudizio, Arlecchino rappresenta il bisogno umano di costruire facciate per sopravvivere. Eppure, al di sotto della maschera, egli conserva un’ironia profonda, un modo di ridere delle difficoltà che diventa un meccanismo di resistenza. Questo aspetto lo rende ancora più contemporaneo, incarnando una modalità di affrontare le incertezze della vita con leggerezza e creatività. Ma l’Arlecchino di Dammacco è anche simbolo di lotta e sovversione. Come servitore, non accetta passivamente il suo ruolo ma si ribella alle gerarchie con astuzia, ingegno e una buona dose di caos. In un mondo in cui le disparità economiche e sociali sono ancora una realtà centrale e il futuro del linguaggio teatrale in difficoltà, il personaggio assume un ruolo universale, rievocando il desiderio di giustizia e l’intelligenza ribelle di chi si oppone a regole oppressive.

 

ARLECCHINO NEL FUTURO

ideazione, drammaturgia e regia Mariano Dammacco
con Serena Balivo ed Eleonora Ruzza
scene Mariano Dammacco e Gioacchino Gramolini
maschere realizzate da Renzo Sindoca e Leonardo Gasparri
collaborazione alla drammaturgia Gerardo Guccini
musiche originali Marcello Gori

scene costruite nel Laboratorio di Scenotecnica di ERT
responsabile del Laboratorio e capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Tiziano Barone, Sergio Puzzo, Veronica Sbrancia, Leandro Spadola
scenografe decoratrici Benedetta Monetti con Alice Di Stefano, Bianca Passanti, Martina Perrone

direttore tecnico Massimo Gianaroli
elettricista Sergio Taddei
sarta realizzatrice e di scena Eleonora Terzi
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

L’Orlando di Andrea De Rosa: un viaggio nella scrittura di Virginia Woolf

MICHELE PECORINO / PAC LAB* | Ha debuttato il 6 dicembre al Teatro Astra di Torino, Orlando, diretto da Andrea De Rosa e interpretato da Anna Della Rosa, pièce che riesce a rendere la vertigine della scrittura di Virginia Woolf attraverso un’esperienza scenica intensa e coinvolgente. La drammaturgia, affidata a Fabrizio Sinisi, intreccia il romanzo Orlando con le lettere e le pagine di diario in cui la Woolf scrive in merito alla creazione. Lo spettacolo esplora i meandri della creatività letteraria, della passione intesa in senso lato e del tempo.

Anna Della Rosa – ph. Andrea Macchia

La scena, ieratica e simbolica, è dominata da un immanente tronco di quercia, privo di chioma, piantato su un tappeto erboso dal verde sgargiante. Questo elemento scenografico centrale rappresenta non solo un punto di riferimento fisico per l’attrice, ma anche un simbolo visivo del romanzo stesso: la quercia è infatti il titolo del poema che, nel romanzo, Orlando scrive, impiegando ben trecentocinquant’anni. Attorno a questo imponente elemento si sviluppa un racconto intimo, onirico e a tratti ironico, che combina il dialogo con il passato, una realtà altra, e una riflessione sulla scrittura come atto creativo e vitale. Tutto intorno non è presente alcuna quinta: si scorgono soltanto le pareti grigie del teatro, le porte di sicurezza e le corde annodate ai relativi sostegni a parete che tengono fissate le americane. Anna Della Rosa ruota di continuo attorno al grosso tronco, compiendo gesti impercettibili ma carichi di un dinamismo che deflagra in maniera preponderante attraverso le parole pronunciate.

L’illuminazione, inizialmente fredda, evolve gradualmente, simulando il variare della luce naturale nel corso della giornata. Ciò amplifica la sensazione di un tempo che fluisce incessantemente. Si alternano suoni di cinguettii, rintocchi di campane e il rumore quasi impercettibile di fogli che cadono. Questi ultimi, prima uno alla volta e poi in una pioggia fitta, invadono la scena. Cadono attraverso meccanismi appositamente approntati per lo spettacolo, dalle americane che la sommità del tronco sembra lambire. I candidi fogli diventano metafora della scrittura di Virginia Woolf: un incessante flusso che avvolge e sovrasta, fino a ricoprire persino il corpo dell’attrice nel momento culminante del finale, quando un’americana, dalla quale cadono i fogli, si abbassa sempre di più sul corpo sdraiato di della Rosa, fino a pochi centimetri da lei. Una scena che coincide simbolicamente con il suicidio di Woolf. Qui la scrittura diventa, allo stesso tempo, vita e dissoluzione: un modo per dare forma al caos interiore, un’inesorabile discesa nell’abisso, un abbandonarsi alle acque e al moto ondoso tipico dei periodi woolfiani, connotati dall’uso spasmodico del gerundio.

La scelta registica di Andrea De Rosa evidenzia il carattere poliedrico del testo di Woolf, trasformando la scena in un mosaico di frammenti tratti da Orlando e dalle lettere dell’autrice, specialmente quelle rivolte all’amica-amata Vita Sackville-West. Questo intreccio non solo restituisce la profondità e l’erotismo della relazione che ispirò il romanzo, ma illumina anche il gioco linguistico ed emotivo che Woolf tesseva tra scrittura e vita. Anna Della Rosa offre in scena un’interpretazione intensa, alternando con maestria registri emotivi e narrativi. La sua voce si modula per dare corpo tanto alla Woolf scrittrice quanto alla fluidità di Orlando, incarnazione del cambiamento e dell’ambiguità. Tuttavia, in alcuni momenti, la recitazione sembra sacrificare la musicalità tipica del linguaggio di Woolf per privilegiare un ritmo più frammentato, quasi spezzato. Questo tentativo deliberato di evitare eccessi melodici, per non traghettare lo spettatore verso lidi lontani dal significato delle parole pronunciate, rischia talvolta di attenuare la potenza lirica della forma woolfiana – verbosa e caratterizzata da interminabili e complessi periodi – privilegiando piuttosto il contenuto. La sinuosità e la musicalità del testo, che invece sono state rese in maniera fedele nella traduzione italiana recentemente condotta da Nadia Fusini per Neri Pozza, sembrano dunque essere presenti in scena come una leggera patina di cui, di tanto in tanto, qualche parola viene macchiata. Ebbene, il cuore pulsante dello spettacolo risiede nella rappresentazione della scrittura come strumento di scoperta e trasformazione. Le pagine che cadono incessantemente evocano l’idea di una creazione senza fine, che abbraccia sia la gioia che il tormento. La regia mette a tema anche il rapporto tra Woolf e il “tempo”, incarnato dalle campane che scandiscono il fluire delle ore, ma anche dall’atto creativo compiuto da Orlando con il suo poema, che attraversa epoche e identità.

Anna Della Rosa – ph. Andrea Macchia

La drammaturgia dell’Orlando di De Rosa si distingue per la capacità di costruire una tessitura che attraversa diversi piani narrativi e temporali. Non c’è una netta separazione tra le parole di Woolf e quelle di Orlando: l’una scivola nell’altra senza soluzione di continuità, riflettendo il fluire dei pensieri e delle emozioni. Questo approccio, seppur in parte meno accessibile per chi non ha familiarità con il testo o con la figura di Virginia Woolf, stimola lo spettatore a uno sforzo interpretativo maggiore.

Con Orlando Andrea De Rosa rende omaggio in modo affascinante a Virginia Woolf, un omaggio che supera la semplice trasposizione teatrale per esplorare il flusso profondo del suo processo creativo e le relazioni che lo hanno ispirato dove Il passato si fonde con il presente, e si vive non soltanto il proprio tempo, ma anche quello degli altri.
Ne risulta un’esperienza teatrale di particolare intensità, capace di colpire emotivamente e intellettualmente.

 

ORLANDO 

dal romanzo di Virginia Woolf
e dal carteggio tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West Scrivi sempre a mezzanotte (Donzelli)
drammaturgia Fabrizio Sinisi
traduzione  Nadia Fusini
regia Andrea De Rosa
con Anna Della Rosa
scene Giuseppe Stellato
luci Pasquale Mari
suono G.U.P. Alcaro
costumi Ilaria Ariemme
aiuto regista Paolo Costantini
datore luci Roberto Gelmetti
fonico Claudio Tortorici
sarta Milena Nicoletti
musica di scena sinfonia n. 6 (patetica) Čajkovskij 
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa

Teatro Astra, Torino | 15 dicembre 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Tre sorelle di Muta Imago: la luce di una stanza

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LEONARDO CHIAVENTI / PAC LAB *| La profondità di un sogno non è mai sufficiente per renderlo reale: se non c’è anche la reale volontà di cambiare la propria vita, un sogno rimarrà tale per sempre. I vani desideri espressi sottovoce o urlati, la necessità di scoprire il mondo unita alle aspre difficoltà che si incontrano durante il cammino, sono tutti sentimenti fortemente presenti nell’opera di Anton Čechov e anche in Tre Sorelle.
L’adattamento di Muta Imago che è tornato a teatro, dopo le candidature ai premi Ubu del 2023 per le luci e l’interpretazione di Monica Piseddu, evidenzia particolarmente la solitudine delle protagoniste in una società che le vorrebbe sempre in ombra tra le mura della loro abitazione, nonostante le loro speranze per un avvenire più prospero.
Muta Imago è una compagnia teatrale, condotta da Claudia Sorace nelle vesti di regista e Riccardo Fazi come sound artist e drammaturgo, che esplora varie forme d’arte dalla performing art al teatro connesso alle complessità sonore.
Scandagliando il testo del drammaturgo russo, i due artisti sono riusciti a ambientare le sue parole in un mondo di luci e ombre per uno spettacolo capace di unire l’intimità dei sentimenti con la forza delle voci delle protagoniste.

Arianna Pozzoli. Ph. Luigi Angelucci

Nessuna voce però, richiama l’ attenzione per l’inizio dello spettacolo. Infatti, Il buio avvolge completamente la sala B del Teatro India di Roma, mentre dei corpi si intravedono nell’oscurità, fino a quando una luce dall’alto illumina delle mani, che iniziano a muoversi e a contorcersi, colpendosi tra loro. Nel momento in cui la sala si illumina, si intravede un grande tappeto che è posto tra le mura di una stanza con i toni dell’ arancione e un’estetica che ricorda gli anni 50′. Si trovano ai limiti spaziali di questo ambiente un telefono a filo, una radio, una console e vari strumenti.
Lorenzo Tomio infatti, esegue dei suoni da lui composti, che divengono, insieme al contrasto tra la luce e l’oscurità e alle voci delle protagoniste, una delle componenti principali della rappresentazione. Il testo di Čechov viene reso una geografia emotiva dove anche e soprattutto gli elementi non materici ricoprono un ruolo essenziale all’interno dello spettacolo.
Il vuoto inteso come assenza, è una nota che accompagna ogni passaggio dell’opera firmata dalla regia di Claudia Sorace. La vita di Masa, Ol’ga e Irina è racchiusa nella casa di una desolata provincia russa e quel vuoto, le segue a ogni passo. É nel buio che le circonda, come nelle fragilità degli uomini che le stanno vicino, primi fra tutti il ricordo del padre defunto e il fratello Andrej, un intellettuale con il vizio del gioco. Tra il sogno di andare a Mosca e gli ufficiali che affollano il loro salotto, le sorelle Prozorov cercano di trovare un senso alle loro giornate e al tempo che hanno a disposizione, per contrastare l’ombra dello sconforto. L’adattamento di Muta Imago, utilizza le parole originali dell’opera del drammaturgo russo per creare una messa in scena innovativa, dove il corpo delle attrici insieme alle musiche di Tomio, rendono ancora più reale la solitudine delle tre donne, unite indissolubilmente tra loro, come possono essere tre sorelle.

Federica Dordei, Arianna Pozzoli e Monica Piseddu. Ph. di Luigi Angelucci

Già in Ashes, spettacolo di Muta Imago vincitore ai premi Ubu 2022 in due categorie, il suono di storie, ricordi e racconti permetteva di portare in scena un’opera, in cui gli interpreti, erano soli sul palco, con solamente dei vestiti moderni addosso e l’asta dei loro microfoni davanti: anche in quel caso la presenza di Tomio risultava essenziale a rendere tangibile l’intenzione artistica di Sorace e Fazi di un teatro inteso come pluralità di segni, dalla parola al suono, dal corpo alla voce.
In questa logica Ashes può essere visto come una naturale premessa all’adattamento del testo di Čechov, dove però il filo della narrazione si concentra solo su tre personaggi. Ciò spiega anche, la scelta di far recitare le voci degli altri protagonisti del dramma sempre alle tre attrici che interpretano le tre sorelle Prozorov. Monica Piseddu, Arianna Pozzoli e Federica Dordei tra salti e chiamate al telefono, restituiscono le loro parti al pubblico in modo convincente.
La loro “finta” sintonia non è il vero legame di unione che dovrebbe intercorrere fra le protagoniste: qui in scena la luce è l’aggregante tra le loro azioni, essendo l’inizio e la fine di ogni gesto che le interpreti eseguono sul palco.
Due lampade tonde e altri strumenti, producono effetti visivi, che separano la luce dal buio: il suono e l’immagine evidenziano l’attenzione per la compagnia verso una esperienza sensoriale sinestesica.

Monica Piseddu, Federica Dordei e Arianna Pozzoli. Ph. di Luigi Angelucci

L’oscurità e la luce infatti, prendono forma nell’ adattamento di Muta Imago. Come in Sonora Desert, Claudia Sorace e Riccardo Fazi trasmettono il senso di estraneità di un luogo con l’ausilio della musica e di altri effetti visivi. In Tre Sorelle, non è però solo il luogo a essere isolato, ma anche i personaggi che lo abitano, chiusi nella loro condizione solitaria. L’adattamento del dramma di Čechov proposto dalla compagnia romana porta in scena un teatro dove non solo gli attori sono i protagonisti ma, come giusto che sia, ogni elemento sul palco. L’utilizzo di questi mezzi, rende la rappresentazione un’interessante ricerca riguardo le capacità espressive che ogni elemento scenico contribuisce a vivificare nel  teatro. Le sorelle nella lettura di Muta Imago sono simbolica espressione di una famiglia in cui la paura dell’ignoto è presente tanto quanto la speranza per un futuro migliore: lo spettacolo termina, quando dalle mura della loro stanza entra una luce intensa, più forte di tutte quelle mai viste in precedenza, e loro, insieme, decidono di seguirla.

Teatro India, Roma | 15 dicembre 2024

TRE SORELLE

di Anton Čechov
regia Claudia Sorace
drammaturgia / suono Riccardo Fazi
con Federica Dordei, Monica Piseddu, Arianna Pozzoli
musiche originali eseguite dal vivo Lorenzo Tomio
disegno scene Paola Villani
direzione tecnica e disegno luci Maria Elena Fusacchia
costumi Fiamma Benvignati
per INDEX Valentina Bertolino, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
ufficio stampa Marta Scandorza
coproduzione INDEX, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, TPE Teatro Piemonte Europa, in collaborazione con AMAT & Teatri di Pesaro per Pesaro 2024. Capitale Italiana della Cultura, con il supporto di MiC – Ministero della Cultura

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.