FEDERICA D’AURIA / PAC LAB*| Vedere a teatro il dolore che attraversa il mondo significa vederlo bene, viverlo, estirpare all’azione la forza atroce che possiede per osservarla mentre muta, educa e racconta; per restituire un racconto privo di odio, per nutrire lo sguardo della possibilità di un cambiamento. Questa possibilità non è scontata né sempre vivibile, dipende da fattori mutevoli e molteplici: dal tipo di racconto, dalle modalità di interpretazione, dalle scelte drammaturgiche, per dirne alcuni. Questa eccezione diventa possibile quando qualcuno qualcosa dentro scuote. Emma Dante è qualcuna che qualcosa dentro scuote e fa della possibilità una regola. Scuote e lascia cadere i frutti del suo lavoro fuori dalle mura della città:Extra Moenia, appunto, che è non solo il titolo del suo spettacolo – andato in scena al Teatro Bellini di Napoli dall’11 al 16 marzo 2025 – ma anche il significante che ciascun performer, in ogni suo lavoro, porta dentro e fuori da sé.
Se osservare come da dietro una lente di ingrandimento l’umanità è un fatto tipicamente teatrale, osservare fuori le mura della città è un fatto distintivo di Emma Dante che delimita, senza creare limiti, i contorni di un tempo senza tempo, di uno spazio senza spazio, di esseri umani che camminano fuori da qualcosa nonostante quel qualcosa.

C’è una certa estraneità nelle azioni corali di Extra Moenia che è la stessa estraneità presente anche in altri lavori di Emma Dante e che sussiste nella ricerca corporea di ogni performer presente in scena. L’estraneità – una virtù assoluta della dimensione della scena cui si assiste – è assorbente e potrebbe mimetizzarsi dietro una domanda: che cos’è l’altro se non “io” in un altro corpo? Allora l’estraneo diventa interno, diventa familiare, amica, collega, amante: è un’estraneità che proprio attraverso la dimensione corporea si traduce in intimità. Diventa intima la donna ucraina che fugge la guerra e inciampa nella prostituzione, il migrante che dal Congo insegue l’Europa come un sogno; la donna iraniana che per protesta trasforma il suo corpo privato in corpo pubblico; la ragazza stuprata dal branco, tutte le donne e tutti gli uomini che camminano insieme, fuori le mura della città, in una ballata allegorica che va dall’alba al tramonto.
Ma la stessa estraneità si trasforma in forza repulsiva quando in scena non si racconta una lotta, una fuga verso una vita migliore o un grido ribelle bensì un sopruso che ha il retrogusto sgradevole di un’offesa alla dignità umana. Allora ecco che si fa viva la distanza verso chi alimenta la guerra, la violenza sessuale, il maschilismo che sfocia nel patriarcato, la tortura; camminano tutte le donne e tutti gli uomini nella stessa direzione ma la linea di demarcazione è forgiata con il ferro: lascia tracce di ruggine per chi cammina nella stessa umanità ma ha scelto di stare nel marcio del mondo.
La trama in Extra Moenia allora non c’è ma la storia appartiene a chi è seduto ad osservare, a chi non può più farlo, a chi ha vissuto e vive qualcosa di simile.

Ma poi la vicinanza torna a farsi sentire nei divieti e nei limiti, nelle proibizioni, nella plastica che mastica il mare, nei colori vivacissimi dei vestiti che calano dal cielo come un’opportunità di salvezza – un nascondiglio urbano che tante volte è abito e maschera dove puoi scegliere se tornare bambino, essere chi sei o vestire i panni di qualcun altro – nel viaggio tra la gente. Emma Dante ha realizzato in un’ora un lavoro su quattordici vite che camminano per strada e scelgono con le loro azioni chi vogliono essere. È una “commedia umana” Extra Moenia – come ha affermato la regista durante un’intervista con Anna Bandettini su La Repubblica – “più performativa e performante che narrativa”. Il nucleo originario del suo lavoro – dichiara – era un saggio realizzato con gli allievi della scuola del Teatro Biondo e dell’École regionale d’acteurs de Cannes et Marseille, trasformato poi dai quattordici attori della sua compagnia Sud Costa Occidentale. La compagnia di Extra Moenia, tutta, ha fatto un lavoro encomiabile su corpo, voce e interpretazione: eclettico ed elettrico. Lo spettacolo apre sulle note di Bella Ciao e chiude su quelle di Santissima dei Naufragati: note di lotta, di resistenza, di opposizione, di pietà; note che descrivono e che si mescolano alla drammaturgia e alla regia, che raccontano ciò che unisce i quattordici personaggi.
Nel mezzo, c’è un’umanità alla deriva, monologhi di disperazione e speranza, divieti e limiti.
C’è, ad esempio, Leonarda Saffi con l’Inno all’amore dalla prima lettera ai Corinzi, indimenticabile e vera come l’intensità delle parole che pronuncia. C’è Verdy Antsiou che, in francese, stringe la gola anche di chi non comprende le sue parole perché è chiaro il suono del tradimento di una Europa che non è come l’aveva immaginata, del dolore delle torture subite anche a discapito della sua fanciullezza, costretto a compiere un atto atroce nei confronti di sua madre. Le voci, tutte, sono voci rotte e rinate dopo un trauma, con pari dignità e presenza scenica. Hanno pari potenza di voce e di forza narrativa scavando un solco nell’immaginario collettivo di tante verità spesso taciute.
La verità è che non esiste un unico modo per interpretare il teatro di Emma Dante perché la vita che scorre attraverso il racconto del corpo dei personaggi è volutamente accesa, in continua accelerazione, vibrante e per questo muta attraverso gli occhi di chi guarda. In una parola: trasforma. È un tipo di teatro che attraversa, resta addosso per molto tempo e trasforma.
11 marzo 2025 | Teatro Bellini, Napoli
EXTRA MOENIA
uno spettacolo di Emma Dante
con Verdy Antsiou, Roberto Burgio, Italia Carroccio, Adriano Di Carlo, Angelica Di Pace, Silvia Giuffrè, Gabriele Greco, Francesca Laviosa, David Leone, Giuseppe Marino, Giuditta Perriera, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino
luci Luigi Biondi
assistente ai movimenti Davide Celona
assistente di produzione Daniela Gusmano
coordinamento dei servizi tecnici Giuseppe Baiamonte
capo reparto fonica Giuseppe Alterno
elettricista Marco Santoro
macchinista Giuseppe Macaluso
sarta Mariella Gerbino
amministratore di compagnia Andrea Sofia
produzione Teatro Biondo Palermo
in coproduzione con Atto Unico – Carnezzeria
in collaborazione con Sud Costa Occidentale
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica
Commento al Vangelo di Giovanni: la Biennale di Venezia omaggia Meister Eckhart
ENRICO PASTORE | Meister Eckhart rappresenta una sfida per ogni intelletto. I suoi scritti paiono logici eppure impossibili, sembrano una cascata di paradossi costantemente in bilico tra il razionalismo della scolastica e i verticismi della mistica. La Chiesa lo considerò a lungo un pensatore eterodosso assiso sul pericoloso confine dell’eresia, una fonte da cui attingere cum grano salis, da leggere dunque con sospetto e diffidenza.
A questa figura affascinante, persino misteriosa, del pensiero medievale, a cui si ispirarono molti artisti del Novecento (John Cage su tutti), la Biennale di Venezia ha dedicato un progetto speciale: tre voci eminenti del teatro italiano, Federica Fracassi, Leda Kreider, Dario Aita, hanno dato vita al Commento al Vangelo di Giovanni (Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem) insieme al Coro della Cappella Marciana, sotto la guida del Maestro Marco Gemmani, per la regia di Antonello Pocetti e l’ideazione scenica di Antonino Viola e con le videoproiezioni curate da Andrew Quinn (autore di parte degli effetti speciali di Matrix).
Prima di entrare nel merito dell’allestimento, tratteggiamo un breve ritratto della figura di Meister Eckhart. Johannes Eckhart nasce nel 1260 in Turingia, da famiglia nobile e si fa monaco tra i domenicani in giovane età. Studia a Colonia ripercorrendo i passi di Tommaso d’Aquino e Alberto Magno. Insegna a Parigi dapprima come lector sententiarum, poi come maestro di teologia e infine, unico con San Tommaso, come magister actu regens, la più alta carica accademica del mondo medievale. Dal 1314 al 1324 è vicario generale dei domenicani a Strasburgo, con giurisdizione sui monasteri femminili presso i quali svolge una fervida attività come predicatore. Nello stesso periodo riprende l’insegnamento nello studio di Colonia.
Proprio qui iniziano i suoi guai. I sermoni e le prediche vengono scritti non più in latino ma in volgare, in una forma più libera, intima e vicina all’anima dei suoi ascoltatori; anche il suo pensiero mistico si sgrava, via via, dei razionalismi scolastici e delle rigidità accademiche. La sua mistica si inabissa nella teologia negativa laddove Dio si nullifica insieme all’io del credente. Dio abita la contraddizione, l’indeterminatezza, l’oscurità prima della luce. Questo Dio indistinto, che sfugge a qualsiasi definizione e individuazione, sorge all’interno dell’uomo, nel fondo insondabile della sua anima; un fondo senza fondo dove il Dio nascosto emana la sua luce facendo dell’uomo il figlio di Dio e quindi assumendolo come parte integrante della Trinità: Homo Deus. Dio e l’uomo si riflettono come in uno specchio, sono uno l’immagine dell’altro e la preghiera diventa superflua perché Dio si conosce solo nel silenzio della propria anima.
Queste tesi ardite spinsero l’arcivescovo Enrico di Vinenburg a intentare nei confronti di Meister Eckhart un processo per eresia associando i suoi assunti a quelli degli eretici della Setta del Libero Spirito, in Italia perseguiti da quell’Ubertino da Casale che troviamo ne Il nome della Rosa. Eckhart si appellerà al papa sfruttando il privilegio dei domenicani di essere giudicati solo dal Santo Padre. Siamo nel periodo della cattività avignonese, durante il quale il papato sta «a puttaneggiar coi regi», per dirla con Dante; anni che vedono il processo ai templari con le relative ingerenze di Filippo il Bello e il papa è Giovanni XXII, pontefice accusato da Dante di comminare scomuniche per poi cancellarle dietro pagamento. Il 27 marzo 1329, nella Bolla In agro dominico, alcune delle proposizioni di Eckhart vengono considerate eretiche, ma il mistico tedesco è già morto, forse a Colonia o, più probabilmente, ad Avignone, in attesa di giudizio. Nella Bolla è detto che, prima della morte il mistico, avrebbe rigettato le sue tesi ritornando in seno all’ortodossia di Santa Madre Chiesa. Eckhart non era più in grado di smentire o confermare e comunque le sue opere furono ritenute a lungo sospette e pericolose.
Al Portego delle Colonne della Scuola Grande di San Marco a Venezia, di questo grande e scomodo pensatore è stato allestito un oratorio moderno e multimediale ispirato al commento al Vangelo di Giovanni, il più mistico e filosofico dei quattro. L’oggetto della dissertazione è il primo capitolo, quello maggiormente intriso di elementi gnostici presi in prestito dal mondo greco in Efeso, dove il testo fu composto. Questo capitolo, detto anche Inno al Logos, così comincia: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio». Queste sono anche le prime parole del Commento, recitate in latino.
Il Verbo, ossia il Logos, la Parola, è dunque al principio, ma non è il principio stesso, è ciò che crea ma è a sua volta creato, è la prima stilla d’acqua che sgorga dalla sorgente divina.
Proprio la centralità della Parola nella creazione spiega questo progetto di Biennale di Venezia. Anche in teatro la parola è fondamentale ma non è l’origine del teatro. Quello tra parola e performatività è un legame fondante ma altrettanto difficile da descrivere. La parola è dunque centrale, un motore di vita, un atto magico, capace di creare e modificare il reale, ma è anche qualcosa che segue un linguaggio più oscuro eppure più immediato che è quello della fisicità dei corpi.
Risulta quasi impossibile condensare in poche frasi il il percorso mistico e filosofico proposto da Eckhart a commento di un testo così profondo e difficile. Non resta che operare una scelta e cogliere un esile filo dall’intreccio e illuminarlo per quanto si può.
Come ha affermato il teologo, scrittore e poeta Cardinale José Tolentino de Mendonça, – prefetto del Dicastero della cultura e dell’educazione della Santa Sede – nella sua introduzione alla serata del 5 marzo (ogni serata è stata introdotta da un ospite differente), il Verbo è anche Logos, ossia la ragione illuminante e per Eckhart «quando l’anima entra nella luce della ragione essa non sa più nulla dei contrari». Ogni cosa è allo stesso tempo affermazione e negazione e pertiene al mondo della contraddizione. Il paradosso è il luogo in cui abita il Verbo, in prima istanza perché nasce in quel fondo senza fondo dell’anima, unica dimensione in cui si può incontrare il dio indefinibile. Come spiega Marco Vannini – curatore italiano dell’intera opera tedesca e latina di Eckart – «Non vi sono più parole, ma si è, nel silenzio, quella Parola che è tutte le parole, la loro origine e la loro fine».
Nel sermone Dum medium silentium, Eckhart usa le parole del libro della Sapienza: «Quando tutte le cose erano in mezzo al silenzio, venne in me dall’alto, dal trono regale, una parola segreta». È nel silenzio che Dio parla: «Voglio sedere e tacere, ed ascoltare quel che Dio dice in me». Ecco perché la luce risplende nelle tenebre: essa rifulge: «nel silenzio e nella pace, lontano dal tumulto delle creature». Questa la conclusione del Commento, insieme a una invocazione: «Anima mia, sii sorda, nell’orecchio del tuo cuore, al tumulto della tua vanità».
Da queste poche parole si comprende la fascinazione di Cage per Meister Eckhart. Per entrambi il suono, o la Parola, nascono dal silenzio del mondo e dell’io. Un paradosso intrigante che un inno alla Parola lodi e glorifichi il suo contrario.
Il secondo filo che vorremo portare alla luce riguarda l’incarnazione della parola. Dice l’Evangelista: «Et Verbum caro factum est. Il Verbo si è fatto carne». Il Verbo per Eckhart è come l’idea di Platone, si congiunge con la carne ma non partecipa della sua natura: «la causa prima regge tutte le cose senza mescolarsi ad esse». Ma la parola non è solo idea nella purezza dello spirito, è anche rappresentazione della cosa nel mondo ed è quindi corruttibile. In questa sua seconda accezione, l’uomo nobile si deve distaccare da ogni attaccamento d’amore alla parola per ritrovarne lo spirito, abbandonare l’illusione della carne per la realtà dello spirito. Scrive ancora Marco Vannini: «all’unitas spiritus appare mistificazione e peccato ogni contenuto in cui ci si ferma e in cui ci si compiace». Quanto ritroviamo di Carmelo Bene in questo pensiero, lui che pensava, come i greci, che non bisogna dire ma esser detti.
Come dunque la parola di Eckhart si è fatta carne sulla scena? Federica Fracassi, Leda Kreider, Dario Aita salgono su un podio nascosto da un velo al centro del Portego delle colonne. Il Coro circonda il pubblico disposto a specchio su due lati. Sulle pareti lunghe della sala sorgono le immagini visive ideate da Andrew Quinn. I tre attori, come il Dio nascosto di Eckhart, uno e trino, espongono le vertiginose tesi di Eckhart, mentre il coro risponde con canti e bordoni alle singole sezioni. Lettere e parole si formano sulle pareti: soli, fontane, fuochi artificiali, forme frattali, caleidoscopi generano mondi e realtà fatte di parole. Come nella mistica della Kabbalah ebraica, le lettere si combinano in modi oscuri e imperscrutabili sgranando davanti ai nostri occhi l’essenza del mondo alla ricerca del vero nome di Dio.
Una meditazione sia laica che religiosa sul senso e l’importanza della parola, in un mondo odierno in cui essa ha perso la sua verità. Un rito religioso e laico insieme per contemplare il Verbo al di là di ogni significato. In questo forse vi è l’attualità del pensiero di Eckhart, nel ritenere la parola ancora magica e potente, un atto creativo che scaturisce dal suo contrario, da quel silenzio che è il vero principio del mondo, oggi sempre più difficile da ascoltare e contemplare.
In conclusione una piccola riflessione. Il Commento al Vangelo di Giovanni di Meister Eckhart è un testo stupendo ma alquanto ostico per chi non è avvezzo ai termini filosofici della scolastica e al linguaggio mistico medievale. Questa performance, per quanto riuscita, non era diretta a tutti i palati. Qui ci si pone davanti a più di un dilemma: semplificare Eckhart sarebbe potuta essere una soluzione? Oppure vi sono opere che per quanto ci si sforzi non possono essere accessibili ai più? O, ancora, si poteva accogliere Eckhart in forme diverse, addirittura paradossali come le sue tesi? Non è facile affrontare queste questioni e trovare il giusto equilibrio tra accessibilità e complessità, soprattutto oggi che si tende a semplificare fino a snaturare il senso originario. Forse il segreto non è capire, ma lasciarsi attraversare dal mistero.
EXPOSITIO SANCTI EVANGELII SECUNDUM IOHANNEM
di Meister Eckhart
voci recitanti Federica Fracassi, Leda Kreider, Dario Aita
insieme al Coro della Cappella Marciana,
con la direzione del M° Marco Gemmani
scene Antonino Viola
video Andrew Quinn
luci Tommaso Zappon
musica e proiezione del suono Thierry Coduys
grafica Studio Leonardo Sonnoli
regia e drammaturgia Antonello Pocetti
produzione La Biennale di Venezia
Progetto Speciale dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia
Le prime cinque serate saranno introdotte da:
5 marzo Cardinale José Tolentino de Mendonça Logos
6 marzo Peter Sloterdjik Essere
7 marzo Cristiana Collu Amore
8 marzo Monica Centanni Bene/Male
9 marzo Monsignor Francesco Moraglia Anima/Corpo
Scuola Grande di San Marco, Venezia | 5 marzo 2025