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sabato, Ottobre 12, 2024
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Rami d’ORA lungo la Decauville: una giornata accessibile di performance ad alta quota

VALENTINA SORTE | Per la seconda volta Rami d’ORA, rassegna di arti performative promossa dal collettivo Laagam, è tornata lungo la Decauville delle Orobie Valtellinesi con Il Sentiero degli artisti: un’intera giornata ad alta quota, all’insegna delle arti performative e dell’inclusione.
Domenica 22 settembre un pubblico numeroso – più di 70 persone – ha seguito il suggestivo percorso che collega Gaggio al Dosso del Grillo (SO), a circa 1.000 mt di altitudine, ammirando passo dopo passo le bellezze del territorio e le diverse performance disseminate lungo il tragitto.  

Katia Della Fonte in Quadri in micropassi © Antonella Catalano

L’itinerario proposto da Rami d’ORA si è snodato lungo la ferrovia che un tempo collegava le varie dighe e bacini della zona. A Piateda, Comune in cui ha sede ORA – Orobie Residenze Artistiche – c’è infatti la centrale idroelettrica di Venina (della Edison). Oggi i binari sono stati per la maggior parte rimossi, ne sopravvivono poche tracce. Al loro posto è nato un sentiero ideale per trekking ed escursioni. Erica Meucci, Francesca Siracusa e Riccardo Olivier sono riusciti a valorizzare il patrimonio naturalistico e storico del territorio, dando una nuova vita a quei binari dismessi e coinvolgendo artisti del luogo o delle residenze artistiche di ORA, ma soprattutto sono riusciti a promuovere una cultura attenta, disponibile e accessibile.
Il Sentiero degli artisti, infatti, è un percorso aperto a tutti. È il primo format in Italia di performance in alta quota, totalmente accessibile. Grazie alle joelette – carrozzine fuoristrada monoruota messe a disposizione dall’associazione Dappertutto OdV e grazie interpreti LIS – Lingua dei Segni Italiana dell’Ente Nazionale Sordi – anche persone con disabilità fisiche o sensoriali hanno potuto prendere parte appieno alla proposta. È stata un’esperienza immersiva e partecipativa. La natura non è stata una semplice cornice, la Decauville non è stata una semplice vetrina per artisti. Si è condiviso tutto: i dieci chilometri del percorso, la guida delle joelette, il pranzo in osteria, la capacità di affrontare la fatica e di accogliere lo stupore.  

Joelette messa a disposizione dall’associazione Dappertutto OdV

E con particolare stupore abbiamo ammirato le performance di Katia Della Fonte e Camilla Cason. Entrambe le artiste sono state capaci di lavorare in modo originale sulle connessioni.
In
Quadri in micropassi Katia Della Fonte ha usato il movimento come strumento di conoscenza dell’ambiente circostante. Prima attraverso un gesto esplorativo, lento e molto attento, poi con un gesto simbiotico, accogliente. La connessione profonda con il suolo, la roccia e il mondo vegetale è diventata in alcuni punti una vera e propria fusione. I suoi micromovimenti sulla parete scoscesa di una sporgenza rocciosa, lungo il tratto finale del percorso, erano quasi minerali. Difficile staccare gli occhi.
Invece, è stato attraverso un gesto rituale e ancestrale, anche se risemantizzato, che Camilla Cason, in Partire da una tarantola, ha cercato una connessione profonda con l’ambiente. La giovane danzatrice e coreografa è partita dalle parole di Donna Haraway in Chthulucene – «Niente è collegato a tutto, ma tutto è collegato a qualcosa» – per organizzare una rete, o meglio una tela, fisica e simbolica, che ha iniziato a disfare lentamente. L’allestimento era molto suggestivo, sia per la cornice silvestre scelta dall’artista, sia per i materiali utilizzati. Da una parte i nove bastoni piantati a terra a formare un cerchio, dall’altra il filo ricavato dai vecchi collant di danza.  

Camilla Cason in Partire da una tarantola © Antonella Catalano

Una volta smantellata la tela, lo spazio performativo si è aperto a un’azione più profonda. Seguendo le note di una pizzica tarantata, la danzatrice si è lasciata abitare dal suo veleno per giungere a una catarsi personale. Con i piedi ben piantati a terra, Cason era come in balia di un movimento centrifugo e liberatorio, in una sequenza di gesti ripetuti fino allo sfinimento fisico, fino all’abbandono, finché la musica non si è placata, esausta pure lei.
Dismessi i propri abiti-crisalide, è iniziata allora un’esplorazione
altra dello spazio attorno, in un groviglio di pelle, tessuto e terreno. Nudità su nudità. Sono così emersi nuovi passi, nuove alleanze fra umano e selvatico, nuovi intrecci, una nuova tela. Diversa dalla prima, meno strutturata, ma sempre fitta di compresenza. Fitta di legami.
Diversa, ma altrettanto interessante, la proposta di Diana Anselmo, Monica Barone, Cesare Benedetti, Giorgio Bernini, Alessandra Cinque, Riccardo Olivier, FREAK OUT!!!!, presentata in questa giornata in versione ridotta e laboratoriale, con solo due dei sei performer previsti, ovvero Riccardo Olivier e Diana Anselmo.

Diana Anselmo e Riccardo Olivier in Freak out!!! © Antonella Catalano

Prendendo le mosse dal freak show storico che esibiva persone o animali dall’aspetto insolito o anomalo con l’obiettivo di attirare e impressionare gli spettatori, lo spettacolo ha suscitato fra il pubblico domande e riflessioni sul tema della disabilità, sulle rappresentazioni del corpo con disabilità e sull’identità di genere. Attraverso un questionario rivolto al pubblico, Riccardo Olivier e Diana Anselmo hanno fatto emergere pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni. Il format concepito da Rami d’ORA ha reso la riflessione di FREAK OUT!!!!, già molto potente sulla carta, ancora più intima fruita dal vivo, in un contesto così attento all’altro.
Durante l’intera giornata (dalle 10 alle 18) si sono alternati momenti molto densi a momenti più distesi, come nel caso di Natura ipnotica. Attraverso esperienze sensoriali, pratiche guidate di connessione naturale e ascolto profondo, Alessandro De Simoni Francesca Coizet hanno proposto un concerto insolito, nato dall’originale combinazione di strumenti musicali, elementi naturali e paesaggio sonoro. Il risultato è stato un viaggio attraverso i suoni ipnotici presenti in natura, presentati in una forma unica e inclusiva di ascolto propriocettivo (senza cioè il supporto della vista) e partecipato. 

Alessandro De Simoni e Francesca Coizet in Natura ipnotica © Antonella Catalano

Un altro momento di piacevole evasione è stato quello dedicato al circo contemporaneo. In Achillea Giulia Battaglione e Matteo Casella hanno saputo coniugare danza e giocoleria. Muovendosi tra parallelismi e intersezioni, contrappunti e slittamenti, all’interno di un flusso fatto di gioco e di continua interazione, i due giovani artisti hanno creato un’esperienza coinvolgente e molto godibile, anche a un pubblico in erba. Da non dimenticare, infine, la lettura espressiva di La signora Meier e il merlo di Wolf Erlbruch, proposta da Paola Pradella. Un testo breve, ma potente, surreale e delicato, perfettamente in sintonia con la giornata.
Ancora una volta il collettivo artistico di Laagam ha dimostrato di essere una realtà promettente che ci piace seguire per le sue pratiche aperte e incoraggianti e per il suo modo di “fare cultura”. Una cultura gentile e attenta, in cui la dimensione estetica si intreccia sempre a quella ecologica e umana. Una cultura che parte da vecchi sentieri per trovarne altri, muovendosi secondo logiche orizzontali, mai gerarchiche, cercando nuove connessioni e nuove alleanze.

Rami d’ORA lungo la Decauville
IL SENTIERO DEGLI ARTISTI, II edizione
di Collettivo Laagam / ORA – Orobie Residenze Artistiche
con il sostegno di Comune di Piateda, Fondazione Cariplo, Regione Lombardia
in collaborazione con Comune di Ponte in Valtellina, Dappertutto odv, ENS Milano, Forme Cooperativa Sociale

Decauville delle Orobie Valtellinesi | 22 settembre 2024

Contemporanea Prato nel sussulto fra storie, linguaggi e storia del linguaggio

Contemporanea 2024 - foto Ilaria Costanzo

RENZO FRANCABANDERA | Partiamo dal dire che Prato è una città bella e poco conosciuta, che soffre la vicinanza al capoluogo toscano; ma negli anni e nella storia recente ha sviluppato, sia in ambito artistico che a livello sociale, una dimensione di incubatore del nuovo, del mondo che cambia. Il Festival Contemporanea che si svolge nella cittadina toscana a settembre è un evento ormai consolidato nel panorama nazionale, che si è tenuto dal 27 settembre al 5 ottobre. Organizzato dal Teatro Metastasio e diretto da Edoardo Donatini, è da quasi tre decenni una vetrina per la scena teatrale contemporanea, sia nazionale che internazionale. Questa 24ª edizione, sostenuta dalla Regione Toscana e dal Comune di Prato, è stata un momento cruciale, perchè la rassegna è tornata a vivere dopo l’interruzione causata dalla pandemia che qui si era anche purtroppo prolungata. Ed è un bene che Contemporanea sia tornato.
Raccontiamo la giornata del 4 ottobre, in particolare, partendo dal Dies Irae di Gloria Dorliguzzo, un concerto/performance che racconta, dentro un immaginario quasi da realismo socialista per cromie e strutture compositive, evoca rituali di ribellione e liberazione dalle meccaniche costrittive del lavoro in fabbrica.

Gloria Dorliguzzo – Dies Irae – foto Ilaria Costanzo

A volte, effettivamente, travolti dalle mollezze della società dei servizi, gli impiegati del mondo occidentale ricco possono immaginare che il ritmo diabolico dei processi industriali, il tin tam tump assordante delle macchine, delle presse, sia un ricordo del passato. Ma ovviamente non è così, sono ancora migliaia, milioni, gli umani che trovano lavoro nelle fabbriche, con ruolo operaio, e che vivono il rapporto con il tempo meccanico. Esistono ancora anonimi interpreti, verrebbe da dire chapliniani, riferendoci a Tempi Moderni, della dialettica macchina/ritmo/lavoro, ma la cifra del grottesco non è l’unica con cui la si può raccontare.
Un’esperienza immersiva grazie alle note intense di Galina Ustvolskaya, compositrice russa, e ai ritmi incisivi di metalli su legno e incudine. Questo spettacolo si è tenuto nella suggestiva Sala del Refettorio della Chiesa di San Domenico, rendendo ancora più forte l’impatto simbolico della rappresentazione. La Dorliguzzo, artista italiana di grande sensibilità, esplora temi legati alla fragilità umana e al potere delle emozioni attraverso la fusione di danza e musica. Il lavoro ha una bella profondità, e la relazione con le partecipanti alla performance la rende potente e molto chiara allo sguardo degli spettatori. Nessuno resta indifferente.

Un altro momento di rilievo è stato La Luz de un Lago idea e creazione della compagnia El Conde de Torrefiel, negli ultimi anni alla ribalta internazionale e con diverse date in Italia nei festival degli ultimi anni. Questo lavoro porta la firma a regia, testo e drammaturgia Tanya Beyeler e Pablo Gisbert. Il lavoro supera del tutto il tema della rappresentazione. In scena nessun attore, solo tre performer Mireia Donat Melús, Mauro Molina, Isaac Torresi che di tanto in tanto muovono le scene realizzate da La Cuarta Piel e le sculture (sempre di portata scenografica, grandi lastre di alluminio) della stessa Melús. Siamo al teatro senza attori, qui sul palcoscenico del Teatro Metastasio. Questo spettacolo, come suggerisce il titolo, gioca con il concetto di luce e di riflesso, utilizzando il lago come simbolo di introspezione e di connessione tra il mondo esterno e quello interiore, che si affida a una drammaturgia fatta a matrioske in cui una storia finisce nell’altra. Ma lo spettatore non vede nessun attore. Legge. Legge questo testo proiettato su alcune superfici di proiezione che cambiano durante lo spettacolo, mentre i tre performer spostano quinte mobili, colorano di nero una parete mobile, o compiono alcune azioni riferibili al testo, ma non sempre in modo didascalico, anzi, quasi mai.

Il linguaggio supera definitivamente il tema della rappresentazione. Il testo è testo da leggere, non da interpretare, se non nello sguardo e nella mente dello spettatore. Le immagini e la narrazione poetica si radicano nella retina di chi osserva: il tentativo è quello di generare esperienze emotive collettive, ma superando i canoni predefiniti del medium. In alcune scene tornano in mente gli esperimenti creativi di installazione performativa condotti quindici anni fa dagli italiani Pathosformel e Santasangre. È stata veramente una generazione che guardava avanti quella di inizio Duemila in Italia. Un po’ più indietro nel tempo occorre andare per ricordare il fondale tripartito con lastre metalliche che faceva da sfondo alla performance Trasfiguration di Olivier de Sagazan, e che qui ritornano, con il loro carico non solo visivo ma anche sonoro.

El Conde de Torrefiel – La luz del lago – foto Ilaria Costanzo

A conclusione della giornata assai densa, Antonio Tagliarini nello spazio cittadino di Kinkaleri ha presentato La foresta trabocca, realizzato in collaborazione con la poetessa e performer Gaia Ginevra Giorgi.
Come si ricorderà Tagliarini per molti anni aveva avuto un importante sodalizio artistico con Daria Deflorian, ottenendo con lei numerosi riconoscimenti e premi internazionali per l’innovazione teatrale. Qui torna alla scena dopo la discontinuità nata dalla fine di quel rapporto continuativo e durato oltre un decennio; una pausa certo non facile, ma utile a ripensarsi e anche a ritrovare le fondamenta del proprio codice da cui ripartire. E la ripartenza avviene proprio dalla rinnovata fusione fra estetica performativa e riflessione concettuale in un unico accadere, che aveva in parte contraddistinto il lavoro precedente, ma qui più centrato sul corpo danzante.
Lo spettacolo, co-prodotto da Triennale Milano Teatro e Index, rappresenta un ulteriore esempio dell’impegno di Tagliarini nel mettere in discussione le convenzioni teatrali attraverso la contaminazione tra arti visive, danza, poesia e suono: gli spettatori entrano in sala e a ciascuno viene fornito un bigliettino con una domanda da poggiare sullo spazio delimitato dal tappeto danza.

La foresta trabocca – foto Ilaria Costanzo

Il cuore è la ricerca di modalità di esistenza alternative, che si ispira alle teorie queer di Jack Halberstam e al concetto di fallimento come forma di libertà creativa, evidentemente frutto dei mesi di travaglio creativo alle spalle. Parliamo di una performance ibrida, sonoro-performativa, che si nutre dell’intersezione tra corpo e parola, esplorando il potenziale trasformativo dell’esistenza umana attraverso una frammentazione di parole e gesti. La citazione del titolo dall’ultimo romanzo della scrittrice giapponese Maru Ayase suggerisce una narrazione composta di stratificazioni e possibilità immaginative.
E così gli spettatori che circondano sui quattro lati il tappeto danza affidano le loro domande ai due performer, che le leggono, ne scelgono alcune, le interpretano ora in gesto, ora in parola, ora in musica, senza mai scadere nella didascalia e creando un’atmosfera intima e complice che ha il suo culmine quando Tagliarini dà vita a una lacerante azione che lo porta a rivoluzionare la superficie scenica. Non entriamo nel dettaglio per non rovinare la sorpresa ai futuri spettatori. È un ritorno delicato, non scontato, aggiustabile nei ritmi, ma che funziona nel creare uno spazio empatico che parte dallo spazio scenico e si allarga via via, fino a inglobare tutto il teatro. In fondo le insicurezze, i buchi, le cadute, riguardano tutte e tutti, ricamando in un’unica stoffa il tempo, lo spazio in cui viviamo e l’identità.

DIES IRAE

creazione Gloria Dorliguzzo
musica Galina Ustvolskaya
coreografie Gloria Dorliguzzo
con Fabiola Borrelli, Patricia Roxana Cojocaru, Loredana Dragoni, Eleonora Foligni, Isabella Gentilezza, Rebecca Madou, Renata Oliva, Samanta Tesi, Veruska Tesi
maestro di musica Gianluca Feccia
fonico Filippo Cossu
produzione Fuorimargine Centro di Produzione della Danza in Sardegna, con il supporto di Fondazione Lenz e C&C Company con la collaborazione di Prato cultura e del Centro Antiviolenza La Nara
un ringraziamento a Valentina Dani

LA LUZ DE UN LAGO

idea e creazione El Conde de Torrefiel
regia, testo e drammaturgia Tanya Beyeler e Pablo Gisbert
scene La Cuarta Piel (César Fuertes, Iñigo Barrón García, Ximo Berenguer), Isaac Torres, El Conde de Torrefiel
scultura Mireia Donat Melús
direzione e coordinamento tecnico Isaac Torres
disegno sonoro Rebecca Praga, Uriel Ireland
disegno luci Manoly Rubio García
creazione video Carlos Pardo e María Antón Cabot
tecnico luci in tour Guillem Bonfill
con Mireia Donat Melús, Mauro Molina, Isaac Torres
produzione e amministrazione Uli Vandenberghe
produzione esecutiva Cielo Drive sl, Alessandra Simeoni
sostenuto da ICEC – Generalitat de Catalunya (produzione), Festival TNT, Terrassa Teatre Principal de Lloret de Mar
coprodotto da Festival GREC – Barcelona, CC Conde Duque – Madrid, Théâtre St. Gervais – Genève, Teatro Municipal de Porto – Rivoli, Festival d’Automne – Paris, TPE/Festival delle Colline Torinesi, Teatro Metastasio di Prato, VIERNULVIER – Gent

ringraziamenti a Marta Azparren e al suo “Cine Ciego”, La Cuarta Piel, Regina Gisbert, Telas con Alma, Sergi Caballero, Los Reyes del Mambo, Salva Gisbert e Amalia Donat

LA FORESTA TRABOCCA

un progetto di Antonio Tagliarini
con Gaia Ginevra Giorgi e Antonio Tagliarini
collaborazione artistica Gaia Ginevra Giorgi
cura del suono Emanuele Pontecorvo
disegno luci e direzione tecnica Elena Vastano
abiti Matteo Brizio
coproduzione INDEX, Triennale Milano Teatro, Ass. Cult. A.D.
residenze di creazione Triennale Milano Teatro, Spazio Matta, Casa degli Artisti
per INDEX Valentina Bertolino, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
con il supporto del MiC – Ministero della Cultura

Contemporanea Festival, Prato | 6 ottobre 2024

I fantasmi del tangibile. Su Roberto Baggio di Enia e La traiettoria calante di Giannini

ph. di Cosimo Trimboli

LEONARDO CHIAVENTI / PAC LAB*| Due monologhi sono stati in scena a Roma nell’ultimo periodo. Due monologhi, Roberto Baggio di Davide Enia e La traiettoria calante di Pietro Giannini, in cui l’attivismo politico e la validità artistica vengono uniti da due voci forti e originali, che restituiscono allo spettatore un teatro che porge l’orecchio verso la realtà in cui è immerso, riuscendo a creare un linguaggio che può diventare una possibilità di riflessione per tutti coloro che lo ascoltano.
Per Enia è un ritorno a temi come l’incontro con lo straniero e la guerra, che aveva trattato precedentemente nel suo monologo scritto nel 2019, L’abisso. Nella sua produzione letteraria, invece, l’attore siciliano aveva già raccontato di emigrazione e crisi umanitarie con il suo libro Appunti per un naufragio, da cui ha preso ispirazione proprio per l’opera teatrale.

Davide Enia

Una realtà che si trasforma in mito è il teatro proposto da Enia al Nuovo Teatro Ateneo dell’Università “La Sapienza” di Roma, che riapre le sue porte dopo un lungo periodo di chiusura. Una sola sedia al centro del palco, la luce dall’alto che illumina l’attore e un leggio per ricordare il monologo, è tutto ciò che lo spettatore può vedere dalla sua piccola sedia in tessuto rosso. Una scenografia che impiega solo l’indispensabile come è tipico di Enia. Il monologo verte sui grandi temi della letteratura e della filosofia internazionale, come il senso della vita e l’equilibrio tra il bene e il male, senza mai perdere leggerezza e ironia, che aiutano il pubblico a immergersi nel testo.
Il noto calciatore Roberto Baggio, con le sue vittorie e le sue difficoltà, diventa un’occasione di rinascita per un suo omonimo, un medico anestesista che, per fuggire dal dolore causato dalla morte del figlio, si unisce a Emergency. La storia della sua vita è la scoperta più grande dello spettacolo: tra viaggi nelle terre più remote e tragedie al limite dell’immaginazione, il medico impara la compassione verso gli altri attraverso la consapevolezza del vuoto che circonda l’esistenza umana.
La causalità dell’omonimia con il calciatore permette al medico Roberto Baggio di creare un personale racconto di sé stesso, dove la carriera del Divin Codino viene utilizzata per elargire consigli e spunti di riflessioni ai colleghi che ne hanno più bisogno, e per entrare in relazione con i pazienti che chiedono solo po’ di fiducia prima di affidare la propria vita a mani sconosciute.

Foto Monica Irma Ricci

In un’epica dove gli eroi sono condizionati da un’irreversibile solitudine, il racconto di Enia mostra un gioco di fantasmi, di luci e di ombre, dove la realtà sembra svanire e poi riapparire attraverso un susseguirsi di fili che si intrecciano. Il calciatore, Luca – l’infermiere che ha fatto conoscere la storia del medico anestetista a Davide Enia – e il medico, combattano le proprie battaglie per riuscire ad andare avanti, nonostante tutte le sofferenze che hanno subito, e per trovare un loro senso, per quanto non universale, per la vita che hanno scelto di intraprendere.
Si comprende al termine dello spettacolo che il nulla come fine di ogni cosa non è un mostro da sconfiggere, ma solamente una realtà con cui convivere. Le storie che Enia riporta sono degli esempi, alcune volte più chiari, altre meno, di uomini, di eroi che sono riusciti a fare proprio questo: andare avanti nonostante tutto.
Il monologo di Pietro Giannini, La traiettoria calante, è il testo scritto dal giovane attore genovese dopo il suo esordio con La costanza della mia vita. Nella sua ultima opera Giannini individua i responsabili e le cause del crollo del Ponte Morandi del 14 agosto 2018, narrando anche i suoi ricordi di quel giorno. L’attore, però, si rivolge agli spettatori più come cittadini che come individui, cercando di mostrando una società che nasconde i propri errori e che dimentica le sofferenze che ha causato.

Pietro Giannini. Foto Cosimo Trimboli

Prodotto dal Teatro Nazionale di Genova e presentato al Mattatoio all’interno di Romaeuropa Festival, lo spettacolo è una creazione in cui i fantasmi sono impronte da seguire, come in un’indagine di polizia. Infatti, la scrittura è accompagnata da documenti ufficiali e dichiarazioni che rendono la narrazione una vera accusa verso i responsabili del crollo del Ponte Morandi. Il legame indissolubile con la propria terra porta l’attore a utilizzare un linguaggio versatile tra il dialetto genovese e un italiano d’accademia; questo sottile equilibrio tra due anime di uno stesso corpo restituisce una recitazione veloce e poliedrica che non teme un cambiamento di tono quando la storia lo richiede.
Giannini è solo sul palco o, per essere più precisi, sul telo nero che copre il pavimento, la scenografia è essenziale, se non per un portadocumenti e un trituratore. Quando comincia a parlare, le figure che hanno lasciato quelle impronte divengono sempre più chiare. Luciano Benetton, Giovanni Castellucci, Silvio Berlusconi, sono alcuni dei nomi pronunciati in una corsa più che alla verità – che è già nota – all’assunzione di responsabilità nei confronti delle 43 vittime tra adulti e bambini che hanno perso la vita in quella mattina di agosto.

Foto Cosimo Trimboli

Il teatro di Giannini è un teatro anche di domande per i crimini commessi, alcune volte anche poste al pubblico, in cui le emozioni però non sono escluse dalla rappresentazione, nonostante solo il finale, con il ricordo della madre dell’attore che piange il figlio creduto morto, regali un momento d’intimità in una strada la cui traiettoria sembrava definita. Proprio per questo verso la fine dello spettacolo la luce cambia, l’attore viene illuminato con delle luci non più dall’ alto ma di taglio che pongono in ombra lo spazio scenico. La storia che è iniziata dal momento della costruzione del Ponte da parte di Riccardo Morandi trova il suo termine con la morte delle persone durante il crollo in quel 14 agosto del 2018.
Quando le impronte dei responsabili di questa storia diventano fantasmi? Quando la realtà viene ignorata, messa da parte, e la colpa dell’accaduto viene dimenticata. Come nella leggenda genovese che Giannini narra a inizio spettacolo, dove un servo muore e un padrone vive, fissando così un concetto di discrepanza di privilegi che verrà poi spiegato durante il lavoro.
Tuttavia, le parole di denuncia di un giovane attore possono mettere in evidenza quella morte, ricordando l’importanza della memoria come valore civile e non solo umano. Il teatro è politico, poiché è un luogo di incontro e di contrasto, dove l’individuo riscopre la sua appartenenza a una comunità.

ROBERTO BAGGIO
di e con Davide Enia
commissionato dalla Stiftung Fussball & Kultur EURO 2024 della UEFA e dal Ministero della Cultura della Germania per il festival “Stadion der Träume”

LA TRAIETTORIA CALANTE
di e con Pietro Giannini
prodotto dal Teatro Nazionale di Genova

Nuovo Teatro Ateneo e Romaeuropa Festival, Roma | 1,3 ottobre 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Al Periferico Festival la danza tellurica di Bianchi, il ludo allegorico di Chong e il neo-dizionario di Eléctrico 28

Voice Over -ph Giulia Abrassi

OLINDO RAMPIN | A Modena c’è un pezzo di città che ama, quasi più del duomo romanico di Lanfranco e Wiligelmo, un quartiere di periferia che si chiama Villaggio Artigiano. Lì sorge OvestLab, cattedrale laica retta da una comunità di donne che su quel sobborgo hanno scritto un bel libro a più mani, Guida del villaggio artigiano di Modena Ovest, e che da quasi vent’anni dirigono il festival Periferico, avendo stabilito in quell’ex laboratorio di falegnameria il loro quartier generale. All’esterno, illuminato da festoni di lampadine e animato da tavoloni e panche da sagra su cui si mangia vegano e si beve vino e birra, aleggia un antico e gradevole senso di spartana provvisorietà.

Il fatto è che dentro quel disadorno edificio accade qualcosa che non ha nulla di provvisorio. È una danza, o forse un’anti-danza, di rigorosa e preziosa fattura, eseguita da tre performer che parlano altrettanti linguaggi corporali, con una sintassi e un lessico aguzzi, potenti e polimorfi. Il titolo dello spettacolo, presentato in anteprima nazionale, è Voice over, l’autrice è Paola Bianchi, le tre danzatrici sono Barbara Carulli, Sara Cavalieri e Valentina Foschi, cui fanno da sensitiva cornice cinque “custodi”, espressioni del territorio.
In una attraente semioscurità l’ottetto abbozza due sacre conversazioni al ralenti: quasi un prologo misterico da cui le tre danzatrici si staccano per dare inizio a un’ininterrotta composizione di propulsioni, implosioni e cadute. Traducendo in atti indicazioni che ricevono per mezzo di auricolari, alimentano ben presto un teorema di danze sulle ginocchia, in cui il movimento è originato da eruzioni improvvise, in una implacabile contorsione e sollecitazione femoro-rotulea e malleolare. È un collaudo poetico e coreografico della mirabile ingegneria di cartilagini, legamenti, tendini, articolazioni e muscoli di cui è composta l’anatomia umana.

“Voice over”, da sinistra Valentina Foschi, Barbara Carulli e Sara Cavalieri – ph Barbara Bertolotti

Quasi non ci si avvede della mancanza di un vero e proprio supporto strutturato di luci, scenografie e corredo musicale. Due gelidi fari da cantiere e qualche luce bianca si uniscono a un tessuto sonoro fatto di rumori di realtà, vociare di folle, scampanii, radioline accese con cavatine tratte da opere liriche, qualche accenno pianistico, lievi effetti elettronici. È un impasto fonico-luministico che delega la totalità semantica del discorso alla trinità di corpi che, ormai ce ne avvediamo, vive un sempre più irrequieto e profondo dramma motorio, dove il corpo sperimenta estremisticamente la propria pieghevolezza, la propria interna inquietudine, e attraverso cui, leggiamo nelle note di regia, vuole provare a trasmettere, a ottant’anni dalla Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, quell’indicibile esperienza.
Ora dal gruppo si stacca Sara Cavalieri, gli occhi e i sopraccigli scuri e grandi, il volto di infantile espressività, la chioma da enfant sauvage che contiene a stento la coda di cavallo scarmigliata e lunghissima. Alta figura di airone, organizza un suo personale poemetto fatto di intarsi a mezzo busto, dove le ginocchia sono nuove ipotesi di piedi. Le braccia, il dorso e le lunghe gambe vivono una tensione ininterrotta di slogature, distorsioni e crolli: perenne motus corporis che, proprio perché senza parole, è un ancor più penetrante motus animi.

Ora anche Barbara Carulli e Valentina Foschi, una dopo l’altra, compongono assoli di eterodossa motilità, decaloghi di spasmi, distonie, discinesìe e torsioni innaturali. Diversa però è la loro sintassi motoria, perché diverso è il loro corpo, più compatto, i fasci muscolari più pronunciati, benché flessuosi: nei femori, nel dorso, nelle braccia. Ora la trama sonora sembra rimandare a rumori di guerra, a un pubblico vociante di un incontro di box con i segnali di fine e inizio round, a qualche verso stravolto di uccello, a un rumore come di puntina di giradischi che gira a vuoto. Sara Cavalieri, che aveva trovato una momentanea liberazione con una serie di piroette, è di nuovo a terra e guarda il pubblico negli occhi, mentre si contorce e assume forme impensabili.

“Voice over” – ph Barbara Bertoletti

Più in fondo anche Barbara Carulli si affranca temporaneamente e sfrangia il corpo in una serie di ampie volute, fatte di spinte e controspinte che dalle braccia si irradiano con un moto vibratile ed esatto all’addome e alle gambe. Ricongiungendosi circolarmente all’esordio, una semioscurità avvolge la conclusione dello spettacolo, in cui il terzetto aggiunge ulteriore accelerazione cinetica all’inesauribile moto dei corpi, che per la prima volta si abbandonano a una respirazione affannosa, per sedersi finalmente insieme, in un’immobilità dominata da un lungo, liberatorio, umanissimo ansimare.

Il mattino dopo partecipiamo a due performance, che si connettono con lo spazio urbano e implicano una significativa o lieve adesione degli spettatori. La prima, Where do we come from, what are we, what are we going 2.0, ideata dell’artista cinese Wang Chong e adattata nella versione italiana da Jacopo Panizza, è un gioco di ruolo per quattro spettatori che, indossate le cuffie, sono guidati dalle indicazioni di due personaggi, un padre e un figlio. È un itinerario in forma di copione teatrale da provare in diretta, un bestiario fantastico e metaforico dove quattro cittadini impersonano un maiale, una zanzara, una tartaruga ed Edward Snowden. Le loro avventure tra naufragi, confinamenti, fughe, accoppiamenti, gravidanze, amicizie si svolgono tra corridoi ed esigue stanzette disseminate di oggetti d’uso quotidiano e avvisi, cartelli segnaletici manoscritti o disegni proiettati sulla parete.

“Where do we come from” – ph Davide Piferi De Simoni

È un ludo allegorico comunitario che tocca con toni lievi ma netta schiettezza i temi scottanti della gestione repressiva dell’immigrazione e della società del controllo globale, che infrange la privacy e conculca il diritto a una libera informazione. Il finale è la scoperta di uno spazio urbano che, fossi modenese, diventerebbe un luogo del conforto: il gioco termina sotto la chioma di un grande, meraviglioso leccio, che dà il nome a un Cortile. Un antico essere vivente di rara bellezza che merita di sopravviverci, come del resto avverrà.

Se il Cortile del Leccio e le stanze in cui si è svolto il piccolo romanzo di formazione di Wang Chong garantisce un ambiente protetto ai cittadini coinvolti, Walking definitions di Eléctrico 28 si svolge, al contrario, in Piazza Mazzini, uno spazio pubblico fortemente frequentato dove si fronteggiano sui lati corti la Singagoga, di grandi dimensioni, e la Via Emilia nel tratto di congiunzione con Piazza Grande, mentre la successione di attività commerciali sui lati lunghi e una piccola area a verde prospiciente la Sinagoga promuovono una vivace presenza di residenti e turisti. Qui gli interpreti costruiscono un dizionario urbano, fruibile tout public, felicemente debitore della rodariana grammatica della fantasia. Un albero, un piccione, una soldatessa, l’erba, un bambino, il gelato, la pizza, un manichino, i passanti, diventano altrettante persone e oggetti che verranno ridefiniti con invenzioni fantasiose umoristiche, che ci spingono, però, a osservare con occhi più consapevoli lo spazio urbano, che di solito attraversiamo senza nemmeno guardare. Ci forniscono così uno strumento di riappropriazione pubblica della città, promotore di un nuovo senso di appartenenza e di un modo più immaginativo di guardare il mondo esterno.

“Walking definitions” – ph Davide Piferi De Simoni

VOICE OVER

ANTEPRIMA NAZIONALE
concept e coreografia Paola Bianchi
creazione e danza Barbara Carulli, Sara Cavalieri, Valentina Foschi
con il coinvolgimento di Francesca Antonino, Claudia Balboni, Silvia Berti, Giada Longo, Ilaria Lusetti, Arianna Macrì e Beatrice Vacca per Periferico, Modena
sound design Stefano Murgia
lighting design Paolo Pollo Rodighiero
collaborazione artistica Roberta Nicolai
costumi Cristiana Curreli
residenze artistiche ATCL Lazio, Teatro Akropolis, Teatro Galli Rimini
produzione PinDoc

WHERE DO WE COME FROM, WHAT ARE WE, WHERE ARE WE GOING 2.0

PRIMA NAZIONALE
testo originale Ma Chuyi
regia Wang Chong – regia versione italiana Jacopo Panizza
voci audio Marco Cavalcoli e Ahmed Lejri
allestimento scenografico per Modena Beatrice Pucci
registrazioni e disegno sonoro Meike Clarelli
produzione italiana Sardegna Teatro (Teatro di Sardegna Soc.coop Arl) e Periferico festival
Lo spettacolo è stato originariamente creato in cinese dal Théâtre du Rêve Expérimental.
Progetto patrocinato dal Dipartimento di Studi Umanistici – Università degli Studi di Torino.

WALKING DEFINITIONS

Walking Definitions è presentato a Periferico in collaborazione con Farout – Base Milano, con il sostegno di Acción Cultural Española (AC/E)

idea originale, drammaturgia e regia Eléctrico 28
testo Daniela Poch, Clàudia Mirambell, Alina Stockinger con il supporto di Eléctrico 28
interpreti Stefano Iagulli, Serena Ferraiuolo, Clàudia Mirambell, Alina Stockinger
musica Jakob Rüdisser e altri

Periferico Festival  (MO) | 4 e 5 ottobre 2024

MilanOltre 1# Oona Doherty e Maguy Marin, artiste rivoluzionarie e dissidenti della danza

CHIARA AMATO / PAC Lab* | Il Festival MilanOltre, giunto ormai alla 38° edizione, conferma avere uno sguardo attento alle evoluzioni e declinazioni della danza contemporanea, italiana ed estera. Il programma di quest’anno, dal 24 settembre al 17 ottobre, consta di più di cinquanta appuntamenti di danza: spettacoli, lezioni, masterclass, conferenze danzate, dj set e molto altro, tra il Teatro Elfo Puccini, il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea e altri luoghi della città.

Una delle performance di indubbia singolarità è stata quella dell’artista irlandese Oona Dohertyche, ormai dal 2010, si esibisce nel Teatro Danza a livello internazionale, e che ha presentato il suo Hope Hunt & The ascension into Lazarus, un breve assolo, precursore di Hard to Be Soft.
L’incipit dell’esibizione avviene in uno spazio esterno all’Elfo dove, sola in scena, l’artista esce dal cofano di una macchina, si fa spazio tra il pubblico, ammicca, crea connessione, fino al grido brutale Entrate!, mentre scappa via.
Lo spettacolo prosegue poi in sala, dove in un angolo c’è un carrello della spesa con sacchi della spazzatura e la danzatrice che si muove per la sala nel suo abbigliamento sportivo e con atteggiamenti aggressivi, urlando ‘sit down!’ mentre la folla si accomoda in platea.

Ph. Mona Blanchet

Quello che impersona è uno strato della società raramente toccato nella danza, il maschio della classe operaia, in particolare chavs, neds, smicks, spesso demonizzato. Si muove sulla scena tramutando la parola in movimento, cambiando lingue (dallo spagnolo, fino al francese e l’inglese), accompagnando i gesti ai versi e mutandoli in accordo fra loro. Spesso le parole finiscono per diventare un urlo da stadio, Chealsie!, ma non vi è un occhio giudicante nei gesti e nello sguardo della danzatrice, ma amore e compenetrazione per questa categoria sociale, se così la vogliamo etichettare. La sua è una denuncia sociale e una sperimentazioni oltre i limiti del corpo, che in dei momenti appare in movimenti soprannaturali, rapidi come se fossero velocizzati da un montaggio, che invece non c’è: in particolare, quando da ferma inizia a scuotere la testa in maniera così rapida, creando un effetto visivo deformante simile all’urlo di Munch o all’Innocenzo X di Francis Bacon.
Estremamente cangiante l’elemento musicale, di Maxime Jerry Fraisse, che alterna i ritmi di dj set alla musica classica ed ecclesiastica, qui forse il riferimento a Lazaro: il suo corpo, infatti, come un’onda dal basso verso l’alto risorge e ricade, seguendo un movimento ciclico e generando un effetto ipnotico sul pubblico.
Come giustamente affermava Lyndsey Winship sul “Guardian” nel 2019: «Nella posizione di Doherty, inclinata all’indietro, le sopracciglia aggrottate, gli occhi socchiusi, la bocca acida (…) tic taglienti e spavalderia c’è una fiducia minata dalla paura. L’occhio astuto di Doherty osserva varietà di maschi europei, prima di atterrare nella sua città natale di Belfast».
Il pubblico è totalmente rapito da qualcosa che non è immediato da afferrare concettualmente, perché la velocità delle immagini che si dispiegano non rende semplice la comprensione di quello che accade: ci infastidisce quasi, scuote e poi avvicina, lasciando una forte un’emozione di turbamento.

Il festival dà spazio a un’altra artista di fama mondiale, Maguy Marin, coreografa e ballerina francese, dedicandole sia un incontro all’Istitut Français, per la proiezione del documentario Maguy Marin: l’urgence d’agir, sia con la messa in scena il 4 ottobre all’Elfo Puccini di due sue coreografie, Duo D’Eden e Grosse Fugue.
Nel 2019 David Mambouch, figlio dell’artista francese e regista del documentario, sottolinea determinati aspetti e passaggi della carriera della madre: in particolare, il percorso di “trasmissione” che la compagnia mette in atto nelle produzioni artistiche.
La presentazione in sala viene fatta dalla giornalista Maria Luisa Buzzi che anticipa alcune delle tematiche affrontate dall’occhio del regista con molta cura: l’animo appassionato della coreografa, la trasmissione di un senso politico e sociale delle sue opere, la condivisione totale della vita in compagnia, che diventa una famiglia/comunità, le difficoltà che una donna forte ha affrontato, dagli anni ’80 a oggi, per poter scardinare alcuni stereotipi e stilemi della danza. È un’artista che ha scavato solchi profondi e cambiato totalmente la storia della danza.
Il suo è un percorso di lotta e di cura per ogni singolo aspetto che del contemporaneo la inorridisce e il documentario parte proprio da uno dei suoi lavori più importanti: May B (1981) che riprende, più di altri suoi spettacoli, lo sguardo beckettiano sul mondo. I suoi protagonisti sono scavati nell’argilla fino allo sgretolarsi dell’argilla stessa durante la performance. I corpi sono deformati da imbottiture, imbruttiti da occhiaie, nere come la pece, e denti distrutti dall’incuria. Questo perché Maguy Marin non ha voluto portare in scena i corpi che la danza dell’epoca precedente dettava come canonici, ma invece fare un’azione politica sul palco.
Questo aspetto accomuna Oona Doherty a Maguy Marin: entrambe, anche se in epoche e spaccati geografici diversi, non vogliono mostrare il “bello”, non voglio lasciare in uno stato di quiete ammirazione il pubblico, ma spingerlo a fare i conti con determinati aspetti della società in chiave politica: vogliono creare dissenso e ci riescono, perché restare indifferenti alle loro creazioni è praticamente impossibile, nel bene e nel male.

HOPE HUNT & THE ASCENSION INTO LAZARUS
coreografia di Oona Doherty
produzione e diffusione Gabrielle Veyssiere
performer Sati Veyrunes
DJ e car driver Maxime Jerry Fraisse
musiche originali di Maxime Jerry Fraisse
supervisione tecnica Lisa Marie Barry
produzione OD Works Oona Doherty
Sostenuto da Dance Resource Base, Art Coucil of Northern Ireland, The MAC Theatre – Belfast, Cathedral Quarter Arts Festi-val, Bristish Council, Prime Cuts Production
Selezionato per un European tour by Aerowaves in 2017
Premi: Best Performer Dublin Tigre Fringe – 2016; Aerowaves – 2016/17; Total Theatre Award Edinburgh Fringe – 2017; The Place Dance Award Edingburgh fringe – 2017; (Re) connaissance 1st Place Jury prize, 1st Audience prize – 2017
Con il supporto della Fondazione Nuovi Mecenati – Fondazione franco-italiana di sostegno alla creazione contemporanea

 

MAGUY MARIN: L’URGENCE D’AGIR
di David Mambouch
Francia, 2019, documentario, 108’

Teatro Elfo Puccini, Milano | 28 settembre 2024
Institut Français, Milano | 3 ottobre 2024

*PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Umbria Factory: da Zut! a Foligno per la vetrina multidisciplinare nel cuore d’Italia

RENZO FRANCABANDERA | È veramente bellissima l’Umbria, e quando si ammanta d’arte, genera veramente intersezioni altissime fra paesaggi reali e mentali. Rinfranca passare da Foligno a 8 anni dal terremoto che scosse il borgo in modo rovinoso nell’agosto del 2016 e trovare una città vivissima e con una vita sociale ricca di eventi e di partecipazione: tanti locali, un’intensa vita per le vie della città, una movida quasi da non crederci. A Foligno, direte? A Foligno, sì.
E che ci facevi tu a Foligno, chiederete?
Umbria Factory è un festival di arti performative contemporanee che si svolge tra Foligno e Spoleto, e rappresenta uno dei principali eventi nel panorama culturale regionale di fine estate dedicato alla sperimentazione artistica e alla multidisciplinarietà. Il festival propone una selezione di spettacoli, performance e installazioni, che spaziano tra teatro, danza, musica, videoarte, e arti visive, con particolare attenzione alle nuove tendenze della scena contemporanea italiana e internazionale. Ecco che ci facevo!

Nato come piattaforma per sostenere la creatività emergente, Umbria Factory è stato ideato da realtà culturali locali come ZUT! di Foligno, in collaborazione con La Mama Umbria International e altri partner nazionali e internazionali. Il festival promuove un dialogo tra diverse forme di espressione artistica e riflette su tematiche sociali, politiche ed esistenziali, con un approccio innovativo e multidisciplinare.

L’edizione del 2024, che si svolge nei mesi di settembre e ottobre, vede la partecipazione di artisti e collettivi affermati e emergenti, con un programma ricco di eventi che includono laboratori, incontri e performance dal vivo. Gli spettacoli si tengono in spazi storici e contemporanei delle città ospitanti, come il Teatro ZUT! di Foligno e altri luoghi simbolici del tessuto urbano di Spoleto e Foligno, trasformando il festival in una vera e propria esperienza culturale immersiva. Insomma, uno spazio di incontro tra artisti, pubblico e critici, con l’idea di favorire la circolazione di idee e pratiche innovative, e di creare un legame con la comunità locale e valorizzare il patrimonio culturale umbro.

Raccontiamo di alcune delle visioni del 5 e 6 settembre scorso, partendo da Con la lingua sulla lama, una ricerca di tostacarusa che prende spunto dal vasto patrimonio delle fiabe europee, esplorandole non solo come genere letterario, ma anche come modello performativo nell’intersecarsi, in particolare, con il tema della fine dell’adolescenza. La creazione in fieri è frutto di una rete di collaborazioni e sostegni significativi, tra cui spiccano E Production, Bluemotion e Spazio ZUT!, ma anche di altre realtà che hanno dato linfa a questo progetto articolato che si è sviluppato anche con una serie di laboratori che hanno visto protagonisti proprio gli adolescenti.

Nell’analisi delle due artiste che compongono la compagnia, le fiabe hanno sovente come protagoniste figure adolescenziali, e d’altronde la fiaba stessa è spessissimo una narrazione di un rito di passaggio, di una iniziazione. Di una discontinuità nel tempo della vita.
Quando e come muore l’adolescenza? È un suicidio?
Questo l’interrogativo attorno a cui ruota al momento la creazione, che è appunto uno studio. Tostacarusa si pone il compito di riportare alla luce il potenziale simbolico delle fiabe, che si intrecciano con il tempo, lo spazio e le dinamiche di potere insite nelle strutture sociali, e che ancora oggi offrono una chiave di lettura significativa per interpretare il nostro rapporto con la realtà.
In scena c’è Aura Ghezzi, mentre drammaturgia e regia sono di Tolja Djokovic. Le due artiste si conoscono da molti anni, proprio dall’adolescenza, ma solo anni dopo hanno deciso di collaborare e fondare questo progetto comune, che vede una netta separazione di ruoli.
Nella proposta ospitata all’Auditorium di Santa Caterina a Foligno, il lavoro è ancora a cuore aperto e davvero l’occasione viene utilizzata per testare la risposta di alcuni dispositivi sia registico-drammaturgici, che di fruizione su un pubblico “vero”.
L’azione incomincia all’ingresso degli spettatori in sala con la performer, vestita in modo eccentrico con una gonna di tulle blu klein e una parte superiore nera, che tiene fra le braccia una creatura in fasce, che noi non vediamo. Dopo averla posata sul pavimento, la donna lancia un urlo e si porta al centro del cerchio di sedie che accoglie il pubblico. Dopo un inizio drammatico, ancestrale, che culmina in un’altra azione fisica a terra della donna che si agita disperata, sdraiata sul pavimento, parte una sorta di seduta collettiva di confessione e dialogo. Ovviamente nessuno del pubblico parla.
Inizia un lungo monologo in cui la donna parla degli elementi perturbanti delle fiabe, che la suggestionano. Di lì in poi, la protagonista siede anche lei nel cerchio di sedie e si sviluppa un monologo dalla testualità ricca, abbondante, in cui affiora sia il tessuto argomentativo principale, che una serie di sottodirezioni e sdoppiamenti di carattere, che fanno affiorare voci e personaggi che analizzano la tematica del divenire adulti cercando, anche con piglio scientifico-clinico, di discutere intorno all’essere adulti, per poi tornare, a conclusione del monologo (durante il quale la donna cambia posto nel cerchio, cambia prospettiva, punto di vista), a compiere un’altra azione fisica, per coprirsi con una maschera di argilla il volto e i capelli, adornare di fiori il capo, e andare via, portando con sé il bambino deposto all’inizio, anche lui di argilla e con i fiori al capo.
Nell’evolvere dei prossimi studi volti a finalizzare la creazione, si può utilmente lavorare ad alcune cruciali disambiguazioni testuali e a individuare con nitore alcuni fuochi tematici capaci di diventare punti di accumulazione, per favorire un’efficace resa chiaroscurale del testo e facilitare, quindi, le scelte sulle azioni fisiche che la performer dovrà porre in essere per restituirlo al pubblico, sia che si voglia mantenere questa struttura fruitiva circolare, con un numero limitato di spettatori, sia che si prediliga un approccio scenico frontale.

Nello stesso complesso della ex chiesa, ma in spazi differenti, assistiamo poco dopo a Rifugio / studio 01, una performance ideata da Michele Bandini e Maël Veisse, che si inserisce in una dimensione artistica che oscilla tra architettura e performance teatrale. Bandini è autore, attore e regista con una formazione in filosofia, cofondatore della compagnia Zoe e con all’attivo collaborazioni con Marco Martinelli, Gigi Dall’Aglio e Marco Paolini. Ha portato avanti progetti che spaziano dal teatro alle installazioni sonore, e su questo terreno performativo incontra Maël Veisse, nato a Metz, Francia, architetto e artigiano che si dedica alla creazione di forme e spazi che esplorano il concetto di abitare, dal design del mobile all’architettura abitativa.

La sua esperienza spazia dalla progettazione privata ai progetti pubblici, e ha collaborato con vari festival e compagnie teatrali, esplorando la fusione tra architettura e arte performativa. Prodotto da ZUT!, Rifugio è un progetto abitativo-performativo che riflette proprio sulla connessione tra l’intimità domestica e l’azione scenica, creando uno spazio che è al contempo abitabile e performativo. La scenografia è parte integrante della performance stessa: una struttura in legno che funge da spazio di abitazione, ma anche da spazio scenico realizzata da Veisse.
Il pubblico, un numero limitato di ospiti, entra nella navata unica della chiesa, e viene invitato a sedere su alcuni tronchetti di legno, e a indossare delle semplici, ma bellissime ciabatte di pelle artigianali. Di fronte a loro una casetta di legno chiaro e naturale, che ricorda uno spazio giapponese, una stanzetta semplice, sospesa da terra. In realtà, poggia su pochi elementi che la distanziano da terra, e all’interno della quale i due performer sono accovacciati, intenti l’uno (Veisse) a ritagliare fogli di carta, l’altro (Bandini) a portare a temperatura un ampio bollitore per il tè.
Si viene invitati ad accedere allo spazio, ad entrare nella casa, ad accovacciarsi intorno al tavolino di questa elegante costruzione architettonica, chiusa sui lati da piccole vetrate. In questo ambiente intimo e accogliente, gli spettatori scelgono da un bussolotto di legno alcuni ritagli, che riportano pezzi di frasi, e li leggono, ricomponendoli. Pian piano durante la lettura suoni profondi fanno vibrare la casa dalle fondamenta, e poi l’azione evolve, con la casa che apre le sue finestre per spalancarsi sul mondo.
Non riveliamo tutto di questa azione performativa che invita il pubblico a riflettere sulla dicotomia tra apertura e chiusura, sul concetto di rifugio come luogo di protezione, ma anche di esposizione. La casa come luogo simbolico e memoria delle identità e dei lasciti intergenerazionali diventa l’occasione per il duo performativo di proporre un’esplorazione dei limiti fisici e simbolici degli spazi che abitiamo, offrendo al pubblico l’opportunità di interrogarsi su come questi condizionino la nostra esperienza e le nostre relazioni. In un’epoca in cui la separazione tra pubblico e privato è sempre più labile, questo spettacolo si pone come un’esplorazione critica del nostro modo di percepire e abitare non solo il nostro spazio privato, ma anche quello che ci si spalanca davanti agli occhi se apriamo le finestre, il mondo.
La performance, seppur presentata come studio, è di fatto compiuta, assai ben  pensata: il rifugio è magicamente costruito, una costruzione capace di muoversi, di cambiare, di vivere (e morire) e, al netto di eventuali piccoli aggiustamenti, la creazione ha una particolarissima ricchezza simbolica che la rende adatta ad essere proposta con successo in festival e stagioni. Un’esperienza preziosa.

Una parentesi meno performativa e più tradizionale, ma riuscita, è La malattia dell’ostrica di Claudio Morici, riflessione personale e ironica sul ruolo degli scrittori nella vita di un padre, che tenta di educare suo figlio lontano dalle insidie della scrittura e dai turbamenti della sensibilità di chi voca la vita all’arte.
Morici è una figura peculiare nel panorama teatrale: laureato in psicologia, è scrittore, attore, videomaker e autore satirico. Ha pubblicato cinque romanzi e i suoi scritti sono apparsi su testate come “Internazionale”, “Il Venerdì” e “MinimaetMoralia”. Come attore si è affermato con diversi monologhi dal tratto ironico, in cui l’ironia sull’individuo, diventa in qualche modo satira sociale, affresco sulle difficoltà e i disagi nel nostro tempo, navigando fra manie e ossessioni.
Il titolo richiama la metafora della perla, simbolo di bellezza creativa che, però, nasce dal dolore dell’ostrica: una malattia che produce una preziosa creazione, ma che affonda le sue radici nel disagio. Lo spettacolo si muove tra comicità e dramma, esplorando le biografie di grandi scrittori che hanno vissuto momenti di estrema difficoltà personale, come Cesare Pavese, Emilio Salgari e Giovanni Pascoli, tutti accomunati da tragici destini.

Il padre, Morici, non appena il figlio a sei anni gli rivela la passione per la scrittura, trasale e fa di tutto per dissuaderlo. I tentativi comici per mettergli in mano la playstation, invece che un libro, si alternano a drammatiche statistiche e vicende biografiche dei grandi nomi della letteratura contemporanea. Ovviamente, il tono è scherzoso e l’autobiografismo non sconfina mai nell’inutile voyeurismo. Intanto il figlio cresce e Morici cerca di esorcizzare il terrore di vederlo seguire le orme degli autori che ammira, riflettendo sulla fragilità mentale che spesso accompagna la creatività.
Lo spettacolo, con il suo procedere, trova un equilibrio particolarmente alto tra la vena ironica e la riflessione filosofica, permettendo al pubblico di guardare con nuovi occhi il rapporto tra sofferenza e creazione artistica, oltre che fra genitori disperati e figli adolescenti.
Il lavoro diverte, ma accompagna anche dentro meccanismi di pensiero complessi, e che riguardano un po’ tutti. Forse la creazione più interessante e meglio scritta (e portata in scena) fra quelle di Morici finora. Un lavoro di maturità scenica e drammaturgica che, pur restando nella leggerezza della sua peculiare forma di narrazione, sa arrivare a un pubblico ampio e diverso.

D’impatto sia visivo che sonoro è Grey line, spettacolo multimediale audio visuale immersivo del collettivo artistico SPIME.IM, noto per esplorare temi contemporanei come il cambiamento climatico, l’effetto dell’uomo sul pianeta e le questioni di attualità attraverso l’arte digitale e la tecnologia. L’evento richiama un ampio pubblico nel bellissimo Auditorium di San Domenico, un’altra chiesa cittadina ripensata come spazio per le arti e non solo.
Lo spettacolo, che si distingue per l’uso avanzato di tecnologie audio-visive come la programmazione in tempo reale, la manipolazione delle immagini e del suono, e tecniche come il databending, il datamoshing e l’intelligenza artificiale, è un viaggio dentro una raffica di stimoli, alcuni anche crudi ed espliciti.

Il collettivo SPIME.IM si concentra su progetti transmediali, esplorando i limiti dell’identità umana e della corporeità in un contesto profondamente influenzato dalla realtà digitale. Utilizzando immagini generate dall’intelligenza artificiale, meme e filmati di attualità, SPIME.IM combina estetiche tradizionali e digitali per creare narrazioni che pongono domande sul caos del mondo contemporaneo. Le loro opere sono state presentate in prestigiosi festival internazionali di arte digitale come Mutek (Canada, Giappone, Spagna), Ars Electronica, Club to Club, Lunchmeat e tanti altri.
Arte visiva e sonora interagiscono e si trasformano in tempo reale, grazie a tecniche di elaborazione digitale come l’analisi della visione artificiale, la grafica 3D e il montaggio automatizzato, per creare un’esperienza performativa sofisticata, visivamente affascinante, ma anche concettualmente densa, portando il pubblico a riflettere sulla crisi ambientale e il ruolo dell’uomo nel modellare (e distruggere) il mondo in cui viviamo.

Concludiamo questo racconto con Città sola Variazione #5, progetto performativo modulare curato dal collettivo lacasadargilla, tratto dall’opera Città sola di Olivia Laing, che esplora le sensazioni di solitudine che si sperimentano vivendo nelle grandi città contemporanee. lacasadargilla è un ensemble multidisciplinare che si distingue per la creazione di spettacoli teatrali, installazioni, progetti radiofonici e curatele. Fondato da Lisa Ferlazzo Natoli, regista e autrice, Alessandro Ferroni, regista e sound designer, Alice Palazzi, attrice e coordinatrice di progetti, e Maddalena Parise, ricercatrice e artista visiva, il collettivo lavora su scritture contemporanee e adattamenti letterari, cercando di riflettere sui temi del tempo e delle mitologie che legano il passato e il futuro. Questa audio performance fa parte del progetto che ha portato anche alla creazione dello spettacolo Il ministero della solitudine, che ampio successo e riconoscimenti ha riscosso nelle passate stagioni teatrali.
Città sola è stato presentato nell’ambito dell’Umbria Factory Festival 2024 a Foligno in una forma che combina l’ascolto del testo con il paesaggio sonoro urbano, generando un dialogo intimo tra l’esperienza di chi fruisce l’opera e l’ambiente circostante. Facilitata dall’introduzione in situ di Silvio Impegnoso ai partecipanti, l’audioperformance con i testi della Laing (riduzione e drammaturgia del testo Fabrizio Sinisi) si ascolta tramite smartphone.

“Immaginate di stare alla finestra, di notte, al sesto o al settimo o al quarantatreesimo piano di un edificio. La città si rivela come un insieme di celle, centinaia di migliaia di finestre”. I fruitori, tramite il dispositivo mobile e gli auricolari, si immergono nella narrazione, una lettura di cinque capitoli selezionati dell’opera originale di Laing, la cui scrittura diventa strumento di connessione emotiva con il contesto urbano, trasformando lo spettatore in parte integrante della performance stessa, mentre si muove attraverso il borgo umbro, che certo non è nel percorso individuato, una sequenza di algidi casermoni o grattacieli spersonalizzati.
Ma la parola della scrittrice e il panorama cittadino favoriscono, comunque, una riflessione sulla solitudine vissuta in spazi urbani e sull’arte come strumento di resistenza e testimonianza.

CON LA LINGUA SULLA LAMA / primo studio

Ideazione tostacarusa
con Aura Ghezzi
drammaturgia e regia Tolja Djokovic
consulenza costume Sandra Cardini
consulenza sullo spazio Francesco Cocco
produzione E Production, Bluemotion, Spazio ZUT!
con il sostegno di Angelo Mai, C.U.R.A. Centro Umbro di Residenze Artistiche/La Mama Umbria International, ZUT!, Fondazione Armunia, Z.I.A. Zona Indipendente Artistica, Associazione Metandro

RIFUGIO

drammaturgia/abitazione/performance/regia/costruzioni Michele Bandini e Maël Veisse
produzione ZUT!

LA MALATTIA DELL’OSTRICA

di e con Claudio Morici
produzione Teatro Metastasio di Prato

SPIME.IM _ Grey Line A/V show

CITTÀ SOLA var #5

concept lacasadargilla
con la collaborazione di Silvio Impegnoso
riduzione e drammaturgia del testo Fabrizio Sinisi
paesaggi sonori e regia podcast Alessandro Ferroni
voci narranti Lisa Ferlazzo Natoli, Tania Garribba, Emiliano Masala
coordinamento artistico Benedetta Boggio
con la collaborazione di Silvio Impegnoso
Città sola #variazione5 è produzione Bluemotion, Angelo Mai e lacasadargilla
in collaborazione con Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa

Umbria Factory, Foligno | 5 e 6 ottobre 2024

Pinocchio, che cos’è una persona? di Davide Iodice: tra diritto alla felicità e domande sul futuro

FEDERICA D’AURIA / PAC Lab* | “Una persona è un problema irrisolvibile”, risponde così il maestro in Pinocchio, che cos’è una persona? alla domanda che è anche il titolo dell’ultimo lavoro del regista, drammaturgo e pedagogo Davide Iodice, andato in scena dal 27 al 29 settembre al Teatro San Ferdinando di Napoli.
Audace e commovente, l’opera di Iodice riesce nel suo intento: far nascere domande. Se volessimo affidare il racconto ai colori piuttosto che alle parole, l’apertura dello spazio sarebbe senza dubbio affidata al nero, a un nero che si fa attesa lunga, accompagnato da un suono (Luigi Di Martino) presente, fastidioso e intermittente come un pizzico. Il suono e il nero prendono forma; il buio lascia il posto a piccoli frammenti colorati, figure che compongono un arcobaleno. Pinocchio e la Fata Turchina entrano in scena, si dispongono nello spazio mentre un altro Pinocchio insieme a un’altra Fata ripetono il gesto; poi ancora e ancora. Tutti questi Pinocchio sono gli allievi e le allieve della Scuola Elementare del Teatro che raccontano la loro disabilità grazie ai personaggi di una delle fiabe più amate al mondo.
Pinocchio di Collodi è un pezzo di legno che grazie al papà falegname Geppetto diventa bambino, un bambino fuori dall’ordinario. Pinocchio di Davide Iodice è il racconto della genitorialità in rapporto alla straordinarietà dei propri figli.
La Fata Turchina, Ciuchino, i Conigli Neri, il Grillo Parlante messo in croce, conquistano la scena due alla volta, poi a piccoli gruppi e con un gesto – quello di mettere il naso a ciascun Pinocchio – prende vita la dialettica, lunga sessanta minuti, sulla genitorialità e sul diritto ad avere momenti di felicità.

Ph Renato Esposito

Pinocchio, che cos’è una persona? però non è solo un racconto sulla genitorialità, in questo caso sul rapporto figlio – genitore di un ragazzo straordinario, come lo stesso Iodice sottolinea, ma il lavoro pone domande la cui risposta spetterebbe alla società.
La sensibilità che muove Iodice nella direzione della fragilità nasce sin dall’inizio del proprio percorso di formazione in seguito al quale sceglie di occuparsi di progetti di inclusione sociale, portando il suo metodo teatrale in diversi luoghi del disagio: dall’Ospedale Psichiatrico S. Maria della Pietà di Roma all’OPG di Secondigliano. La sua è un’opera non solo di inclusione e di assistenza ma anche di supporto a un futuro pieno di domande e povero di risposte.

La scena della classe fissa in modo appropriato l’accento sulla questione: tutti i Pinocchio pongono domande al maestro, domande semplici che, come solo le domande semplici sanno fare, richiedono risposte complesse. Si assiste quasi a un’inversione dei ruoli (e in questo le luci di Davide Iodice e Simone Picardi riflettono benissimo l’intento inquisitorio facendosi accecanti sulla croce alle spalle del maestro): a cercare le risposte sono gli alunni, al maestro spetta il compito difficilissimo di rispondere, appellandosi alla “croce del sapere” alle sue spalle. E così si passa da “che cos’è la vita?”, “e la normalità?”, “e il male?”, a “che cos’è una persona?”.

Ph Renato Esposito

Le scene corali vanno pian piano ad alternarsi fino a dissolversi, e dal buio iniziale alla luce accecante si arriva al momento più alto, più doloroso, più denso. La domanda, l’unica domanda che insiste e si fa strada nella testa del pubblico e di chi vive questa condizione, si fa carne nel personaggio di Ciuchino accanto al sudario della Fata Turchina.
Una musica disturbante che stona, stride, infastidisce, si mescola alla sofferenza di Ciuchino che corre, corre, corre in un girotondo disperato intorno al letto su cui giace sua madre. “E dopo?”, questa è la domanda. “Cosa succede dopo?”. Quasi a volersi chiedere a chi verrà affidata la cura della sua esistenza dopo la morte della madre, Ciuchino urla la domanda di tutte le domande e si sostituisce al coro che si fa voce unica e collettiva.

Quella a cui si assiste è la narrazione della passione di Cristo al contrario, il racconto del dolore che in natura sembra essere la normale accettazione della vita e della morte, un figlio che perde sua madre. La disperazione di Ciuchino è così lancinante da essere in grado di restituire tre suoni perfettamente distinti e diametralmente opposti: la musica alta e stridula come l’attrito di un meccanismo che insiste e si fa guasto, il raglio di Ciuchino che non somiglia nient’altro che alla morte e il silenzio assordante del pubblico che trattiene il respiro.

Ph Renato Esposito

Le ragazze e i ragazzi della compagnia della Scuola Elementare del Teatro, guidati da Davide Iodice, hanno fatto sì che una fiaba diventasse molto più che un inno alla straordinarietà. Il cuore della restituzione pulsa nella direzione delle risposte dei papà, delle mamme, sorelle, cugini, amici di tutte e tutti i “Pinocchio” che vivono la scena: “Ti pettino i capelli”; “Andiamo a fare una passeggiata”; “Non pensiamo a dopo, è così bello adesso”.

Le frasi semplici che arrivano come colpi di frusta, certezze di un presente che va vissuto in pieno e di un futuro, fuori dall’ordinario, che si fa nebulosa. Pinocchio, che cos’è una persona? ha accolto un pubblico foltissimo e commosso nella Sala di Piazza Eduardo De Filippo che ha visto, nella serata conclusiva del 29 settembre, la presenza di Willem Dafoe, nuovo direttore di Biennale Teatro.

Non si ha la certezza di “cosa succede dopo” aver visto Pinocchio, Che cos’è una persona?, ma lo spettacolo lascia senza dubbio spalancata una porta, quella del diritto alla felicità, fatta di tante piccole istantanee, registrate fuori da quel campo che molti definiscono “ordinario”.

 

PINOCCHIO che cos’è una persona?

ideazione, drammaturgia, regia, scene e luci di Davide Iodice
con Giorgio Albero, Gaetano Balzano, Danilo Blaquier, Federico Caccese, Stefano Cocifoglia, Giuseppe De Cesare, Simona De Cesare, Patrizia De Rosa, Gianluca De Stefano, Paola Delli Paoli, Chiara Alina Di Sarno, Aliù Fofana, Cynthia Fiumanò, Vincenzo Iaquinangelo, Marino Mazzei, Serena Mazzei, Giuseppina Oliva, Ariele Pone, Tommaso Renzuto Iodice, Giovanna Silvestri, Jurij Tognaccini, Renato Tognaccini
compagnia Scuola elementare del teatro APS
partner Teatro Trianon Viviani, Forgat ODV
training e studi sul movimento Chiara Alborino e Lia Gusein-Zadé
equipe pedagogica e collaborazione al processo creativo Monica Palomby, Eleonora Ricciardi
tutor Danilo Blaquier, Veronica D’Elia, Mara Merullo
cura del processo laboratoriale Scuola Elementare del Teatro Aps
versi Giovanna Silvestri
realizzazione scene Ivan Gordiano Borrelli
cura dei costumi Daniela Salernitano con Federica Ferreri
tecnico audio Luigi Di Martino
tecnico luci Simone Picardi
direttrice di produzione Hilenia De Falco
foto Renato Esposito
si ringraziano Gabriele D’Elia, Tonia Persico, Ilaria Scarano

produzione Interno 5, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale

 

Teatro San Ferdinando, Napoli | Venerdì 27 settembre 2024

 

 

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Teatro di prossimità: un confronto con Celestini, Scommegna, Iannacone

Celestini, Scommegna, Iannacone

EDGARDO BELLINI | Quando penso ai fenomeni teatrali del nostro tempo ho quasi sempre la tentazione di ripartirli in due grandi categorie funzionali: quella di un teatro ricreativo, pulito, generalmente “grande” e spesso imprenditoriale; e quella di un teatro imprevedibile, sporco, di solito “piccolo” ed economicamente poco vantaggioso. Naturalmente mi rendo conto che una simile classificazione è troppo rigida e astratta, e che buona parte del teatro reale può legittimamente oscillare fra le due possibilità.
Eppure il modellino non è del tutto campato in aria, se tornando da certe esperienze teatrali resta la sensazione di aver assistito a un paio d’ore di televisione dal vivo, mentre in altre occasioni la presenza in carne dell’attore suscita l’inatteso, o la parola squilibrata fa combaciare il piacere e il disagio. In quest’ultimo senso l’esperienza teatrale chiede allo spettatore una presenza attiva e reattiva; e solo in questo caso il teatro resta un fenomeno a sé stante, che resiste alla dimensione individuale e passiva della televisione, delle serie sui canali a pagamento, del cinema.
Il teatro di prossimità è quello in cui, almeno simbolicamente, attore e spettatore respirano la stessa aria; e il fenomeno teatrale si fa esperienza collettiva, rituale, incarnata nell’attimo.

Il Festival dei Tacchi, in una Sardegna lontana dal turismo di massa, si fonda senza dubbio su un teatro di prossimità, in cui la relazione e l’incontro contano almeno quanto i lavori che vanno in scena. Ho allora chiesto a tre dei protagonisti dell’edizione 2024 – Ascanio Celestini, Arianna Scommegna, Domenico Iannacone – di ragionare assieme sul ruolo attuale del teatro, e su quest’esperienza appartata e forte che si svolge all’ombra delle dolomiti sarde.

Ascanio Celestini

Com’è stata la tua esperienza al Festival dei Tacchi?

AC: Non mi ricordo la prima volta che sono stato chiamato al Festival e nemmeno quella che ho incontrato la compagnia Cada Die. Almeno una quindicina di anni fa sono stato alla Vetreria, il loro spazio a Cagliari, con La pecora nera, ma ci conoscevamo sicuramente da prima. Dopo tanto tempo non mi sembra più di venire per presentare uno spettacolo, ma per aggiungere un capitolo a un racconto che fa parte di una storia più articolata. E forse un po’ tutto il mio teatro è così. Solo che in posti come questi si vede più chiaramente.

Ci sono teatri e festival che chiamano gli artisti perché sono interessati alla loro scrittura. Non conta che portino l’ultimo spettacolo, il più conosciuto o quello che si incastra con qualche anniversario. Dovrebbe sempre succedere. Lo spettatore partecipa a una qualità della scrittura (e qualità umana) che prescinde dallo spettacolo. E quest’anno ho partecipato con un testo scritto un quarto di secolo fa che, però, è comunque un pezzo di una scrittura che attraversa tutto il mio lavoro. Gli spettatori di questo festival sono abituati. Non cercano l’etichetta della novità come l’ultimo modello di iPhone.

AS: Mi sono sentita ‘a casa’, sono stata accolta con una cura che mi ha commossa. La passione, l’attenzione e il talento che Cada Die Teatro mette in ogni aspetto di questa manifestazione sono unici; con la semplicità di chi ama quello che fa, che lo fa con estrema vitalità, che accoglie a braccia aperte pubblico e artisti, svolgendo una funzione preziosissima per il teatro e il territorio.

DI: Una rivelazione. Mi ha dimostrato quanto il teatro possa prosperare al di fuori dei circuiti convenzionali e come la magia del palcoscenico possa essere amplificata dalla semplicità e dalla bellezza di un contesto inaspettato, vero, primitivo.  Questo festival rappresenta una forma di resistenza culturale, un atto di ribellione contro la standardizzazione del teatro. Aver partecipato è stato come riscoprire il senso profondo del narrare.

Arianna Scommegna

Un festival che porta il teatro in un luogo lontano dal turismo di massa e dalle folle urbane. Che idea ti sei fatto di quest’iniziativa?

AC: Penso che tutto il teatro in Italia dovrebbe funzionare così. E un po’ succede. In Italia c’è una risorsa che è strutturale. Ci sono i teatri fatti di legno e mattoni, quinte e fondali, palchi e graticce, platee e gallerie. E poi tanti altri posti con situazioni alternative alla sala classica. L’Italia è lunga e stretta. La geografia complica gli spostamenti. Gli spettatori non ce la fanno a spostarsi facilmente da Caserta a Ferrara, figuriamoci da Piangipane a Jerzu. Allora ogni piccolo territorio si è dotato di uno spazio e sono i teatranti che girano. Così è nato il teatro moderno cinque secoli fa e da allora sono cambiati un po’ i tempi di spostamento, ma la differenza è minima. La tecnologia che ha rivoluzionato gli spostamenti è la ruota. Ma dal carro trainato dal somaro alla Ferrari il cambiamento è solo un dettaglio. Abbiamo comunque bisogno di spostarci. Così i teatri diventano luoghi per il territorio. Contenitori che devono essere aperti, abitati in fretta. Dove gli artisti arrivano e ripartono. Comunicano col territorio attraverso gli spettatori che lo abitano. Comunicano col mondo grazie agli artisti che lo attraversano.

AS: Il teatro è rimasto ormai forse uno dei pochi luoghi pubblici dove un gruppo più o meno numeroso di persone, insieme, spegne finalmente il cellulare e si abbandona all’immaginazione. Il Festival dei Tacchi ha compreso benissimo questa unicità, ben prima che questo fenomeno di dipendenza telematica diventasse così prepotente nelle nostre vite. Cada Die ha costruito negli anni un pubblico che desidera immergersi in un’esperienza teatrale dove l’incontro umano è al centro del suo interesse; un pubblico che sente necessaria questa esperienza, che si fida con curiosità delle proposte artistiche di Giancarlo Biffi e di tutto lo staff della compagnia. Cada Die ha avuto la lungimiranza di proporsi da anni come alternativa culturale al turismo di massa occupandosi di crescere il pubblico fin dalla giovane età attraverso laboratori teatrali di altissima qualità. Credo sia proprio questo il tratto vincente. Avere riconosciuto l’unicità del teatro e averle dato spazio facendolo durare nel tempo con pazienza e tenacia. Il contatto umano è il vero ingrediente che da sapore ad ogni momento della manifestazione, prima, durante e dopo lo spettacolo, è la linfa che attrae spettatori e artisti al Festival dei Tacchi. Tutto questo non è per nulla scontato nè tantomeno così diffuso nei teatri; l’armonia che circonda le serate tra Jerzu e Ulassai è frutto di un lavoro costante che attraversa tutti gli aspetti della manifestazione, dalla direzione tecnica alla biglietteria, dall’allestimento dei camerini in luoghi non teatrali al ristoro per gli spettatori. Bisogna imparare da un festival come i Tacchi, credo sia proprio la strategia vincente per la vita futura dei teatri.

DI: È un atto di coraggio, di ribellione! Un’ode a tutti quelli che non vogliono solo essere spettatori, ma partecipanti di un’esperienza che scava, che tocca, che scuote. Portare il teatro lontano dalle masse urbane è una immersione profonda : all’improvviso il palco non è più un luogo, ma una promessa. È la celebrazione di un teatro che non ha bisogno di lusso né di applausi facili, ma si nutre del silenzio, del battito del  cuore che pulsa e ascolta.

Domenico Iannacone

Nell’epoca del cinema, della tv e dei social network che ruolo ha il teatro? Può incidere ancora sulla società?

AC: Il teatro incide sulla società se i teatranti hanno volontà e coraggio di incidere. Soprattutto se riescono a non confondere la realtà con il loro ambiente. Il teatro in particolare rischia di diventare un ecosistema autosufficiente, tipo quel giardino in bottiglia che vendono nei vivai. Quando lo compri ci stanno le istruzioni e c’è scritto che il kit “include tutti gli strumenti, istruzioni e i materiali necessari per creare un terrario”. Devi solo scegliere la pianta, poi il commesso ti mette nella scatola “muschio e altri elementi decorativi” cosicché “l’utente possa creare un design unico e personalizzato”. Se porti la bottiglia in una stanza di Roma, Parigi o New York funziona alla stessa maniera. Ma non comunica col prezzemolo sul balcone del vicino. Prova a scorrere l’home page di un quotidiano alla ricerca del teatro.

Oggi c’è Taylor Swift che si fotografa col gatto per l’endorsement a Kamala Harris. Poi c’è l’economia, le guerre, pettegolezzi sul ministro della cultura, l’alzheimer e un po’ di omicidi vari. In fondo c’è il posto per gli sport con tutto il suo spazio, soprattutto per il calcio. Si parla persino di cinema e letteratura. Un paio di quadrotti sono dedicati agli animali. Gunther è il gatto di Abigail. Capisce quando la sua padroncina si toglie l’apparecchio acustico. Allora smette di miagolare perché è consapevole che deve attirare l’attenzione in un’altra maniera. Se cerco la parola “teatro” semplicemente non c’è. I gatti battono il teatro due a zero.

AS: Incidere nella società oggi significa inevitabilmente confrontarsi con economie e sistemi comunicativi per i quali il teatro non può, per sua natura, essere competitivo. Non si può paragonare il riscontro mediatico ed economico che potrebbe avere un video pubblicato in rete rispetto al numero limitato di partecipanti per uno spettacolo teatrale, sarebbe un paragone impari così come l’esperienza dell’incontro dal vivo non è paragonabile a qualsiasi video o immagine bidimensionale. Il teatro è sicuramente più povero ma quando riesce a proteggere la sua unicità del qui e ora contemporaneamente può diventare molto potente. A differenza di qualsiasi altro mezzo più o meno artificialmente intelligente o stupefacente, la povertà del teatro, che esplora fragilità, imperfezioni e contraddizioni dell’umanità mettendole a nudo in un rito collettivo, diventa un’esperienza stra-ordinaria. Non sono i numeri che rendono il teatro incisivo per la società ma la qualità di questo incontro umano e nessun video potrà mai sostituirla, proprio perché è dal “vivo”. Il teatro può incidere profondamente nel cuore dello spettatore, ricordare al singolo individuo una condizione spesso annebbiata dai “troppi fumi di irrealtà” di altri sistemi comunicativi. Sono convinta che questa funzione sia assolutamente necessaria per la società, in particolare quella di oggi cosi schiacciata dalla comunicazione telematica, aldilà di qualsiasi numero.

DI: Il teatro è vivo, è carne, è sudore. In un mondo dove tutto è filtrato, montato, manipolato, il teatro rimane l’ultimo baluardo di onestà intellettuale, l’incontro nudo tra chi crea e chi guarda. È un atto di presenza in un’epoca di assenza. Può ancora incidere? Sì, perché non offre risposte, ma domande; non mostra, ma svela. È il luogo dove possiamo ancora ritrovarci veri, disarmati, senza la maschera del quotidiano.

Ascanio Celestini

Un personaggio, una compagnia, un lavoro teatrale che ti ha impressionato negli ultimi dieci anni.

AC: Io non penso che sia indispensabile trovare qualcosa di speciale tra le cose che ci succedono attorno. Non è triste constatare che per anni può non succedere niente di nuovo. Che ci accostiamo a una qualità dell’uso cosciente di un linguaggio e ci lavoriamo artigianalmente senza rivoluzionarlo.
Marco Paolini col suo racconto del Vajont ha portato in teatro (e in televisione è riuscito a trasferirlo benissimo) una scrittura che era contemporaneamente fruibile da molti, ma anche innovativa: la scomparsa della catena di montaggio ottocentesca fatta di scrittore-drammaturgo-regista-musicista-coreografo-scenografo-costumista-luciàro-ecc… C’era solo lui, ma c’era già tutto. Questo teatro senza fronzoli ha una ricerca profonda che passa da Eduardo e Fo, ma che io ho visto anche in Leo de Berardinis del Ritorno di Scaramouche. E che in Giuliana Musso è chiaramente visibile. Niente fronzoli, niente catena di montaggio, capacità di scrittura e recitazione che sono nella stessa voce, nello stesso gesto.
Giovanna Marini con una storia politica più militante e una ricerca più dichiarata passa attraverso la stessa qualità e volontà. Apparentemente sono lingue diverse, ma io credo che si tratti di dialetti di una stessa lingua. Per rinnovare una scrittura non serve sporcarsi la faccia di bianco, parlare strano e tirare vernice contro lo spettatore. Sono fronzoli che, dopo le avanguardie del ’900, somigliano a chincaglieria vintage. L’arte è un fenomeno umano che fa parte della storia e si mostra nella storia. Per il teatro dovrebbe essere tutto più facile perché se ne va in giro per luoghi concreti: i teatri. E incontra persone vere: gli spettatori.

Arianna Scommegna

AS: Il Teatro Sociale di Gualtieri è una realtà che mi affascina e mi incuriosisce molto, dalla ristrutturazione architettonica del Teatro al gruppo di persone che lo gestiscono, a come lo gestiscono, agli artisti che ospitano, la qualità degli spettacoli in stagione (con un’attenzione particolare alla nuova drammaturgia) il coinvolgimento del pubblico e il prezioso lavoro che fanno sul territorio.

DI: Come non pensare a La gioia di Pippo Delbono, di qualche anno fa. Uno spettacolo che non è solo teatro, ma un’esplosione di vita, un abbraccio al caos e alla meraviglia dell’essere umani. Sul palco, la danza dei folli, dei perduti, dei ritrovati. È un viaggio nelle viscere dell’anima, dove ridi, piangi, e poi ridi di nuovo, come in una festa infinita. È il trionfo dell’imperfezione, della bellezza che nasce dal dolore e dalla tenerezza, un grido che è insieme disperazione e festa. Pippo Delbono riesce a ricordarci che, malgrado tutto, c’è sempre una scintilla di gioia da accendere.

Domenico Iannacone (foto di S. Ciccarelli)

Che lavoro faresti, se non fosse quello che fai?

AC: Non mi sono fatto questa domanda nemmeno trent’anni fa. Figuriamoci adesso.

AS: In teatro ci sono talmente tante cose da fare, sono così varie e diverse le esperienze, le occasioni e gli incontri che si possono vivere, che è sempre una scoperta; ci sono tantissimi progetti creativi che possono coinvolgere tutte le età, dal bambino all’anziano, che mi sento accompagnata giorno dopo giorno nella vita e non ho desiderio di interrompere questo viaggio.

DI: Vorrei essere un falegname! Ma non per costruire cose che servono, no. Creerei trappole per il pensiero, oggetti impossibili che sfidano la logica e invitano a perdersi. Porte che non si aprono, scale verso il nulla,. Perché il mondo ha bisogno di meno funzionalità e più meraviglia, di cose che non servono a niente ma che ti fanno fermare e riflettere. Creerei il superfluo, perché è nel superfluo che abita la vera libertà.

Milano Off Fringe Festival: fra acrobazie e teatro canzone la scena è multidisciplinare

RENZO FRANCABANDERA | Il Milano Off Fringe Festival si è affermato negli ultimi anni come uno degli eventi teatrali più partecipati e innovativi del capoluogo lombardo sia per il suo radicamento nei quartieri sia per i vivaci incontri con le reti di partner nazionali e internazionali, rispecchiando la pluralità e la diversità creativa che caratterizza il movimento fringe a livello globale. In linea con la tradizione di festival analoghi in città come Edimburgo, il Milano Off è partner dei maggiori Fringe e, anche attraverso la presenza dei direttori dei festival partner, offre uno spazio privilegiato per compagnie indipendenti e artisti emergenti che operano più ai margini della scena teatrale istituzionalizzata. L’evento nasce dall’intuizione di Renato Lombardo e Francesca Romana Vitale con l’intento di promuovere un’offerta culturale alternativa e accessibile, e rappresenta un laboratorio artistico dinamico, una piattaforma di lancio per nuove produzioni, attraversando generi e linguaggi scenici differenti, dalla prosa alla sperimentazione visiva, dalla musica alla danza contemporanea.
Il fringe milanese, dunque, non solo si rivolge a un pubblico variegato e curioso, ma contribuisce anche alla rigenerazione del tessuto culturale urbano estendendo le sue proposte a un numero ampio di sedi, disseminate su tutto il territorio cittadino.


Continuiamo il racconto degli spettacoli del weekend del 27-29 settembre attraversando alcune proposte dall’approccio stilistico variegato. Al teatro canzone si richiama Il profeta scorretto – Giorgio Gaber, ospitato nel teatro della Società Umanitaria, una storica istituzione di promozione socio-culturale situata in una bellissima e antica sede di fronte al Tribunale.
In questo omaggioil celebre cantore delle manie e delle decadenze della borghesia urbana non è solo protagonista storico del teatro-canzone italiano ma anche una voce che continua a essere contemporanea, critica e illuminante sul piano sociale e politico. Lo spettacolo ne esplora l’attualità del pensiero, derivandone l’impostazione da quel famoso Storie del Signor G. registrazione della Rai del celebre one man show dalla durata fiume (quasi quattro ore) in cui Gaber, accompagnato da una band, portava in scena molti dei suoi brani e monologhi. I testi di Riccardo Leonelli partono e si ispirano al sarcasmo del maestro, e lui stesso, insieme a Emanuele Cordeschi, se ne fa interprete. In scena non c’è la grande orchestra che accompagnò il Signor G in quel memorabile evento, ma un duo chitarra e fisarmonica composto da Lorenzo D’Amario ed Emanuele Grigioni.

Attraverso un approccio che cerca di coniugare ironia e disillusione sulla società, ricordandoci come le sue canzoni e i suoi monologhi siano ancora oggi strumento di riflessione profonda sulla condizione umana e sociale, lo spettacolo utilizza il repertorio gaberiano non solo come nostalgia ma come lente critica attraverso cui guardare il presente, oltre che come ispirazione per i monologhi; in questo caso sono spesso – proprio come ne Le Storie del Signor G – bipartiti fra due voci in contrapposizione, affidate ai due interpreti, volutamente vestiti l’uno di bianco e l’altro di nero.
La declinazione scenica è leggera ma carica di quella potenza dissacrante che caratterizzava le esibizioni originali di Gaber, il supporto musicale è appropriato ed efficace, con le partiture che prediligono il rimando melodico all’originale. E questo dà lo spunto a una riflessione più generale su questo spettacolo che comunque funziona e fa il pieno di spettatori a ogni replica, specialmente fra i nostalgici del maestro, ma non solo. La nota, dicevamo, è proprio nel tentativo – sia vocale che mimico – di riproporre, in imitazione, la figura del maestro, presente anche in scena con una foto ben visibile, posta dinnanzi alla stazione che occupa il centro del palco dei musicisti.

Ma proprio come diceva Gaber in una canzone che viene riproposta, occorre essere liberi non solo di ma anche da… Se tutti gli allestimenti eduardiani, ad esempio, continuassero a proporre la mimica e l’inflessione del Maestro il linguaggio non evolverebbe. E quindi ci sentiamo di incoraggiare gli artefici di questo piacevole e generoso recital, che dura un’ora e mezza e coinvolge il pubblico, ad allontanarsi progressivamente dalla parte mimica (peraltro ben riuscita) per emanciparsi dallo stampino originario, e fare un passo avanti nel linguaggio della sperimentazione. Poi, certo, magari è quello che vorrebbe vedere il pubblico, far rivivere Gaber, ma il teatro ha proprio questo di peculiare: avere a che fare con ciò che è vivo, quando è vivo. E di modificarne la memoria per attualizzarla, quando vivo non è più. Ad ogni modo, mi sono divertito.

Altro spettacolo di teatro-canzone, proposto negli spazi di Imbonati11 è Cosmocomico, di e con Marco Ligi, che esplora il rapporto tra l’uomo e l’universo del vissuto in una chiave del tutto personale e con un accento sul tema del fallimento. In questo spettacolo, un leggero codice comico diventa una via per investigare l’esistenza, lanciando provocazioni sulle dimensioni dell’insuccesso (sentimentale, professionale, esistenziale) e della quotidianità.
Il termine “cosmocomico” richiama inevitabilmente l’opera di Italo Calvino, ma Ligi va oltre, utilizzando una comicità leggera e delicata non solo come meccanismo di evasione ma anche come strumento per disarmare lo spettatore e invitarlo a una riflessione più profonda. Lo spettacolo si articola attraverso un monologo denso di riferimenti filosofici e scientifici, ma con un tono leggero che vuole toccare corde universali con un linguaggio semplice. La pièce si compone di 8 monologhi e 8 canzoni, queste ultime decisamente più ritmate dei primi su cui occorre lavorare, insieme alla parte attoriale e mimica, per dare più nerbo alla rappresentazione.

Chiudiamo con un altro degli spettacoli ospitati nella sede di Imbonati11, ovvero T.O.M. / The Old Man, di e con Edoardo Mirabella.
La pièce, nata nel periodo pandemico, mescola acrobazia e improvvisazione, pratiche di clownerie e mimo, e pare raccontare la storia di un uomo anziano che riflette sulla sua vita, sugli errori commessi e sugli affanni che ancora la contraddistinguono. Diciamo “pare”, perchè come Mirabella stesso dice alla fine di una replica, i suoi spettacoli non hanno una vera e propria trama ma nascono mettendo insieme esercizi e acrobazie in un mélange che cambia temperatura ogni volta.
Mirabella utilizza la sua esperienza di live-performer, di acrobata e artista di strada per esplorare il tempo, la memoria e la solitudine, con una messa in scena che alterna momenti di grande intensità emotiva a scene più lievi e sospese, unendo pezzi nati nella solitudine pandemica. Il protagonista si muove su un palco in cui è presente una quantità di oggetti dalla cifra surreale (grandi barili industriali, enormi camere d’aria per ruote gigantesche e sovrapposte a formare una piccola torre, uno skateboard, bastoni e altro ancora), che l’artista utilizzerà nel modo più svariato e bizzarro, alternando numeri di equilibrismo e giocoleria a rappresentazioni quasi beckettiane dell’umano esistere. E quasi duole, quelle volte che l’equilibrio pende a favore dei primi, perchè il livello poetico che si raggiunge in diversi momenti è così alto, ricco, anche dal punto di vista visivo, che si vorrebbe, da appassionati di teatro, che l’equilibrio restasse sempre in bilico anche sulla resa scenica.
Mirabella in forma ingenua e generosa, delicata e poetica, mette a nudo la fragilità dell’esistenza e l’uso del corpo, che non cede mai all’uso della parola, è calibrato ed evocativo, conferendo allo spettacolo un ritmo che cattura lo spettatore.

Le sequenze, i “numeri” come si direbbe in gergo circense, sono intervallati da tracce blues, in alcune delle quali ci pare di riconoscere Juzzie Smith, evidentemente un codice musicale che piace all’artista. Calda l’accoglienza del pubblico, che sguazza nella surreale di questo arzillo uomo maturo, che mantiene uno spirito infantile vivificante ed energico.

Il Milano Off Fringe Festival conferma così la sua vocazione a essere un crocevia di esperienze diverse, dove artisti di ogni estrazione e stile possono confrontarsi con il pubblico in modo libero e aperto. Le creazioni di cui abbiamo parlato offrono uno spaccato su una molteplicità di linguaggi e modalità espressive che rispecchiano la complessità del nostro tempo, ponendo il teatro al centro di un dialogo attivo e vivace con la realtà.

 

IL PROFETA SCORRETTO – Giorgio Gaber

testi e regia Riccardo Leonelli
interpreti Riccardo Leonelli, Emanuele Cordeschi, Lorenzo D’Amario, Emanuele Grigioni
luci Marco Giamminonni
musiche Giorgio Gaber
costumi Marinella Pericolini
produzione Povero Willy

COSMOCOMICO

di e con Marco Ligi

T.O.M. / THE OLD MAN

di e con Edoardo Mirabella
regia Edoardo Mirabella
aiuto alla regia e supervisione Elisabetta Cavana, Mauro Buttafava, Gaby Schmutz
luci Mauro Buttafava
regia musiche Edoardo Mirabella
costumi Olivia Grandy
produzione Il teatro viaggiante

Fra teatro, storia e archeologia: Rumorbianc(0) e gli spettatori in cerca di immersioni culturali

RENZO FRANCABANDERA | Rumorbianc(0) è una compagnia teatrale toscana che si distingue per la sua attività legata alla valorizzazione del patrimonio culturale, attraverso progetti che uniscono teatro, danza e luoghi storici. La sua anima, l’attrice e performer Chiara Renzi, ha collaborato nel tempo con importanti istituzioni come l’Accademia Etrusca di Cortona e altri partner locali, per arricchire l’offerta culturale con masterclass, performance di danza e concerti, mantenendo viva la connessione tra teatro e territorio toscano. Uno dei progetti di maggior rilievo della compagnia è il Festival Teatro Archeologico, rassegna multidisciplinare che si svolge annualmente al Parco del Sodo di Cortona, dove il teatro e la cultura archeologica si intrecciano: giunta nel 2024 alla sua quarta edizione, include spettacoli di compagnie teatrali e artisti di spicco, insieme a esperienze didattiche e visite guidate legate alla storia e all’archeologia locale. Rumorbianc(0) si propone così di creare una fusione tra i luoghi storici e le performance contemporanee, con l’obiettivo di attirare sia un pubblico colto in cerca di nuove modalità furtive, sia nuovi visitatori, affascinati dalla combinazione di teatro e archeologia. La compagnia punta a far rivivere gli spazi storici attraverso esperienze teatrali immersive e innovative, rendendo il patrimonio culturale più accessibile e coinvolgente. Tra le recenti iniziative, spicca la creazione di spettacoli site-specific che esplorano temi legati alla storia e alla natura con un approccio narrativo innovativo e accessibile anche alle famiglie.
Abbiamo intervistato Chiara Renzi.

Come è nato e cosa fa rumorBianc(O)?

RumorBianc(O) è nato nel 2007 dal desiderio di promuovere il linguaggio teatrale in modo innovativo. Lassociazione lavora a livello nazionale, producendo spettacoli, organizzando rassegne e festival, oltre a condurre laboratori teatrali in contesti educativi e sociali. La sua missione principale è creare eventi culturali in spazi non convenzionali, rompendo con le tradizionali sale teatrali e avvicinando il pubblico a esperienze teatrali alternative. Tra i tanti progetti, vorrei ricordare RoomTheatre, che trasformava appartamenti in piccoli teatri, ShopTheatre che portava il teatro nei negozi e Teatro dai Balconi, una rassegna di micro-spettacoli sui balconi del centro storico di Arezzo. 
Un esempio recente è Le donne di Shakespeare, uno spettacolo itinerante che rilegge i personaggi femminili shakespeariani in chiave contemporanea. Al centro di tutto, c’è la volontà di costruire un nuovo rapporto tra attore e spettatore, concentrandosi sul valore delle relazioni umane e sulla scoperta di nuovi luoghi per l’espressione artistica.
Di qui quindi lidea della rassegna estiva nellarea archeologica a Cortona?
Lidea è nata da una visione: quella di far dialogare il teatro contemporaneo con larcheologia, intrecciando passato e presente. La cornice archeologica del Maec Parco Archeologico di Cortona ci ha permesso di realizzare questa visione, non solo come sfondo, ma come parte integrante dellesperienza. Volevamo creare una rassegna in cui il paesaggio non fosse un palcoscenico passivo, ma un vero e proprio attore, capace di amplificare le emozioni e arricchire la narrazione. L’area archeologica, con la sua atmosfera millenaria, diventa quindi non solo un luogo per la rappresentazione, ma un elemento vivo che partecipa attivamente al processo creativo. Questa fusione tra arte e luogo storico permette al pubblico di vivere unesperienza unica.

Che rapporto avete ritenuto esista fra gli allestimenti e lambiente circostante?

Per me, lambiente circostante non è mai un semplice contenitore: è un elemento attivo e imprescindibile dello spettacolo. Ogni spazio, naturale o storico, influenza il ritmo e latmosfera della performance. Cerchiamo di creare una simbiosi tra lo spettacolo e lo spazio, rispettando e valorizzando il contesto in cui ci troviamo. Lo spazio con cui ci confrontiamo si trasforma in un co-protagonista. La storia del luogo, la sua energia, sono tutti elementi che plasmano la fruizione dello spettacolo, arricchendo lesperienza del pubblico. Mi piace pensare che lo spazio stimolilimmaginazione degli spettatori e amplifichi il senso profondo dellevento teatrale.

Che pubblico c’è stato in questi anni, fra criticità e opportunità, e con che risorse avete messo assieme il programma?

Il nostro pubblico è eterogeneo, fatto di spettatori fedeli e nuovi volti. Da un lato ci sono le persone che ci seguono con costanza, attratte dal nostro stile e dal legame che abbiamo costruito con il territorio. Dallaltro, ci sono sempre nuovi curiosi, magari attratti dal contesto insolito o dallesperienza di vivere uno spettacolo in uno spazio inusuale per il teatro. Una delle sfide principali è stata riuscire a mantenere viva l’attenzione e l’interesse del pubblico, continuando a proporre progetti di qualità. Le risorse, spesso limitate, sono state compensate dalla collaborazione con artisti e istituzioni locali che ci hanno permesso di superare gli ostacoli e realizzare eventi di grande valore.

Che tipo di esperienza cerca il vostro pubblico? Sono sempre i soliti, avventori casuali, o altro ancora?

Il nostro pubblico non cerca solo uno spettacolo, ma unesperienza immersiva e significativa. Vogliono essere coinvolti, emozionarsi, riflettere e scoprire nuove prospettive. C’è sicuramente uno zoccolo duro di fedelissimi che ci segue da anni, ma siamo anche riusciti ad attrarre persone nuove a ogni edizione. Il fatto che molti ci scoprano attraverso il passaparola o la curiosità  è un segnale positivo della capacità del nostro progetto di essere vivo e in continua evoluzione.

Che progetti ci sono per il prossimo futuro?

Per il futuro abbiamo diversi progetti in cantiere che riflettono la nostra visione di connessione tra arte, territorio e comunità. Abbiamo lavorato a metà settembre all’inaugurazione di Anfiteatro Naturalis, in collaborazione con Noidellescarpediverse, uniniziativa che si svilupperà nellanfiteatro naturale di Chiusi della Verna, costruito con i fondi del PNRR per valorizzare i borghi storici, e includerà spettacoli di nuova drammaturgia, produzioni site-specific e laboratori. 

Un ulteriore progetto, realizzato in collaborazione con l’associazione Noidellescarpediverse, è Le vite in scena, ospitato presso la Casa Museo Ivan Bruschi di Arezzo. Questa rassegna teatrale, ora alla sua seconda edizione, continua il cammino avviato con Racconta la casa museo, concepito per rendere il museo uno spazio di ispirazione creativa per la comunità locale. È arrivato anche il debutto di Le donne di Vasari, in occasione del 450° anniversario della morte di Giorgio Vasari. Lo spettacolo è nato per celebrare le voci femminili dellarte rinascimentale, dando spazio a quattro figure straordinarie: Niccolosa Bacci, Properzia De Rossi, Plautilla Nelli e Sofonisba Anguissola. Queste donne, nonostante abbiano operato in unepoca dominata dagli uomini, sono riuscite a lasciare unimpronta indelebile nellarte e nella storia. Infine, stiamo collaborando con Le Plurali per un progetto chiamato Lotteria Femminista, basato sul saggio Girls will be girls di Emer OTooleche, utilizzando il genere dello stand-up comedy, vuole affrontare con ironia gli stereotipi di genere. Lobiettivo è portare alla luce i pregiudizi che influenzano la società e, come dice lautrice, riscrivere il copione che vogliamo.
Naturalmente, c’è sempre un bando da seguire e nuovi laboratori da avviare, oltre a tante idee in fase di sviluppo e che stanno prendendo forma.