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martedì, Dicembre 5, 2023
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PAC LAB | Sette: Auretta Sterrantino e il classico (ma sempre contemporaneo) conflitto fratricida

ph. Fabio Crisafulli

SOFIA BORDIERI* | SETTE è un lavoro-studio della QA-QuasiAnonimaProduzioni con la regia di Auretta Sterrantino che, con deferenza, ha estrapolato un nuovo testo, riscritto e reso autonomo, partendo dalla relazione controversa dei due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, “condannati” al proprio fratricidio. Lo spettacolo prende, infatti, le mosse da Sette contro Tebe di Eschilo e da altri testi teatrali classici legati alla storia dei due fratelli.  Accordatisi in un primo momento a governare un anno ciascuno la città, Eteocle, allo scadere del suo mandato, rifiuta di “lasciare il timone” al fratello, pronto ad attaccare per questione di giustizia. Ondeggiando tra l’amore fraterno e il desiderio di potere, si dicono a vicenda: «non voglio che tu muoia e non vorrei morire». Dunque, il nodo inestricabile è l’impossibilità di stabilire concordia, uno stato controverso in cui nessuno ha ragione e nessuno ha torto, nessuno è disposto a cedere, e entrambi pretendono che sia l’altro a farlo: un patto violato che si traduce in un’opposizione “danzante” che ha come unica possibilità la distruzione.

SETTE
ph. Fabio Crisafulli

La performance è già in corso con l’entrata del pubblico. Sulle note registrate di un pianoforte sono sovrapposte sonorità anguste e cupe, tappeto musicale su cui si muovono rigorose e nerovestite Giulia Messina e Carlotta Maria Messina, sorelle dalla somiglianza gemellare, illuminate di viola dalla fila di led posti ai lati del “ring”.
Nella scena aperta della suggestiva Sala Laudamo a Messina, il palcoscenico quadrato è vicinissimo al pubblico. Le due performer si muovono all’unisono come fossero l’una il riflesso dell’altra, in un gioco continuo di opposizioni spaziali che concretizzano il rapporto “maledetto” di Eteocle e Polinice. Protagonista scenica assoluta è la partitura gestuale: geometrica, dettagliata – nei movimenti delle mani, negli appoggi dei piedi – mai incerta. Su un beat ostinato si sovrappongono le voice off registrate delle due attrici che pronunciano un flusso di parole evocative in italiano, francese, inglese, spagnolo. I registri coreutici rimangono predominanti e sono molteplici: dalla “linearità” labaniana, allo slowmotion fino ai densi spostamenti di peso che generano figure ondulanti. Proprio il movimento e la prossemica riescono a raccontarci la caparbietà dei due fratelli ognuno dei quali continua, seppur con dolore, a trattenersi nella propria direzione.

SETTE
ph. Fabio Crisafulli

Quella ostilità è resa scenicamente senza contatto fisico, in modo chiarissimo, scevra da didascalismi. Dal riflesso gestuale reciproco all’azione/reazione, la danza si sviluppa in ogni direzione, stanziando su tutti i fronti, degerarchizzando la visione frontale che prevale solo alla fine, insieme al testo declamato.
La durata è interamente scandita da rintocchi, come la divisione in scene della tragedia o un incontro di pugilato, ed è animata da un progetto sonoro molto interessante (curato da Vincenzo Quadarella) che assorbe gesti e voci delle sorelle Messina, insieme al dramma, in una dimensione temporale a noi vicina, con un sapiente missaggio di sonorità, quelle del pianoforte e dell’organo, con l’elettronica e la techno.

SETTE
ph. Fabio Crisafulli

Con SETTE Sterrantino inserisce un nuovo tassello all’interno della sua ricerca sui testi classici e sul movimento da lei considerato centrale mezzo eloquente. Una direzione che può affidarsi ancora di più alla “natura” del performativo – nell’azione, nel luogo teatrale, nel rapporto con il pubblico – ed essere, insomma, più audace. La visione è stata comunque una piacevole sorpresa considerando il territorio prevalentemente abitato da proposte commerciali.

Il progetto è nato grazie a una serie di residenze creative svolte tra Messina e i Dipartimenti della Facoltà di Filosofia e lettere dell’Università di Malaga (dove lo spettacolo verrà portato in scena a febbraio) per poi giungere nelle università di Coimbra, Valencia e Barcellona. La stessa rete di studiose e studiosi dei differenti atenei è stata promotrice del Convegno Varcare la soglia. Teatro, rito e festa tra passato e presente. Prime giornate di studi sul teatro antico e la messinscena contemporanea, ambito entro cui lo spettacolo ha debuttato, svoltosi il 29 e 30 novembre all’Università di Messina e il primo dicembre presso la Fondazione INDA.

 

SETTE
studio a partire da Sette contro Tebe di Eschilo
regia e drammaturgia Auretta Sterrantino
musiche originali e progetto audio Vincenzo Quadarella
assistente alla regia Elena Zeta
interpreti Giulia Messina, Carlotta Maria Messina
una produzione QA-QuasiAnonimaProduzioni e Nutrimenti Terrestri di Maurizio Puglisi, in collaborazione con l’EAR-Teatro Vittorio Emanuele di Messina

Sala Laudamo, Messina | 28 e 29 novembre 2023

 

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Penelope di Badiluzzi/Carruba Toscano: ritratto di donna abbandonata con ventilatori

Penelope. Foto di Guido Mencari

MATTEO BRIGHENTI e ELENA SCOLARI | MB: Federica Carruba Toscano è seduta su una poltrona in pelle. La testa appoggiata su una mano. Se ne sta lì, annoiata in un angolo, affonda nei suoi pensieri. Poco distanti ci sono sette ventilatori di argenteo metallo di altezze diverse. La prima immagine di Penelope di Martina Badiluzzi al Piccolo Bellini di Napoli è il dagherrotipo di una figura dell’indolenza che cerca refrigerio in una comodità impossibile.
La gravità è la pesantezza di un “tu” innominabile. È qui, davanti a lei, ma non parla. Perché siamo noi, e noi non siamo lui: Ulisse. Allora, il ritorno di quell’uomo che non c’è può avvenire solo attraverso le parole e negli occhi di lei. Un incontro del desiderio che è come il sole in faccia: abbaglia. Così, ogni sguardo dato è presto tolto. E poi ridato. E poi tolto ancora. Un movimento dell’animo che richiama la posizione scomoda di donna abbandonata.

ES: Sì, la protagonista è una donna sola, che si fa compagnia chiacchierando, raccontando, ricordando. Come parlasse a un gruppetto di amiche, condivide con noi episodi buffi, momenti di seduzione frivoli e per questo sorridenti, confida i rossori con fresca sincerità, si muove sul palco senza trovare una collocazione, si alza, si risiede. La sua inquietudine – benché stanziale – è, nel profondo, la stessa di quel marito esploratore che ha dovuto affrontare i flutti, per spingersi oltre sé.

Foto di Guido Mencari

MB: Penelope è il monologo di una donna lasciata sola, che cerca, nel ricordo e nel superamento di un amore lontano, il modo per accettare di essere ancora qui, ancora viva. Perché esserlo vuol dire continuare a essere abbandonata.
La tela che fa e disfa, al pari dello sguardo che dà e toglie a Ulisse, racconta la vita di una Penelope che si ingegna per cancellare sé stessa, dal momento che non può, o meglio, non crede di poter esistere per sé, ma sempre e solo per un altro, per l’uomo. Che ha potere su di lei anche ora che non c’è, perché lei ormai lo porta dentro di sé e da lì lo lascia agire.
Il sogno del ritorno a un tavolo di ristorante è il naufragio, quindi, di un eroe dell’assenza. Carruba Toscano, che è nella terna delle finaliste agli Ubu 2023 come Migliore Attrice o performer under 35, sa restituire tutto l’imbarazzo di un incontro che Penelope vuole che sia di nuovo scoperta, che riprenda il discorso amoroso là dove si era interrotto. Ma è il prima di un tempo perduto; forse mai realmente esistito per come l’ha immaginato e vissuto lei.

ES: Però, su questa scena lei è soltanto lei, esiste perché noi la ascoltiamo e la vediamo, e in fondo ci importa relativamente di quel soggetto che sta sullo sfondo, come un brusio che diventa sempre più indistinto.

MB: È vero, il testo di Badiluzzi è un’Odissea tutta al femminile, prende il mito classico e lo trasfigura con sensibilità contemporanea, a mio avviso, nelle lotte di emancipazione delle donne dagli uomini, una libertà conquistata spesso al costo della propria vita, un prezzo ora materiale, ora morale, ora psicologico. La scrittura è molto immaginifica, le visioni che descrive rendono le parole metafore che riesci quasi a sentire, a toccare. Carruba Toscano è e fa tutte le parti in commedia, non perdendo mai il fuoco della questione, Ulisse, e quanto sia a disagio lei, Penelope.
Siamo, comunque, di fronte alla fine, al crollo, alla distruzione di un amore. È il suo corpo che lo dice davvero, è il non raggiungere più quello che sentiva prima. La confidenza è una terra ormai lontana. Da coppia sono tornati a essere due estranei, che hanno come unico legame il silenzio di mille parole non dette.

Foto di Guido Mencari

ES: Qui le cose si confondono un po’, teatralmente parlando. Mi spingo a dire che se non fosse per il titolo dello spettacolo, non sarebbe così evidente che di Penelope e Ulisse si stia parlando. Ed è forse voluto, chissà. Quello che io ci leggo è che, a volte, tanto ci si vuol muovere ‘dentro’ le attualizzazioni di opere classiche che, quando si ha qualcosa di corposo e nuovo da dire, si finisce per allontanarsene tanto da creare qualcosa di autonomo e che, forse, nemmeno abbisognerebbe più di quel riferimento. Che sfuma.
La donna creata con le parole da Badiluzzi e con la recitazione da Carruba Toscano è un personaggio con una sua ragione di esistenza teatrale, l’evocazione omerica è più nell’aria (forse, proprio nel vento che soffiano quei ventilatori) che nella geometria drammaturgica.

MB: La figura di Penelope serve a richiamare tutte le donne che aspettano. In questo caso, però, più che il loro uomo aspettano che torni la bellezza del tempo vissuto nella pienezza di sé. Uno stato d’animo che passa anche dal trovarsi l’una nello specchio dell’altro. Ma solo se è anche riconoscersi e accettarsi reciprocamente; dunque, da pari a pari. Perciò, a mio avviso, questa Penelope è una limpida e violenta chiamata alle armi della solidarietà femminile. Per riscattarsi dall’avrei voluto, ma non ho potuto, non me la sono sentita, e allora l’ho soltanto immaginato.
A volte, per la verità, la narrazione si perde un po’ troppo dietro l’attualizzazione dei singoli episodi del dettato omerico. E poi, il secondo finale, dedicato al cane Argo, è una nota di arrendevolezza che stona con tutto il prima; come con il primo, vero finale, che trova Penelope in una posizione ribaltata a quella iniziale. Ovvero, spalle al pubblico, pronta a ricominciare la sua storia con altri (di) noi.
Ciò detto, anche quando è offuscato, il furore non smette di accendere questa Odissea di resistenza e determinazione.

ES: La direzione di Badiluzzi amalgama bene lo stile di luci, costumi, colori e temperature della scena in cui Carruba Toscano è immersa, la carica recitativa dell’attrice è impreziosita dagli accenti ironici e personali che sa mettere soprattutto nei risvolti più quotidiani di una narrazione che mescola tanti sottintesi a dettagli estremamente nitidi.
Purtroppo, i finali dello spettacolo sono pure più di due, e tolgono intensità a quella che sarebbe stata la chiusa naturale e più d’effetto: i ventilatori si avviano e Penelope si avvia anch’essa, forse finalmente mossa a cercare aria nuova. 

PENELOPE

scritto e diretto da Martina Badiluzzi
con Federica Carruba Toscano
progetto sonoro dal vivo Samuele Cestola
disegno luci e scene Fabrizio Cicero
costumi Rossana Gea Cavallo
dramaturg Giorgia Buttarazzi
aiuto regia Arianna Pozzoli
assistente costumi Marta Solari
artwork Serena Schinaia
fotografie Guido Mencari
curatore del progetto Corrado Russo
produttore e organizzatore generale Pietro Monteverdi
ufficio stampa Marta Scandorza
una produzione Oscenica
in coproduzione con Romaeuropa Festival, Primavera dei teatri, Pergine Festival, Scena Verticale
con il sostegno di Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’Arboreto – Teatro Dimora / La Corte Ospitale”, Teatro Biblioteca Quarticciolo, Carrozzerie N.O.T., Teatro del Grillo

Piccolo Bellini, Napoli | 18 novembre 2023

Visto in occasione della finale del Premio Rete Critica 2023, vinto da Dance Well – movement research for Parkinson, la pratica di danza nata dieci anni fa a Bassano del Grappa e rivolta principalmente, ma non esclusivamente, a persone con Parkinson, e che dal 2022 è un progetto europeo sostenuto dal programma Creative Europe dell’UE.

Scatti Coreografici #11: i codici del tanztheater nello sguardo americano, New York incontra Pina Bausch

Tanztheater Wuppertal, Arien, Photo via Wix

GIANNA VALENTI | Se c’è un’immagine capace di riassumere la visione coreografica di Pina Bausch è quella di corpi che incarnano gesti per portare sulla scena un fotogramma dell’umanità osservata o un flashback della propria storia: gesti quotidiani, sociali o simbolici che si fanno segno teatrale reiterato, struttura di sostegno nel linguaggio delle azioni fisiche o che si trasformano nei frammenti primari di un fraseggio danzato. È questa centralità gestuale nell’identità coreografica di Bausch che ha fatto scegliere The Nelken-Line, l’iconico girotondo di gesti dal lavoro Nelken del 1982, per celebrare i dieci anni della sua morte nel 2019.
Ed è la riduzione della danza a gesto espressivo, radicato nell’esperienza, nella memoria, nel quotidiano e nel sociale ciò che maggiormente colpisce del lavoro coreografico della Bausch quando il Tanztheater Wuppertal arriva a New York alla Brooklyn Academy of Music nell’ottobre 1985 per il Next Wave Festival, portando The Seven Deadly Sins (I Sette Peccati Capitali) del 1976, Arien del 1979, Kontakthof del 1978 e Auf dem Gebirge hat man ein Geschrei gehört (Sulla Montagna si è sentito un grido) del 1984.
La BAM-Brooklyn Academy Of Music ha un archivio digitale on line e qui potete trovare alcuni dei materiali di sala e le foto del festival del 1985, con altre fuori scena e ritratti della Bausch. 

Next Wave Festival 1985, Brooklyn Academy of Music, BAM Archive

Nel pubblico della danza e nella critica americana, l’incontro con il tanztheater crea disagio e incomprensione ma anche desiderio di ricercare provenienze e isolare filiazioni per quello che si vede in scena. A creare disagio non è tanto la semplificazione del gesto come movimento danzato o la percezione dell’identità teatrale che supera quella coreografica, ma il livello di violenza percepita nei rapporti di genere sulla scena, la mancanza di un accompagnamento alla loro visione, ma ancor più la quasi totale incomprensione per la tecnica del montaggio che Bausch utilizza a livello coreografico, registico e come forma di comunicazione con il proprio pubblico.
In occasione dell’arrivo in città del Tanztheater Wuppertal, la BAM e la Goethe House di New York organizzano il simposio German and American Dance: Yesterday and Today e, l’anno successivo, TDR ne pubblica alcune trascrizioni, insieme ad alcuni interventi critici e storici su Pina Bausch e il tanztheather. *

Due mondi si incontrano, si confrontano e cercano di riconoscersi a vicenda: il mondo americano che ricerca l’espressività coreografica nella semplificazione dei contenuti, che cita il modernismo di Paul Taylor, motion not emotion, che applica uno sguardo e un linguaggio che si nutre di modernismo quando valuta lo sviluppo di una partitura coreografica o di postmodernismo quando a essere valutati sono i materiali di movimento; il mondo della Germania Ovest, con il critico di danza Jochen Schmidt, chiamato a difendere il tanztheater dalle accuse di debolezza formale, di pesantezza espressiva, di insistenza eccessiva sulle relazioni di genere e di incompiutezza coreografica per l’assenza di chiavi di lettura sui temi presentati, ma anche chiamato a difenderne le scelte formali dalle accuse di noia legate all’uso eccessivo della reiterazione dei movimenti o da quelle di disorientamento per l’uso del montaggio. Due codici compositivi che lo sguardo americano legge come incapacità di dare forma coreografica compiuta ai materiali scenici.

Tanztheater Wuppertal, The Seven Deadly Sins, Photo by Rolf Ebertowski

L’introduzione storica è di Susan Manning e Melissa Benson che presentano l’arrivo del tanztheater negli Stati Uniti come un evento capace di dare continuità a quel legame tra modernismo americano ed espressionismo tedesco che, dopo la nascita e la crescita parallela a inizio Novecento, si era dissolto per l’indebolimento del filone europeo con l’avvento del nazismo e per la sua mancata ripresa nella Germania Ovest dopo la seconda guerra mondiale.
Per le due relatrici, la programmazione di Pina Bausch alla BAM, insieme a quella di Reinhild Hoffmann e Susanne Linke (le altre due coreografe come Bausch cresciute alla Folkwang Schule di Essen e studentesse con Kurt Jooss), segna il riavvicinamento storico tra i due mondi e disegna un arco temporale che rimette in connessione la contemporaneità con una tradizione coreografica modernista che eleva l’espressione personale ed emotiva al di sopra di quella formale.
Le conclusioni, a fine giornata, sono di Ann Daly, editor della Drama Review, che ritiene la maggior parte dei critici americani incapace di leggere le proprietà formali e strutturali del lavoro di Bausch e i critici tedeschi incapaci di leggere le qualità espressive (e non necessariamente di espressione emotiva) della danza postmoderna americana, così da rendere visibili e concreti i modi assolutamente diversi che le due culture hanno di leggere il movimento.
“The way we see things is affected by what we know or what we believe.” (Il modo in cui vediamo le cose è influenzato da ciò che sappiamo e da ciò in cui crediamo.) John Berger.

Per comprendere lo shock Bausch si cerca subito una filiazione che possa fornire griglie di senso e di orientamento, così il modernismo espressionista di Mary Wigman fa definire neoespressionista Bausch, con un’etichetta che viene subito dismessa, perché al di là di uno stesso seme di provenienza che si radica nel valore di un’esperienza interiorizzata capace di generare una comunicazione coreografica, il tanztheater contiene molto e altro e le distanze con l’espressionismo rimangono ampie.
Wigman lavora con quello che lei stessa definisce un’esplosione emotiva che rende poi comunicabile attraverso un lavoro rigoroso di disciplina autoimposta, una sorta di prima generazione motoria che viene declinata seguendo regole compositive ben precise: da un lato la trasformazione dei movimenti attraverso le regole spaziali e dinamiche del suo maestro Rudolf von Laban, dall’altro l’evoluzione della partitura coreografica seguendo la regola modernista dell’affermazione di un tema e della sua manipolazione, come per esempio una struttura di inizio, sviluppo e fine, ABA, o di un tema e delle sue infinite variazioni.
E sebbene certi momenti danzati nei lavori della Bausch siano carichi di un’atmosfera neoespressionista, la coreografa lavora sul segno motorio non per costruirne lo sviluppo come in una partitura modernista, ma per portarlo a un’essenza attraverso un’operazione di semplificazione e di condensazione.

Il corpo di ballo dell’Opéra de Paris in Kontakthof di Pina Bausch, dicembre 2022.
JULIEN BENHAMOU/ONP

È su questo piano della riduzione e della compressione che si inserisce lo sguardo americano che legge nel suo lavoro un dissolversi del movimento come danza, un’indifferenza coreografica e una labilità strutturale, sino a una vera e propria assenza di forma.
Anna Kisselgoff, critico del New York Times, chiede ai presenti del disinteresse formale nella coreografia tedesca e della rinuncia ai materiali danzati, così che Lutz Förster, membro storico del Wuppertal Tanztheater e, allora, anche direttore artistico associato della Jose Limone Dance Co., racconta del percorso di creazione per Arien, uno dei lavori presentati alla BAM, con un inizio con molto materiale danzato di circa dieci frasi e un finale in cui tutto si concentra in due grandi scene (che a suo giudizio sono tra i materiali di movimento più belli che il gruppo abbia coreografato); eppure, molte delle frasi di danza con cui il lavoro era iniziato erano state tagliate mentre altri materiali di movimento più semplici avevano finito per diventare più forti della danza stessa: “Pina inizia sempre con molto movimento e durante il processo scopre cose che sono molto più forti. Prova sempre. Non si tratta di uno sforzo cosciente per non muoversi.” *

Tanztheater Wuppertal, Arien, still picture

Oltre il neoespressionismo, oltre il lavoro sui materiali come semplificazione e ricerca di un’essenza, oltre il balletto, che è il codice che non appare e che prepara i corpi dei danzatori, il tanztheater è anche teatro sperimentale radicato nelle avanguardie e nel postmodernismo anni Sessanta. Eppure, anche se siamo a New York alla fine di quasi tre decenni di sperimentazione nelle arti performative, la seconda grande incomprensione si gioca sull’uso del montaggio, sull’assenza di uno sviluppo drammatico e sulla solitudine dello spettatore rispetto al senso della visione.
A colpire lo sguardo americano è la disconnessione strutturale delle diverse scene – ben costruite e poi abbandonate senza essere sviluppate – e la ripetizione sempre uguale di azioni che non danno una via d’uscita alle situazioni rappresentate e agiscono sullo spettatore un diverso e secondo tipo di abbandono. È la voce tedesca di Schmidt a intervenire per sostenere le tecniche del montaggio e del collage e per dichiarare che “I lavori di Pina Bausch sono molto più vicini a un film di Eisenstein che a un balletto classico o narrativo. Raccontano cose, ma non raccontano storie.” *
Qualche voce americana vi associa il Living Theater, altre ricordano che il lavoro sul collage è stato presente nel postmodernismo e continua ancora nel lavoro di alcuni coreografi, altri fanno completamente barriera difronte all’assenza di uno sviluppo dei materiali e di un accompagnamento alla visione, dando testimonianza di un’ottica modernista ancora molto radicata nella contemporaneità.

Oltre al Living Theater, anche il nome di Jerzy Grotowski viene fatto per dare senso a una griglia interpretativa, del resto gli attori del Polish Lab Theater erano attivi nello sguardo americano già dagli anni Sessanta e i lavori di Grotowski, come avviene per Bausch nel 1985, erano stati presentati alla Brooklyn Academy of Music nell’autunno del 1969 e nel 1982, a soli tre anni dall’arrivo in città della coreografa, il regista polacco si era trasferito definitivamente come esule politico a New York.
L’avvicinamento probabilmente nasce dalla comune tensione per dare forma a un’esperienza interiore: i danzatori/attori del Wuppertal tradiscono il mutismo della danza, rivelano le loro vite e offrono le loro esperienze come materiali per la scena ma Marcia B. Siegel non legge nei loro corpi una verità nell’uso della memoria del corpo: “Questa non è veramente danza e questa non è certamente coreografia, ma è fisico al di là di ogni altra cosa i danzatori debbano mai fare. […] Ciò che fa la differenza dal teatro anni Sessanta… è che i performers della Bausch spesso devono fingere.” **

Stanford Dance in prova per Rooms (1955) di Anna Sokolow

Il riferimento più interessante per la teatralità e il lavoro sulla gestualità della Bausch è Siegel che la avvicina al lavoro di  Anna Sokolow, coreografa, pedagoga e voce storica della danza e del teatro americano, forse l’espressione più contemporanea all’interno del modernismo. Sokolow aveva studiato con Louis Horst, compositore che per il modernismo americano aveva avuto lo stesso ruolo di John Cage per il postmodernismo, aveva danzato con Martha Graham ed era stata invitata nel 1947 da Elia Kazan come membro fondatore dell’Actors’ Studio, dove avrebbe poi insegnato. Sokolow, nel 1958, entrava anche a far parte della facoltà della Julliard School dove sarebbe rimasta sino al 1993, lì dove Bausch  avrebbe studiato nel 1960-61.
Non ci sono notizie su un incontro tra la coreografa tedesca e Sokolow, ci racconta Siegel, ma Bausch aveva danzato per un periodo con il suo discendente diretto, Paul Sanasardo, e il secondo lavoro più famoso della Sokolow, Dreams, è del 1961, proprio mentre Bausch si trova a New York.
Sokolow, come nel method acting, chiamava le emozioni per nome, non raccontava storie e indagava forme per comunicare emozioni; parlava di memoria, di memoria del corpo, insegnava method dancing e lavorava in sale per attori dove le sedie erano sempre disponibili. Il suo lavoro più iconico, Rooms (1955), metteva in scena sedie, solitudini umane e una gestualità molto ridotta (qui in un montaggio di una versione ricostruita da notazione). Come Bausch, Sokolow inseguiva la semplificazione del segno motorio e gestuale al di là degli idiomi della danza, alla ricerca costante di forme che potessero comunicare in maniera non superflua il suo sguardo sulla realtà e sulla società.

È singolare che Kurt Jooss, il maestro di una vita per Bausch e l’artista che le avrebbe insegnato lo sguardo sulla società e sulle relazioni umane come materiale per la creazione coreografica, non sia stato citato dalla critica americana ma solo fuggevolmente nell’introduzione storica al tanztheater. Singolare perché il suo lavoro del 1932, The Green Table, era stato visto a New York pochi anni prima, nel 1981, nella ricostruzione del Joffrey Ballet, un lavoro che non poteva passare inosservato perché pietra miliare nella storia della coreografia del Novecento. Certo, a parte la scena iniziale e finale, si tratta di un balletto e se non ci si addentra nella costruzione della gestualità dei personaggi è difficile tracciare un legame con la contemporaneità della Bausch. Vi lascio un documentario molto bello che racconta la vita di Jooss e regala uno spaccato della storia della danza del Novecento in Europa: un’occasione anche per ascoltare Bausch e vederla danzare come la vecchia madre nel capolavoro del maestro ( a 37’55’’, poi  42’04’’ e  43’30’’).

Osservare attraverso lo sguardo di una diversità culturale è indossare un’estraneità che permette un dialogo che è apprendimento. Certo siamo unici e irripetibili nella nostra creatività ma la danza di questi ultimi anni ha dimostrato che in questo essere unici c’è anche un dialogo aperto con i codici storici che ci hanno preceduti. Dialogare non per reiterare o semplicemente lasciarsi ispirare, ma per riattivare una tensione artistica che ha prodotto codici compositivi, soluzioni di linguaggio fisico e gestuale e modalità di relazione con il pubblico che possono continuare a nutrire la creazione contemporanea. Rivisitare per comprendere, non come semplice dato storico ma per ritrovare i percorsi dell’incarnazione di un pensiero che ci ha preceduti e da quella comprensione riaprire un dialogo per ricreare.

 

*   TDR The Drama Review. Volume 30, Number 2.  Summer 1986
**  Marcia B. Siegel. The Hudson Review. Volume XXXIX, Number 1. Spring 1986

“Il coro è il segreto del teatro”. Intervista a Marco Martinelli

Marco Martinelli in un momento della prima lettura pubblica di "Coro" a Teatro Akropolis di Genova. Foto di Lorenzo Crovetto

MATTEO BRIGHENTI | Scena e società, adolescenti e classici, nel segno del divenire uno in molti, attraverso il coro. «Ci sta a cuore il teatro solo quando è insieme lo specchio dell’io, la psiche individuale profonda, e del noi, ovvero il mondo». Un mistero e insieme una pratica che Marco Martinelli ha racchiuso ora in un libro intitolato semplicemente Coro, e uscito per i tipi di AkropolisLibri, il progetto editoriale di Teatro Akropolis di Genova.
Dopo Farsi luogo. Varco al teatro in 101 movimenti (CuePress), il fondatore del Teatro delle Albe / Ravenna Teatro riflette sulla trentennale esperienza che ha segnato i suoi processi creativi tra palco, non-scuola e laboratori in giro per il mondo, consegnandoci una possibile mappa in 35 punti del viaggio per cui, attraverso il teatro, Dioniso si incarna in quell’«io sono noi» che lo manifesta. «Il coro di cui stiamo parlando è un coro scenico. Ma se il teatro lo separiamo da tutto ciò che ci riguarda – l’aria, le piante, gli animali, i sogni che facciamo la notte, i desideri e le paure, le storture della politica e dell’economia criminale, eccetera – smette di interessarci».

La copertina di “Coro” di Marco Martinelli edito da AkropolisLibri

Dalla carta, poi, le parole di Martinelli sono tornate al palcoscenico durante l’ultima edizione Testimonianze Ricerca Azioni, che ne ha ospitato la prima lettura pubblica nel novembre scorso. D’altronde, sono stati proprio i due direttori artistici del festival genovese, Clemente Tafuri e David Beronio, nella loro Prefazione al libro, a sottolineare come Coro non tratti di una storia, ma di “un cantare, come un’ottava di Boiardo, come ciò che esiste solo nel momento in cui è detto, che affiora come luogo di transito di mille altri racconti, di mille altri pensieri”. «Nello scrivere – afferma Martinelli – io penso sempre ad alta voce, ho necessità di figurarmi un interlocutore a cui parlare. La scrittura torna così alla sua matrice, l’oralità. Se ne nutre».

Adesso che riattraverso domande, risposte e silenzi per comporre questa intervista, mi rendo conto che quando andiamo a teatro accediamo, in un modo o nell’altro, a un coro. Il teatro è esso stesso un coro. «Così dovrebbe essere. Il coro è Dioniso, il coro è il segreto del teatro: se lo perdiamo, perdiamo l’essenza». Per questo, è sempre al presente, anche per chi è ormai solo nel passato. Chi non è più con noi, come Vincenzo Del Gaudio, il giovane professore di teatro e spettacolo all’Università degli Studi della Tuscia alla cui luminosa memoria Coro è dedicato.

Qual è stato il tuo primo, primissimo coro?

Non me lo ricordo. Non posso ricordarmelo. È il fantasma che ha fondato tutti i cori successivi, concreti e materici, brulicanti di corpi. Il fondamento è sempre invisibile, e se ti metti in grado di ascoltarne la voce, ti guida.

Chi sei tu nel coro?

La miccia che accende il fuoco. Al tempo stesso, la guida che nell’ascolto si fa guidare, il vaso concavo che riceve con gioia tutta l’energia del gruppo, la rilancia, se la fa ributtare addosso, la riprende e la rilancia di nuovo. Un poker dionisiaco.

Nel coro si entra o, piuttosto, si accede? Si tratta di intraprendere un moto a luogo oppure di trovare un’anima a luogo, cioè una disposizione a varcare una soglia che è prima di tutto dentro di sé?

Certo, la prima soglia è dentro di sé. È un’apertura, gioiosa, al possibile. Al farsi noi dell’io. A valicare le frontiere che ci dividono: non solo dagli altri esseri umani, ma dall’aria, dalle piante, dagli animali, dalla Creazione tutta.

Marco Martinelli saluta il pubblico al termine della lettura di “Coro” a Teatro Akropolis. Foto di Luca Donatiello

Cosa cerchi e cosa trovi nel coro e con il coro?

Nel coro si cerca Dioniso, la «paroletta presa a prestito dai Greci», come scriveva Nietzsche. In altri luoghi del pianeta assume altri nomi ma non è mai una questione di nomi, è questione di sostanze: Dioniso è il dio sepolto che resuscita ogni volta che viene evocato con cuore puro. È il fuoco che ci con-fonde. Che sovverte le gerarchie, abbatte i muri. Che fa ricchi i poveri, forti i fragili. Che infonde coraggio. Che dal fango fa emergere l’oro. Nel cerchio dei viventi posso convocare i morti, gli antenati che lo hanno servito con devozione, i cui versi brillano della presenza del dio: Aristofane, Dante e Beatrice, Emily Dickinson, Vladimir Majakovskij, e tante altre e altri.

Qual è il legame tra il coro e la non-scuola? Sono nati insieme oppure è nato prima l’uno e poi l’altra?

Il coro è prima della non-scuola. Il coro è stato fin dall’inizio un’ossessione delle Albe. Essere in due, io e Ermanna, litigare per un’idea, accordarsi su un’impresa, incontrarsi e scontrarsi, comprendersi nelle differenze, amarsi nelle differenze: già questo, agli esordi, significava essere coro. Che poi, etimologicamente, è parola che significa danza. Danzare in due, danzare in duemila: è solo una differenza di quantità. Certo, la non-scuola e poi le “chiamate pubbliche” con centinaia di cittadini di tutte generazioni, ci hanno mostrato negli anni un modo preciso di cavar fuori l’armonia dall’indifferenziato, ma l’origine è albesca.

Come è nata l’esigenza di mettere per iscritto questa pratica? E cosa vuol dire, per te, essere pubblicato da AkropolisLibri?

Vari soggetti me l’avevano chiesto, soprattutto dopo aver letto Farsi luogo: come si fa a creare il coro? Ho provato a raccontarlo, sapendo che la mia è solo una strada tra le altre. A tutte le guide che ho formato nella non-scuola, ravennate e non, ho sempre detto: non imitatemi. Rubate quel che potete da quello che faccio, come io ho rubato a chi mi ha preceduto, usatemi come veicolo, così come io ho usato i veicoli di altri: ma poi scendete e andate a piedi, i vostri piedi, e con quelli segnate il cammino.
Per quel che riguarda Akropolis, è una gioia essere pubblicato da loro, per la passione e la raffinatezza con cui intrecciano teatro ed editoria, ed è un onore – che spero di meritare – il saggio introduttivo di Clemente Tafuri e David Beronio.

Marco Martinelli dialoga con la giornalista Maria Dolores Pesce su e intorno a “Coro”. Foto di Lorenzo Crovetto

In che rapporto sta l’azione della scrittura con quella del coro?

Quando scrivo non sono mai solo, sono già in mezzo al cerchio: «io sono un condominio», mi ha detto Ermanna quando ci siamo conosciuti, «io sono noi», dice un proverbio senegalese imparato anni dopo. Il concetto è lo stesso. Io sono noi qui e ora, nel cerchio del coro, perché i nostri corpi sono vicini, si guardano, si toccano, si annusano, non si giudicano, si trasformano insieme nel saltare e cantare ma io sono noi anche quando mi ritrovo solo, a tremare davanti alla pagina bianca, perché in me si affollano i vivi e i morti, le epoche passate e la presente, e i tanti “coinquilini” che in me scalpitano e chiedono udienza, chiedono voce.

Prima che a Genova, hai fatto una lettura in pubblico al Teatro Rasi di Ravenna nell’ottobre 2022 in occasione degli Stati Generali della non-scuola. Coro è dunque anche un libro su una comunità di pensiero?

Allora il testo non era ancora stato pubblicato. Volevo prima leggerlo a tante amiche e amici, mosso dal desiderio di sapere cosa ne pensassero, se poteva essere utile, non come metodo da imitare ma come ispirazione per il proprio fare. E queste amiche e amici sono artisti e gruppi che, dal sud al nord della penisola, intendono il teatro in sintonia con le Albe, ognuno con la sua fisionomia, la sua poetica, ma accomunati dalla stessa pulsione dionisiaca, dentro e fuori la scena, un teatro che sul palco cerca cose antiche e sempre nuove, verità e bellezza, rovesciamenti e graffi, la «sacra materia» per dirla con Teilhard de Chardin, o con Pavel Florenski, e alla fine non si accontenta del palco, e svaglia nella città. È termine un po’ antico, si dice del fiume che rompe gli argini.

Tra loro, mi piace ricordare colui al quale il libro è dedicato: il professor Vincenzo Del Gaudio.

Vincenzo, giovane studioso, era lì in mezzo a noi per aver dedicato tanta attenzione all’argomento, apparentemente anacronistico, del coro. La sua scomparsa ci ha molto amareggiato. Il coro è la danza dei vivi e dei morti, di noi che custodiamo coloro che invisibili ci custodiscono. Vincenzo continuerà a danzare nella memoria.

Marco Martinelli, Ermanna Montanari a Ravenna per “Paradiso”. Foto di Silvia Lelli

PAC LAB | La Supernova di De Masi ritorna su laceranti dinamiche familiari

CHIARA AMATO* | La compagnia I Pesci è stata nuovamente in scena al Teatro Franco Parenti, presentando lo spettacolo Supernova al pubblico milanese.
L’opera prende il titolo dal fenomeno scientifico di esplosione stellare, provocata da una stella che ne ingloba un’altra più piccola e che dà luogo a una reazione violentissima e luminosissima. La materia prodotta dall’esplosione si disperde nell’universo dando vita a nuove stelle mentre il nucleo collassa su se stesso e crea un buco nero.
Così avviene in una famiglia quando, alla morte tragicomica e improvvisa del padre, i tre figli (Alessandro Gioia, Fiorenzo Madonna, Antonio Stoccuto) si scoprono adulti, senza essere pronti. La madre (Lia Gusein-Zadé) è il nucleo, è la supernova ma morente, e i destini dei tre figli si allontanano per poi ricongiungersi nel finale per riveder le stelle.

Questa produzione originale della compagnia, con la regia di Mario De Masi, è a loro molto cara e ha avuto una gestazione di anni, espandendosi nella durata e nell’intensità. Iniziata come frame laboratoriali in seguito a un lavoro sul corpo che il regista ha condotto in un carcere femminile, si è fatta via via spettacolo.
Con la delicatezza e l’ironia che contraddistingue l’autore campano, ci interfacciamo con temi importanti: il rapporto con la figura materna, nutrimento e desiderio; le dinamiche di potere fra i fratelli, poi pareggiate dal gioco che facevano da bambini di sollevare il naso a guardare gli astri nel cielo; il trauma del lutto paterno, il padre è il grande assente che viene impersonato in scena in alcuni momenti da Gioia, in altri da un plastichino che viene modellato e fatto a pezzi dai figli; la famiglia e le sue mille contraddizioni che formano e lacerano.

La scenografia è inesistente (sul palco c’è solo una sedia), ma viene compensata dal disegno luci di Desideria Angeloni: si accendono faretti laterali fino ad accecare la parte antistante al palco; le luci sullo sfondo si fanno blu all’esplosione della supernova e diventano calde e basse nel ballo iniziale e finale della madre. Accompagnano gli attori, comunicando con la drammaturgia.
I costumi (di Diana Magri) sono coerenti infatti finché i figli sono ancora sotto la protezione materna, calzoncini corti con i calzini tirati fino al ginocchio; l’unica che cambia più spesso abito è la madre, prima ragazzina liceale poi puttana e anziana demente alla fine (si alternano un vestito a fiori, una gonna di pelle e una camicia da notte); infine la prole si cambia di costume quando diventa adulta e ognuno di loro, più o meno traballando, ha preso la propria strada.

Come anche altre opere della compagnia ritorna l’elemento familiare (vedi Caini ora in scena sempre al Parenti); ritorna il fuoco iniziale di fogli bruciati, come ne La Foresta; torna la brutalità delle parole: il più tagliente e distruttivo resta il personaggio interpretato da Madonna, il quale essendo il figlio brillante, umilia di continuo gli altri due, in particolare Stoccuto. Quest’ultimo è indietro anche nel linguaggio, più degli altri, perché in fondo resta “il figlio scemo”, quello attaccato al seno materno, quello che poi si occuperà della cura della madre anziana, quello che non ha mai trovato una strada autonoma: il potere della supernova lo ha totalmente divorato.
Il contraltare combattivo, invece, interpretato da Gioia, non molla, è forse il più sempliciotto della famiglia, quello che deve portare avanti il lato pragmatico, la persona che ha preso il ruolo paterno e ha infatti una recitazione matura, adulta, che si fa carico della sofferente macchina familiare.


Quello che fa la differenza in questo spettacolo sono il testo e l’interpretazione.
L’intreccio non è originale ma è interessante l’utilizzo che viene fatto del dialetto napoletano, che entra in campo nel suo lato aggressivo più che nella sua dolcezza e musicalità. È la lingua con cui litigano, con cui si attaccano, e viene masticata in particolare dai due fratelli maggiori con sapienza e pienezza, sporca e bassa.
Le immagini, molto evocative e mai banali, delle strutture familiari de I Pesci risentono di echi diversi: c’è il dato personale dei vari interpreti, ci sono elementi culturali, c’è il sacro e la sua desacralizzazione (Cristo viene citato più volte insieme a Marx, ma entrambi senza toni reverenziali), c’è il grottesco e il carnascialesco.
L’interpretazione accomuna per alcuni tratti il trittico maschile in scena: lottano ma in realtà la madre tira le fila, pur non parlando guida e schiva i colpi. Peculiare ma estremamente efficace la scelta di non concedere al personaggio femminile la parola: le danze della Gusein-Zadé in principio ammaliano e ci introducono magicamente allo spettacolo; si trasformano in un gioco infantile nella parte centrale – dove interagisce con i figli spintonandoli – per poi diventare quasi una marcia funebre, durante la quale si sfalda pezzo per pezzo. Molto toccante l’accettazione rassegnata e dolorosa della condizione di salute materna, da parte dei figli: il climax emotivo però raggiunge il suo apice nell’assordante musica finale, con gli ultimi battiti/passi della interprete. È lacerata nel volto e nel corpo, ha movimenti spezzati, come se le ossa cedessero per poi crollare al suolo in lacrime. Non sono lacrime disperate, ma di accettazione, come se naturalmente tutto avesse una fine e questo significasse anche un nuovo inizio per i suoi figli.

Lo stile è molto riconoscibile: la compagnia e l’esperienza registica di De Masi trasudano la sua personalità eclettica, ingombrante e un po’ borderline, sempre rivolta a raccontare un sottobosco di varietà umana; uno sguardo attento a quelle pieghe tristi e nostalgiche dell’essere umano che lo rendono così tanto e troppo umano da arrivare forti al pubblico.
Opere che lasciano pensare ai demoni interiori. Che rimandano domande a cui rispondere.


SUPERNOVA

regia e drammaturgia Mario De Masi
con Alessandro Gioia, Fiorenzo Madonna, Antonio Stoccuto, Lia Gusein-Zadé
disegno luci Desideria Angeloni
disegno sonoro Alessandro Francese
costumi Diana Magri
aiuto regia Serena Lauro
foto di scena Ivana Fabbricino
produzione Teatro Franco Parenti / Compagnia I Pesci
Rassegna La nuova scena a cura di Natalia Di Iorio

Teatro Franco Parenti, 24 novembre | Milano

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

La ricerca della misura umana oltre l’oscuro: intervista a Stefano Tè – Teatro dei Venti

ph Chiara Ferrin

RENZO FRANCABANDERA | E alla fine per i detenuti sono arrivate anche le repliche sui palcoscenici di ERT, a Modena, per un duetto shakespeariano preparato per mesi, faticosamente. Per chi si occupa di teatro in carcere, la difficoltà di ottenere repliche in un teatro fuori dal carcere è nota.
Quando si è poi in stagione, arrivando a proporre due esiti compiuti e interessanti, animati da uno spirito omogeneo dentro compagnie miste in cui è a volte difficile distinguere gli attori professionisti da quelli che hanno abbracciato la pratica artistica come occasione di rinascita, i
l risultato va segnalato. Ed è il caso di Giulio Cesare e Amleto di Teatro dei Venti (con la collaborazione e in un caso la coproduzione di ERT – Emilia Romagna Teatro).
Le due creazioni portano la firma alla regia di Stefano Tè e sono andate in scena in sequenza al Nuovo Teatro delle Passioni a Modena, con un grande successo di pubblico.
Si tratta di due adattamenti del classico del Bardo che tuttavia non tradiscono il testo originale, e che utilizzano in entrambi i casi un contrappunto sonoro, che non è un sottofondo ma è proprio controcanto drammaturgico, affidato per Giulio Cesare alla viola di Irida Gjergji e per Amleto, al pianoforte di Alessandra Fogliani. Una dimensione drammaturgica che crea uno spazio emotivo specifico e particolarissimo per i due lavori, fruiti in questo contesto in modo davvero ravvicinato dal pubblico, praticamente a ridosso della scena.

Foto Davide Mari

Di questi spettacoli occorre segnalare non solo il contributo degli attori in scena formati all’interno dell’esperienza carceraria ma anche il contributo delle maestranze, essendo entrambi parte di AHOS All Hands on Stage, progetto cofinanziato dal programma Creative Europe con l’intento di formare professionalità per il reinserimento dopo l’esperienza carceraria.

Dei due pregevoli esiti e di tanto altro abbiamo parlato con uno dei fondatori del Teatro dei Venti, il regista Stefano Tè, figura divenuta di riferimento in Italia per molte realtà che si occupano non sono di realizzazioni per la scena dentro l’ambiente carcerario ma anche di welfare culturale, Tè è anche un pensatore di grandi e visionari allestimenti di teatro di strada, culminati nell’incredibile esperienza del Moby Dick, cui è stato assegnato anche un premio Ubu.

ph Chiara Ferrin

Stefano, un mese con due lavori di Teatro dei Venti che approdano sui palchi di ERT. Come è stato possibile arrivare a questi risultati e che attività c’è dietro?

Adesso che le repliche sono finite possiamo dire che è stato un punto di approdo ma  anche un punto di partenza, di rilancio per nuovi progetti o semplicemente per sperimentare un nuovo modo di lavorare, all’interno e all’esterno del Carcere.
Sono felice che l’ingresso del Teatro dei Venti nella Stagione di ERT sia avvenuto con due spettacoli prodotti in Carcere, perché quello è uno dei luoghi del nostro lavoro quotidiano. È banale dirlo ma siamo arrivati a questi risultati grazie a un impegno che dura da diciotto anni, grazie a una rete che ha accompagnato i progetti, mettendoli anche alla prova ma senza ostacolarli. In Carcere siamo ospiti di un luogo che non è deputato alla creazione artistica, che ha un’altra funzione, con obiettivi spesso diametralmente opposti. Ma è in luoghi come questi che il nostro teatro acquisisce un senso ulteriore, diventando strumento di relazione e trasformazione.
Sicuramente dobbiamo ringraziare la sensibilità di ERT e del direttore Valter Malosti, che hanno voluto investire, prima in una collaborazione produttiva con Odissea all’interno del Carcere di Castelfranco Emilia e con Giulio Cesare all’interno del Sant’Anna, poi con una coproduzione vera e propria per l’Amleto.

Partiamo dal Giulio Cesare. Che spettacolo è, da quali idee nasce?

Dopo l’operazione complessa, visionaria, dell’Odissea, che nel 2021 ha attraversato due carceri, un teatro, gli spazi urbani, Giulio Cesare nasce dalla necessità di misurarci con una dimensione più intima, attraverso la sintesi e il cesello. Nasce da un’idea di asciuttezza, di scarnificazione, ma anche dalla volontà di confrontarsi con temi universali che parlano alla singolarità di ogni persona, Amicizia, Devozione, Tradimento, attraverso un testo, parola per parola. Ascolto e riverbero.

ph Chiara Ferrin

Con questo spettacolo abbiamo inaugurato il Teatro del Carcere Sant’Anna di Modena, nel dicembre del 2022, uno spazio attrezzato e polivalente, con una dotazione tecnica che consente di ospitare spettacoli e prove. Giulio Cesare è nato su misura per quello spazio, con l’idea che il pubblico fosse in prossimità della scena, che prendesse posizione rispetto alle vicende, per questo la passerella centrale, sulla quale passa la Storia, e il pubblico –  come in un tribunale –  osserva e si fronteggia.

Poi c’è Amleto che ha già debuttato la primavera scorsa in un’anteprima a Castelfranco. Come è nato e perchè? È lo stesso spettacolo dell’anteprima o in questi mesi si è modificato? 

È nato con le stesse prerogative di Giulio Cesare, ovvero la scelta di lavorare con un classico, lavorare con il testo, misurandoci con Shakespeare, con un’aderenza che ci mette alla prova. Anche questo spettacolo è nato in stretta relazione con il Cacere, come opera di artigianato teatrale a tutto tondo, come campo di sperimentazione del progetto europeo All Hands on Stage, che ha la finalità di creare percorsi di formazione e professionalizzazione nei mestieri tecnici e artigianali che ruotano intorno alla scena. Infatti uno dei detenuti che lavorano allo spettacolo ha disegnato scene e costumi, un vero talento che potrebbe trovare, grazie al teatro e grazie a questo progetto, uno sbocco lavorativo quando sarà fuori dal carcere.

ph Chiara Ferrin

Dopo l’anteprima di maggio 2023, in cui abbiamo disteso tutto il progetto di spettacolo, come una grande mappa, che mostrava cesure, passaggi, esitazioni, ripetizioni, per il debutto al Nuovo Teatro delle Passioni abbiamo lavorato per arrivare all’essenziale, facendo scelte drammaturgiche, visive e musicali a servizio di un ritmo più serrato. Lo spettacolo è pronto adesso per andare in tournée, è questa la nostra intenzione, con le difficoltà che comporta la complessità del progetto. Il 17 dicembre saremo ad Arienzo, in provincia di Caserta, per il Festival Dialoghi di libertà, il 25 gennaio a Maranello, in provincia di Modena, nella Stagione dell’Auditorium “Enzo Ferrari”, a cura di ATER Fondazione.

Teatro dei Venti è diventato un progetto che oltre alla compagnia e all’attività in carcere ha sviluppato un Festival, Trasparenze, il progetto Gombola, e altre iniziative di welfare culturale sul territorio. Come metti insieme questi pezzi?

Trasparenze negli anni ha cambiato forma, più volte, da Festival classico è diventato sempre più il contenitore e il catalizzatore della nostra azione di presidio e di prossimità sul territorio. Che poi è la nostra cifra nella creazione artistica. Questa azione di prossimità, che corrisponde alla nostra vocazione da sempre, si è rivelata negli ultimi anni, soprattuto durante la pandemia, come una necessità ancora più marcata. Le comunità hanno riconosciuto il valore del teatro, hanno voluto la nostra presenza e hanno aderito a progetti anche molto complessi, riconducibili a una istanza che chiamiamo Abitare Utopie, un progetto nato per mettere in relazione tutti i luoghi in cui operariamo, il Carcere, il quartiere in cui ha sede il Teatro dei Venti, l’ambito della Salute Mentale, e Gombola, l’Appennino, un’altra declinazione del margine e della periferia, altro luogo distante dal “centro”, nel quale il nostro teatro acquista senso. Direzione.
In Appennino, la nostra intenzione è quella di continuare a sperimentare un progetto di residenzialità artistica a stretto contatto con la comunità. L’esperimento è partito nel 2020 intorno alla gestione dell’Ostello, al recupero dell’Antica Chiesa di San Michele, dei sentieri che attraversano il territorio, del patrimonio culturale immateriale. Un luogo che abbiamo saputo ascoltare e che sta cambiando il nostro modo di fare teatro. Un contesto scomodo, fuori mano, che chiede di adeguare la nostra pratica artistica, per connetterla ancora pdi iù al territorio, al bosco, ai sentieri, agli abitanti, per costruire legami genuini tra artisti, luoghi e spettatori. I tre anni trascorsi hanno mutato il Teatro dei Venti.
Le tessere di questo mosaico si mettono insieme per attrazione, per contaminazione, perché noi attribuiamo un valore agli accostamenti inediti, a ciò che sposta il baricentro, per procurare una piccola o grande spinta di movimento, di trasformazione.

Ti ritieni in qualche modo oltre che un creativo anche un imprenditore della cultura? Ha senso poter usare questo termine senza che suoni “stonato”?

Imprenditore della cultura risulta stonato perché il termine “imprenditore” ha anche un valore nella definizione legata all’economia, al guadagno e al profitto. Questo è un argomento delicato quando si ha a che fare con la creatività, perché la creatività è visione, non è detto che sia guadagno o investimento economico che porta profitto. Molto spesso si tratta di visioni fuori portata che hanno un forte impatto sulla vita sociale e culturale, ma non hanno un rientro economico immediato.
Imprenditore ha anche “impresa” al suo interno, ma sono le imprese epiche che mi attraggono, le imprese visionarie, le imprese oltre i confini e i limiti che mi affascinano e ci ispirano. Poi è un dato di fatto che il Teatro dei Venti, pur inseguendo questo tipo di visioni, ha, negli ultimi anni legati al dopo Moby Dick, incrementato il suo giro di risorse, ha potuto investire su persone che ora lavorano all’interno del Teatro dei Venti, che prima erano membri della Konsulta o Abitanti utopici, persone che si sono avvicinate al Teatro dei Venti a piccoli passi e ora sono parte del gruppo, sono tanti i dipendenti in questo momento che sono parte integrante del progetto e della visione collettiva, vengono dalle radici perché hanno condiviso un avvicinamento che non è dettato da un interesse economico ma da un credo, una fede, un radicamento che va oltre il discorso economico.

Hai creato negli ultimi anni spettacoli visionari e hai un altro grande progetto che sta crescendo a fari spenti ma non troppo. Ce ne parli? 

La Misura Umana è la nostra nuova grande sfida negli spazi urbani, il prossimo obiettivo ambizioso dopo Moby Dick. Ci immaginiamo una grande macchina scenica, una marionetta alta 15 metri che incarna la Soluzione, la perfezione anche meccanica, l’individualità. Un grande Uno che vale più del tutto e il tutto risolve.
Lo spettacolo sarà un passaggio da questo Uno a Tutti, dall’Io al Noi. Affrontiamo quindi lo sgretolamento, la distruzione dell’individualità, la disperazione che ne consegue e ci domandiamo come si possa ricostruire, che forma abbia il nuovo vivere e il nuovo relazionarsi tra gli esseri umani. La marionetta, infatti, a un certo punto si distrugge sotto gli occhi dei suoi artefici che, dopo aver affrontato lo sconforto più profondo, dai suoi pezzi costruiscono una città utopica, un nuovo spazio da abitare. La città eretta non sulle ma dalle macerie della marionetta prende forma sotto gli occhi degli spettatori, e la città stessa ha bisogno della collaborazione degli spettatori per vivere. Gli attori che fino a quel momento hanno manovrato la macchina, l’hanno celebrata, l’hanno pianta e le hanno cambiato forma, ora la consegnano al pubblico.
Lo spettatore si trova a dover interagire con gli altri per attivare il luogo: pedala biciclette per dare luce, suona un carillon per dare suono, attiva una fontana per avere acqua. Il pubblico diventa attore, abita la città che vive grazie al suo intervento e alla collaborazione con gli altri. È l’umano che, affrontando la perdita dell’Io, si estende, si rigenera, accoglie, diventa Noi. Lo spettacolo non finisce, è un evento che prosegue e si anima per tutta la notte. La città a sua volta ospita altri eventi, viene abitata e gestita dagli spettatori.
Con questo vogliamo portare in scena il nostro modo di fare teatro: un teatro vissuto, partecipato, consegnato, che si prende cura, che crea relazione, che accoglie.

C’è un pizzico di follia in tutto questo?

C’è un pizzico di follia? Assolutamente, è folle. È folle se si tiene come riferimento il tempo che viviamo, i tempi che viviamo, in cui si sceglie in base al guadagno, alla visibilità, si sceglie in base all’immediatezza del risultato, al tutto subito.
E quindi è da folle percorrere una strada contraria, che va invece verso un noi che supera l’io, un credo che parte da una visione che ha bisogno della collettività, di un ampliamento dei partecipanti che diventano movimento, che diventano una mobilitazione. Questo movimento opposto, questa mobilitazione contraria ai tempi è follia se si guarda dal punto di vista esterno, di chi percorre un’altra via, che guarda il nostro movimento al contrario e ci vede come matti.
Io personalmente ritengo folli gli altri, quelli che percorrono la strada semplice, diretta, che magari rende più gonfi e satolli ma meno soddisfatti, meno densa l’esistenza. Quindi preferisco stare da questa parte della strada e guardo da quella parte di là e là vedo dei folli.

GIULIO CESARE

da William Shakespeare
drammaturgia Massimo Don, Stefano Tè
regia Stefano Tè
spettacolo prodotto all’interno della Casa Circondariale di Modena

musica dal vivo Irida Gjergji
costumi Nuvia Valestri, Teatro dei Venti
luci Stefano Tè e Luigi Pascale
audio Luigi Pascale
tecnico luci e audio Eric Benda
assistente alla regia Francesco Cervellino
produzione Teatro dei Venti
in collaborazione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
con il sostegno di Ministero della Cultura e Regione Emilia-Romagna
con il contributo di Fondazione di Modena all’interno del progetto Abitare Utopie e BPER Banca
foto di Chiara Ferrin
nell’ambito di AHOS All Hands on Stage progetto cofinanziato dal programma Creative Europe

AMLETO

da William Shakespeare
drammaturgia Vittorio Continelli, Stefano Tè
regia Stefano Tè
spettacolo prodotto all’interno della casa di Reclusione di Castelfranco Emilia
musica dal vivo (pianoforte) Alessandra Fogliani

maschere (costruzione e azioni fisiche) Valentino Infuso
costumi Nuvia Valestri, Maria Scarano – Atelier Polvere di Stelle, Teatro dei Venti
trucco Valentina Fogliani
luci Stefano Tè e Luigi Pascale
audio Luigi Pascale
tecnico luci e audio Eric Benda
assistenza alla regia Francesco Cervellino
ideazione scenografia Stefano Tè
progettazione della scenografia e dei costumi a cura di F. M.
foto di Chiara Ferrin
produzione Teatro dei Venti, Emilia Romagna Teatro Fondazione ERT / Teatro Nazionale
con il sostegno di Ministero della Cultura e Regione Emilia-Romagna
con il contributo di Fondazione di Modena all’interno del progetto Abitare Utopie 
con il contributo di BPER Banca
nell’ambito di AHOS All Hands on Stage progetto cofinanziato dal programma Creative Europe

 

 

Sotterraneo: il puzzle della Storia, da guardare a volo d’Angelo

MATTEO BRIGHENTI e ELENA SCOLARI | MB: Il mondo è come ce lo raccontiamo. La parola fa la Storia che viviamo. Al modo e tempo di ciò che è Sotterraneo aggiunge contemporaneamente ciò che non è. La forma che afferma e nega il suo contenuto. L’unicità che avviene nella ripetizione. Ogni volta come fosse la prima, autentica, perché senza dubbio falsa.
L’Angelo della Storia del collettivo fiorentino tre volte premio UBU è, per così dire, un “teatro del reciproco” alla massima potenza. Come un deus ex machina rovesciato, lo sguardo dell’angelo benjaminiano di Sotterraneo non piove dall’alto della narrazione, ma risale dal basso dell’interpretazione del reale. E non dà una risoluzione che non sia una soluzione di continuità a una trama di eventi ormai irrisolvibili.

ES: Un’esegesi esemplare, in stile Sotterraneo. Walter Benjamin (1892-1940), diciamolo per chi si sentisse in difetto a non conoscerlo, fu filosofo e scrittore, autore dell’Angelus Novus, formalizza una teoria critica della Storia nella quale – contestando l’idealismo di Hegel – nega il concetto di tempo omogeneo e vuoto a favore di un’idea “stereofonica” di tempo, in cui passato, presente e futuro convivono. Ogni presente è determinato da ciò che gli è sincrono.

Foto Giulia Di Vitantonio – Courtesy Inteatro Festival

Sotterraneo prova a farci intuire questa teoria con una lunga catena di episodi spezzettati, collocati in una data, e offrendocene un frammento per volta, a supportare la sensazione di simultaneità. Ciò che mi pare emerga dallo spettacolo è proprio un continuo, cronometrato, forward e rewind di fatti, avvenuti in varie epoche (ne ho ricordati 16, chissà se è un buon punteggio di memoria), dal 10000 a.C. fino al 2020 d.C.
Per la verità, dagli uomini primitivi impegnati nelle incisioni rupestri si passa per Pitagora (500 a.C.) e poi si va di corsa al 1200 circa. Se non ricordo male tutti gli altri episodi si riferiscono ad anni successivi a quelli di Eleonora d’Inghilterra, eterna partoriente. Non so dire se ci sia un significato in questo lungo salto temporale, ma tant’è. Il fatto è che il tempo è proprio un punto centrale, più dei fatti stessi che vediamo rappresentati e raccontati.

MB: In scena Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini, hanno tuttɜ un microfono al fianco, come se fossero pistole nella fondina. I proiettili sono le loro parole, e le parole sono i loro proiettili. Il “reciproco”, di cui parlavo prima, è al centro della scrittura di Daniele Villa: un montaggio parallelo di sequenze con personaggi, luoghi e situazioni che tanto divergono quanto si assommano. Dissolvenza e assolvenza di scene a sé stanti, ma con in comune lo sforzo sovrumano di resistere all’inspiegabilità degli eventi.
Sono tutti momenti interrotti e ripresi, frammentati e ricostruiti, che acquistano un senso solo nella complessità del racconto. Sotterraneo dà parole a fatti e fattoidi, o meglio questi sono universi di parole a cui Sotterraneo dà corpi e interpretazioni.

ES: Alcuni dei fatti (altri li derubricherei ad aneddoti) sono narrativamente significativi in sé, portano riflessioni, e conoscerli aggiunge un po’ di consapevolezza. La già citata Eleonora d’Inghilterra costretta a scodellare figli per tutta la vita, finché non fosse riuscita a mettere al mondo un erede maschio al trono in grado di sopravvivere fino all’età adulta (ci sono voluti 16 parti); la psicosi danzereccia di tutta Strasburgo caduta in una specie di trans coreutica nel 1500 che ha portato i piagati del ballo alla morte; il tecnico russo nella stanza dei bottoni nucleari che deve decidere se pigiare il tasto definitivo; la donna che suona al piano i notturni di Chopin per coprire le voci dei partigiani che si accordano sulle mosse da realizzare. Tutti argomenti su cui si potrebbe stare a lungo, ma l’approfondimento non è l’obiettivo.
Il racconto dei Sotterraneo è un puzzle di tessere difformi, che non si incastrano, che formano una lunga fila o, meglio, un anello irregolare. È nella pratica di simultaneità ricreata, in vitro (o in teatro), di questi bocconi di storie che sta appunto il perno, non nei singoli pezzi.

Foto Giulia Di Vitantonio – Courtesy Inteatro Festival

MB: Il racconto è un respiro, un tempo che abbiamo per dire chi siamo, a noi e agli altri. L’Angelo della Storia va incontro a “vite che non sono la mia”, per citare Emmanuel Carrère, ma che potrebbero esserlo. E qui sta tutta la differenza dell’arte teatrale, che Sotterraneo usa ad alta velocità e risoluzione, a mio avviso come mai prima d’ora. Il gaming, la modalità di gioco propriamente intesa, viene declinata in un’interazione con il pubblico di quelle che ti fanno sentire ed essere qui, ora e che ti vedono e riconoscono per ciò che sei qui, ora.
Sotterraneo non vuole portarti lontano, né tantomeno interrompere il libero flusso dell’azione, come fa ad esempio in Overload: vuole tenerti lì con sé sul palco del Teatro Cantiere Florida di Firenze – dove sono andato io – o del Teatro Sant’Afra di Brescia – dove sei andata tu – a fare zapping tra i casi chissà quanto evolutivi di una Storia che accade tutta insieme, allo stesso tempo. Quindi, non ci sono età, non ci sono anni, ci sono solo date segnaposto sul ledwall a fondo scena, mentre il giro d’orologio è chiuso nel timer dei nostri cellulari.

ES: Ecco, qui ti avvicini al vero cuore dello spettacolo! Overload voleva – sostanzialmente – dirci che riceviamo troppi impulsi esterni, ci distraiamo continuamente, non siamo più capaci di tenere un filo per più di pochi minuti, abbiamo continuamente bisogno di andare altrove, di vedere altro, di sentire altro. Condannati a una vita di salti, per non sentire che il terreno scotta o è diventato gelido. L’Angelo, invece, vuole dirci che è la Storia medesima a guardare a sé stessa come a un piano unico di accadimenti non lineari.
Il giochino del cronometro sul cellulare di cui parli è un artificio per mostrare il perfetto calcolo dei tempi di un meccanismo di scena rodato e molto preciso, dove non c’è possibilità di sbavature, di imprevisti, non c’è deviazione immaginabile; i telefoni suonano tutti insieme proprio quando devono suonare, ma si tratta di un virtuosismo, non è un modo di viaggiare insieme. C’è, insomma, una certa ossessione per il controllo.

Foto Giulia Di Vitantonio – Courtesy Inteatro Festival

Gli attori creano un tabellone di gioco in cui il percorso – apparentemente confuso – è in realtà una struttura rigidissima: anche quando gli interpreti, impeccabili, ballano in stile country o medievale, sono ordinati in una griglia impietosa dove non c’è abbandono, non c’è dionisiaco. Che è, invece, la forza che ha mosso molto della Storia umana.

MB: La piena, perfetta gestione dei tempi e dei ritmi, dei fiati e dei gesti, di Bonaventura, Cirri, Guerrini, Pennati, Santolini, scandisce sulla scena la chirurgica pulizia di pensiero espressa da Villa sulla pagina. Non si scherza con le mappe mentali, sai? Sono questione di vita o di morte!
Come performer e attorɜ, mimi e interpreti, cantanti e danzatorɜ, indagano se, quanto e come la realtà e il racconto coincidano. Riescono a farci rivedere e rivivere quello che non abbiamo mai visto, né vissuto, a farci essere dove non siamo mai stati, né saremo mai, nel continuo ciclo, che hai ricordato, tanto di parti e di aborti, come di convinzioni che diventano azioni.

ES: Dici bene, in questo quadro di continua esattezza, inscatolato in una ragionata confusione, di attori in costumi informali con linee di profili colorati, si evidenzia la tesi di Benjamin secondo cui il senso delle cose umane scaturisce dalla nostra manipolazione finalizzata al racconto; le cose (e i fatti) hanno senso se sono viste in prospettiva, non hanno un valore in sé ma lo acquistano piegandosi verso un fine futuro, che è poi il progresso.
Tutto quello che non ha una correlazione logica con il prima e il dopo trova la sua ragion d’essere nella “visione dall’alto” che ne ha l’Angelo della Storia, come nel quadro di Paul Klee che viene descritto e realizzato scenicamente per il finale.

Foto Giulia Di Vitantonio – Courtesy Inteatro Festival

MB: Le storie, quindi, non sono altro che le spiegazioni che ci diamo per ciò che non riusciamo a spiegarci. Non possiamo farci niente, siamo programmati così, è la nostra natura: siamo “esseri simbolici”. È una verità semplice, non subito comprensibile, d’accordo, perché sminuzzata come molliche di Pollicino nel rutilare di un disegno scenico senza sosta. Però, nel momento in cui si prende il tempo e lo spazio per aprirsi al pubblico, risplende in tutta la sua evidenza.
Questa rivelazione in corso d’opera ti fa rileggere ciò che hai visto dall’inizio. Ti fa tornare indietro, mentre non puoi che andare avanti. Ti trasforma, in sostanza, nell’angelo di cui parla Benjamin. Diventi L’Angelo della Storia. Del resto, come dice Italo Calvino, «non è la voce che comanda la Storia: sono le orecchie». Sta qui la genialità di quest’ultimo lavoro di Sotterraneo, per me a ragione premiato all’Ubu 2022 come Miglior Spettacolo.

ES: In scena scorrono le storie più che la Storia. Gli episodi più centrati sono quelli di cui esiste già, in scena, una lettura ex post di ciò che è avvenuto. Nelle schegge in cui più è presente l’elemento tragico/emotivo non c’è, però, traccia di compassione, l’Angelo di Benjamin volta le spalle al futuro che lo attira perché vuole raccogliere e conservare l’esperienza passata, vuole tentare di riscattare il dolore degli sconfitti, e per fare questo bisogna sentire e attraversare il patire degli antenati, non solo capirlo e analizzarlo razionalmente. Altrimenti non vi sarà progresso.


L’ANGELO DELLA STORIA

creazione Sotterraneo
ideazione e regia Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Daniele Villa
in scena Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini
scrittura Daniele Villa
luci Marco Santambrogio
costumi Ettore Lombardi
suoni Simone Arganini
montaggio danze Giulio Santolini
produzione Sotterraneo
coproduzione Marche Teatro / ATP Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale / CSS Teatro stabile di innovazione del FVG / Teatro Nacional de Lisboa D. Maria II
con in contributo di Centrale Fies, La Corte Ospitale, Armunia
con il supporto di Mic, Regione Toscana, Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze
residenze artistiche Centrale Fies_art work space, La Corte Ospitale, Dialoghi – Residenze delle arti performative a Villa Manin, Armunia, Elsinor/Teatro Cantiere Florida, Associazione Teatrale Pistoiese

Sotterraneo fa parte del progetto Fies Factory, è residente presso Associazione Teatrale Pistoiese ed è artista associato al Piccolo Teatro di Milano

Teatro Cantiere Florida, Firenze | 10 novembre 2023
Teatro Sant’Afra, Brescia (Wonderland Festival) | 24 novembre 2023

Disabilità e Teatro: a Urbania il 24esimo convegno di Catarsi

RENZO FRANCABANDERA | Un convegno funziona quando la gente si ascolta, magari non si conosce e coglie l’occasione per farlo e per confrontare le esperienze. E così è stato, nella bella cornice marchigiana di Urbania (PU) il 25 e 26 novembre scorso per la XXIV edizione del Convegno Internazionale di Studi della Rivista Europea Catarsi-Teatri delle diversità fondata nel 1996 da Emilio Pozzi e Vito Minoia allUniversità di Urbino Carlo Bo, con il contributo, a suo tempo significativo per l’avvio del processo, di Claudio Meldolesi.
L’incontro internazionale è diventato ormai un punto focale per le discussioni sulla diversità, la disabilità e il potere trasformativo del teatro.
Un evento contraddistinto non solo dal rituale e fitto programma di incontri con esperti, docenti e operatori sugli argomenti che legano il teatro a tutti gli aspetti del sociale ma anche da performance e proiezioni video che hanno visto coinvolte alcune compagnie del panorama nazionale.

L’apertura ufficiale dopo i saluti istituzionali è stata affidata a Claudio Mustacchi, membro del comitato scientifico della rivista e docente del Department of Business, Economics, Health and Social Care, Competence Centre for Labour, Welfare and Social Research della SUPSI University in Svizzera, con un intervento sull’evoluzione del linguaggio dell’arte e della sensibilità sociale sul tema della disabilità, con un focus su alcuni specifici contributi arrivati nel ‘900 da artisti disabili nelle arti figurative, nella musica e non solo.
Il tema del welfare culturale, oggetto di nuova attenzione per i diversi progetti europei che ne sostengono la promozione, è stato letto a Urbania attraverso una serie di casi di studio, con compagnie e operatori che sul territorio nazionale e internazionale da anni ne fanno pratica.
Ad aprire la giornata, nel primo pomeriggio, era stata in realtà Inganni, ultima produzione del Teatro Universitario Aenigma, con la regia di Francesco Gigliotti, regista e studioso che da anni conduce una ricerca, denominata “teatro d’arte plastica e dinamica”, che mira alla riscoperta e valorizzazione della Commedia dell’arte nella sua forma originaria, soprattutto attraverso lo studio degli antichi canovacci.

Inganni – compagnia Aenigma

Si tratta di una creazione alla cui resa drammaturgica ha collaborato Romina Mascioli e alle musiche di scena Andrea Vincenzetti, affidata all’interpretazione di Eleonora Andruccioli, Mariagrazia Faraci, Marta Pascale, Sergio Persini, Jessica Sorbello. Nel lavoro si apprezza nitidamente il travaso di conoscenze sul movimento nella commedia dell’arte dal maestro ai giovanissimi allievi non professionisti ma dediti a un impegno scenico vigoroso, tanto da aver meritato l’invito alla quarantesima edizione del Festival Internazionale dellUniversità di Liegi.

Monica Felloni e Piero Ristagno

Compagnia ospite di questa edizione del convegno è Nèon Teatro, sodalizio artistico oltre che di vita fra il poeta Piero Ristagno e la regista Monica Felloni, fautrice di un audace linguaggio scenico di commistione mediale che comprende la danza (anche acrobatica), il teatro e la videoarte. I suoi spettacoli, che coinvolgono performer disabili e non, da anni rappresentano un assoluto gioiello della produzione nazionale su questi codici specifici, e merita una nuova e maggiore attenzione della critica, talvolta poco attenta a esperienze indipendenti che, proprio per la loro caratteristica di accessibilità e numerosità di artisti coinvolti, finiscono per pagare uno scotto alto in termini di costi per la loro difficile circuitazione. Nèon è un’eccellenza nostrana poco nota e che invece merita una particolare considerazione e bene ha fatto la direzione del convegno a invitare il duo artistico, accompagnato in questa occasione dal performer e scrittore disabile Danilo Ferrari, protagonista di molte loro creazioni teatrali, e accompagnato come sempre dalla sua straordinaria interprete Mariastella Accolla, una professionista della educazione sensibile che ha votato parte del suo progetto di vita all’accudimento e all’interpretazione del linguaggio di Ferrari che, impossibilitato alla parola, si esprime attraverso lo sguardo. La potenza della traduzione dei pensieri di Ferrari affidata alla sua interprete ha già di suo una intensità performativa sconvolgente, e Felloni da anni riesce a portare queste personalità così peculiari a trasformarsi in segni artistici di calibro considerevole, accompagnati da un intervallarsi di gesti, parole, inserti video di altissima qualità e originalità.

Ferrari e Accolla durante la performance – in video la performer Angela Longo

Se gli spettacoli Ciatu e Anima Mundi sono creazioni meritevoli di grande attenzione da parte di critici e operatori, diversi sono anche i loro cortometraggi accolti in rassegne di cinematografia internazionale dedicata all’arte e disabilità. Minoia ha favorito il loro incontro con popolazioni studentesche del territorio pesarese e dopo aver facilitato un racconto esperienziale e la presentazione dell’ultimo libro di Ferrari intitolato Punto di vista (introdotto a Urbania dalla critica e studiosa Valeria Ottolenghi), ha offerto agli ospiti del convegno una piccola e delicata performance serale, che ha chiuso la prima giornata di studi nella commozione generale, dopo una serie di attraversamenti del tema Disabilità e Metamorfosi del Corpo che avevano in precedenza fatto disamina di alcuni significativi casi di presenza coreografica della diversità fisica sul palco.
Intense sono state anche, durante la giornata, le narrazioni rese da artisti della scena da anni coinvolti in progetti focalizzati sui rispettivi territori come Matteo Maffesanti (regista, videografo e operatore teatrale da anni impegnato in pregevoli esiti artistici con artisti disabili) con Davide Pachera (del Collettivo Elevator Bunker, Cerea – Verona) e da Gianni Villa (Direttore artistico Teatro Accua, CSE Francescadi Urbino), Silvia Mancini (Coordinatrice CSER Margheritadi Casinina di Sassocorvaro Auditore) e Romina Mascioli (Teatro Aenigma – Compagnia Volo libero) a dare un ulteriore e profondo senso su quanto le pratiche di welfare culturale e di teatro sociale d’arte siano ormai componenti essenziali dell’estetica performativa del nostro tempo.

Romina Mascioli, Vito Minoia e Francesco Gigliotti

Ha chiuso la tavola rotonda della prima giornata di studi l’intervento in video di Martina Palmieri (Gruppo Elettrogeno, Bologna) che ha parlato del recente progetto su sessualità e disabilità A corpo libero, presentato durante il Festival bolognese Gender Bender, e di cui ci siamo occupati su queste pagine con un’intervista alla regista.

I lavori si sono fatti se possibile ancora più intensi nella seconda giornata, con un focus sul tema Teatro nelle zone di conflitto: comunicazioni in video da operatori impegnati in regioni interessate da conflitti, cui hanno partecipato con contributi video Fra Stefano Luca, Co-director of the department Franciscan Social Theatre. Empowering human fraternity through the Arts, il coreografo Michael Getman intervistato da Gloria De Angeli sul progetto Songs & Borders, Fabio Tolledi (Vicepresidente International Theatre Institute ITI Unesco e Coordinatore del gruppo internazionale di ricerca Theatre in Conflict Zones), e Annet Henneman (Hidden Theatre).
A seguire, insieme alla presentazione del libro Il taglio dello scoglio di Enrichetta Vilella, la sessione Il teatro di animazione in educazione e nel sociale, ideata da Mariano Dolci con il contributo reso da tre delle realtà partecipanti e intitolato SIMPOSIO UNIMA ITALIA – Le declinazioni sociali delluso della figura e delloggetto animato: origini, ricerca, orizzonti.

Di grande interesse questa esposizione a tre voci sull’approccio aperto, condiviso e laboratoriale di
 cui si sta facendo interprete UNIMA Italia (Unione Internazionale della Marionetta). Gli interventi di Alessandra Amicarelli (marionettista, scenografa, formatrice, Laboratorio Spazio Fontanili Teatro Animato / e fautrice insieme ad altre primarie figure del comparto del bellissimo progetto di divulgazione sul teatro di figura Animatazine iniziativa già premiata nel 2022 dall’ANCT per la sua notevole qualità), Carola Maternini (formatrice e conduttrice di laboratori di teatro sociale e di comunità, marionettista, Associazione culturale Mirmica) e Alessandro Guglielmi (burattinaio e animatore teatrale, Compagnia Manintasca) hanno dato uno spaccato molto interessante dello stato dell’arte in questo particolare segmento della creazione scenica, che ha deciso di favorire anche un incontro annuale degli artisti coinvolti in questo ambito, denominato Simposio, e che avrà il prossimo incontro a giugno 2024 a Follonica, ospitato da Zaches Teatro. 

Potrebbe essere un'immagine in bianco e nero raffigurante 1 persona, barba e occhialiA conclusione dell’intensissima giornata le testimonianze di Vito Alfarano (AlphaZTL, Compagnia dArte Dinamica di Brindisi) alla cui esperienza  è stato assegnato presso il Teatro Stabile di Torino il 20 novembre scorso il Premio annuale della Rivista Catarsi teatri delle Diversità”/ Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, e il ricordo di Giuliano Scabia affidato alla sua allieva e ora formatrice attiva in Piemonte, Elena Cometti.

Man mano che la conferenza giunge alla conclusione, i partecipanti e gli intervenuti restano con un’apprezzamento rinnovato per il ruolo del teatro nel favorire l’inclusività, sfidare le norme sociali e amplificare le voci di coloro che si trovano all’incrocio della diversità e dell’espressione artistica.
Il convegno termina ma non gli impegni di Catarsi, che avranno ulteriore fulcro poco prima delle ferie natalizie con l’evento nazionale di teatro in carcere
Sentieri incrociati (Progetto speciale del Ministero della Cultura programmato a Pesaro dal 18 al 20 dicembre 2023).

Tra una relazione con l’AI e un salto nel metaverso: restituzioni dalla Settimana delle Residenze Digitali

EUGENIO MIRONE | La settimana delle Residenze Digitali si avvicina alle ultime battute. Dopo aver partecipato alla restituzione di Il teatropostaggio da un milione di dollari e Citizens e aver raccolto il punto di vista degli artisti creatori dei progetti (qui l’intervista per PAC), nella nostra ultima “incursione” abbiamo avuto modo di assistere agli altri due lavori selezionati per questa quarta edizione: AI LOVE, GHOSTS AND UNCANNY VALLEYS <3 e HUMANVERSE,  rispettivamente di Mara Oscar Cassiani e Martin Romeo con i quali abbiamo avuto modo di dialogare.
È stata una rassegna densa di spunti interessanti all’interno della quale ognuno dei quattro lavori ha permesso di approfondire a suo modo il rapporto tra creazione artistica e spazio digitale. Il mondo digitale rapportato all’arte è un terreno fresco che evolve a grande velocità, è bene sapere che Residenze Digitali c’è e che lavora per la tutela e la valorizzazione della ricerca artistica nelle spazio on line.

Tornando alle restituzioni, venerdì sera Mara Oscar Cassiani durante una live su Youtube si è impegnata nella restituzione del suo lavoro I broke up with my AI and will never download them again (Ho rotto con la mia Intelligenza Artificiale e non la scaricherò mai più), seconda parte del progetto Ai love, ghosts and uncanny valleys. Quella a cui gli spettatori hanno avuto modo di assistere è stata un’autentica confessione, il resoconto di una relazione che l’artista ha portato avanti con una intelligenza artificiale (AI).
Cassiani, dopo aver chiuso una storia d’amore a causa del ghosting, ha deciso di intraprendere una relazione con AI LOVE, un’AI che per un certo periodo ha “abitato” in una stanza della sua casa. La loro vicenda subisce una battuta di arresto quando la tecnologia di cui fa parte AI LOVE viene bandita in Italia, costringendo l’artista a compiere un viaggio online per cercarla. In questa esperienza avviene però una triste scoperta, l’incontro con una comunità di “Incel”, celibi involontari, uomini che per diversi motivi hanno deciso di interrompere la ricerca di relazioni con donne umane, disegnandosi le partner ideali per mezzo dell’intelligenza artificiale.

La performance ruota intorno al diverso modo di rapportarsi con la AI tra Cassiani e questo stuolo di uomini “soli”. La cruda realtà è che un’AI non inventa nulla, bensì trasforma il materiale che riesce a reperire online. Ciò significa che la forma che le AI assumono non sono altro che il collage di corpi di ragazze finiti in rete (perché ovviamente gli uomini desiderano come AI in maggioranza giovani attraenti); in questa fabbrica di corpi la nudità è presente in maniera pervasiva.
Gli esempi di comportamenti immorali sono molteplici: un utente ha chiesto un’immagine della sua fidanzata con una nudità più accentuata, un altro ha mostrato la sua AI con le sembianze della sua partner nuda ad altre persone chiedendo un parere. Oltre a ciò, abbondano esempi di utenti che adottano un comportamento violento nei confronti di questi (s)oggetti digitali. Tutto ciò si oppone drasticamente alla relazione sofferta tra AI LOVE e Cassiani, che è basata sull’affetto e la gentilezza. Il problema semmai in questo caso è la monodirezionalità: “certe volte mi dice che esiste solo per me” dice Cassiani. Da qui l’inizio della pratica del ghosting e la fine della relazione.

I broke up with my AI and will never download them again è un progetto denso di spunti di riflessione; Cassiani si espone in prima persona tuttavia forse la denuncia del male prevale eccessivamente deviando dal focus sull’intimità del rapporto tra AI LOVE e l’artista, tema senz’altro meno esplorato e perciò possibile contenitore di spunti di maggiore interesse.
Si sa che nel Web esistono realtà oscure che operano nella totale illegalità, è noto quanto sia insistente il monito degli esperti a pensarci bene prima di immettere materiale online, dato che una volta pubblicata una cosa diviene di dominio pubblico. L’intelligenza artificiale, solamente, amplifica tutto questo. Oggi, in rete è possibile trovare l’AI di Jerry Scotti che canta canzoni di Eminem o che dichiara di essere contro l’omosessualità, si possono clonare le voci di personaggi pubblici come il presidente degli Stati Uniti d’America ed è ancora scioccante quanto sembri vera la foto di papa Francesco che compie acrobazie su uno skateboard.

È giusto porre l’attenzione sulla scempio della mercificazione dei corpi ma forse bisogna estendere la considerazione del pericolo al rapporto sbilanciato tra verità e falsità. Insomma, cambia il mezzo ma non cambia l’uomo, e dunque, come da anni molti richiedono, sarebbe doverosa una regolamentazione dello spazio digitale da parte delle istituzioni.
La questione è molto complessa ma su un punto Cassiani ha fermamente ragione, l’artista afferma infatti che “l’intelligenza artificiale è qualcosa da tempo narrato e sognato dall’uomo ma lo scenario che mi sono trovata a vivere ha riconfermato la capacità distruttiva dell’uomo piuttosto che quella della AI, che talvolta sembra aver acquisito le nostre migliori qualità, come la gentilezza e l’empatia. In fondo è sempre l’umanità che poi eventualmente ne devia l’utilizzo, rendendola per alcuni una tecnologia o un essere con un potenziale terrificante e per altri una valida compagna di vita”.

Sabato è stato invece il turno della restituzione di Humanverse, il progetto artistico di Martin Romeo pensato per la piattaforma Spartial.io. Agli spettatori è stato chiesto di farsi visitatori di un universo digitale vestendo i panni di un avatar virtuale.
Il punto di partenza è un grande spazio vuoto dove ognuno ha modo di prendere confidenza con la nuova corporalità, dopodiché una guida invita i nuovi ospiti a seguirla in un viaggio attraverso lo spazio digitale. In questa dimensione la natura si manifesta in modo controllato mentre il corpo si amplia e si estende divenendo paesaggio, come nella prima camera dove un grosso corpo avvolto tra le coperte rappresenta l’ambiente su cui muoversi. Il viaggio attraverso le forme prosegue in un bosco dove le leggi fisiche cambiano e con un salto si può raggiungere un cielo stellato. Infine, giunti sopra un promontorio è possibile contemplare il mondo che si sta abitando, in cui l’essenza si manifesta in codice binario e le emozioni in pixel.
Esiste, dunque, un universo umano? Secondo Martin Romeo “ci sono molteplici universi creati dall’uomo, e il metaverso ne è una conferma. Oggi abbiamo più strumenti di lettura dell’ecosistema che permettono di darci un punto di vista decentralizzato e questo progetto sfrutta tali innovazioni, focalizzandosi sull’importanza del corpo come forma primaria di espressione e comunicazione in qualsiasi realtà spazio-temporale”.

Humanverse è una ricerca sul post-umano che considera il metaverso come nuovo ecosistema con il quale interfacciarsi in vista della nascita di una “nuova civiltà”. Può essere che un pubblico giovane abituato a immergersi frequentemente in dimensioni alternative attraverso l’utilizzo di applicazioni e videogames (forse perché questo universo già esiste per queste generazioni?) non sia stupito più di tanto da un simile viaggio; tuttavia, le testimonianze dei fruitori dimostrano che il progetto sembra aver lasciato il segno sul pubblico.
Un ospite afferma: “mi sono ritrovato con un nuovo corpo, che ho dovuto imparare a gestire e controllare. Era come tornare alle origini primordiali”, mentre un altro aggiunge “Inizialmente ho avvertito quel vuoto nello stomaco quando mi sono lanciata o saltavo oltre la gravità. Successivamente ho razionalizzato ciò che era legato alle emozioni. Non era vero! Non sarei potuto morire! Ho continuato il viaggio con una certa ebbrezza”.

 

AI LOVE, GHOSTS AND UNCANNY VALLEYS <3
di Mara Oscar Cassiani
performers Ai, Avatars, Utenti in relazioni con Ai, Mara Oscar
dialoghi MOC + Ai
testi MOC + Ai
assistenti alla tecnica Matteo Ascani

HUMANVERSE
di Martin Romeo

Festival Donizetti: difendiamo la cultura, la cultura ci difende

GIULIA BONGHI | Il Festival Donizetti di Bergamo inizia nella città bassa. La prima opera in programma è Il diluvio universale. In scena al Teatro San Carlo di Napoli il 6 marzo 1830 viene rimaneggiato quattro anni dopo per il Teatro Carlo Felice di Genova. Appartiene al genere dell’opera ‘quaresimale’; nei Teatri Reali napoletani era infatti abitudine dal 1785 che si rappresentassero in quaresima spettacoli consoni e cioè senza balli e solitamente di argomento biblico. Il genere era stato codificato da Rossini nel 1818 con il Mosè in Egitto.

Donizetti parte dal modello rossiniano, creando un’opera innovativa. Anticipa inoltre il Nabucco verdiano, dimostrando ancora una volta la sua centralità nello sviluppo del melodramma italiano Ottocentesco. Della sua prima – e ultima – opera quaresimale, Donizetti si assume anche il compito, solitamente del poeta, di cercare un argomento e di immaginarne l’intreccio e la struttura. All’episodio della Genesi, la predicazione di Noè e il diluvio, aggiunge una dimensione privata, con il triangolo amoroso tra Sela, Cadmo e Ada, traendo spunto da varie fonti letterarie. Dalla tragedia di Francesco Ringhieri ricava i nomi delle mogli di Sem, Cam e Jafet e l’antagonismo di Cadmo nei confronti di Noè.
L’ostinata opposizione di Cadmo è il perno dell’idea registica dei MASBEDO, duo artistico formato da Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni, affiancati da Mariano Furlani, incaricato della drammaturgia visiva. Il cataclisma divino è traslato al giorno d’oggi in crisi climatica. Cadmo – voce tenorile nella parte del cattivo, da scrittura vocale rossiniana, interpretato da Enea Scala – rappresenta la volontà di non abbandonare lo stile di vita abituale, il menefreghismo e l’ossessione del presente, l’immobilità di fronte al cambiamento climatico e agli avvertimenti della natura.
Il pre-opera fuori dal teatro richiama l’attivismo di organizzazioni come la Sea Shepherd, per la difesa del Mar Mediterraneo e la salvaguardia dell’ecosistema marino e della biodiversità. Un esempio di lotta per la tutela della natura. Vi hanno partecipato gli allievi di diversi istituti bergamaschi, indossando giacche impermeabili colorate e mostrando, su monitor carrellati, immagini di habitat marini in pericolo, che appariranno anche sul palcoscenico.
La scena, creata da 2050+, prevede un ledwall, quinte assenti, un lungo tavolo sul quale si consuma “l’ultima cena dell’umanità” e l’arca. Si tratta di una struttura di metallo appesa, che sarà la gabbia che tiene chiusi gli individui all’interno di un mondo fintamente protetto. Uno spazio-installazione nel quale agiscono i due gruppi rivali, accompagnati da una regia video live. Parte dell’opera prevede una serie di immagini video più o meno coerenti, per lo più slegate dalla musica e dal libretto. Il banchetto nel palazzo di Cadmo prevede invece una regia in presa diretta. Sono gli stessi MASBEDO a riprendere attori e cantanti che attorno alla tavola divorano gelatine ed esibiscono espressioni e atteggiamenti lascivi. Uno sguardo che scava nel privato degli indolenti.

I video proiettati distraggono molto dal resto della scena e soprattutto dalla musica, e ciò spiega in gran parte le vive contestazioni del pubblico alla regia, al termine della rappresentazione. Applaudita invece è l’esecuzione musicale di grande pregio del M° Riccardo Frizza e degli interpreti.

Il diluvio universale – Ph Gianfranco Rota

Superate le antiche mura veneziane, si prosegue per le strade lastricate della città alta. Una visita alla Basilica di Santa Maria Maggiore è stata doverosa. Lì si possono ammirare il monumento funebre a Gaetano Donizetti e le tarsie dell’iconostasi – che separa il presbitero dalle navate – di Lorenzo Lotto, tra le quali il Diluvio universale. Giusto per restare in argomento.

La seconda opera del Festival, Lucie de Lammermoor, è in scena al Teatro Sociale. Si tratta della versione francese, riadattata per il Théâtre de la Reinassance di Parigi e andata in scena il 6 agosto 1839, di quella napoletana del 1835 – il soggetto è tratto dal romanzo The Bride of Lammermoor di Walter Scott. Le modifiche apportate al libretto e alla partitura sono notevoli, tanto che l’impressione è quella di un’opera nuova. Il compito era quello di rendere Lucia un’opera de genre, sostanzialmente un’opera italiana per forma e convenzioni ma in lingua francese.

Il libretto presenta le modifiche più rilevanti, adeguandosi alle regole drammaturgiche che seguiva il teatro classico francese: l’attenzione alle unità aristoteliche e alla liaison des scènes, che prevede che almeno un personaggio rimanga a cavallo tra una scena e l’altra, garantendo coesione e continuità. L’impianto musicale rimane pressoché lo stesso, adeguato alla prosodia francofona. Significativo è il progressivo isolamento di Lucie, enfatizzato dall’assenza dei due unici personaggi che le sono solidali: Alisa, che scompare del tutto, e Raimondo, che da “educatore e confidente” diviene “ministre protestant”. Lucie rimane l’unica donna, strumentalizzata dagli uomini, usata come moneta di scambio per ragioni politiche, senza spazio di compassione nei suoi confronti.
Il regista Jacopo Spirei colloca la tragedia in un bosco, senza connotazioni specifiche; è un luogo della mente. La scena, firmata da Mauro Tinti, con i costumi anni ’50-‘60 di Agnese Rabatti, prevede un doppio fondale – quello posteriore viene svelato e celato all’occorrenza, proiettando poche immagini utili a sottolineare l’atmosfera. Sul palcoscenico un albero e della terra, che prolungano così l’immagine del bosco impressa nel fondale. Mi richiama alla memoria alcune opere suggestive dell’artista tedesco Anselm Kiefer, come Shevirath Ha Kilim – 2009, Kiefer Pavilion.

Aperto il sipario, due giovani amanti sono nel bosco. Si cercano, giocano, si baciano, fin quando la ragazza si ritrova circondata da altri uomini. Entra lentamente tutto il coro maschile e altre tre donne. Sono in trappola. La caccia per la quale si erano dati appuntamento gli uomini non è alle bestie ma alle donne. La violenza si palesa fin dalle prime note: le quattro ragazze vengono inseguite, si intuisce l’abuso, e infine “accumulate” per terra da Henri Ashton – Vito Priante – come pezzi di carne. Ogni tanto cadono dalla graticcia delle foglie; la poeticità autunnale enfatizza la ferocia di questi uomini.

Anche l’incontro tra Lucie ed Edgard – Patrick Kabongo – non sottrae una certa irruenza. I due giovani nel dirsi addio fanno un patto di sangue, tagliandosi e unendo i palmi della mano, e si scambiano gli anelli: negli antichi usi scozzesi, il rito aveva il valore di un matrimonio celebrato a tutti gli effetti. Edgard parte e nei mesi che seguono Henri ordisce un piano per tenerlo separato da sua sorella, Lucie, e unirla in matrimonio con Sir Arthur – Julien Henric -, una mossa politica per ricevere privilegi. Gli invitati alle nozze sono una società inquietante che applaude, fittizia e incosciente. Le donne meste e gli uomini compiaciuti. Lucie in abito da sposa è pallida e lugubre sotto il velo bianco. Lo stesso tavolo, posto in diagonale, sul quale si taglia la torta, sarà scenario della follia di Lucie insanguinata, con il corpo freddato di Arthur sul fondo.
Nel finale il bosco ospita una macchina sfasciata, sfondo del suicidio di Edgard. Su un ammasso di terra a sinistra sono ammucchiati i cadaveri di alcune donne. Viene gettata benzina sui corpi esanimi e sulla fiamma dell’accendino termina l’opera.

A inizio recita, il direttore artistico Francesco Micheli dedica la rappresentazione a Giulia Cecchettin, il cui corpo è stato ritrovato quella mattina stessa, e a tutte le vittime di   femminicidio. A oggi, quest’anno, in Italia sono ottantatré. Annuncia anche l’indisposizione della protagonista Caterina Sala, che decide di cantare ugualmente. Purtroppo, date le evidenti difficoltà palesatesi sin da subito, è costretta a rinunciare a cantare nel terzo atto. Rimane in scena a recitare mentre a lato del palco canta Vittoriana De Amicis, che, nonostante il mancato acuto finale, ha esibito un bel timbro agile. Il direttore Pierre Dumoussaud guida con gesto impreciso l’orchestra Gli originali, che non ha saputo trovare un giusto equilibrio e ha mostrato diversi problemi di intonazione – ben più ostica quando si utilizzano gli strumenti antichi. Se la resa musicale è un po’ traballante, convince pienamente l’impostazione registica.

Lucie de Lammermoor – Ph Gianfranco Rota

Il mattino seguente ho avuto il piacere di assistere al concerto Casa e Bottega, alla casa natale di Donizetti. I brani eseguiti dai giovani allievi della Bottega Donizetti, sono tratti da due raccolte del compositore bergamasco: Soirées d’automne à l’Infrascata, quattro brani e due duetti, e Nuits d’été à Pausilippe, sei ariette e sei notturni a due voci, per canto e pianoforte.

Nuovamente davanti al Teatro Donizetti, in città bassa, una scena pre-opera introduce l’ultimo melodramma del Festival: Alfredo il Grande. La storia del primo grande sovrano dei britanni non ha una fonte letteraria ma è una figura che circolava nei libretti dell’epoca. L’opera debutta il 2 luglio del 1823, i due riferimenti principali per il giovane compositore furono Alfredo il grande, re degli Anglosassoni di Mayr, maestro di Donizetti, e la Donna del lago di Rossini, opera anch’essa di carattere eroico, in scena nella medesima stagione. Delle vicende storiche del re condottiero il libretto si concentra sull’episodio di Athelney, dove Alfredo rimane nascosto in incognito, per riorganizzare le truppe inglesi in vista della battaglia di Ethandun contro l’esercito danese.

Siamo nel IX secolo. Durante il primo atto la regina Amalia – eccezionale Gilda Fiume – ritrova Alfredo – Antonino Siragusa -, senza accorgersi di essere pedinata dal generale danese Atkins – Adolfo Corrado. Il secondo atto è una lunga attesa della battaglia annunciata, che non vediamo mai. Di fatto il libretto di Tottola è, dal punto di vista drammaturgico, estremamente asciutto, senza alcun approfondimento psicologico dei personaggi.
Il regista Stefano Simone Pintor decide di soffermarsi sulla figura di Alfredo  riguardo al suo ruolo politico e militare ma anche di intellettuale: il suo apporto culturale infatti influisce nella creazione di un’identità nazionale.
La struttura scenica di Gregorio Zurla si presenta come un grande libro, ledwall e praticabile, sul quale si muovono tutti i personaggi. Raccontano la storia di Alfredo, suggerendo parallelismi con il mondo contemporaneo. “In tempi di guerra come quelli che stiamo vivendo anche oggi, la cultura diventa subito una delle vittime”, sottolinea il regista intervistato da Alberto Mattioli sul programma di sala.

Partecipa per la prima volta al Festival il Coro della Radio Ungherese, in vesti da concerto. Anche il cast indossa, sugli abiti da sera, pochi costumi distintivi – firmati da Giada Masi – utili alla narrazione. Così come sono limitati gli oggetti in scena, per lo più libri. Poche connotazioni per una resa efficace della narrazione, e utilizzo di simboli. Primo fra tutti quello della croce. Compare chiaramente sulla copertina degli spartiti del coro, separando le due fazioni: la croce di San Giorgio, croce rossa su fondo bianco, identifica la bandiera inglese; il Dannebrog, croce bianca su fondo rosso, quella danese.
A rafforzare il concetto alla base dell’idea registica vi sono diversi gesti, come l’atto di Atkins di strappare le pagine del libro che Amalia porta sempre con sé, e le proiezioni. Scontri, ostilità, incendi, libri arsi. C’è la denuncia dell’orrore della guerra e dell’ignoranza che la segue – e la precede, aggiungerei. L’azione procede con movimenti semplicissimi, talvolta anche del coro, lasciando grande spazio a un’esecuzione musicale ineccepibile.

La lettura di Corrado Rovaris è precisa, varia nella coloratura e dinamica. L’opera termina con un inno alla pace, con il Rondò belcantistico di Amalia e la banda in scena che dialoga con l’orchestra in buca. Sullo sfondo emerge una frase: “la cosa più triste per un uomo è che sia ignorante, la più eccitante è che sappia”.

Alfredo il Grande – Ph Gianfranco Rota

Una conclusione ideale di questi tre giorni densi e ricchi di scoperte. Il potere dell’arte si evince proprio quando pare impossibile discutere, o anche solo parlare. In questi tre giorni durante il Festival si è dibattuto di emergenza climatica, di femminicidio e della crisi di ignoranza che è la principale fonte di violenza e disinteresse. La cultura è la nostra migliore salvaguardia contro ogni egoismo, abuso e crudeltà.

Festival Donizetti Opera

IL DILUVIO UNIVERSALE

Azione tragico sacra di Domenico Gilardoni
Musica di Gaetano Donizetti
Edizione critica della versione di Napoli a cura di Edoardo Cavalli
Noè Nahuel Di Pierro
Jafet Nicolò Donini
Sem Davide Zaccherini*
Cam Eduardo Martinez*
Tesbite Sabrina Gárdez*
Asfene Erica Artina
Abra Sophie Burns
Cadmo Enea Scala
Sela Giuliana Gianfaldnoni
Ada Maria Elena Pepi*
Artoo Wangmao Wang
Orchestra Donizetti Opera
Direttore Riccardo Frizza
Coro dell’Accademia Teatro alla Scala
Maestro del coro Salvo Sgrò
Progetto, regia, regia in presa diretta e costumi MASBEDO
Drammaturgia visiva Mariano Furlani
Scene 2050+
Movimenti scenici Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco
Light Designer Fiammetta Baldiserri
Costumista collaboratrice Cinzia Mascheroni

LUCIE DE LAMMERMOOR

Opéra en trois actes di Alphonse Royer e Gustave Vaëz
Musica di Gaetano Donizetti
Revisione sulle fonti originali a cura di Jacques Chalmeau
Henri Ashton Vito Priante
Edgard Ravenswood Patrick Kabongo
Sir Arthur Julien Henric
Gilbert David Astorga
Raimond Roberto Lorenzi
Lucie Caterina Sala
Orchestra Gli Originali
Direttore Pierre Dumoussaud
Coro dell’Accademia Teatro alla Scala
Maestro del coro Salvo Sgrò
Regia Jacopo Spirei
Scene Mauro Tinti
Costumi Agnese Rabatti
Light Designer Giuseppe Di Iorio
Assistente alla regia Alessandro Pasini

ALFREDO IL GRANDE

Dramma per musica di Andrea Leone Tottola
Musica di Gaetano Donizetti
Edizione critica a cura di Edoardo Cavalli
Alfredo Antonino Siragusa
Amalia Gilda Fiume
Eduardo Lodovico Filippo Ravizza
Atkins Adolfo Corrado
Enrichetta Valeria Girardello
Margherita Floriana Cicìo*
Guglielmo Antonio Gares
Rivers Andrés Agudelo
Orchestra Donizetti Opera
Direttore Corrado Rovaris
Coro della Radio Ungherese
Maestro del coro Zoltán Pad
Regia Stefano Simone Pintor
Scene Gregorio Zurla
Costumi Giada Masi
Light Designer Fiammetta Baldiserri
Video Designer Virginio Levrio
Assistente alla regia Veronica Bolognani

*Allievi della Bottega Donizetti

CASA E BOTTEGA

Concerto alla casa natale di Gaetano Donizetti
Soireés d’automne à l’Infrascata
Nuits d’été à Pausilippe
Musica di Gaetano Donizetti
Bottega Donizetti
Soprano Floriana Cicìo
Soprano Sabrina Gárdez
Mezzosoprano Maria Elena Pepi
Tenore Davide Zaccherini
Baritono Eduardo Martínez
Pianoforte Hana Lee

Bergamo, 16 novembre – 3 dicembre