RENZO FRANCABANDERA e ELENA SCOLARI | RF: La premiazione di Ursina Lardi con il Leone d’Argento 2025 è stata una delle più pirotecniche e politiche degli ultimi anni: un discorso di ringraziamento che non ha avuto nessun timore per la presenza del ministro di un governo di destra che l’aveva appena premiata per la sua multiforme carriera ma ancor più, ovviamente, per questi ultimi anni quali interprete feticcio delle inquietudini del regista Milo Rau. Lardi è in quattro dei suoi maggiori successi, compreso quello di cui andiamo a parlare: Compassion. The History of the Machine Gun* (2016), LENIN (2017), Everywoman (2020), e Die Seherin (The Seer) (2025), in cui interpreta una fotoreporter di guerra la cui figura si sovrappone, nel controluce drammaturgico, a quella di una moderna Cassandra. Diciamo che, se Dafoe cercava una incarnazione metaforica del corpo attore, tema a cui ha voluto dedicare questa edizione della Biennale 2025, l’attrice svizzera è davvero esemplare. La sua carriera interseca teatro, cinema e impegno civile.
ES: Se non ti dispiace entro subito in medias res, dicendoti la cosa che più mi ha colpito e fatto pensare, vedendo The seer (trad. La veggente): Ursina Lardi è in scena, lei e il suo corpo in jeans e camicia, ed è bravissima; Hassan Azad, l’altro interprete dello spettacolo, appare solo in video, il suo corpo è per noi un insieme di pixel proiettati su uno schermo (per giunta parla in arabo) e chissà cosa sta facendo mentre noi siamo alla Biennale, eppure è una presenza magnetica, vigorosa, tanto appuntita da rimanere in testa per giorni. Rau realizza il paradosso di rendere dannatamente vero ciò che è assente, chiedendo a Lardi – che invece è lì con noi al Teatro alle Tese dell’Arsenale di Venezia, in quella specifica sera – di interpretare il difficilissimo ruolo di tramite. Lei diventa un ponte per la verità, un Caronte narrativo che traghetta il pubblico verso una dimensione inesistente ma dove si scorge il senso. Il senso ultimo delle cose.
RF: Su questo ti dico solo che al momento degli applausi mi aspettavo di veder uscire a prendere il tributo del pubblico anche il giovane professore di Ninive, che porta al pubblico il racconto della sua vita sotto l’ISIS fino al drammatico episodio di una mutilazione fisica, per dire di quanto la sua presenza a video è concreta e viva ancorché mediata e mediale.
ES: In una Biennale dedicata al corpo – inteso come corpo teatrale, corpo narrativo, corpo politico – questo ultimo lavoro del regista svizzero ci mostra, ancora una volta, quanto possa essere forte il corpo della parola, perché la sua è una bellissima scrittura. L’egregio lavoro di Bettina Ehrlich sulla drammaturgia permette di far emergere – senza che ce ne si accorga, durante la visione – la curva del respiro dello spettacolo: c’è un ritmo, c’è un equilibrio “giusto” – per niente facile da ottenere – tra l’alternarsi di cronaca, racconto, informazione, angoscia, spirito, orrore, indignazione, ossessione, tenerezza, incredulità, umanità.
È una curva data non solo dalla scrittura in senso stretto: mi riferisco ai movimenti dell’attrice sul palco, ai tempi dell’intreccio tra la sua storia e quella di Hassan, ai colori della scena e del video, al montaggio complessivo che risulta molto ben calibrato e quasi naturale, nonostante l’evidenza dell’artificio. Sei d’accordo?
RF: Totalmente d’accordo. Durante lo spettacolo mi è capitato più volte di pensare alla maestria della parola portata in scena ed è un altro dei temi che Lardi ha affrontato a margine della sua premiazione, toccando tantissimi temi, anche di metodo di lavoro al servizio del teatro. È la scrittura che unisce le manie di un Rau appassionato di foto che rimandano ad atti violenti, e la limatura delle frasi barocche delle quali a volte ci si innamora ma che poi, come ha sottolineato l’attrice, vanno tolte via perché la scena le boccia.
Tutta la formazione di Lardi alla Schaubühne di Berlino, la collaborazione con registi visionari come Thomas Ostermeier, Romeo Castellucci e Michael Haneke, l’approccio testuale sempre rigoroso nel suo lavoro ne fanno una interprete capace di aiutare il regista e il drammaturgo a scolpire la parola per portarla all’essenziale. Con Rau in particolare, ha sviluppato fino a una raffinatezza estrema quel linguaggio teatrale ibrido, fondato su testimonianze reali (come in questo caso quelle delle vittime di guerra e delle rivolte in ambiente mediorientale) e sulla poetica della resistenza politica che qui è diventato un lavoro a sei mani. Non per tornare ripetutamente su di lei, ma l’attrice incarna davvero l’artista totale e qui si ripropone in altra forma quanto già c’era in Everywoman, dove la mediazione video e la presenza fisica interrogavano i limiti della rappresentazione. Diciamo che questo genere di performance, in cui appare spesso priva di difese, trasforma il palco in uno spazio di vulnerabilità condivisa, elevando il teatro a strumento di catarsi etica.
ES: L’unicità e la ricerca maniacale di fatti, perlopiù cruenti, è ciò che La veggente del titolo, la fotografa di guerra interpretata da Lardi, mette nei suoi scatti. Come se ci fosse qualcosa di soprannaturale, ci racconta di “sentire” dove sta per accadere qualcosa: è un po’ come se vedesse nella sua mente prima di vedere nella realtà. E corre a scattare la foto, a catturare l’immagine di un fatto che, senza la sua presenza, lì, in quel momento, non sarebbe accaduto. Certo, è abbastanza impressionante sentirle spiegare che, se ti trovi a fotografare una fossa comune, devi cercare la giusta angolazione, la prospettiva che dia il senso dell’accumulo dei cadaveri e che riveli l’odiosa geometria secondo cui sono accatastati. E vedi, senza vedere.

Nelle chiacchiere lagunari tra amici, artisti e colleghi che la salsedine veneziana sempre favorisce, serpeggiava l’osservazione (l’invidia è veramente una brutta bestia) che Rau si sia ormai ingabbiato in un “metodo” per cui continua a fare la stessa cosa, cambiando paese di contesto o argomento ma senza più innovare e costringendosi in uno schema sempre uguale, legato alla moltiplicazione dei piani narrativi e dei livelli di realtà e finzione. Per altro è una cosa che moltissimi stanno facendo, dopo di lui.
Mi dirai cosa ne pensi tu ma il mio debol parere è che, a 47 anni, Rau è già stato indiscutibilmente il più potente innovatore teatrale mondiale degli ultimi decenni e potrebbe pure starsene tranquillo per un po’, ma la mia sensazione è che stia invece andando semplificando quello schema. Mi spiego meglio: in questo spettacolo io ho sofferto alcune ridondanze formali: l’uso del cellulare da parte di Ursina per proiettare un paio di volte il proprio volto o lo stinco ferito, le luci stroboscopiche per la scena della violenza subìta (si dice che c’è la musica techno ad alto volume e metti la musica techno ad alto volume); però ho trovato che la volontà profonda del regista stesse andando in una direzione più semplice e diretta: un’attrice descrive il suo lavoro e le sue esperienze di reporter di guerra davanti a microfono ad asta, ci dice che ha conosciuto Azad in Iraq e lui (un non attore che si è però preparato molto bene) dal video ci racconta di come l’Isis abbia applicato la legge coranica del taglione su di lui e sul fratello. E la sua è una storia tremenda, che apprendiamo poco a poco, intuendo un po’ per volta, e imparando un po’ per volta a conoscere Azad, dalla sua distanza.
RF: Che l’innesco creativo parta da episodi violenti che diventano emblematici per attivare un’indagine socio-documentale mi pare un fatto evidente. Diciamo che in tutti i testi su come costruire la drammaturgia, il tema del conflitto è cruciale. Yves Lavandier nel suo L’ABC della Drammaturgia, edito in Italia da Audino, dedica a Rau, non a caso, il primo capitolo. Poi, il fatto che abbia una passione particolare per la truculenza del conflitto umano come innesco per le sue indagini nello spazio scenico andrebbe visto con lo stesso sguardo con cui si guarda all’uso della bambola negli spettacoli di Emma Dante o alle presenze militari nelle performance di Castellucci o ai cagnolini nelle tele di Tiziano. Sono un ineludibile marchio di fabbrica. Quando un artista tira fuori un suo segno forte, un suo specifico espressivo, definisce una geografia anche formale che a volte, certo, rischia di imprigionarlo. Ho sempre evocato il dramma di Fontana e dei suoi tagli: alla fine magari gli avranno rimproverato i tagli, ma poi, gli stessi che l’hanno fatto, dovendo scegliere quale opera accogliere nel proprio salotto, avrebbero scelto per sé qualche tela tagliata o dei disegni liberi dell’artista? È la potenza della forma espressiva specifica (le sculture di Pomodoro o di Tony Cragg) cui un artista arriva a compimento del suo percorso autorale.
Il teatro, a differenza di altre arti, non lascia tracce materiali, un quadro, una statua. Ma una stessa specifica struttura scenica, un modo di fare, può essere utile per indagare questioni molto diverse, se devo soffermarmi sul tema della forma di Rau. Sento molto più rilevante, invece, la sua continua riattivazione del mito, ad esempio, dove le narrazioni archetipiche vengono smontate e riassemblate per interrogare le fratture della modernità. Fin dagli esordi, il regista svizzero ha utilizzato i miti classici non come repertorio sterile, ma come lenti per porre il focus su tragedie globali, dal colonialismo alla violenza di guerra, dalla crisi migratoria alle derive dell’individualismo neoliberale. Questa metodologia di re-enactment, che trasforma il mito in un dispositivo critico, si avvicina, nel caso di The Seer, a Orestes in Mosul (2019), in cui l’Orestea di Eschilo veniva trasposta nell’Iraq post-ISIS, con attori locali che recitavano le loro storie personali accanto al testo antico.

In The Seer, il mito diventa un ponte tra l’epica greca e i traumi contemporanei, rivelando come alcuni temi che riguardano la testimonianza ma anche la sopravvivenza alla ferita di Filottete, siano temi ancora pulsanti. Potremmo allungare la fila con Antigone in Amazzonia (2022) o Medea’s Children (2024) a favore di una tesi che direi Rau stesso appoggia, a partire finanche dai titoli…
ES: Dici bene del riferimento al Filottete di Sofocle: in sintesi la mia idea è che, agganciandosi al mito, Rau si voglia avvicinare sempre più alle energie arcaiche, ai sentimenti radicali dell’uomo, alle forze primigenie e ineludibili che dall’inizio dei tempi ci muovono. Ci fa guardare un’illusione, per capire la realtà.
RF: Con The Seer, Rau completa questa trilogia ideale sui miti greci partita nel 2022, concentrandosi qui su Cassandra e Filottete. Lardi interpreta una fotoreporter/Cassandra, e la sua trasformazione in vittima della violenza che documenta richiama Filottete, l’eroe sofocleo emarginato per la sua ferita. Non a caso lo spettacolo inizia con la ferita alla gamba, come per il personaggio mitologico.
L’interrogativo/ossessione di Rau mi pare possa essere sintetizzato nel dilemma: l’arte può lenire il dolore o è solo un’altra forma di voyeurismo? Il regista – che mi pare di aver capito collezionasse immagini truci fin da giovane – tratta il mito come un archivio di violenza sistemica e quindi, come tutti gli artisti, gira con l’arte intorno alle sue ossessioni. L’idea di mito come allegoria universale e The Seer rappresentano l’apice di questa ricerca: Cassandra non è più la veggente inascoltata ma la testimone che, pur mutilata, continua a documentare. Rau usa il mito per smascherare la nostra complicità con la violenza, chiedendoci se siamo spettatori o complici.
E come facciamo a non chiedercelo ogni giorno?
THE SEER
prima italiana
tratto da Filottete di Sofocle
testo e regia Milo Rau
con Ursina Lardi, Hassan Azad
scene e costumi Anton Lukas
musica Elia Rediger
video Moritz von Dungern
luci Stefan Ebelsberger
ricerca Ursina Lardi, Milo Rau
drammaturgia Bettina Ehrlich
traduzione, language coach Susana Abdul Majid
consulenza e coordinamento (Iraq) Sarder Abdullah
produzione Schaubühne Berlin
coproduzione La Biennale di Venezia, Vienna Festival (Wiener Festwochen) | Free Republic of Vienna
Biennale Teatro – Arsenale, Teatro alle Tese (Venezia) | 12-13 giugno 2025