ELENA ZETA GRIMALDI| Dal 7 al 14 maggio Catania è stata animata dalla quarta edizione del FIC festival, il Focolaio di Infezione Creativa organizzato dalla Compagnia Zappalà Danza presso la loro sede di Scenario Pubblico e in altri luoghi della città. L’idea guida è quella di «valorizzare la creatività della produzione di danza contemporanea insieme alle nuove tendenze dei linguaggi del corpo per restituire creazioni che parlino una lingua vicina ai giovani», sia artisti che spettatori.
Dopo aver recensito W la mamma! di Gioia Morisco (qui il pezzo di Sofia Bordieri) torniamo a raccontare l’ultimo giorno di questa edizione 2023, che inizia a orario aperitivo con le performance di altri due vincitori del bando di residenza ACASA 2022/2023, protagonisti nelle giornate del festival.
MDMA_primo studio di e con Gennaro Maione è «un omaggio al cinema di Dario Argento», il cui protagonista è tanto il corpo quanto la mente, nei loro aspetti più luminosi e più oscuri. Ed è infatti con una luce di sala sparata a intermittenza sul pubblico che inizia lo spettacolo e, una volta spenta, per contrasto, si piomba nel buio più denso riempito da una ingombrante musica tekno a tutto volume. Il corpo di Maione, che si intravede tra le maglie del top a rete, si muove frenetico tra il buio e coni di luce (principalmente rossa o di un bianco abbagliante) che cadono a pioggia, dando risalto al corpo, alle sue movenze spezzate, frenetiche, che inseguono la luce come a volerla carpire, a volervi entrare dentro e guardarla nel profondo, cosa che riuscirà a fare solo dopo aver recuperato a tentoni un paio di occhiali da sole. Il ritmo di mutamento del corpo durante l’esibizione ricorda il saliscendi (e risali!) di una serata in discoteca in compagnia delle famose pasticche, e qui si spiega forse il titolo, da questo punto di vista estremamente calzante.
Premesso che chi scrive non è una grande conoscitrice del cinema di Argento, motivo per cui non è ben riuscita a identificare gli omaggi presenti, è invece l’aspettativa di chiaroscuro che non viene totalmente appagata. Sebbene, come dichiarato nel programma di sala, il corpo in scena attraversi l’estetica di Argento diventando effettivamente «mansueto e selvaggio, vittima e carnefice, avvolto dal piacere fisico e fiero nella sua nudità», il complesso della performance sembra sbilanciarsi più verso il lato forsennato e inquietante, lasciando meno spazio a momenti di distensione (che, quando ci sono, tengono comunque alta l’attenzione alla scena), col risultato di un chiaro-moltoscuro. Comunque sia, Maione e la sua performance sono stati assolutamente energici, trascinanti e coraggiosi (prova ne è l’ovazione finale del pubblico), mostrando una padronanza dei movimenti, della tecnica e della scena lodevole; il che, essendo un primo studio, si può definire senza ombra di dubbio una vittoria, premessa a una fruttuosa messa a punto per il futuro.
La seconda perfomance in scena, Memento della compagnia Cornelia, cambia radicalmente atmosfera: in un controluce soffuso, quattro corpi vicinissimi e spalle al pubblico, incastrano alla perfezione sequenze di movimenti leggeri, sognanti, tendenti. La tensione verso qualcosa che si aspetta e sembra non arrivare mai, è effettivamente il sentimento che permea tutto lo spettacolo, mettendo chiaramente in gioco tutta la gamma di sentimenti che trovano spazio nel momento dell’attesa. Il coreografo Nyko Piscopo fa infatti cambiare il rapporto tra i quattro danzatori di continuo: dall’incastro millimetrico di movimenti personali, alla sincronia e simmetria perfetta, alla separazione di uno o due corpi che tentano nuovi modi per annientare il non-evento, o, stremati dall’attesa, abbandonano il rito collettivo nel miraggio di poter arrivare da soli al divino che indugia a manifestarsi. Mentre i protagonisti cercano di far finalmente arrivare Godot, tutti gli elementi della performance tendono a smaterializzare, detemporalizzare ciò che guardiamo, dalle luci (di Camilla Piccioni) soffuse e celesti che dipingono un ambiente cosmico, stellare, al tessuto nero, leggero e semitrasparente delle magliette (disegnate da Rosario Martone) che rende anche i corpi presenti e non presenti, pulviscolari, immersi in una musica (di Arvo Pärt) delicata ma potente, a tratti simile a canti di angeli alieni che viaggiano tra le galassie. Una performance ammaliante e misteriosa, che celebra lo spaziotempo rituale del hic et nunc.
foto di Serena Nicoletti
In linea con l’idea contagio creativo dei luoghi, dei corpi e degli animi, è lo spettacolo Body teaches della Compagnia Zappalà Danza con l’Ensemble d’archi del Teatro Massimo Bellini, in prima assoluta a chiusura dell’intero festival.
La prima cosa che colpisce è che la sinossi dello spettacolo sia, in fondo, il racconto di che cos’è Zappalà Danza, il linguaggio MoDem e quali sono gli intenti artistico-progettuali del suo creare. Per un momento si cade nel tranello di pensare che non sia una vera e propria ‘sinossi’ ma, usciti dal turbinio dello spettacolo, tutti i tasselli sono andati al loro posto.
La sala principale di Scenario Pubblico accoglie gli spettatori spoglia di tutto se non degli archi dell’Ensamble del Bellini schierati sulla sinistra e danzatori e allievi seduti lungo il perimetro dello spazio, le luci sono quelle della sala, che rimarranno invariate e accese per tutto lo spettacolo: la sensazione è quella di essere ospitati in una sessione di prove. Lentamente, una musica dai battiti incalzanti e dal ritmo ipnotico pervade l’area e, a uno a uno, i sette danzatori della compagnia si staccano dal perimetro e iniziano a riempire lo spazio. Tutto sembra giocato sulla contaminazione e coesistenza di apparenti opposti, concetto esemplificato dal progetto musicale in cui la minimale base sonora viene interrotta dall’Ensamble di archi e dalla soprano Marianna Cappellani con inserti di musica classica e lirica. Ma la coreografia che non ne risente, non cambia: i movimenti che prima andavano a ritmo di beat si scoprono perfettamente adatti alle tortuose frasi di Beethoven o Vivaldi, o anche all’inno d’Italia che, interrompendo una voce sintetica che ripete incessantemente la parola ‘South’, fa partire le mani dei ballerini verso il loro cuore, che viene battuto con un fare a metà tra l’automatismo e il conforto. Diversi sono i gesti che, trasfigurati in danza, possono ricordare il fare e l’essere insulare, tra tutti, ripetuto, un indice puntato verso se stessi e gli altri, danzatori e spettatori, che all’inizio appare quasi come un rimprovero, poi un memento, e alla fine si accoglie come una chiamata all’azione, al non starsene fuori. Chiamata che, a epilogo dello spettacolo, si materializza con l’invito agli spettatori a inondare il palco e far schizzare via la carica emotiva accumulata, trasformarla in convivenza ballando insieme sul ritmo scatenato di Stromae.
Come ho sentito dire uscendo dalla sala, Roberto Zappalà ha messo in questo spettacolo tutto se stesso, la sua storia, il suo lavoro, i suoi sogni; il mistero della non-sinossi è stato svelato. Body teaches andrà nella prossima stagione in giro per le scuole catanesi, e sarebbe estremamente curioso poterne vedere l’impatto e scoprirne un’altra singolareplurale versione.
foto di Serena Nicoletti
MDMA Compagnia Körper
di e con Gennaro Maione produzione Körper Centro Nazionale di Produzione della Danza con il sostegno di Scenario Pubblico/Centro di Rilevante Interesse Nazionale, bando ACASA 2022/2023
MEMENTO Compagnia Cornelia
coreografia Nyko Piscopo musica Arvo Pärt costume designer Rosario Martone costumi Chi è di scena – Ballet Store drammaturgia Ciro Ciancio scenografia Paola Castrignanò light designer Camilla Piccioni responsabile tecnico Giuseppe Ferrigno danzatori Nicolas Grimaldi Capitello, Eleonora Greco, Leopoldo Guadagno, Francesco Russo management Vittorio Stasi video Andrea De Simone foto Sabrina Cirillo produzione Cornelia supporto Caleidoscopio, Teatro Eduardo De Filippo in collaborazione con AMAT Marche con il sostegno di Scenario Pubblico/Centro di Rilevante Interesse Nazionale, bando ACASA 2022/2023
BODY TEACHES Compagnia Zappalà Danza, Ensamble d’archi del Teatro Massimo Bellini
ideazione, regia e coreografia Roberto Zappalà coordinamento musicale Alessandro Cortese danzatori Giulia Berretta, Andrea Rachele Bruno, Filippo Domini, Laura Finocchiaro, Anna Forzutti, Silvia Rossi, Erik Zarcone assistente Fernando Roldan Ferrer Ensamble d’archi del Teatro Massimo Bellini Salvatore Domina, Massimo Cipria, Giulia Giuffrida, Marco Mazzamuto (violini primi); Marcello Spina, Giovanni Cucuccio, Ricardo Urbina, Simone Molino (violini secondi); Giovanni Casano, Vincenzo Sequenzia, Roberta Bullace (viole); Andrea Waccher, Antonio Di Credico (violoncelli)
soprano Marianna Cappellani direzione tecnica Sammy Torrisi
FIC festival 2023
Scenario pubblico, Catania
14 maggio 2023
GIANNA VALENTI | Interplay 23 – martedì 23 maggio – casa del Teatro MoritzOstruschnjak con Tanzanweisungene Carlo Massari con Metamorphosis–Blatta alla giornata di apertura del festival. Due visioni del contemporaneo che si fa danza, due diversi modi di ricercare il mondo e le trasformazioni della società in relazione alla persona. Lo smaterializzarsi dell’esperienza fisica nel vissuto digitale e la sua ricostruzione come linguaggio danzato in Ostruschnjak e la performance come momento di condensazione di un percorso di ricerca e creazione sui confini sottili tra animalità e umano in Massari.
Moritz Ostruschnjak, PH Wilfried Hösel
Una piattaforma rettangolare sopraelevata sulla scena e delimitata da barre led bianche. Un podio per il corpo del danzatore che entra e si ferma nel punto centrale più vicino al pubblico. Nel silenzio, i suoi piedi iniziano a battere alternativamente e creano una modalità fisica e ritmica che attraversa l’intera coreografia e la definisce. Il danzatore solleva le gambe e le incrocia, le mani e i piedi si incontrano, battono, le mani battono una sull’altra e sulle diverse parti del corpo. Il ritmo è preciso, regolare e si ripete identico, mettendo alla prova la resistenza di chi danza e di chi osserva. Ritmo e resistenza, endurance — questa la struttura portante di TanzanweisungendiOstruschnjak. Nel momento in cui la ripetizione raggiunge la soglia limite, un secondo corpo, quello del coreografo, attraversa la scena difronte al podio con un cartello “It won’t be like this forever”. Il corpo del pubblico espira e sospende l’attesa per una rottura di quel ritmo incalzante e senza musica. Il corpo del danzatore restringe la frase di movimento, assorbendola sino ad accennarla. Il battito delle mani scompare, mentre i piedi continuano a battere inarrestabili per portare il corpo nello spazio, per incarnare e tracciare un linguaggio che solo a tratti ci sembra di poter riconoscere e afferrare.
Il corpo del danzatore, abitato da questo ritmo, si offre generoso e instancabile, il suo battere e sobbalzare porta avanti frazioni di movimento, frame di pochi secondi, che si susseguono senza sosta sino alla parte finale. Come spettatori siamo consapevoli della diversa identità di ogni frame, ma la costruzione fluida del fraseggio permette alle diversità di amalgamarsi e di farsi sviluppo ininterrotto di movimento, gestuale e non, nello spazio.
A essere avvicinati in questa continuità sono passi di danza classica, pose che riconosco come sport e altre che rimandano ai giocatori di Fortnite; sempre dal gaming gli emote — i numerosi balletti che possono essere esplosioni ripetute di un gesto che incarna un’emozione o brevi balletti in stile break, hip hop, machine o altro. Ma anche frammenti di danze da sala, movimenti sexy, portamenti da drag queen o popolari; gesti da combattimento o da vittoria, gesti quotidiani di saluto o un bacio, oppure gesti fluidi e leggeri accostati a un dito medio che si alza con forza dal corpo che si allontana di spalle.
Casa del Teatro, Moritz Ostruschnjak, PH Andrea Macchia
Il pubblico della danza si incuriosisce, Ostruschnjaksi racconta alla fine dello spettacolo, la sua coreografia nasce in sette giorni durante il grande lockdown. Lui e Daniel Conant, il danzatore, sono partiti da una danza folklorica bavarese, la Schuhplattler — il ritmo di quella danza incarna una forma di resistenza, la coreografia nasce, si confessa, dal suo sentirsi esausto dopo una giornata passata a navigare sul web.
La browsing history della giornata, la cronologia di navigazione, è la forma di diario con cui più si identifica come persona e creativo nell’era della digitalizzazione. Il digitale, il modo in cui influisce sui nostri corpi, e le modalità di lavoro dell’algoritmo di un browser sono al centro dei suoi interessi. C’è il mio desiderio, racconta, ma è un desiderio in costante evoluzione e interazione con quello dell’algoritmo. Per lui, agire un metodo coreografico interattivo è agire collaborando con il desiderio del danzatore e l’algoritmo che quel desiderio genera, che è diverso dal suo. Così ha chiesto a Daniel di scegliere 20 video che contenessero movimento e di impossessarsi di 3 secondi per ogni video e i video alla fine sono diventati 800, creando un archivio di samples — campioni di movimento. Il web per lui è un archivio infinito di informazioni infinite, di campioni di movimento infiniti — «Il mio lavoro prende la realtà digitale, percepita come non fisica e non tangibile, e la rimette sui corpi, riportandola nella realtà».
Carlo Massari, PH Guido Mencari
Anche Carlo Massari si racconta generosamente alla fine dello spettacolo e più tardi in un dialogo privato. Anche per lui, la realtà di partenza di una creazione artistica è ampia e multiforme, ma vissuta profondamente in un tempo costellato e arricchito da relazioni umane e percorsi di creazione artistica o didattica che informano quel microcosmo da cui l’azione performativa, che vediamo sulla scena, prende vita.
Un caos iniziale che non ha bisogno di essere ordinato sul corpo e che si estende e si allarga nella nascita di sempre nuovi progetti, pensieri, immagini, musiche, film, dialoghi, letture e movimenti che si depositano, maturano, dialogano, si sedimentano e si trasformano, nella loro disordinata vicinanza, per un tempo che può richiedere anni.
Il suo processo di creazione ha cicli lunghi e cresce nutrendosi di un dialogo generativo tra gli elementi che si rendono fisicamente disponibili, che appaiono, che lui invita o che si offrono. «La mia terra, si racconta, è quella di produzione dell’aceto balsamico e questi sono i tempi della trasformazione e della maturazione.»
Massari usa una scatola vera e propria per contenere i materiali che raccoglie, produce o che richiede ad altre figure artistiche di produrre come arricchimento della sua ricerca. La scatola diviene un luogo dove i materiali possono contaminarsi, dialogare, trasmutare, e quando entra in sala per la creazione sul corpo e attraverso il linguaggio del corpo, il corpo già sa, il corpo è stato attraversato, il corpo ha cercato e ha trovato. Il corpo ha dialogato e ascoltato, il corpo ha comunicato, ha dato e ha ricevuto. Il corpo, così nutrito, è pronto a generare una performance che si manifesta come attraversamento di un ampio processo creativo.
Carlo Massari, PH Andrea Macchia
In Metamorphosis-Blatta, il suo corpo è sul terreno, nel silenzio. Il legame con la terra, un destino che uomo e animale condividono, a marcare l’inizio e la fine di ogni esistenza. Singole parti del corpo vengono prese o sollevate e rilasciate. Onorando la relazione privilegiata col terreno, il corpo si rilascia, sprofonda e si dona per ricevere e attivarsi e, attraverso la forza e la protezione di quella relazione, rotola, si estende e si lancia per entrare nel mondo e dialogare e, ancora, sviluppa una forza che gli permette infine di stare, nell’identità più propria dell’umano, nella condizione verticale.
Il corpo eretto, gambe nude e incappucciato in una felpa, sceglie come prima azione il ciondolio della testa di un animale al pascolo. Quel gesto, sul corpo fermo nella bidimensionalità tra terra e cielo, si fa segno potente che intervalla frasi di movimento che viaggiano su traiettorie nello spazio, concatenando canoni tecnici di diversa provenienza con gesti elaborati spazialmente per farsi danza. Il corpo segue nel fraseggio un ritmo interno ben preciso — nasco dalla musica e dal canto, si racconta, e il movimento nasce dentro di me come ritmo, ancor prima di farsi spazio.
I frame che riconosco nel suo fraseggio nascono in studio senza seguire una precisa linearità. Il corpo genera dei momenti, uno stare o un muoversi, e da quei momenti, che sono anche punti nello spazio, se ne generano altri, per attrazione, e i punti diventano agglomerati e poi tratteggio, in un processo non lineare di eventi e apparizioni che finiscono per attrarsi, combinarsi e ricombinarsi e trovare, infine, un proprio ordine.
Due lavori molto diversi quelli di Ostruschnjak e Massari, ma vicini nell’impegno creativo come riflessione sul mondo che li circonda che si fa intuizione drammaturgica e ricerca di un senso attraverso la pratica coreografica. Un’opportunità unica che Interplay offre per riflettere sulle pratiche coreografiche del presente e sulla danza come linguaggio privilegiato, in questo momento storico, per raccontare le profonde trasformazioni culturali e umane del Pianeta.
TANZANWEISUNGEN (it won’t be like this forever) MORITZ OSTRUSCHNJAK (DE)
di Moritz Ostruschnjak con Daniel Conant e Moritz Ostruschnjak
assistente alla coreografia Daniela Bendini
assistente alla drammaturgia Carmen Kovac
luci Benedikt Zehm
costumi Daniela Bendini, Moritz Ostruschnjak
produzione Moritz Ostruschnjak con il supporto di network Grand Luxe 2019/2020
Membro di Tanztendenz München e. V. Performance selezionata alla Tanz Plattform Berlin 2022 e Aerowaves Twenty21
METAMORPHOSIS – BLATTA C&C COMPANY (IT)
creazione originale e interpretazione Carlo Massari
training e consulenza vocale Chiara Osella
collaborazione tecnica Francesco Massari
produzione C&C Company
in coproduzione con Oriente Occidente Dance Festival, Compagnia Teatro Akropolis, Margine Operativo, Triangolo Scaleno Teatro
con il sostegno di Regione Emilia-Romagna e MIC Performance presentata al festival Oriente Occidente 2022
ELENA SCOLARI | Quanto mistero in un albergo muto. Quante dimensioni in una parete fatta di porte: entrate, uscite, sparizioni, si sente bussare ma nessuno bussa, con la coda dell’occhio si vede passare qualcuno che poi scompare dietro la porta successiva. Illusionismo e tocchi noir, inseguimenti esilaranti e un pizzico di assurdo à la Neil Simon, così i Peeping Tom con Dyptich conquistano tutti, anche il pubblico meno in confidenza con la danza e bisognoso di essere rapito da una storia (le storie piacciono a tutti, confessiamolo). La compagnia belga fondata nel 2000 a Bruxelles da Gabriela Carrizo e Franck Chartier fa quello che i più ancorati al passato chiamano teatro-danza, sarà ormai desueto fare ricorso alle categorie (in qualunque ambito, pare) ma in fondo qualche utilità comunicativa ancora ce l’hanno.
Questa premessa per preparare il terreno a una squisita banalità: DIPTYCH. The Missing Door and The Lost Room – visto nella effervescente stagione FOG 2023 di Triennale Milano – è uno spettacolo che fonde il teatro alla danza in una creazione fluida, rotonda, solida, con una drammaturgia di movimenti e intreccio scritta come dio comanda, diretto da un regista sicuro, fantasioso, ironico, che sa il fatto suo. Oh là.
ph. Virginia Rota
Il dittico portato per la prima volta a Milano è formato da due opere brevi create in anni diversi per il Nederlands Dans Theater e ripensate dai due fondatori di Peeping per i danzatori del gruppo. Nella prima, The missing door (La porta mancante), ci troviamo in un salotto borghese, forse è un set cinematografico che lo ricostruisce; la scena è composta da due pareti convergenti, su ognuna molte porte e una finestra trasparente dietro la quale vediamo passare, in un ordine illogico, alcuni dei personaggi/danzatori. I due lunghi pannelli-parete racchiudono lo spazio che contiene arredi di casa: un tavolino, una poltrona, una abat-jour.
L’atto si apre con un delitto e un corpo a terra, un uomo cerca di lavare via la macchia di sangue con uno straccetto che pian piano prende vita autonoma e si agita, sfuggendo alle mani di questo curioso pulitore e influenzando le sue mosse. Lo stesso meccanismo si ripete con una maniglia afferrata e che comincia a tremare così come con una giacca indossata che prende a vibrare sulle spalle del danzatore: il movimento nasce dall’oggetto e passa al corpo del performer, in un dialogo tra cose e personaggi incessante e sorprendente e che pare avere origine nel momento stesso in cui lo vediamo.
Colpiscono la precisione e la tecnica sopraffina di tutti gli interpreti (Konan Dayot, Fons Dhossche, Lauren Langlois, Panos Malactos, Alejandro Moya, Fanny Sage, Eliana Stragapede, Wan-Lun Yu), che è corretto definire tali proprio perché non si limitano a ‘portare’ la coreografia ma la fanno vivere istante per istante e soprattutto mettono una giusta espressività nitidamente attorale in ogni situazione. Non c’è bisogno di cercare il teatro: questo emerge naturalmente da un lavoro attento alla consequenzialità del plot, in assenza di testo, nonostante l’obiettivo – centrato – sia disorientare lo spettatore anche con effetti speciali da prestigiatore, qualche sconclusionatezza qua e là, grazie all’inesauribile fantasia con cui le sequenze procedono provocando stupore ma senza mai mancare il gancio di senso (spesso comico) con ciò che è appena accaduto.
ph. Marina Dmitrieva
Evidente e puntuale cura è da rilevare nell’amalgama di luci (Tom Visser), suoni (Raphaëlle Latini con Raphaëlle Latini, Ismaël Colombani, Annalena Fröhlich, Louis-Clément Da Costa, Eurudike De Beul) scelta dei costumi (Seoljin Kim, Yichun Liu, Louis-Clément Da Costa).
Senza quasi che il pubblico se ne accorga si sguscia nel secondo blocco di spettacolo, The lost room (La stanza scomparsa): siamo in una camera d’albergo, i personaggi – ospiti, portieri, cameriere, facchini – si muovono con la stessa febbrile e inafferrabile frenesia degli individui che abbiamo guardato (spiato?) agitarsi nel salotto di prima. Le coppie di danzatori si alternano, confondono le coordinate delle relazioni tra loro, si avvicinano attratti da forze che non governano, si allontanano trascinati da correnti inspiegabili, vortici irresistibili di vento li attirano o li respingono in un turbinio che appare incontrollabile ma è in realtà perfetto. Il ritmo è concitato ma mai affannoso, piene di divertita arguzia le scene in cui la meraviglia è creata da botole inaspettate, doppi fondi imprevedibili, balaustre che danno su un falso vuoto. Un caleidoscopio inventivo che sovverte lo spazio e i rapporti fisici con una maestria leggiadra e piena di forza, dando l’impressione che i primi a stupirsi siano proprio gli attori/danzatori.
E quando i Peeping Tom vanno oltre i magnifici trucchi regalano duetti magistrali: per esempio un incontro amoroso appassionato (o almeno chi scrive questo vi ha visto) che sa descrivere quel po’ di lotta che si instaura fra due corpi in intimità, che si conoscono tramite il contatto, una splendente dimensione di eros divertito mentre la cameriera che credeva la stanza fosse libera passa in punta di piedi per non disturbare ed è costretta a mettersi sul balcone. Fuori però nevica e quando il cliente rimane solo e la scorge intirizzita, la ritira ghiacciata dal terrazzo e si affretta a scongelarla adagiandola sul letto.
Una punta di sfoggio c’è, ma danzatori serissimi che non si prendono mai troppo sul serio, che comprendono l’illusione senza mai sembrare troppo compresi nella parte, che esprimono una varietà teatrale rutilante se la possono permettere. Per sparire dietro una doppia parete un secondo dopo.
DIPTYCH. The Missing Door and The Lost Room
ideazione, regia Gabriela Carrizo e Franck Chartier
performance: Konan Dayot, Fons Dhossche, Lauren Langlois, Panos Malactos, Alejandro Moya, Fanny Sage, Eliana Stragapede, Wan-Lun Yu
assistente alla creazione Thomas Michaux
drammaturgia del suono Raphaëlle Latini
progetto sonoro, arrangiamenti Raphaëlle Latini, Ismaël Colombani, Annalena Fröhlich, Louis-Clément Da Costa, Eurudike De Beul
light design Tom Visser
set design Gabriela Carrizo, Justine Bougerol
design costumi Seoljin Kim, Yichun Liu, Louis-Clément Da Costa produzione Peeping Tom
Triennale Teatro dell’Arte, Milano – 6 maggio 2023
RENZO FRANCABANDERA | Mentre l’ombra di Sofocle appare e invita il pubblico a seguire «le vicende un po’ indecenti / di questa tragedia che finisce ma non comincia», in una stazione ferroviaria inizia un sogno angosciante che dentro un buio indecifrabile vede una figura di spalle provare a illuminare, a fare chiaro.
Subito si sviluppano quindi una serie di piani della narrazione. Proprio come piaceva a Pasolini.
Otto episodi in versi liberi, un prologo e un epilogo, scritti nel 1966: questa è Affabulazione, opera teatrale pubblicata in seguito sul n. XV del luglio-settembre del 1969 della rivista Nuovi Argomenti e infine in un’edizione postuma nel 1977.
Un sogno: un padre e un figlio in conflitto generazionale, dentro un interno borghese. Attorno all’uomo maturo, un mondo sazio di cose già avute.
Il lavoro che Marco Lorenzi ha svolto in questi anni con la sua compagnia, Il Mulino di Amleto, è stato importante e segnato da successi e riconoscimenti ottenuti anche in ragione della particolare cifra stilistica delle sue creazioni, capaci di abbinare all’essenza del lavoro attorale i linguaggi della videoarte e della comunicazione pop, concentrandosi sulla rilettura di classici della tradizione teatrale contemporanea, come pure su drammaturgia ricavate, come per il caso di Festen, dal cinema.
Il filo conduttore dei testi scelti è stato in un certo qual modo il dissesto psicosociale degli equilibri consolidati negli ultimi due secoli della classe borghese nel mondo occidentale, le sue sottili depravazioni, quell’endogeno e mortifero senso di malattia che deriva dall’agio della autorealizzazione.
Le rappresentazioni e le opere che la compagnia e il regista hanno portato in scena e che hanno ben circuitato negli ultimi anni, sono dimostrazione di una originalità e di una capacità di lettura del reale che hanno fatto dell’opera di questo gruppo di ricerca artistica uno dei prodotti più significativi della scena teatrale italiana nell’ultimo decennio, con la prospettiva di una crescita che l’occasione fornita da Valter Malosti, direttore di Emilia-Romagna Teatro, aiuta a sostenere.
In occasione, infatti, dell’anniversario pasoliniano, la direzione artistica di Ert ha voluto affidare a un gruppo di registi la riproposizione integrale delle opere teatrali di Pasolini nel progetto Come devo immaginarmi, e Affabulazione è stato il penultimo spettacolo della serie.
Come tutta l’opera teatrale pasoliniana, anche questo testo nella sua versione originaria, presenta una trama centrale e una serie di sotto-trame e figure onirico simboliche che ne intaccano la linearità, rendendo il complesso di scritture che il poeta realizzò in pochissimo tempo, una materia molto difficile da portare in scena, seppur fondata su elementi testuali di particolare bellezza, il cui nitore però non di rado si perde nel rigoglioso pullulare di parti di testo e di vicende che, come scatole cinesi, paiono voler nascondere, paradossalmente, proprio la potenziale teatralità.
Ecco quindi che nel caso specifico di questo allestimento, di particolare e significativa qualità appare l’intervento sul testo realizzato dal gruppo di lavoro e dalla figura della dramaturg Laura Olivi, per provare a ricavare l’indagine socio relazionale archetipica sottesa a questa scrittura.
Una volta scelto il filone, l’angolo visuale da cui osservare la scrittura pasoliniana, la riscrittura è conseguita con una felicissima linearità che porta dentro di sé una potenza quasi mitologica e arriva, proprio nell’operazione del tagliare, a dare reale enfasi alla poesia del poeta che, in diversi tratti della rappresentazione, appare davvero lucida e oltremodo brillante.
Degli schemi architettonici utilizzati da Lorenzi nelle precedenti regie, rimangono nella ambientazione scenica firmata da Gregorio Zurla, tanto la dinamica dei diversi piani della rappresentazione, quanto la presenza delle trame e delle semi trasparenze che permettono, nello stesso colpo d’occhio, di vedere e non vedere, di rivelare e nascondere, di far apparire e sparire.
Il meccanismo della rivelazione, della rappresentazione, in fondo, in questo testo in particolare, si abbina in modo chiaro alla scrittura perché fin dall’inizio Pasolini affida a una figura iconica del teatro classico, Sofocle (Barbara Mazzi), proprio il compito di creare un doppio piano narrativo e di introdurre uno schema che rimanda all’impianto della tragedia classica, sebbene poi l’ambientazione sia contemporanea.
La vicenda in estrema sintesi ricalca la crisi esistenziale di un uomo con un’anagrafe che sta superando la maturità per iniziare la senescenza. Il ritrovarsi dell’uomo (Danilo Nigrelli) dentro una dinamica familiare con moglie e figlio (Irene Ivaldi e Riccardo Niceforo), scatena il conflitto fra il suo decadimento il nietzschiano innamoramento per la vita, di cui il figlio incarna tutto il potenziale trasformativo, rivoluzionario. Non è solo conflitto intergenerazionale, ma vero e proprio ruolo nel branco, quel principio di dominazione che è alla base del mito primordiale fondante della mitologia greca, la tragedia che lega Crono e Urano.
Si tratta di riferimenti che seppur non esplicitati in modo chiaro, sono invece ben presenti sia nel testo oggetto della rappresentazione che negli oggetti di scena: Crono campeggia sotto forma di orologi in diversi punti visibili e centrali, sebbene si tratti di un tempo fermo, cristallizzato nella mente del protagonista che è incapace fondamentalmente di guardarsi allo specchio e di comprendere la finitezza dell’esperienza umana.
Proprio intorno alla simbologia erotica come manifestazione del potere maschile ruota la vicenda: da un lato il rapporto ormai maturo e decadente fra marito e moglie, fatto di giochini consumati, dall’altro quello invece leggero e fresco che lega il figlio alla sua fidanzatina (Roberta Lanave).
Le cromie dell’ambientazione, enfatizzate dal notevole disegno luci di Giulia Pastore, si portano su un grigiore algido, definito dall’intonazione fredda e verdognola delle pareti della casa, che ci si rivela nel suo farsi salotto, luogo iconico del paesaggio borghese.
È qui che viene ambientata la vicenda con una serie di secondi e terzi piani rivelati con il loro aprirsi e chiudersi allo sguardo, ottenuti mediante la luce riflessa sulle tende diaframmatiche di tulle.
In questo interno ha luogo la tragedia, e Lorenzi ne restituisce una meccanica chiara, leggibile e che in diversi momenti raggiunge una potenza evocativa e rivelatoria caratteristica della lucidità profetica di Pasolini, la cui parola arriva distinta e particolarmente chiara, cosa non comune nelle rappresentazioni del suo teatro, proprio perché l’autore stesso finiva per offuscarne la linearità, confondendo i piani con giochi labirintici ossessivi fino a divenire anti-teatrali, una sorta di gioco suicida dello scrittore rispetto alla creazione che qui la rielaborazione testuale disinnesca, a tutto vantaggio di una tagliente leggibilità dell’intenzione poetica.
L’operazione rileva ancor più perché il regista riesce a compierla tanto sulla parola pasoliniana quanto sul proprio registro rappresentativo per quello che finora era apparso: niente contaminazioni video, niente scena che cambia vorticosamente, niente turbinare di anime in movimento a spiazzare continuamente lo sguardo. Qui c’è una drammatica fissità, che non è però mai immobilismo: il dramma della decadenza, della vita che scavalla il suo essere arrivata al culmine e inizia il viale del tramonto, l’incapacità dell’uomo, del maschio occidentale, di rassegnarsi al dover finire, vengono portati in scena con efficacia da un valido gruppo di attori, diversi dei quali storici e organici al progetto artistico de Il Mulino di Amleto.
Al netto di un’enfasi recitativo-gestuale tipica delle prime repliche e che di solito si va ad asciugare con l’andare delle rappresentazioni, man mano che si compirà il rapporto con gli spazi, con il pubblico, con la caratteristica teatrale del farsi, lo spettacolo mostra una particolare chiarezza di idee che non chiede e non indulge in ammiccamenti e ricerche di consenso gratuito e facile da parte dello spettatore. L’idea registica è concentrata sull’obiettivo di raccontare non il dramma borghese ma l’archetipo esistenziale, pur rispettando l’ambientazione pasoliniana e la poesia del testo.
I disegni realizzati live da Renzo Francabandera
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Il risultato è apprezzabile e rappresenta dal punto di vista stilistico un’evoluzione della poetica registica nel senso della maturità, del chiarire le idee rispetto al cuore della questione rappresentata, del portare lo spettatore verso alcuni precisi punti di accumulazione che nello spettacolo risultano ben individuabili e culminanti; in particolare nel monologo paterno in cui vengono specificati i tipi di rapporto genitore-figlio, come pure nell’ambiguo ruolo psicanalitico-oracolare di una figura femminile che incarna tanto l’antico drammaturgo quanto il moderno poeta, che rivela allo spettatore il gioco del teatro come unica forma possibile di rappresentazione del reale. La realtà non può essere detta, ma rappresentata, dice Pasolini.
È quello che succede qui.
Il regista, come il pittore esperto, sa portare chi osserva il quadro ad andare con lo sguardo in alcuni precisi punti della rappresentazione, che diventano centri emotivo-simbolici, in cui l’opera trova la sua chiarezza rivelatrice.
AFFABULAZIONE
di Pier Paolo Pasolini
regia Marco Lorenzi
con Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi, Roberta Lanave, Barbara Mazzi, Riccardo Niceforo
dramaturg Laura Olivi
scenografia e costumi Gregorio Zurla
disegno luci Giulia Pastore
disegno sonoro Massimiliano Bressan
assistente alla regia Yuri D’Agostino
suggeritrice Federica Gisonno
scene realizzate dal Laboratorio di Scenotecnica di ERT
responsabile del Laboratorio e capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Sergio Puzzo, Veronica Sbrancia, Davide Lago, Leandro Spadola
scenografi decoratori Ludovica Sitti con Benedetta Monetti, Sarah Menichini, Tiziano Barone
calco e maschere Alessandra Faienza, Ilaria Ariemme
direttore tecnico Massimo Gianaroli
direttore di scena Mauro Fronzi
macchinista Alfonso Pintabuono
elettricista Salvatore Pulpito
fonico Massimiliano Bressan
fonico di palcoscenico Francesco Vacca
sarte Elena Dal Pozzo / Anna Vecchi
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
in collaborazione con AMA Factory e Il Mulino di Amleto
si ringrazia TPE – Teatro Piemonte Europa foto di scena Giuseppe Distefano
video Vladmir Bertozzi
nell’ambito di “Come devi immaginarmi” dedicato a Progetto Pasolini
LEONARDO DELFANTI | Chiude il Festival non c’è differenza, organizzato dal Teatro Laboratorio di Verona per la direzione artistica di Isabella Caserta, uno spettacolo dal forte impatto sociale ed emotivo. L’ultima estate, Falcone e Borsellino 30 anni dopo, su testo di Claudio Fava, è infatti la storia non commemorativa dell’amicizia tra i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo spettacolo ha ottenuto premi e riconoscimenti, riassumibili nel privilegio di essere stato chiamato in Lussemburgo per essere rappresentato presso la Corte Europea di Giustizia.
L’opera, diretta da Chiara Callegari e interpretata magistralmente da Giovanni Santangelo, nei panni di Borsellino e Simone Luglio in quelli di Falcone, è capace di superare la mera celebrazione di due figure mitiche della recente storia nostrana per tramandarne piuttosto l’umanità. L’immagine è racchiusa nel dilemma ben rappresentato dalle parole dello stesso Borsellino, cosciente di esser ormai vicino alla morte: “Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno”.
Per meglio comprendere uno spettacolo che non smette di smuovere coscienze dopo più di 100 repliche in tutta Italia, abbiamo intervistato attori e regista il giorno successivo alla loro data veronese lo scorso 21 maggio.
Che cosa è cambiato dagli attentati del ‘92 a oggi e qual è il senso di fare un altro spettacolo su quello che è stato l’11 settembre italiano?
C. Quando Simone mi ha proposto di fare la regia di questo spettacolo, la mia prima risposta è stata: ma perché dobbiamo rifare l’ennesimo spettacolo su Falcone e Borsellino?
Ci siamo detti era che c’era bisogno di un passaggio di testimone e che questo era possibile solo a patto di raccontarli in quanto uomini e non eroi su di un piedistallo. Ciò che li rende tali è il fatto che avessero paura e dubbi ma che nonostante tutto, da veri eroi, siano andati avanti.
L’altra cosa che ci interessava moltissimo era proprio indagare la relazione d’amicizia tra i due. Noi che non li abbiamo conosciuti di persona siamo dovuti partire dall’amicizia tra Simone e Giovanni. Siamo andati a vivere assieme, complice anche la chiusura dei teatri. Ci siamo ritirati in campagna e due colleghi sono diventati amici. Quello che si vede, in primis, è la loro relazione. E la cosa incredibile è che le persone che hanno conosciuto veramente Falcone e Borsellino, dalla figlia ai colleghi del pool, ci dicono che era veramente così.
Questo perché una relazione di amicizia per ognuno di noi è una relazione vera. Uno più entusiasta e protettivo, l’altro e l’altro molto più razionale, con più tentennamenti, perché quello che metteva in gioco era di più.
Che tipo di lavoro attoriale avete portato avanti nell’affrontare due figure che, anche per via delle numerose fiction e opere su di loro, sono ormai cristallizzate nella memoria collettiva italiana?
S. Parlare al pubblico oggi vuol dire prendersi la responsabilità di tradire. Che si tratti di Amleto o di eroi nazionali, i grandi classici sono tali perché sono stati precursori dei tempi. Falcone e Borsellino hanno parlato alle persone del loro tempo e metterli in scena in maniera “tradizionale”, come vorrebbero alcuni amatori, sarebbe in realtà in vero tradimento perché risulterebbero fuori dal tempo e non più avvicinabili.
In questo, la responsabilità è maggiore perché incontriamo persone che li hanno conosciuti, che li hanno amati e che per sempre lì avranno impressi nella loro memoria.
Questo approccio, in effetti, ha scatenato un dibattito molto vivo l’altra sera…
S. Noi non siamo sul palco per raccontare una storia teatrale, cioè una storia raccontata con il mezzo del teatro e ci dispiace quando le persone si presentano come a una celebrazione. Il ricordo di quella viene dopo, quello deve venire dentro di te, altrimenti ti perdi il racconto, che è la cosa più bella. Questo succede all’estero e con i ragazzi. Loro vengono ad ascoltare un racconto. E questo è bellissimo perché dove c’è da ridere ridono, dove c’è da stupirsi, fanno rumore. E quel rumore per noi è vita, perché sentiamo che è una cosa che non riescono a trattenere.
G. Certe volte l’applauso o la risata nervosa sono partiti proprio dai ragazzi, nel mezzo delle scene più drammatiche. Quella risata esprime l’imbarazzo di un’emozione forte come il pianto. Sentiamo tantissimo la comunicazione del pubblico e capiamo quando sono con noi o quando ci stanno solamente osservando.
Quando andiamo nelle scuole, poi, i ragazzi vengono preparati. Questo è merito degli insegnati. E con nostra graditissima sorpresa abbiamo visto studenti di nove o dieci anni preparatissimi. A Chivasso non solo ci interrompevano per raccontarci gli aneddoti, ma ci hanno anche chiesto come fare per diventare magistrati!
In questi dibattiti si nota il ritorno della passione civile, quella che passa dalla celebrazione a una prima forma di azione.
C. A noi questo piace e pensiamo ce ne sia bisogno. C’è bisogno di piangere e di arrabbiarsi per risvegliare le coscienze. Una cosa incredibile che succede con i giovani, quelli che non hanno vissuto direttamente i fatti, è che vengono a vedere uno spettacolo teatrale, e poi, quando si guardano attorno, vedono le facce dei loro genitori. E allora capiscono.
G. Ci fa piacere perché significa che non c’è distacco. Io, che al momento delle stragi avevo dodici anni, nemmeno sapevo chi fossero Falcone e Borsellino, ovviamente. In questi trent’anni ho approfondito le loro figure e la loro storia e mi sono accorto che più passa il tempo più vengono raccontati con l’aura degli eroi. Portarli invece sul piano umano e potentissimo perché questa è la sensazione che provo io da attore.
Il pubblico vede due uomini semplicissimi che stanno facendo il loro dovere: due persone che hanno fatto il loro lavoro nella paura, nell’allegria e nell’amarezza.
Da cosa siete partiti per ricreare questi due uomini così fortemente impressi nella vostra memoria?
C. Una cosa che abbiamo evitato di fare è stata quella di prendere le parti. Non ci sono buoni e cattivi, ognuno è, all’interno dello spettacolo, così come nella storia. Ogni personaggio ha le proprie ragioni e ognuno crede fermamente di avere ragione e quindi è un conflitto tra persone che hanno perfettamente ragione, dal loro punto di vista ovviamente. Sarà poi il pubblico a decidere, basandosi sui fatti storici.
Per questo ci teniamo molto a terminare lo spettacolo con l’aggiornamento delle sentenze. Questo testo era stato scritto per il ventennale ed era aggiornato a oltre dieci anni fa. Con Claudio abbiamo deciso di riscriverlo fino alle più recenti vicende giudiziarie.
G. L’operazione di Fava in effetti è molto intelligente. Borsellino dice di aver scoperto che c’è una trattativa tra Stato e mafia. Alla luce di questo, riproponendo trent’anni dopo, è obbligatorio inserire che la sentenza del 23 settembre 2021 secondo cui la trattativa c’è stata ma non costituisce reato e che la Cassazione ha recentemente aggiornato assolvendo tutti perché il fatto non sussiste.
E allora qual è la ragione di fare questo spettacolo oggi?
G. Stranamente la cronaca attuale ci sta dando una fortissima motivazione per ritornare a parlarne, perché oggi stiamo rivivendo dei momenti accaduti negli anni ‘70 e’80: quei tempi lì sono attualissimi perché loro li avevano previsti. Falcone e Borsellino avevano previsto la dinamica del potere in Italia
L’ULTIMA ESTATE. Falcone e Borsellino 30 anni dopo
Di Claudio Fava
un progetto di Simone Luglio
regia di Chiara Callegari
con Simone Luglio e Giovanni Santangelo
voce fuori campo Luca Massaro
scene e costumi Simone Luglio
musiche originali di Salvo Seminatore
disegno luci di Massimo Galardini
produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con Chinnicchinnacchi Teatro e Collegamenti Festival
tournée all’estero in collaborazione con la Direzione Generale per la Diplomazia Pubblica e Cultuale delMinistero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale
EUGENIO MIRONE | La parola “memoria” deriva dal verbo greco mimnésco che indica la facoltà della mente di mantenere in vita i contenuti del passato. “Ricordo” deriva invece dal latino re-cordor e significa “richiamare al cuore”: è quindi un termine attinente al campo semantico dei sentimenti più che della ragione, e implica un orizzonte soggettivo. In Depois do silêncio (Dopo il silenzio), l’opera con cui Christiane Jatahy giunge al termine della sua Trilogia degli orrori, l’esigenza di riappropriarsi della storia del suo paese, il Brasile, e di mantenerne in vita le ferite si fondono sulla scena nella dolorosa rievocazione di un passato che continua a macchiare di sangue il presente.
Il paese che ha dato i natali alla regista Leone d’oro alla carriera torna dunque a essere l’oggetto della ricerca storico-artistica di un trittico che nei primi due capitoli, Entre chien et loup e Before the sky falls, aveva approfondito le meccaniche fasciste e maschiliste di cui il paese è ancora vittima. Depois do silêncio si sviluppa nell’ardua impresa di comprendere quali strutture sociali consentano al razzismo e al capitalismo di rinvigorire, ancora oggi, il loro antico legame.
Da tempo l’artista brasiliana cammina lungo un percorso che, in seguito alla vittoria di Jair Bolsonaro alle elezioni politiche del 2018, ha acquisito una direzione ancora più nitida: dare voce e mettere in dialogo. In questo senso, il viaggio che Jatahy sta compiendo con la sua opera attraverso l’Europa vuole essere un incentivo all’autoriflessione. Le ferite del Brasile mostrate nella pièce sono davvero una realtà così distante?
Foto di Christophe Raynaud De Lage
Depois do silêncio nasce da un’esigenza interiore dell’artista: «Come donna bianca brasiliana ho sentito il dovere di testimoniare ciò che stavo subendo». La prospettiva è affidata allo sguardo con cui tre donne rileggono le tristi vicende che hanno coinvolto la fazenda in cui vivono, una delle tante sparse nell’immenso territorio di Aqua Negra.
L’elemento femmineo si sprigiona al massimo grado nella natura che avvolge l’intera regione; anche il pubblico può goderne per mezzo delle immagini dei tre schermi situati a fondo palco che ritraggono tutte le bellezze di Chapada Diamantina, l’immensa area naturale situata nello stato di Bahia.
Due tavoli completano la scena: accanto al primo che giace sulla sinistra perpendicolare all’asse degli schermi si trovano Aduni Guedes, insieme ai suoi strumenti, e Gal Pereira; sedute di fronte al secondo, che occupa il fronte destro del palco, le attrici Juliana França e Caju Bezerra cominciano a raccontare la loro storia, che è anche la storia del romanzo Torto Arado (Tuga Edizioni, 2020).
Il libro è il frutto della ricerca antropologica condotta dallo scrittore brasiliano Itamar Vieira Junior proprio nella comunità di appartenenza delle tre donne; la trama di Torto Arado nasce da una precisa scelta narrativa: l’integrazione tra il materiale documentario raccolto e l’invenzione letteraria.
Su questa particolare caratteristica si fonda il lavoro di Jatahy: in Depois do silêncio testo e drammaturgia si integrano con l’opera letteraria di Vieira Junior, il cardine dell’edificio drammaturgico ruota attorno ai quattro attori che impersonano i personaggi del libro narrandone le vicende in prima persona. In questo gioco di realtà e finzione lo spettatore è costretto ad abbandonarsi al racconto di una storia in cui testimonianza e denuncia riescono a convivere con la sperimentazione artistica.
All’interno della regione di Aqua Negra vive una comunità nera che lavora ancora in stato di schiavitù: uomini e donne coltivano le terre dei fazendeiros senza posa, ricevendo in cambio il permesso di vivere in quegli stessi luoghi con le rispettive famiglie. Essi sono i discendenti di quegli oltre dieci milioni di uomini, donne e bambini che dalla metà del XVI alla fine del XIX secolo furono deportati dall’Africa nel nuovo continente e ridotti in schiavitù (per fare un paragone, negli USA furono “solo” quattrocentomila i prigionieri che arrivarono dall’Africa per essere ridotti in schiavitù).
La vicenda si concentra in particolare su due sorelle, Belonísia e Bibiana figlie del guaridor della comunità Zaca Chapeu Grande e unite da un tragico evento che ha provocato la perdita della parola a Belonísia. Le strade delle due giovani si dividono, una volta diventate adulte, in seguito alla decisione di Bibiana di allontanarsi dalla comunità insieme al marito Saverio Dos Santos per assicurare alla sua famiglia una vita lontana dalla schiavitù. Dopo qualche tempo dal loro ritorno, in seguito al tentativo di risvegliare la coscienza della comunità, Saverio viene assassinato dai sicari dei padroni. Bibiana è decisa a non lasciare che il sacrificio del marito sia reso vano. Dalla sua tenacia ha inizio il racconto della pièce.
L’intero lavoro si basa sulla commistione di realtà differenti e per osmosi si estende anche alla scelta, da parte di Jatahy, di servirsi di linguaggi artistici differenti. La partitura drammaturgica di Depois do silêncio prevede da un lato un contatto stretto tra il canale audiovisivo e quello teatrale, dall’altro il venir meno del confine che separa fiction e realtà documentata. Le rievocazioni, ricostruite e filmate sul posto da Jatahy e la sua troupe, ritraggono insieme ai membri delle comunità anche i quattro performer, che nel frattempo sul palco commentano quanto proposto in pellicola. Il film è stato girato con la tecnica della camera fissa da altezza platea, dando la proporzione dimensionale in scala 1:1, uno stratagemma intelligente che facilita il coinvolgimento dello spettatore, il quale mentre osserva è portato a sentirsi parte della scena.
L’operazione scenica ricalca in maniera analoga quella compiuta da Eduardo Coutinho Cabra in Marcado para morrer (Un uomo segnato dalla morte), il film documentario che narra la storia João Pedro Teixeira, il primo lavoratore di una fazenda che osò organizzare una protesta e, per questo motivo, venne brutalmente assassinato. Cabra fu costretto a interrompere le riprese a causa dell’instaurarsi, nel 1964, della dittatura militare brasiliana; in seguito alla caduta del regime di vent’anni successiva, tornando a intervistare gli appartenenti alla comunità di Teixeira, chiese loro di completare le testimonianze dirette con racconti frutto della fantasia.
Nella parte iniziale della pièce le tre donne commentano le immagini tratte dal documentario di Cabra, il legame tra le due opere si stringe: l’assassinio di Teixeira diviene, contemporaneamente, antefatto e prefigurazione della morte di Saverio.
Suggestiva è la sequenza della festa del Jaré, una delle celebrazioni rituali della religione Candomblé. Il momento scenico mostra tutta l’efficacia della composizione ibrida della pièce: mentre sullo sfondo scorrono le celebrazioni della festa da parte della comunità, sul palco Gal Pereira balla a ritmo del conga percosso da Guedes. Il suo corpo, infervorato in una danza estatica, diviene lo strumento che permette a una delle entità divine, gli Orixàs, di comunicare con gli uomini. Anche la divinità è così vincolata al potere della parola.
La tragedia antica presuppone che un delitto venga purgato con lo spargimento di altro sangue. Bibiana e le altre donne cercano vendetta; ma il meccanismo tragico in Depois do silêncio s’inceppa: «Mi vendico parlando», dice una di loro. È una presa di posizione netta che stabilisce il rifiuto a prendere parte in quel marcio gioco di violenze e soprusi che sta distruggendo il Brasile.
Questa è anche la forza delle comunità di lavoratori di Aqua Negra e del resto del paese, per anni costretti all’anonimato e al silenzio. Ad esse Jatahy ha scelto di donare la propria voce, come Bibiana ha fatto con sua sorella. L’importanza fondamentale del dialogo è il motivo per cui Depois do silêncio esiste su un palco: solo condividendo la parola è possibile rafforzare la voce generale.
DEPOIS DO SILÊNCIO (DOPO IL SILENZIO) prima nazionale
di Christiane Jatahy
dal romanzo Torto Arado di ItamarVieira Junior
ideazione, regia e testo Christiane Jatahy
con Gal Pereira, Juliana França, Caju Bezerra, Aduni Guedes e, per il film, la partecipazione di Lian Gaia e dei residenti delle comunità di Remanso e Iúna – Chapada Dimantina/Bahia/Brasile
collaborazione artistica, scene e luci Thomas Walgrave
foto e video Pedro Faerstein
musica originale Vitor Araujo e Aduni Guedes
sound design e mixing Pedro Vituri
suono (film) Joao Zula
montaggio (film) Mari Becker e Paulo Camacho
costumi Preta Marques
collaborazione al testo Gal Pereira, Juliana França, Lian Gaia e Tatiana Salem Levy
interlocuzione Ana Maria Gonçalves
sistema video Julio Parente
preparazione fisica Dani Lima
assistente alla regia Caju Bezerra
direttore di scena e del suono Diogo Magalhaes
assistente alle luci Leandro Barreto
direttore video Alan de Souza
tour manager Claudia Marques
amministrazione Claudia Petagna
direttore di produzione e distribuzione Henrique Mariano
ESTER FORMATO | Fabrizio Sinisi firma la scrittura di Hiroshima mon amour, spettacolo coprodotto da Teatro degli Incamminati e CTS di Brescia. Il nome Hiroshima ritorna proprio in questi giorni nell’agenda politica internazionale, e di certo, anche a distanza di quasai ottant’anni, è imprescindibile pensare al disastro che la bomba atomica causò il 6 agosto 1945. Quando il celeberrimo film dal quale è tratta la pièce fu presentato nel 1959 al festival di Cannes il mondo sentiva ancora vividi gli strascichi del secondo conflitto mondiale, e portare al cinema quella città aveva un significato molto meno opaco di oggi. Forse facendo leva su tale rischio la pièce scritta da Sinisi, interpretata da Valentina Bartolo e da Francesco Sferrazza Papa per la regia di Paolo Bignamini, cerca di risollevare attraverso il teatro una riflessione sull’ineluttabilità e sulla tragicità di un evento che ha cambiato per sempre le sorti del mondo, mettendo in luce un punto cruciale dell’opera, ovvero l’impossibilità artistica di raccontare una catastrofe così irreversibile per l’umanità. Fu proprio Marguerite Duras, che sceneggiò il film diretto da Alain Resnais, a lasciare alcune riflessioni sulla questione che, nel testo messo in scena dagli Incamminati, vengono saldate, alla partitura del personaggio femminile della storia.
In scena, infatti, vi è la nota e tormentata vicenda amorosa fra un’attrice francese in fuga dal suo passato e un misterioso giovane giapponese. La passione nasce e vive nel giro di poche ore; a testimoniarlo vi è un letto enorme al centro dell’assito il cui spazio coincide con l’intero setting, ovvero una stanza d’albergo il cui arredo scenico risulta essenziale, illuminato da un gioco di luci chiaroscurale. Ed è dal proscenio che Valentina Bartolo avvia una recita che per la prima parte ha un impianto monologico. Infatti, attraverso un’alternanza fra la prima e la terza persona, lo sguardo interno alla vicenda (quello dell’attrice francese, protagonista della storia) convive con quello esterno alla narrazione, della stessa Duras. Come si diceva, fu proprio lei a porre la questione dell’inenarrabilità di Hiroshima, problema che s’innerva di continuo nel film (il protagonista dice alla donna più volte “Tu non sai, non puoi sapere”). Ma proprio a causa di ciò, l’intensa storia d’amore fra un’anonima attrice francese e un altrettanto anonimo architetto giapponese è pervasa da tensioni e suggestioni profonde e inquiete che non sfuggono alla scrittura di Fabrizio Sinisi: come nel film, infatti, tutta la reticenza sulla tragedia di Hiroshima s’innesta nella biografia della donna che nasconde l’orrore della guerra, l’esperienza della fuga da un luogo di morte e l’idea della rinascita.
Hiroscima mon amour, con Valentina Bartolo e Francesco Sferrazza Papa regia di Paolo Bignamini, musiche Corrado Guccini
Raccontare Nevers al posto di Hiroshima: questo è un passaggio intenso nella pellicola e che nello spettacolo teatrale viene colto nel suo significato, ovvero uno scambio apparentemente funzionale alla trama ma che in realtà rende tangibile l’impossibilità di una rielaborazione di quel pezzo di storia, lasciato a margine del Pacifico.
Nessuno dei due, in realtà, può avere esatta consapevolezza né può quantificare l’enormità di una tragedia la cui eco è ancora più che viva, dietro le pareti di quell’albergo; ogni allusione può risultare fuori posto, scomposta, incompleta. Eppure, sarà proprio quell’uomo scavare a poco a poco nell’interiorità di lei fino a rinvenire una minuscola Hiroshima, nascosta nel passato della donna. Man mano Hiroshima sembra dissiparsi, è Nevers, piccolo paese della Francia, ad assumere un peso rilevante.
I due non conoscono solo l’intimità dei loro corpi, ma quella dei loro dolori che si agganciano a una tragedia universale. E così la ferita pulsante e alacre di Hiroshima, punto estremo del mondo, ci riporta nel cuore dell’Europa, quando un amore giovanile è spezzato dalla violenza della guerra. Quindi, l’orrore che apparentemente sembra subire una rimozione, riemerge attraverso questa funesta traslazione. Anche lei, dunque, conserva un marchio indelebile della devastazione. Poi la fuga, Parigi, un’altra vita sino ad arrivare a Hiroshima, nelle braccia di uno sconosciuto. Il cerchio si chiude. Si incontrano come se da questo loro incontro dipendesse tutto, fino a diventare gli unici detentori dell’anima dell’altro.
L’incomprensibilità e l’indecifrabilità delle due esperienze di morte si trasformano in un legame unico che si erge a segno di rinascita da una tragedia universale. Poche storie sul conflitto mondiale ci hanno permesso di distanziarci da una visione eurocentrica dell’accaduto spostando invece l’epicentro dall’altro lato del mondo ed è una delle prime impressioni che ci offre il film di Alain Resnais. Nella riscrittura teatrale di Fabrizio Sinisi, come abbiamo detto, l’adattamento segue fedelmente la pellicola, riproponendo stralci significativi del poetico screenplay originale, rimasto quasi insuperabile nella storia del cinema.
A differenza del film, in cui i ruoli dei due protagonisti sono bilanciati, uno complementare all’altro, la regia teatrale di Paolo Bignamini e la scrittura di Sinisi optano per una struttura per lo più monologica, che conferisce al personaggio maschile una sorta di funzione evocativa, come a cogliere uno dei più intensi momenti dell’opera cinematografica in cui l’attrice ritrova nell’effimero amante giapponese il soldato tedesco amato a Nevers. Quest’aspetto probabilmente sottrae la messinscena dall’alto rischio di una pedissequa elaborazione, riconoscendo nel linguaggio teatrale un ruolo maggiormente allusivo, finalizzato a una più marcata astrazione, rispetto al cinema, sebbene nel caso di Hiroshima, mon amour di carica simbolica ed emotiva ce n’è tanta in ogni scena.
Va comunque detto che, sebbene la scelta di lavorare su una drammaturgia teatrale di Hiroshima mon amour parta dal presupposto di riattivare una riflessione su un evento che da oltre 75 anni ci richiama a una terribile responsabilità di cui probabilmente l’Occidente non è ancora del tutto consapevole, il filologico richiamo all’opera cinematografica per buona parte della pièce la rende più che altro un omaggio, una trasposizione metanarrativa che, seppur raffinata e delicata, agisce da cassa di risonanza e da eco del noto capolavoro.
HIROSHIMA MON AMOUR
dalla sceneggiatura di Marguerite Duras drammaturgia Fabrizio Sinisi con Valentina Bartolo e Francesco Sferrazza Papa musiche dal vivo Corrado Nuccini regia di Paolo Bignamini scene e costumi Maria Paola Di Francesco
disegno luci Pietro Bailo, Simone Moretti
assistente alla regia Giulia Asselta produzione CTB Centro Teatrale Bresciano / Teatro de gli Incamminati
progetto “Classici e scena oggi” a cura di Paola Ranzini – Institut Universitarie de France e Avignon Université
CHIARA AMATO | Nella periferia sud di Milano, all’interno di un edificio dall’aspetto istituzionale, trova la sua sede PACTA, un centro di produzione di numerosi spettacoli, progetti, rassegne e festival, nonché di residenze e formazione. Lo scopo fondamentale dei soci (Annig Raimondi, Maria Eugenia D’Aquino, Fulvio Michelazzi, Riccardo Magherini e Maurizio Pisati) è sociale: restituire al teatro un ruolo di espressione della comunità.
Qui per oltre una settimana, fino al 28 maggio, va in scena Shocking Elsa, ispirato alla vicenda biografica della stilista Elsa Schiaparelli che, insieme a Coco Chanel, viene considerata una delle più influenti figure femminili della moda, nel periodo fra le due guerre mondiali.
La scena, di Eliel Ferreira, è costruita come uno studio televisivo da quiz show e infatti troneggia al centro uno sgabello: ma qui ci sarà una sola e unica concorrente, con ai lati due pannelli con la didascalia ‘The Schiap quiz show’; lo sfondo è occupato da un elemento video che proietta diverse immagini durante lo spettacolo, mentre verso la platea sono poste due scatole di legno, rigorosamente rosa shocking.
Genni D’Aquino appare in un completo color argento e tacchi a spillo pendant, ideati da Angelica Megna, Adriana Cappellari e Gaia dell’Elba (IAAD Istituto di Arte Applicata e Design), e la recita inizia ad articolarsi come uno scambio dialogico fra lei e la voce fuori campo, di Riccardo Magherini, che svolge il ruolo di conduttore nelle domande e nelle prove alle quali la protagonista viene sottoposta.
Emergono così nel racconto (drammaturgia di Livia Castiglioni) elementi professionali e personali della vita della stilista: la collaborazione con i surrealisti; il soprannome parigino Schiap, che la sua famiglia odiava; la spettacolarità teatrale delle sue sfilate; le invenzioni che hanno rivoluzionato il mondo della moda; il rapporto con alcuni familiari, in particolare lo zio, la madre, il padre, il marito e la figlia.
Sicuramente è stato un punto di riferimento, per la regia di Alberto Oliva nell’ideazione con Ilaria Arosio, l’autobiografia Shocking Life e il fatto che realmente la Schiaparelli avesse partecipato a un quiz show durante la sua vita. Qui però si tratta di una confessione post mortem: infatti l’attrice più volte chiede se questa dimensione nella quale si trova sia l’aldilà, e parla della sua vita come finita e passata; ne è consapevole. Cerca per tutto il dialogo/monologo di scoprire chi sia quell’imprecisato interlocutore con il quale fa i conti, fino a scoprire che si tratta di sé stessa.
Il disegno luci, di Fulvio Michelazzi, accompagna momenti intimi in cui incornicia l’attrice in un cono di luce fisso per quasi tutto lo spettacolo, e momenti decisamente più leggeri, dove imperversa una luce rosa intenso, che ci riporta a quell’invenzione cromatica che la Schiap spiegava così: ‘ho dato al rosa la forza del rosso ed è diventato un rosa irreale’.
Le installazioni video, create da Filippo Rossi, Selene Sanua, Christian Bona – Galattico Studio, potrebbero forse essere più coerenti con il tessuto drammaturgico, sia per la qualità dei contenuti che per la quantità, a tratti eccessiva: distolgono forza ad alcuni passaggi, come durante il dialogo che viene inscenato con il padre assente e censore.
La vera forza propulsiva dello spettacolo è D’Aquino, che calca le scene milanesi dal 1984 passando con disinvoltura da ruoli comici ad altri tragici e impegnati, e che anche qui riesce a restituire energia e ironia al suo personaggio. Incarna appieno quello che la Schiap diceva di sé: ‘Molti uomini ammirano le donne forti, ma non le amano. Alcune donne riescono a essere forti e dolci allo stesso tempo, ma la maggior parte di quelle che hanno deciso di andare avanti per la loro strada a testa alta hanno perso la felicità’. E infatti il quadro che emerge tanto dal testo che dalla regia rimanda a una figura sola, sempre in mezzo a una folla di seguaci e conoscenti ma lontana dai suoi affetti reali. L’interprete mostra tutta la modernità di questa donna emancipata, alterna nell’interpretazione toni sommessi a una voce squillante, come in un vero one-woman-show, mantenendo l’attenzione e il coinvolgimento sulla figura quasi eroica della protagonista.
Oliva, giovane ma navigato regista di prosa e d’opera molto attivo particolarmente in Lombardia, punta tutto su questo per la sua regia: sul palco fa muovere la sua interprete che, padrona di tutto lo spazio, balla il tango, fa il verso alla Chanel e si commuove pensando alla figlia.
L’unica risposta possibile al quiz, quella che chiude lo spettacolo sulle note di Life on Mars di Bowie, è: ‘ho fatto tutto da sola’, nella vita come in questo dialogo con il proprio inconscio, pieno di paure nascoste.
SHOCKING ELSA
ideazione di Maria Eugenia D’Aquino, Alberto Oliva, Ilaria Arosio
drammaturgia Livia Castiglioni
regia Alberto Oliva
con Maria Eugenia D’Aquino
voce off Riccardo Magherini
disegno luci Fulvio Michelazzi
visual designer Filippo Rossi, Selene Sanua, Christian Bona – Galattico Studio
musiche originali “Ho creato vestiti con le stelle” Maurizio Pisati
costumi e accessori ideati da Angelica Megna, Adriana Cappellari e Gaia dell’Elba, IAAD Istituto di Arte Applicata e Design, corso di Storia del Costume e della Moda di Francesca Interlenghi
realizzati da Cristina Ongania e Mirella Salvischiani
parrucca e acconciatura Paride Parrucche Milano
costruzioni Eliel Ferreira
assistente alla regia Fabrizio Kofler
produzione PACTA . dei Teatro
SARA PERNIOLA | Continuiamo – dopo il video reportage di Renzo Francabandera – il racconto sulla sesta edizione di POLIS Teatro Festival – dal 2 al 7 maggio a Ravenna e con la direzione artistica di Davide Sacco e Agata Tomšič -, che per quest’anno ha voluto focalizzarsi sui movimenti migratori e i conflitti lungo la rotta balcanica, sul fronte variegato delle milizie dello Stato e quelle ribelli, in relazione con le questioni di genere. Un festival prezioso e dal respiro internazionale, che abbraccia la necessaria tematica dei diritti umani e il senso della giustizia, dello stato di marginalità e della rabbia verso la precarietà esistenziale.
L’ultimo giorno del festival si apre con il racconto teatrale PPP ti presento l’Albania – spettacolo vincitore di MittelYoung 2021 – del giovane artista italo-albanese Klaus Martini: una storia che racconta la riconquista del mondo dell’infanzia da parte del figlio ventenne di migranti albanesi, ospitata nel suggestivo Teatro Socjale di Piangipane, luogo fondato dai braccianti della zona negli anni ‘20 e che rafforza la potenza e l’impatto emotivo della pièce. Lo sguardo è rivolto a Pasolini e al suo romanzo Il sogno di una cosa, opera del biennio ’49-’50 in cui viene rappresentato l’universo contadino friulano, visto nelle sue aspirazioni politiche e sociali deluse, ma sostanzialmente immerso in una dimensione idillica e dallo stile elegiaco.
É così che sul palcoscenico il protagonista Ilir – coinvolgente alter-ego del regista -, dopo aver letto il testo, inizia una corrispondenza immaginaria con PPP che lo spinge a parlare del fascismo in Albania e della migrazione dei suoi genitori, della vigorosa tradizione dei nonni e dello stato attuale della realtà, cercando una centratura nella dialettica tra il senso dell’appartenenza alla terra delle proprie origini e la rivisitazione nostalgica di un sogno infranto. Un sogno infranto che è un mondo da cui si è dovuto allontanare per preservare la possibilità di una nuova e diversa integrazione, ma a cui egli, inevitabilmente, si avvicina con i sentimenti fino a penetrarlo e a coglierne l’essenza.
ph. Dario Bonazza
Il linguaggio scenografico è asciutto ed essenziale, costituito semplicemente da un filo di lucine accese su cui sono appese delle fotografie, una sedia e un tavolo bianchi, un bicchiere d’acqua e un cassetto aperto per terra con un paio di oggetti all’interno. Nell’aria riecheggia una tipica musica balcanica. Una descrizione fisica dell’ambiente che sembra voler direzionare sull’aspetto psicologico di Ilir – in pantaloni neri e camicia bianca, perfettamente in linea con lo sfondo -, il quale si mostra a noi, nel tentativo di ricongiungersi con il suo passato, fragile e delicato, complesso e ironico. Klaus Martini utilizza sapientemente i gesti, la parola, la voce, sia per ricomporre i suoi traumi personali, sia per proiettare nell’immaginario del pubblico problematiche scottanti, le quali derivano da contesti diversi geograficamente, ma legate tra loro storicamente e umanamente: pensiamo, così, a figure di scafisti, anziani, bambini; riflettiamo sulle deplorevoli dinamiche di potere e sulle popolazioni in esilio. Uno spettacolo che ci lascia uno sguardo commosso, facendoci avvicinare a una materia narrata con grande poeticità.
Dalla diversa violenza espressionistica è la pièce multidisciplinare Nemico (attraversando i Balcani) del collettivo francese ZONE – poème/Mélodie Lasselin e Simon Capelle, basata sul mettere in discussione la nozione di nemico e interrogarsi su quella di pace, in relazione ai conflitti attuali e passati dell’Europa. La creazione artistica – risultato di una lunga residenza degli artisti nei Balcani, durante l’estate scorsa e in reazione alla guerra in Ucraina – si rivela essere un lavoro dai connotati duri e feroci, animata dalla volontà di rappresentare oggettivamente episodi sulla memoria della guerra in determinati territori, senza che nulla possa essere venato di lirismo. Le artiste Camille Dagen, Mélodie Lasselin & Léa Pérat entrano in scena con un jeans e un pantalone militare, una camicia e una maglietta arancioni, i capelli legati, mentre riecheggia nell’aria questa domanda: «Quante voci ascoltiamo?» É così che inizia la serie di monologhi di ciò che accade prima in Kosovo e in Albania, poi nel Montenegro e in Bosnia-Erzegovina, infine in Serbia. Si raccontano le ingiustizie e i fantasmi del passato dal 1991 a ora, del «calore della guerra che sfinisce le carni» e dei rivoli di lacrime, sentendosi «come Antigone sul porto di Tebe». Un intenso atto di conoscenza storica rappresentato e pensato appositamente per gli spazi del MAR – Museo d’Arte della città: i suoi ambienti, infatti, sono attraversati da oggetti e indumenti inerenti la guerra; la sala in cui lo spettacolo viene rappresentato è riempita da cocci rotti e da due schermi su cui scorrono parole che narrano conflitti, mentre vengono vigorosamente riprodotte voci di soldati e suoni di guerra. Un grido alla pace e al suo desiderio che guardiamo impressionati, mentre entriamo in contatto con destini di Paesi che rimangono distanti dall’ingresso in Unione Europea a causa di guerre fratricide.
ph. Dario Bonazza
Il minatore di Husino (Il mio passato è il tuo futuro) del regista bosnicao Branko Šimić è, infine, un’installazione presente nello spazio del Ridotto del Teatro Rasi che simboleggia la rivolta dei lavoratori degli anni ‘20 a Tuzla, in Bosnia-Erzegovina, in ribellione per ottenere migliori condizioni salariali e di lavoro. L’evento è reincarnato nella figura di un minatore – una scultura fatta di piccoli specchi realizzata dall’artista Marc Einsiedel – che richiama la cultura disco, con il braccio destro alzato e il fucile in mano, mentre gira su un piedistallo rifrangendo luci colorate che riceve dalla “disco ball” e che si propagano dappertutto in maniera trasversale, colorando il buio della sala. Alle spalle dell’opera ci sono due schermi su cui scorrono le parole che raccontano la vicenda, accompagnando la narrazione registrata a voce che contribuisce a rendere ancora più immersiva questa esperienza multimediale-sensoriale.
Usciamo dalla sala consapevoli dell’importanza di lottare sempre per i diritti dei lavoratori, riflettendo sulle transizioni che hanno decostruito e ricostruito tutto come il post-socialismo e le corporazioni capitaliste, sui nuovi sistemi di valori del postmodernismo. Lo spirito, però, è anche pieno di coraggio, poiché conscio che la speranza, la libertà e il desiderio di cambiamento, possono essere riposti ancora nel potere dell’arte e della cultura, vitali strumenti contro ogni tipo di schiavitù.
ph. Dario Bonazza
POLIS, quindi, conferma il merito dell’importante traguardo che gli è stato conferito pochi giorni fa dal Ministero della Cultura (Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo) inerente l’assegnazione della qualità artistica più alta tra i Festival di teatro italiani (art. 17) e il punteggio totale più alto tra le Prime istanze triennali della stessa categoria. Un festival che vedrà il proprio epilogo – il 10 e 11 giugno 2023 al Teatro Alighieri e in collaborazione con Ravenna Festival – con la prima nazionale di GAIA, la nuova produzione di ErosAntEros sul cambiamento climatico. Un grido di aiuto che racconterà di un’emergenza che non si può ignorare, un atto di ribellione in cui siamo tutti coinvolti, soprattutto dopo la violenta alluvione che ha colpito l’Emilia-Romagna in questi giorni e che acuisce la rabbia e la solidarietà di tutti noi.
PPP ti presento l’Albania di e con Klaus Martini disegno luci Stefano Bragagnolo
Nemico (attraversando i Balcani) ideazione Mélodie Lasselin & Simon Capelle
testo Simon Capelle
coreografia Mélodie Lasselin
performance Camille Dagen, Mélodie Lasselin & Léa Pérat
creazione musicale Restive Plaggona
set designer e costumi Emma Depoid
illustrazione Giulia Betti
fotografia di scena Martina Pozzan produzione ZONE -poème
coproduzione ErosAntEros – POLIS Teatro Festival
residenza Le Gymnase – CDCN Roubaix
Il minatore di Husino (Il mio passato è il tuo futuro) autore Branko Šimić statuaMarc Einsiedel musica Mirza Rahmanović-Indigo attore Dražen Pavlović assistente dell’autore Alen Šimic producer Ljubiša Veljković marketing Darko Marković realizzazione tecnica Dalibor Brkić foto e video Mario Ilić & Mario Stjepić produzione JU Muzej Istočne Bosne Tuzla & KRASS Kultur Crash Festival Hamburg & Kampnagel Hamburg
7 maggio 2023, Teatro Socjale di Piangipane MAR – Museo d’Arte, Teatro Rasi, Ravenna
RENZO FRANCABANDERA | Incontriamo Mimmo Borrelli dopo quelle che possono essere viste come un punto importante del percorso artistico e produttivo, ovvero le repliche presso il Piccolo Teatro Studio di Milano de La Cupa.
Lo spettacolo racconta, in una atmosfera oscura e opprimente, della faida che contrappone due famiglie di scavatori di tufo protagoniste della creazione di Borrelli, premiata due anni fa proprio in questo teatro con il premio Ubu, e che ha avuto le sue repliche a Milano dal 10 al 14 maggio. Il pubblico cittadino ha potuto confrontarsi con la scrittura visionaria, declinata in quindicimila versi di una lingua napoletana potente in cui risuonano echi di Basile e Shakespeare, baluginano riferimenti al Teatro Nō e alla tragedia greca.
Mimmo, La Cupa chiude forse un cerchio rispetto a una tua elaborazione di segni scenici, parole, pensieri sul fatto teatrale, che si ricollegano direttamente a La madre e ad altri esperimenti condotti in questi anni. Lo pensi anche tu?
La Cupa è il testo che determina lo “svango”, lo svuotamento, quel passaggio dalla Trinità dell’Acqua(’Nzularchia – 2003; ’A Sciaveca – 2006; La Madre: ’i figlie so’ piezze ’i sfaccimma – 2010) alla Trinità della Terra. La Cupa è una ferita, la voragine del mondo, metafora del suo buio sprofondamento. Unica salvezza l’oscurità, unica condizione di benessere, la cattiveria. È un’opera che racconta una deriva in un tempo dove un bambino fin dall’età di un anno e mezzo non ha più la possibilità di sviluppare quello che è stato il fuoco sacro dell’evoluzione umana: la creatività. Senza creazione, senza creatività una civiltà è destinata ad estinguersi. Ai bambini viene tarpata l’età del gioco e dell’infanzia: oggi come oggi, ogni apprendimento è indotto, è già condotto verso un’illusoria e fallace vittoria apparente; prima si giocava con le pietre e con quelle ci si immaginava ad essere guerrieri, soldati o principi e mostri, ora quei mostri sono già creati e con un gesto su un touch-screen si ha la sensazione di condurli alla vittoria, mentre la sconfitta è dietro il compimento l’ultimo quadro: l’oblivione, l’appannamento della creatività a favore di una lobotomia genetica della coscienza.
E in questa riflessione ho condotto una riflessione più grande seppur semplice: la difficoltà della paternità in questa epoca. Essere o non poter essere padre in questo mondo.
La famiglia è il termometro dell’esistenza e la spia che da sempre, nella sua virulente forma, ha lasciato scoperte le facciate agli scoppi delle sue crepe. Dalla terra sono stati creati uomini e case. Dalla pietra dalle insidie della terra ci difendiamo con la pietra, nella pietra ci tumuliamo.
Cos’è una cava? È un incavo nella terra, come dell’esistenza umana. Il territorio devastato e smosso trascende nell’allegoria del familiare che qui non sprofonda, ma ha crepe, dilavamenti e cupe che riemergono col tempo dal sottosuolo già violato. L’inane spinta verso l’inferno della montagna e non verso il cielo.
Ma questo come si proietta nel lavoro con gli attori?
Con La Cupa volevo mettere in piedi anche un discorso assolutamente politico su quello che deve essere il percorso di un attore che affronta le mie opere. Si tratta di un percorso che dura anni, così come l’autore impiega anni per scrivere il testo. Non si può prescindere da tale allenamento, altrimenti si impacchetta e si compie uno spettacolo di intrattenimento e non un atto culturale e politico che il teatro è e deve essere.
In questo accompagnamento ormai da quasi dieci anni, mi sono adoperato ad addestrare personalmente un manipolo di attori ad affrontare tale drammaturgia, attraverso seminari e progetti di formazione. Addestrarli per poi averli pronti, per solo 7/8 settimane di prove e non anni come i grandi registi stranieri sostenuti da un sistema ministeriale diverso. Un lavoro di scavo dove il mio teatro, seppur molto formalizzato, vuole prescindere assolutamente dalla finzione, ma adoperare in modo maniacale un salto nel pericolo continuo. Mettersi in gioco e in pericolo sempre, su un solo argomento: la verità degli attraversamenti emotivi, in un’ossessiva formalizzazione e replica continua di quel vero-finto-vero. Il tutto procedendo su quell’idea di teatro totale che evolve la prosa, evitando la danza, le sue convenzioni rispetto a grazia e femminilità, ma tenendone i prodromi del ritmo, del suono, del verso, delle geometrie, del canto che ricade nel corpo e in un corpo che mai cerca di sostituirsi al verso.
La voce è corpo. La voce è il vero strumento emotivo della prosa e della verità. In questo evitando quell’errore e orrore continuo e perenne di sostituire col corpo l’incapacità attoriale e registica di chi non sa risolvere la parola vedendola come un limite, anziché un trampolino. La voce muove il corpo, il canto muove la visione ed una missione. Quella di raccontare e agire e liberare una storia e non raccontare il pensiero deviato e sempre fallace, poiché intellettivo, che il regista si fa di quella storia.
Anche in questo La Cupa chiude un cerchio: avendo per la prima volta la possibilità produttiva di tanti attori a disposizione, potevo determinare il mio teatro, che qualcuno ha definito totale. Durante le prove ero avvezzo dire che indipendentemente dalla qualità artistica che è sempre opinabile, stavamo facendo qualcosa che non avevo mai visto: prosa ma non fino in fondo, danza (e fortunatamente) non fino in fondo, epica, sceneggiata ma non fino in fondo, dramma musicale, melodramma, teatro no, teatro kabuki.
C’è da sempre un tuo bisogno di rappresentare una umanità degradata, in cui si mescolano disperazione, società e nuclei familiari disgregati, ammalati di un erotismo disperato e blasfemo. E di converso la presenza di figure innocenti, vittime del loro candore e del loro anelito spirituale. Da cosa nascono in te questi conflitti? Come ti raccontano queste epifanie sceniche?
Il motivo è chirurgico. Io dico sempre che un drammaturgo è e deve essere uno stupratore di storie. Il mio intento da narratore e poeta di queste epoche è spostare la percezione del male, che ci arriva notificato sui cellulari in ogni dove e in ogni forma e notizia; quel globale fasullo che non ci coglie più e storpia nella coscienza e nella misericordia ogni nostra percezione. Poiché ne siamo assuefatti, inevitabilmente per la quantità inenarrabile e non percepibile. In teatro bisogna invece farsi sentire, sensorialmente.
Ne La Cupa, per verticalizzare il tutto, dovevo spostare quelli che sono poi rapporti familiari impossibili, attraverso non il corpo (che di per sé è elegante) ma il linguaggio.
Un testo imperniato, inchiodato e crocefisso in marmo di miseria, sull’impossibilità di essere padre senza mal ferire e senza peccato, nell’onnivora società di consumo moderna. Dove il consumo, il corrodere esistenze e vite disperate, l’inane esistenza di apparire per sentirsi vivi, rende quelle esistenze stesse sempre più limate come pietre di tufo in polvere. Tutto ciò è allegoria fondante del processo di scrittura dei versi, alle fondamenta di quello che è poi il vacuo e vuoto benessere di un sempre più ipocrita quieto vivere. Quel benessere senza etica di paternità e senza Dio, senza più origini e identità, dove il “piccato” e scolpito liberismo anticamera del fascismo, distrugge e omologa, scava e appiattisce, rimuove per coprire nell’incavo di una dimenticanza immorale ormai consunta dall’orrore. Ogni rapporto familiare è degradato e perverso. Anche la sessualità deviata dei personaggi è assolutamente spinta e sta ad indicarne una mutazione, non verso l’animale, che sarebbe di per sé positiva, ma verso uomini che ragionano e rivolgono la loro intelligenza al male. Bestie con la ragione e dunque mosse da istinti perversi. Linguaggio che verticalizza l’orrore attraverso il non detto, una lingua spigolosa e scorretta, che accumula per sovrapposizione, calembour struggenti, poesie e atti d’amore, invettive della peggior fatta, liquami e umori escatologici d’ogni sorta. Creature mostruose, che si muovono eleganti verso questa bestiale “primordialità” animale, spostando sempre più l’asse del linguaggio: che di per sé è volutamente inquinato di metafore, iperboli, lessico iconoclasta e neologie blasfeme. Tutto questo per esplicitare, anche destando fastidio, il pericolo che corre l’umanità nel suo autodistruggersi.
La Cupa
Questo testo alla fine parla di cose enormemente attuali: pedofilia, incesto, violenza sulle donne e minori, uxoricidio, parricidio, figlicidio paterno. Argomenti del tutto esposti alla realtà del presente, ma rispetto ai quali non sentiamo e percepiamo più l’orrore, poiché siamo avvinti da quell’ assuefazione, dovuta al lucro dei mezzi televisivi e telematici, circa la diffusione di tali notizie. L’intento dell’autore e anche della regia è stato quello di mettere in crisi e spostate ancor più in basso sul pentagramma della tastiera dello sdegno, l’asse della violenza di questa vicenda per allarmarne il pericolo. Rispetto a questi orrori, dunque, dare materia viva di suono ai sentimenti di collera, disperazione e strazio, con l’uso reiterato di un turpiloquio ossessivo, preordinato che muove la dannazione certa di queste anime condannate, in una sorta di confessionale in processione.
La lingua diventa però contraltare basso e debordante di un’altra esigenza, quella della bellezza della scena, dei costumi e dei corpi, nella continua ricerca di un combattimento continuo, ma stilizzato, tra l’eleganza del male e i liquami del suo degrado.
Come è possibile, per un artista che arriva ad una elaborazione così compiuta e piena del proprio sistema di rappresentazione, continuare a sfidarsi, a uscire dalla propria zona di comfort, di maturità stilistica riconosciuta, per continuare la ricerca?
Io non ragiono mai da artista; artigiano sì, forse. Ma da essere umano. Sulla necessità di raccontare e veicolare.
Sull’urgenza del racconto.
Scrivo prima di tutto per salvare me stesso e la mia piccola comunità, Torregaveta, che poi è divenuta il cosmo del mio mondo altrove. Poiché in effetti, nei miei testi uso personaggi vicini alla mia realtà, quotidianità, per parlare poi fondamentalmente di me e delle mie povertà esistenziali. Il tutto nella famosa legge teatrale del parlare di sé non attraverso il proprio sé, ma attraverso gli altri. Nulla, dal 2012 fino al 2017 avevo forti dubbi sulle mie possibilità di essere all’altezza di una famiglia, con la mia attuale moglie, allora compagna. Insomma di essere padre davvero. Dunque nel testo questo aspetto è molto sviscerato e fortemente presente. Una paternità nel suo patriarcato esecrabile messa in discussione fortemente.
Scrivo quindi prima di tutto per salvare me, nella speranza di salvare almeno il prossimo vicino, non pretendo il pubblico intero che però corre a vedermi. Salvare il mondo è impossibile e guai a chi si erge a Dio in terra. Ma ogni particolare è cellula di un’universalità, forse la mia fortuna è stata questa. Per il comfort, io agisco così dal 2003 cioè non penso mai di uscirne, poiché è il mondo creativo comodo che consente di evocare i propri morti. E non devo pensarci. Quello è un pensiero che lascio ai miei colleghi registi, che hanno il bisogno di piacere, accattivare inseguire il successo. Il mio unico bisogno è veicolare delle mie verità oscure. Quando non ne avrò più farò repertorio e veicolerò ciò che di bene e male ho messo in atto. Solo la parola salva.
Ph Flavia Tartaglia
Dentro le tue opere c’è sempre una grandissima musicalità, che fra parola e suoni le spinge in un’area che si avvicina al musical espressionista kantoriano. Ti sei chiesto come mai?
Non me lo sono mai chiesto, mai, ma un motivo c’è. Poiché il melodramma (il genere teatrale più importante che abbiamo mai ideato) nasce in Italia, anticipato da Metastasio, ma approfondito dall’invenzione dell’opera buffa che avviene a Napoli con Paisiello. Operazione non minore affatto: anzi, che arricchì l’opera seria e definì l’evoluzione di quei canoni dell’opera lirica che di lì a poco avrebbero preso il sopravvento, poi a cavallo tra ottocento e novecento, ancora oggi praticati. Nel frattempo Napoli diveniva una delle capitali del teatro in quei secoli, con l’invenzione di generi come il vaudeville, da lì poi la sceneggiata seppur genere minore, l’opera teatrale, politica e musicale enorme di Raffaele Viviani, che anticipa e sovrasta, in verticalità è qualità l’opera dello stesso Brecht. Lo sviluppo di famiglie teatrali dai comici dell’arte dal 600 ad oggi: da Sannazzaro a Caracciolo, dall’attore Silvio Fiorillo (primo pulcinella della storia forse) all’autore Velardiniello, per passare poi all’ottocento con la dinastia di Antonio Petito, poi a quella di Eduardo Scarpetta, fino ad arrivare al già citato Viviani, a Roberto Bracco (defraudato del premio Nobel dalle ingerenze fasciste che lo boicottarono), fino al novecento con Eduardo e la famiglia De Filippo, al principe della risata Antonio De Curtis, arrivando poi all’etnoteatromusicologia di Roberto De Simone; passando di assito in assito, per la canzone classica e macchiettistica: da Di Giacomo, Ferdinando Russo, Libero Bovio, E.A Mario, Ernesto Murolo, Taranto, Maldacea, Pisano e Cioffi. Siamo di fronte ad una città stato unica nel suo genere e di una cultura teatrale e musicale che ha ideato e dato vita a generi diversi che poi sono esplosi in tutto il mondo. Un teatro a scena aperta che si affaccia sull’orlo di una tradizione in movimento ed una lingua scenica ancora viva e soprattutto parlata e dunque inequivocabile nel raccontare l’azione ed il presente.
In questo senso quello che qualcuno ha definito teatro totale non poteva che esplicitarsi sulla cima di queste passate esperienze, poi spostandomi verso l’orizzonte delle origini ebraiche e salmodiate dei Campi Flegrei, fino alla melopea greca di Cuma (la prima città Italiana), alle reminiscenze poetiche dei latini ed in particolare di Virgilio, che visse in queste zone e raccontò quel mondo. Insomma se il mio teatro un passo in più ha compiuto, è stato possibile solo per la presenza di una tradizione immane e presente.
Su Kantor e Grotowski ai quali con onore vengo paragonato, posso dire di aver letto tutti i loro scritti e testimonianze sul loro lavoro, ma per motivi anagrafici di non aver mai potuto assistere al loro lavoro dal vivo. La mia formazione da ex cantante lirico, burattinaio e becero attore di giro, si rifà rubando a destra e a manca, ma senza i mezzi di oggi dove su internet puoi trovare di tutto. Credo che la mia fortuna sia stata proprio per citare uno dei due, questa povertà. Senza mai uno spazio, senza laboratori e mai ricattando gli attori per anni con seminari pagati, ma solo in una stanza, unica libertà una penna, un foglio e la sapienza attoriale artigianale proveniente dal basso. Prevedere tutto in laboratorio, poi andare alle prove. C’è chi pensa che La Cupa venga da anni di prove, invece come dicevo prima, solo 8 settimane scarse con un gruppo di attori fedele e meraviglioso.
Ph Flavia Tartaglia
Il vero dramma de La Cupa, tuttavia, più che in scena è fuori scena perché mette a nudo la fragilità e i limiti di un sistema teatrale incapace ormai di permettere la circuitazione nazionale di lavori con più di due o tre persone in scena, e di favorirne il lancio a livello internazionale, cosa che pure un’opera così matura, al di là di ogni barriera linguistica, meriterebbero. Anche questa è una tragedia senza speranze?
A tale proposito vorrei rispondere con alcuni pensieri e idee che esposi in varie interviste sul senso del teatro in piena pandemia nel 2020, ma ancora irrisolti ed attuali.
L’arte d’improvviso, almeno secondo me, non ha nulla a che vedere con l’astratto, ma si misura con la concretezza della materia, del contatto oggi precluso e quindi del corpo.
Il teatro quello vero si fa insieme, si fa in comunità. Si fa in tanti, si fa costituendo un mondo altrove attraverso la formazione sociale e umana di una famiglia altrove: la compagnia.
Il teatro moderno purtroppo, soprattutto quello finanziato dallo stato, nei circuiti ufficiali e non, sperimentali e di trincea, tralasciando quelli commerciali, è un fenomeno assolutamente e dannatamente borghese.
Del potere e la presenza borghese.
Un fenomeno unicamente partecipativo, che fonda l’individuo sociale, il quale attraverso l’illusione di partecipazione a eventi culturali, compie il suo passaporto e percorso ipocrita e iniziatico di uomo sociale, il quale ha il dovere di andare a teatro solo per compiere un dovere sociale e non per inseguire un piacere viscerale e primordiale. Esistere.
Non viene in sala per farsi emozionare e riflettere, ma unicamente per partecipare ad un evento senza alcuna partecipazione emotiva e rituale.
È quell’atto non necessario, ma comunitario, di cui il borghese ha bisogno per sentirsi parte eletta viva e culturale di una società. Non è un processo dettato dal vero fuoco della conoscenza, dell’assemblea della catarsi collettiva nell’aver fede in un aedo che canta e racconta l’incapacità dell’uomo di stare al mondo.
Un processo di frequentazione non partecipativo, senza la presenza di un corpo connesso, che determina un pubblico apparentemente partecipativo, ma poco interessato se non a morfeo e alla noia del suo passare il tempo.
Risultante è la percentuale altissima di persone che durante gli spettacoli ergono ad arto ed estensione corporale e schermo tra la catarsi e la scena, l’emozione e la poltrona, uno schermo cellulare dove e soprattutto mentre, in scena vi è qualcuno eletto dal proprio silenzio alla parola. Si è in un luogo, silenti e poco attenti, agendo il riflesso incondizionato, ma evidentissimo e tracciato di voler essere altrove.
L’altro tipo di riflessione va fatta sugli enti, pubblici e privati.
Cosa deve essere sostenuto dallo stato e non? Quesito che forse non avrà mai una risposta ma ho il dovere di porlo sia per me, che per il rispetto di questa possibilità di contraddittorio.
Che senso ha che lo stato sostenga “ministerialmente” un teatro commerciale che già di per sé ha introiti di consenso?
Ph Flavia Tartaglia
È l’annoso e irrisolvibile problema: come a chi spetta nell’intera struttura pubblica, il compito di decidere cosa è degno da sostenere in quanto arte e cosa non sostenere in quanto intrattenimento? Cosa e quale teatro è al servizio politico e morale nel suo essere amorale, della società e cosa è unicamente d’intrattenimento?
Ma dato che la politica invade e inquina con ignoranza e incapacità e corruzione entrambi gli ambiti vedremo sempre scelte artistiche pubbliche e a volte anche private, che non avranno alcuna ragione e alcun nesso e legame al valore artistico dell’opera. Tranne che raramente per alcuni e felici casi.
Qual è il teatro che va promosso dallo stato, qual è il teatro che non va promosso?
Io credo che l’iper produzione ministeriale e l’arroccamento di premi ormai settoriali e parziali, dove ogn’uno premia gli amici degli amici, non da possibilità alcuna ad un giovane (io sono salvo) di emergere con meritocrazia. Credo invece nel repertorio, non nel nuovo, quello è un’onnivora deriva consumista che ha travolto, teatri, intellettuali, artisti (pochi), attori e critici in modo irreversibile.
Il tuo fare artistico è dilatato. Sei irruento nel creare ma non compulsivo nel produrre. Pensi sia un limite, o è un lusso che puoi permetterti (forse anche grazie ad altri medium che ti affrancano dalle contingenze teatrali)?
Ogni limite penso sia prima un confine, dunque una immane forza. Io non credo nell’infinità, ma credo nello specificare oggettivare ed ampliare i propri confini con i propri mezzi. Non credo ovviamente nel teatro di regia critica che è stato ideato da Strehler e Ronconi e come mi disse personalmente quest’ultimo è morto con loro. Credo che il compito dei poeti sia evidenziare la storia per farla aderire alla memoria. Credo nei testi. Ma di Siae non si campa. Per finanziare Mimmo autore devo fare mille altri mestieri, seppur fortunatamente complementari e necessari alla sopravvivenza della figura del drammaturgo stesso: regista, attore, poeta, direttore artistico, consulente, attore di cinema, insegnante, docente.
Ph Flavia Tartaglia
Se questa condizione affligge il sottoscritto, non oso immaginare per un giovane che si appresta e affaccia al mondo della drammaturgia. In effetti scrivere ha bisogno di tempo e non credo affatto di essere irruente anzi, molto matematico. La parte del fuoco impulsiva è forse nella stesura delle poesie: almeno una ogni tre giorni che raccolgo, documento e metto in elenco; poi le interviste che sbobino a mano; raccolta e numerazione di detti, proverbi, storie e locuzioni; i temi; le letture; traduzione di libri sacri come bibbia e corano; tutto catalogato e numerato. Dopo anni di raccolta dei prodotti, procedo ma in modo ordinato e glaciale: sveglia alle otto del mattino, studio delle scene il giorno prima e costruzione della scena in versi costringendomi ad inserire (versi, poesie, locuzioni, passi della bibbia, temi, proverbi, storie) ciò che si è deciso, imponendo di attenermi a questa regola. Alle 16.00 mi alzo e verifico il blocco di versi scritti a penna. Elimino e cancello le cose usate. Giorno dopo si riparte daccapo. Sempre già immaginando la regia probabile e le immagini. Prevedere tutto senza lasciare nulla al caso. Un lavoro lungo ma che fa una grande differenza e che produttivamente rende molto di più delle economie spese per finanziare una compagnia di danza per due anni in cerca di idee drammaturgiche e sceniche. Io non ho mai avuto questa fortuna, ma la sfortuna inconscia di aver creato un privilegio. La libertà di immaginare da solo.
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