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sabato, Marzo 22, 2025
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Emma Dante con Extra Moenia: un teatro che trasforma

ph © rosellina garbo

FEDERICA D’AURIA / PAC LAB*| Vedere a teatro il dolore che attraversa il mondo significa vederlo bene, viverlo, estirpare all’azione la forza atroce che possiede per osservarla mentre muta, educa e racconta; per restituire un racconto privo di odio, per nutrire lo sguardo della possibilità di un cambiamento. Questa possibilità non è scontata né sempre vivibile, dipende da fattori mutevoli e molteplici: dal tipo di racconto, dalle modalità di interpretazione, dalle scelte drammaturgiche, per dirne alcuni. Questa eccezione diventa possibile quando qualcuno qualcosa dentro scuote. Emma Dante è qualcuna che qualcosa dentro scuote e fa della possibilità una regola. Scuote e lascia cadere i frutti del suo lavoro fuori dalle mura della città:Extra Moenia, appunto, che è non solo il titolo del suo spettacolo – andato in scena al Teatro Bellini di Napoli dall’11 al 16 marzo 2025 – ma anche il significante che ciascun performer, in ogni suo lavoro, porta dentro e fuori da sé.

Se osservare come da dietro una lente di ingrandimento l’umanità è un fatto tipicamente teatrale, osservare fuori le mura della città è un fatto distintivo di Emma Dante che delimita, senza creare limiti, i contorni di un tempo senza tempo, di uno spazio senza spazio, di esseri umani che camminano fuori da qualcosa nonostante quel qualcosa.

Ph © rosellina garbo

C’è una certa estraneità nelle azioni corali di Extra Moenia che è la stessa estraneità presente anche in altri lavori di Emma Dante e che sussiste nella ricerca corporea di ogni performer presente in scena. L’estraneità – una virtù assoluta della dimensione della scena cui si assiste – è assorbente e potrebbe mimetizzarsi dietro una domanda: che cos’è l’altro se non “io” in un altro corpo? Allora l’estraneo diventa interno, diventa familiare, amica, collega, amante: è un’estraneità che proprio attraverso la dimensione corporea si traduce in intimità. Diventa intima la donna ucraina che fugge la guerra e inciampa nella prostituzione, il migrante che dal Congo insegue l’Europa come un sogno; la donna iraniana che per protesta trasforma il suo corpo privato in corpo pubblico; la ragazza stuprata dal branco, tutte le donne e tutti gli uomini che camminano insieme, fuori le mura della città, in una ballata allegorica che va dall’alba al tramonto.

Ma la stessa estraneità si trasforma in forza repulsiva quando in scena non si racconta una lotta, una fuga verso una vita migliore o un grido ribelle bensì un sopruso che ha il retrogusto sgradevole di un’offesa alla dignità umana. Allora ecco che si fa viva la distanza verso chi alimenta la guerra, la violenza sessuale, il maschilismo che sfocia nel patriarcato, la tortura; camminano tutte le donne e tutti gli uomini nella stessa direzione ma la linea di demarcazione è forgiata con il ferro: lascia tracce di ruggine per chi cammina nella stessa umanità ma ha scelto di stare nel marcio del mondo.

La trama in Extra Moenia allora non c’è ma la storia appartiene a chi è seduto ad osservare, a chi non può più farlo, a chi ha vissuto e vive qualcosa di simile.

ph © rosellina garbo

Ma poi la vicinanza torna a farsi sentire nei divieti e nei limiti, nelle proibizioni, nella plastica che mastica il mare, nei colori vivacissimi dei vestiti che calano dal cielo come un’opportunità di salvezza – un nascondiglio urbano che tante volte è abito e maschera dove puoi scegliere se tornare bambino, essere chi sei o vestire i panni di qualcun altro – nel viaggio tra la gente. Emma Dante ha realizzato in un’ora un lavoro su quattordici vite che camminano per strada e scelgono con le loro azioni chi vogliono essere. È una “commedia umana” Extra Moenia – come ha affermato la regista durante un’intervista con Anna Bandettini su La Repubblica – “più performativa e performante che narrativa”. Il nucleo originario del suo lavoro – dichiara – era un saggio realizzato con gli allievi della scuola del Teatro Biondo e dell’École regionale d’acteurs de Cannes et Marseille, trasformato poi dai quattordici attori della sua compagnia Sud Costa Occidentale. La compagnia di Extra Moenia, tutta, ha fatto un lavoro encomiabile su corpo, voce e interpretazione: eclettico ed elettrico. Lo spettacolo apre sulle note di Bella Ciao e chiude su quelle di Santissima dei Naufragati: note di lotta, di resistenza, di opposizione, di pietà; note che descrivono e che si mescolano alla drammaturgia e alla regia, che raccontano ciò che unisce i quattordici personaggi.

Nel mezzo, c’è un’umanità alla deriva, monologhi di disperazione e speranza, divieti e limiti.
C’è, ad esempio, Leonarda Saffi con l’Inno all’amore dalla prima lettera ai Corinzi, indimenticabile e vera come l’intensità delle parole che pronuncia. C’è Verdy Antsiou che, in francese, stringe la gola anche di chi non comprende le sue parole perché è chiaro il suono del tradimento di una Europa che non è come l’aveva immaginata, del dolore delle torture subite anche a discapito della sua fanciullezza, costretto a compiere un atto atroce nei confronti di sua madre. Le voci, tutte, sono voci rotte e rinate dopo un trauma, con pari dignità e presenza scenica. Hanno pari potenza di voce e di forza narrativa scavando un solco nell’immaginario collettivo di tante verità spesso taciute.

La verità è che non esiste un unico modo per interpretare il teatro di Emma Dante perché la vita che scorre attraverso il racconto del corpo dei personaggi è volutamente accesa, in continua accelerazione, vibrante e per questo muta attraverso gli occhi di chi guarda. In una parola: trasforma. È un tipo di teatro che attraversa, resta addosso per molto tempo e trasforma.

11 marzo 2025 | Teatro Bellini, Napoli

EXTRA MOENIA
uno spettacolo di Emma Dante

con Verdy Antsiou, Roberto Burgio, Italia Carroccio, Adriano Di Carlo, Angelica Di Pace, Silvia Giuffrè, Gabriele Greco, Francesca Laviosa, David Leone, Giuseppe Marino, Giuditta Perriera, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino
luci Luigi Biondi
assistente ai movimenti Davide Celona
assistente di produzione Daniela Gusmano

coordinamento dei servizi tecnici Giuseppe Baiamonte
capo reparto fonica Giuseppe Alterno
elettricista Marco Santoro
macchinista Giuseppe Macaluso
sarta Mariella Gerbino
amministratore di compagnia Andrea Sofia

produzione Teatro Biondo Palermo
in coproduzione con Atto Unico – Carnezzeria
in collaborazione con Sud Costa Occidentale
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica

Ma perché è sempre Natale? La sottile linea d’ombra tra normalità e malattia mentale

ph © rosellina garbo

RITA CIRRINCIONE | Tratto dall’omonimo romanzo di Rosemarie Tasca d’Almerita nel quale la scrittrice palermitana racconta la vicenda intima e dolorosa dell’esordio e del deflagrare di una grave malattia mentale, Ma perché è sempre Natale? è andato in scena in prima nazionale dal 26 febbraio al 9 marzo alla Sala Strehler del Teatro Biondo di Palermo, nell’adattamento di Micaela De Grandi, Valentina Ferrante ed Emanuele Maria Russo.
Nel romanzo – un’opera dall’originale impianto narrativo che si potrebbe definire epistolare ma è qualcosa di più e di diverso – l’autrice ripercorre la storia di Lucia attraverso le lettere che la ragazza indirizza a Francesca, la sua migliore amica (il suo alter ego?), in un flusso unidirezionale in cui a sentirsi è solo la sua voce. Dai temi quasi frivoli delle prime lettere – l’andamento scolastico, le piccole occasioni mondane, i primi flirt di una ragazza degli anni ‘70 – tipici di una fase della vita che sembra proiettata verso un futuro di promesse, in un crescendo carico di suspence, nella narrazione si arrivano a toccare toni sempre più drammatici man mano che emergono in lei comportamenti insoliti e preoccupanti e, in famiglia, le forti tensioni tra i genitori – una madre spesso impegnata e assente e un padre collerico e opprimente su cui pesa il terribile sospetto di molestie sessuali – sfociano in una separazione.

ph © rosellina garbo

Trascorso il periodo del liceo in una condizione di quasi normalità in cui certi atteggiamenti sembrano ancora rientrare nel quadro di un disagio adolescenziale, conseguita brillantemente la maturità, Lucia manifesta un grande desiderio di libertà e di ricerca di nuovi mondi. Con il consenso dei genitori, intraprende un viaggio a New York tanto desiderato e ricco di attese, ma ben presto cresce in lei un senso di insoddisfazione con cambi d’umore sempre più repentini. Neanche l’incontro con Oliviero, con cui sembra finalmente realizzare il sogno di una storia sentimentale, riesce a fermare una vera e propria fuga dalla felicità: interrompe bruscamente e inspiegabilmente la relazione, decide di rientrare in Italia e in modo altrettanto brusco si allontana dalla famiglia.
«E poi un’Asse si spezzò nella Ragione». Hanno inizio un inarrestabile cupio dissolvi e una serie di spostamenti da una città all’altra – Torino, Londra, Milano – alla continua ricerca di un altrove salvifico. In un progressivo distacco dalla realtà, in un ritiro sociale sempre più estremo, la malattia deflagra in tutta la sua gravità e drammaticità: Lucia precipita in un abisso nero in cui nulla sarà più come prima. Dopo avere toccato il fondo, aiutata dalla madre e supportata da cure in strutture adeguate, inizierà un lungo percorso che la porterà a convivere con la malattia mentale e ad approdare faticosamente a una condizione di tranquilla dolorosa “normalità”.

ph © rosellina garbo

Nell’adattamento teatrale di Micaela De Grandi, Valentina Ferrante ed Emanuele Maria Russo, Ma perché è sempre Natale? prende la forma di una sorta di teatro della mente in cui la narrazione e la successione delle azioni sceniche seguono la logica “interna” della protagonista, interpretata da Ginevra Di Marco e Gaia Bevilacqua. In un gioco di rispecchiamenti, di opposizioni o di complementarità, le due giovani attrici riescono a dare una rappresentazione plastica della mente divisa e frammentata di Lucia e a incarnare quella “dialettica del doppio” che domina già l’opera letteraria. Completano il cast tutto al femminile le stesse De Grandi, nel ruolo della madre e Ferrante, nel ruolo plurale degli altri personaggi, reali o immaginari, tra cui quello di Nyx, divinità primordiale della mitologia greca e introdotto nell’adattamento scenico per rappresentare lo stato intermedio tra le potenze oscure e quelle della luce, tra la notte e il giorno.

ph © rosellina garbo

Una scena gelida e spersonalizzata allestita con una serie di elementi cubici, bianchi e spigolosi e un letto anch’esso bianco che ricorda più certi luoghi di cura che il calore di un ambiente domestico; sul fondo e ai lati, pareti che dividono ma che lasciano filtrare voci, suoni, luci e intravedere ombre e figure immaginarie che vanno a confondersi con le presenze reali: la messinscena onirica – scene, costumi e video Banned Theatre – fornisce un ulteriore contributo per rappresentare visivamente le allucinazioni percettive della protagonista e il suo mondo interno popolato da presenze fantasmatiche, mentre le musiche originali di Luca Mauceri creano un ambiente sonoro sospeso e irreale che accompagna i vari momenti dello spettacolo.

Strumento di mediazione e di elaborazione della realtà, àncora per fissare pensieri ed emozioni, artificio per consegnare a un luogo “altro” contenuti non tollerabili, l’adattamento teatrale di Ma perché è sempre Natale? mantiene uno stretto rapporto con la matrice primaria della scrittura, attraverso le scritte che Lucia traccia freneticamente sulle superfici di arredi e oggetti scenici ma anche con la lettura di alcuni passaggi significativi dell’epistolario o di stralci del diario di bordo in cui la madre annota una serie di comportamenti dissonanti o bizzarri di Lucia bambina i quali, ex post, si riveleranno avvisaglie della malattia mentale ancora latente.

ph © rosellina garbo

Non era facile rendere il complesso impianto del romanzo, armonizzare i diversi livelli narrativi, rendere una realtà psichica scissa e un comportamento disorganizzato e raccontare con la giusta temperatura emotiva il tema della malattia mentale: l’adattamento per la scena, le soluzioni registiche e scenografiche e l’intensità della prova delle giovani interpreti di Lucia e delle altre attrici, sono riusciti nell’intento riuscendo anche a mandare un messaggio di speranza alle persone con problemi di salute mentale e alle loro famiglia.
La vicenda di Lucia raccontata nello spettacolo, con il focus posto sul labile confine tra normalità e malattia mentale, sui sintomi subdoli che spesso sono fuorvianti per una diagnosi precoce, mette in luce l’importanza della prevenzione. Ancora oggi, a quasi cinquant’anni dall’entrata in vigore della Legge Basaglia, lo stigma della malattia mentale è molto forte e spesso compromette questa fase fondamentale per la cura e il possibile recupero intellettivo e sociale di queste persone.

«La storia di Lucia – ha dichiarato Rosemarie Tasca d’Almerita – è una storia come tante. È una storia di bellezza e tristezza, come un mare che non conosce sé stesso, ignaro delle proprie maree, incapace di prevedere quando sarà in tempesta o in bonaccia. Eppure, nonostante tutto, quel mare non si arrende mai».

 

PERCHÉ È SEMPRE NATALE?

produzione Teatro Biondo Palermo
dall’omonimo romanzo di Rosemarie Tasca d’Almerita
adattamento di Micaela De Grandi, Valentina Ferrante, Emanuele Maria Russo
regia Ferrante/De Grandi
con Ginevra Di Marco, Gaia Bevilacqua, Micaela De Grandi, Valentina Ferrante
musiche originali Luca Mauceri
luci Antonio Sposito
scene, costumi e video Banned Theatre
aiuto regia Emanuele Maria Russo
coordinatore dei servizi tecnici Giuseppe Baiamonte

Sala Strehler del Teatro Biondo di Palermo
1 marzo 2025

De Bana, Preljocaj e Kratz alla Scala: un trittico di coreografie tra passioni e rinascite

CRISTINA SQUARTECCHIA l Dal divino al sacro e dal sacro/divino all’umano. Sono queste le tre dimensioni chiave che tengono insieme il Trittico presentato al Teatro alla Scala nei giorni scorsi sotto la firma di Philippe Kratz, Angelin Preljocaj e Patrick de Bana, che propongono, rispettivamente, Solitude Sometimes, Announciation e Carmen, quest’ultima in prima assoluta. Tre stili, tre desideri, tre racconti diversi sull’umanità in relazione al cosmo, al segno corporeo, alla fede e al dramma psicologico per un viaggio capace di spingersi negli abissi misteriosi dell’Io come del mondo.

E proprio dalla fine, dal dramma psicologico e passionale che si consuma in Carmen, che si è scelto di cominciare. Non tanto per la vicinanza della festa nazionale dedicata alla donne, e neanche per i 150 anni di vita sui palchi del mondo per l’opera lirica di Georges Bizet, (3 marzo 1875) dalla novella di Prosper Mérimée, ma per la verità drammaturgica con la quale si compie il femminicidio, al punto da zittire una platea di scolaresche nella recita pomeridiana. Impetuosi e viscerali gli ultimi dieci minuti di una Carmen flamenca e classica insieme, che scuotono così nel profondo da lasciare addosso quelle vibrazioni che risuonano anche dopo essere usciti dal teatro e tuffati nel traffico cittadino. E se Patrick de Bana ha premesso, come dichiarato nella bella intervista a Valentina Bonelli nel Libretto di sala che voleva “capire cosa sente Don Josè, seguire la trasformazione di un soldato che impazzisce fino a compiere il femminicidio”, si può dire che tira dritto e riesce in questo obiettivo.
Il suo è un lavoro coreografico dove parlano più i sentimenti che i personaggi, operando una sintesi scenica delle tante Carmen che il Novecento ci ha lasciato, a partire da quella di Antonio Gades, Roland Petit, Mats Ek e Alberto Alonso, sulla suite musicale di Rodion Ščedrin con evidenti aggiunte di brani provenienti dal folklore iberico, posizionati all’inizio e verso la fine della pièce.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Non è infatti quell’inconfondibile suono delle campane e poi della lunga sirena dell’Habanera ad accogliere la prima scena, ma la voce di El Pele&Vicente Amigo​​​​​​​ (Aconteció), un lamento ritmato e funzionale a preparare l’atmosfera. Si individuano subito le due figure chiave di tutto lo spettacolo, il toro e la morte, impersonati da due danzatori che non usciranno mai di scena, pur restando ai margini o sul boccascena, a ricordare quell’ineludibile destino da cui è impossibile sottrarsi. Oltre questo ci salvano la danza, i colori e la vivacità sensuale di quest’opera con la quale de Bana costruisce una Carmen che piace e seduce lo spettatore per la varia campitura cromatica di toni decisi e caldi nelle luci e nei costumi. Per il coreografo, infatti, la forza di quest’opera è da ricercare nella sua terra iberica, in quel caleidoscopico mondo passionale dello zapateado delle processioni religiose, delle donne dolenti e ardenti di passione, che dominano in questa versione. Sono loro a emergere in coreografie di ampio respiro e in elegante sintonia musicale con le composizioni di Ščedrin per gli ensemble corali, dotati di effettistica virtuosa.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Le gonne, quelle d’ispirazione flamenca, riempiono lo spazio e conferiscono continuità di movimento e stile nelle coreografie femminili, specie quando il corpo di ballo scaligero disegna virtuosismi saltati in cerchio. Quello di de Bana, coreografo cresciuto sotto l’ala di John Neumeier e Nacho Duato, è uno stile ancorato al passato, tradizionale e decisamente neoclassico, ma che sa fare appello a soluzioni dinamiche e fluide, quanto basta per disegnare pas de deux, intrecci e passaggi utili a dispiegare la trama e il dramma dei personaggi. Punto di forza del suo discorso è l’uso dello spazio, compresso, esteso o tagliato, appositamente scelto per mettere in evidenza l’evoluzione dei personaggi. Lo vediamo dall’inizio nel pas de deux tra Carmen – una sensuale e vibrante Alice Mariani, con Don Josè  Nicola Del Freo, pieno di pathos ma confinato dentro una cella, quella della galera, come a sottolineare l’impossibilità di questo amore. O nell’uso della diagonale sulla quale de Bana posiziona in maniera equidistante Carmen in atteggiamenti amorosi con il Torero, Don Josè e la sua fidanzata Micaela e le figure della morte e del toro.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Sono allineati sullo stesso fascio di luce ma impossibilitati a comunicare pur essendo vicini, poiché avviluppati ognuno nelle proprie solitudini, quelle della gelosia, della passione e dell’abbandono che li risucchiano dentro la propria spirale emotiva. Ne è un ulteriore esempio il momento in cui Don Josè, in preda alla disperazione gelosa, danza e, barcollando su di un disegno circolare, viene progressivamente inghiottito dentro un vortice emotivo che lo conduce, poi, a compiere l’atto tragico e finale su Carmen. Una versione che supera il dramma del personaggio per sprofondare nell’abisso della solitudine, quella senza vie di fuga dalle brucianti passioni.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Procedendo a ritroso nel trittico scaligero, ad anticipare la passionale Carmen è l’eterno Annouciation di Angelin Preljocaj, il coreografo franco/albanese molto richiesto dall’establishment scaligero sin dal 2002. Announciation è uno dei cavalli di battaglia di Preljocaj, realizzato nel 1997 è ancora colmo di quella carica emozionale che suscita il tema del materno e della sacralità del concepimento avvenuto nella Vergine Maria. Costruito su ispirazione dell’iconografia pittorica e rinascimentale, Preljocaj, si spinge nell’atto dell’annuncio rivedendo le due figure centrali, lo spazio e i costumi senza alcuna connotazione storica, optando per una panca angolare. La sua Maria è una fanciulla in attesa, come si coglie sin dall’inizio mentre è seduta con indosso una sottana bianca, in ascolto di un vociare di bimbi che cogliamo dal tappeto sonoro di Stéphane Roy (Crystal Music).

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Agnese Di Clemente ci restituisce tutta la freschezza di un corpo acerbo ma pronto alla vita, la delicatezza del gesto e la dinamicità del flusso del movimento. Si oppone alla sua fisicità il corpo androgino dell’Arcangelo Gabriele impersonato da una donna – Caterina Bianchi – in abitino blu. Al suo ingresso irrompono i suoni elettronici mescolati da Stéphane Roy che si fanno più caotici e stridenti nella danza, carica di quella forza che sconvolge la pace dell’attesa in cui si trova Maria. Scorrono qui intensi alcuni passaggi prima del pas de deux sul Magnificat di Antonio Vivaldi, dove tutto rallenta e si sublima tra i due corpi. La danza che Preljocaj confeziona sul Magnificat prima e sul silenzio poi è un distillato di assoluta bellezza nel fraseggio, un poetare nei passi inanellati tra loro, tra cadute, sospensioni, tilt off balance, alternati a pause e ralenti. C’è una varietà di gesti e sguardi, semplici e lineari, capaci di raccontare tutto con poco, ed esprimere una certa sorellanza e complicità che unisce questi due corpi femminili, dalla carezza sul ventre da parte dell’Arcangelo Gabriele, al bacio e al pollice infilato nella bocca di Maria. Sono queste le vie attraverso le quali il Divino entra nel corpo materico per avviare quel processo di fecondazione spirituale. Una scelta registica che apre riflessioni sul sacro e sulla simbologia cristiana senza incrinare la fede religiosa verso quel miracolo quotidiano della vita che si rinnova ogni giorno nel corpo di una donna.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Ma ad aprire il trittico è Solitude Sometimes di Philippe Kratz, un coreografo dal segno raffinato, con un legame storico con il corpo di ballo scaligero iniziato nel 2014 con SENTieri e proseguito felicemente sino ad oggi. Ex danzatore di punta dell’Aterballetto e coreografo free lance, Philippe Kratz è divenuto da poco direttore artistico del Nuovo Balletto di Toscana, e riprende questo lavoro realizzato sulle musiche di Thome Yorke e dei Radiohead, composto appositamente per i ballerini del Piermarini nel 2023.
La scena si apre su un uomo solo al centro che simula una camminata ma senza avanzare. Il suo è un incedere che non porta da nessuna parte ma proietta la figura oltre lo spazio scenico, mentre sul fondo, da un pannello, si scorgono lembi terrestri o stalattiti in espansione. Entrano via via altre figure, con la stessa qualità di movimento che richiama la camminata fluida e allude al passare del tempo. Movimenti nitidi, passaggi sciolti ma sinuosi permettono il fluire di un discorso coreografico dal profumo ancestrale mentre la musica elettronica di Thome Yorke e dei Radiohead dall’album Pyramid song frigge acusticamente ovattando la scena. Nonostante alcuni pas de dex, terzetti e contatti, si respira un rapporto di prossimità tra i danzatori, di vicinanza ma non di coesione, come se la coralità fosse più una condizione di uguaglianza che non di unione.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Sembrano infatti monadi, in senso leibniziano del termine, perchè appaiono come entità autonome che costituiscono singolarmente l’universo, in panta e t-shirt quasi dorate, occupando lo spazio in punti precisi, su file e diagonali. Scorrono ed entrando sempre dalla destra verso la sinistra dello spettatore, in maniera fluida e mai al contrario. Un’allusione al tempo che scorre, che avanza incessantemente senza mai retrocedere, al cosmo e all’ecosistema tutto che guarda sempre avanti, mentre l’uomo necessita di richiamare gli archetipi del passato per ritrovare sé stesso. E Kratz lo fa andando molto lontano nel tempo quando sviluppa il suo discorso coreografico sulla bidimensionalità di antiche figure egizie.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Una ricerca stilistica che ha condotto il coreografo ad ispirarsi al testo antico di Amduat, che significa colui che è nell’ aldilà, e che racconta del lungo viaggio e della lotta contro le forze ostili che compie il Dio del Sole Ra. Un viaggio solitario negli abissi della notte dove trovare forze rigenerative verso la vita. Dal sapore malinconico e cosmico, sulla voce di Thome Yorke dalle estensioni quasi rotte, più parlate che cantate, Solitude sometimes guarda all’uomo e alla sua caducità, alla solitudine come condizione necessaria per poter rinascere di nuova luce dal profondo della propria anima.

CARMEN

Patrick de Bana, coreografia
Aida Badia, assistente coreografo
José Andrade, libretto
Rodion Ščedrin (Carmen SuiteEl Pele&Vicente Amigo​​​​​​​ (AcontecióMontse Cortés con Juana la del Pipa (Ayer en Hoy), musica
Ricardo Sánchez Cuerda, scene
Stephanie Bäuerle, costumi
Ivan Vinogradov, luci

ANNOUNCIATION

Angelin Preljocaj, coreografia e scene
Claudia De Smet, supervisione coreografica
Stéphane Roy (Crystal Music) e Antonio Vivaldi (Magnificat), musica
Nathalie Sanson, costumi
Jacques Châtelet, luci

SOLITUDE SOMETIMES

Philippe Kratz, coreografia
Casia Vengoechea, assistente coreografo
Thom Yorke e Radiohead, musica
Carlo Cerri e Philippe Kratz, scene
Francesco Casarotto, costumi
Carlo Cerri, luci
Carlo Cerri e OOOPStudio, video designer

4 marzo 2025 | Teatro alla Scala, Milano

 

Vivere la vita e l’arte alla Modugno. Intervista a Mario Perrotta su Nel blu

Nel blu. Foto di Luigi Burroni

MATTEO BRIGHENTI | Sembra lui. Mario Perrotta sembra Domenico Modugno. Non tanto per le comuni origini pugliesi, quanto soprattutto per l’identica ricerca di un altrove a cui legare il desiderio di una vita nell’arte. «Ho creduto sempre che dovessi cercarla fino in fondo, perché c’era, da qualche parte – afferma Perrotta – così, per poter fare l’attore, anch’io sono partito a 18 anni da un Salento dimenticato da Dio».
Lavamacchine l’uno, gommista l’altro, entrambi camerieri. Fino all’affermazione grazie alla lingua della loro terra: il dialetto salentino. «Modugno ci scrive le sue prime canzoni. Ricorda il siciliano (fa parte della medesima area linguistica), per questo Mimì sarà presentato come tale, e alcuni ancora pensano lo sia – rammenta – 30 anni fa, quando ho iniziato, recitavo testi di Shakespeare, Molière, Čechov e, con il Teatro dell’Argine – continua Perrotta – mettevamo in scena nuova drammaturgia, ma sempre in italiano. Con Italiani cìncali arriva il dialetto: qui trovo le ragioni emotive del mio scrivere».
Nel blu – Avere tra le braccia tanta felicità, il suo nuovo spettacolo prodotto da Permar, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, con Vanni Crociani, Giuseppe Franchellucci, Massimo Marches, oltre allo stesso Perrotta, agli arrangiamenti e l’ensemble musicale, è dunque quel ritorno a casa che chiude il cerchio di un’esistenza, trovando nel passato le radici di un presente che gli consegna finalmente la libertà di essere chi è.

Nel blu. Foto di Luigi Burroni

Ci vuole una vita intera per guardarsi allo specchio. Perrotta lo dimostra con questo lavoro di svolta, che ho visto all’anteprima al Funaro di Pistoia, e lo ribadisce in questa intervista per PAC, che capita tra l’ultima replica al Teatro degli Industri di Grosseto e la prima al Franco Parenti di Milano (è in scena dal 18 al 23 marzo). «L’immagine dello specchio torna spesso nello spettacolo. È come dire: se ti guardi da fuori, capisci chi sei, e non devi più avere paura». Facciamo “giri immensi” per poi ritornare al punto di partenza, quando la risposta è sempre stata lì, davanti ai nostri occhi. «Sì, è così, ma forse questo processo è il motore dell’esistere».

Qual è il tuo primo ricordo di Domenico Modugno?

Mio zio che, tenendomi sulle ginocchia, mi canta La donna riccia. Era il 1972, avevo due anni. Sono cresciuto nel mito di Domenico Modugno. Da bambino mio nonno mi portava spesso nel suo paese, San Pietro Vernotico (paese del Salento in cui cresce dai tre anni in avanti, pur essendo nato a Polignano a Mare, nella zona del barese), che peraltro era accanto al suo, e mi diceva: «Qui è cresciuto lui». Non lo nominava neanche, era solo «lui». Modugno, per noi salentini, è come Maradona per i napoletani.

Dunque, è una presenza costante nella tua vita. In che momento della tua carriera arriva la decisione di dedicargli uno spettacolo?

Nel 2021 ho cominciato a pensare a una trilogia sulle parole delicate del nostro tempo. Nel 2023 ho affrontato la libertà con Come una specie di vertigine. Il Nano, Calvino, la libertà. Poi, volevo parlare di felicità. Ho pensato all’Italia prima del boom economico, un’Italia carica di voglia di fare, di esistere. E mi sono chiesto: chi è che incarna meglio di tutti quel periodo? Domenico Modugno.
Nel blu nasce dalla sua scena finale. Un giorno sono andato in ufficio e ho detto al mio gruppo di lavoro: voglio fare uno spettacolo su Modugno che si chiude con il ritornello di Volare troncato a metà.

Foto di Luigi Burroni

È un finale molto evocativo, racconta quanto il teatro si fermi sempre sulla soglia, un attimo prima che accada la vita vera, quella che tutti conosciamo. Nel blu possiamo definirlo come un viaggio rintracciato sulla mappa di un uomo, di un artista, alla ricerca di affermarsi, di poter dire chi è?

L’ho immaginato proprio come un viaggio all’interno della testa di Modugno, avanti e indietro nel tempo. Infatti, la struttura non è cronologica. Prima di cantare Volare canto canzoni che, in realtà, sono state scritte dopo, però le colloco in una struttura drammaturgica precisa. Per cui, Dio come ti amo la usa per recuperare il rapporto con la moglie, così come Meraviglioso la scrive davvero due anni dopo che il padre si è suicidato. E quindi, il Modugno che canta il suicidio di L’uomo in frack o di Lu pisce spada, improvvisamente scrive una canzone contro il suicidio dopo la morte del padre.
Dunque, è un viaggio nel tempo nella testa di quest’uomo per raccontare quello che hai detto tu, cioè una voglia di realizzazione. Questa cosa me l’ha insegnata con molta chiarezza la moglie, Franca Gandolfi, una signora 92enne lucidissima, che mi ha detto che oggi siamo tristi, perché aspiriamo solo ai soldi. Loro erano felici, perché aspiravano a realizzarsi. Sono cose totalmente diverse, no?

Nel tuo racconto Domenico Modugno è come spinto da una forza della storia, che lo fa essere sempre nel posto giusto. Lascia fare agli eventi, si lascia guidare, fidandosi, comunque, delle sue capacità.

Era pieno di talento, è innegabile, in ambito artistico avrebbe potuto fare qualunque cosa. Comunque, lui si adatta alle cose che arrivano e questo, forse, è uno dei segreti di una felicità delle piccole cose. In realtà, aveva studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, voleva fare l’attore con tutto sé stesso, non il cantante, o meglio il cantautore. Alla moglie, la sera dopo la vittoria di Volare a Sanremo, dice: «Da domani non mi chiameranno mai più per fare l’attore». È stata una chiave drammaturgica fenomenale, Franca me l’ha regalata su un piatto d’oro. Alla fine, ha preso quello che c’era, l’importante era realizzarsi. Ha seguito il vento delle cose che gli accadevano intorno, capendo che quello era il suo destino, e ci si è fiondato dentro.
Allo Storchi di Modena per il debutto c’erano una quarantina di adolescenti. In camerino, a nome di una piccola delegazione, si è fatta avanti una ragazzina di 16 anni: «Abbiamo capito che nella vita si può fare». Nel blu fa davvero ciò che credo debba fare il teatro: una persona su cento è tornata a casa con occhi nuovi. Lo trovo straordinario. Ecco, Modugno questa percezione che nella vita si può fare ce l’aveva nel DNA.

Foto di Luigi Burroni

Abbiamo parlato dell’io. Chi è, invece, il tu nello spettacolo?

È un flusso e serve da controcanto, da deuteragonista. Dal padre alla moglie, da Frank Sinatra a Franco Migliacci con cui scrive Volare, i tu si alternano senza soluzione di continuità, perché hanno fatto tutti lo stesso lavoro rispetto all’esistenza di Modugno. Quando cercava con tutto sé stesso la sua strada, tutti questi tu gli hanno insegnato che la vita è sanissimo compromesso e, a volte, è anche durezza.

Solitamente usiamo l’espressione “allargare le braccia” per indicare impotenza e rassegnazione. Invece, pensando a Modugno, alla sua partecipazione a Sanremo con Volare, significa l’esatto contrario: eccomi, ci sono. Un’immagine che viene incredibilmente da lontano, ed è tra le scoperte più sorprendenti di Nel blu.

Ha vent’anni, fa la comparsa a Cinecittà, è il 1949. Gli dicono: tu scendi dal taxi, fai un cenno a qualcuno e vai, basta. E lui, invece, scende e si sbraccia. Viene ripreso dal regista: per colpa di una comparsa rifarà la scena quattro volte. Questo gesto torna, nel mio testo, quando deve chiamare il taxi per raggiungere Frank Sinatra, che lo vuole conoscere. E poi a Sanremo.
Ha passato mesi, prima del Festival, davanti allo specchio, a capire come usare le braccia, a provare questo gesto, che avrebbe cambiato la storia della televisione, della musica, di tutto. In questo protendersi verso il mondo sentiva che c’era una forza. Aveva una coscienza istintiva della sua fisicità: a stargli vicino tutti dicono che era un vulcano.

In scena, tu canti Modugno, ma non rifai Modugno, ne abiti l’intenzione. Come vivi il passaggio tra il cantato e il recitativo?

Lo spettacolo su Calvino lo chiudevo cantando Il mondo di Jimmy Fontana, una versione molto particolare. Tutti mi hanno detto: ma sai che canti bene? Mi ero sempre tenuto alla larga dal cantare in scena, pensavo che non fosse il mio. Con quello spettacolo mi hanno come dato il via libera, e adesso me la canto e alla grande. Per me, recitare e cantare ora è un unico filo che si svolge. Non lo sento più quel passaggio. All’inizio, in prova, titubavo molto, mi sembrava di fare una cosa che non fosse la mia. Poi, grazie al lavoro fatto con i musicisti, mi sono sentito a casa.

Foto di Luigi Burroni

Che rapporto avete costruito?

Io non so leggere la musica, non so scriverla, ma ho una cultura musicale molto solida. Vengo da una famiglia di loggionisti, da bambino mi portavano alla lirica, alla sinfonica, con mio zio ho cominciato ad ascoltare il jazz, poi il pop. Quindi, ho dato delle suggestioni ai musicisti e loro le hanno accolte, traducendole in fatti musicali. È stato un continuo rimpallo tra di noi. Non facciamo quello che faceva Modugno, né come arrangiamenti, né come tempi, né come atteggiamento. Sarebbe stata una sconfitta, no?
Il nostro è stato proprio un vero laboratorio. Ho chiesto loro di non essere solo un accompagnamento, cosa che detesto, ma di essere la voce dell’anima musicale di Modugno, di raccontare quello che le parole non riescono a raccontare. Dal mio punto di vista, hanno raggiunto perfettamente l’obiettivo. Sono una forza dello spettacolo, un potenziatore di significati.

È un dialogo, uno scambio continuo tra arte e vita, tra canzoni e parole, come se le une fossero il prolungamento delle altre. Che umanità artistica hai trovato dentro di te con Nel blu? Nel vederti in scena, ho avvertito una diversa postura, più defilata del solito, se mi passi il termine. È come se ti fossi davvero lasciato attraversare da Domenico Modugno.

Non so se è Modugno, se è la familiarità che ho con la sua storia, se è il sentirlo proprio un pezzo della mia cultura, della mia anima, della mia terra, che mi ha messo addosso questa nuova postura, questa leggerezza nello stare in scena. Forse, ecco, sarebbe accaduto con qualunque altra storia a questo punto della mia vita, a 55 anni, che ho compiuto una settimana fa.
È come se fossi entrato in una maturità artistica, per cui so che posso fare quello che faccio. Mi sono liberato dai dubbi, e quindi mi porto in scena senza il bisogno di dover dimostrare qualcosa a me stesso, così come ai critici, agli addetti ai lavori, al direttore del teatro che ti viene a vedere, al pubblico. Con questo spettacolo ho smesso di sentirmi sotto giudizio. Ora non devo dimostrare più niente a nessuno.

Libertinismo per le dame, a Parma debutta “L’avventuriero” di Aphra Behn

OLINDO RAMPIN | C’è un sapore piacevolmente grossier, di buonumore licenzioso e di astuzie decameroniane, nell’Avventuriero (The Rover) di Aphra Behn, nuova produzione del Teatro Due di Parma, dove replicherà fino al 30 marzo. La regia di Giacomo Giuntini traduce in un teatralismo sgargiante le fantasie libertine di questa strana figura di spia del governo e scrittrice dell’Inghilterra post Cromwell, a cui il teatro parmigiano dedica uno speciale con spettacoli e letture, nonché un convegno organizzato con l’Università di Parma e aperto da Janet Todd, la studiosa britannica a cui spetta il merito della recente riscoperta dell’autrice seicentesca.

Lucia Lavia (Elena) e Stefano Guerrieri (Willmore) – ph Andrea Morgillo

Circola un’aria di teatro “all’antica inglese”, da Royal Shakespeare Company, nell’energia corale e nella ardente fisicità dell’azione scenica alla quale aderiscono abilmente i diciotto interpreti di The Rover. La minuziosità filologica dei costumi di Andrea Sorrentino, gli intermezzi cantati, il vigore recitativo non scivolano però nell’accademismo o nella tradition routinière: la mimesi archeologica della moda seicentesca è connotativa, non si giustappone esteriormente alla regia. I cappelli a tese larghissime adorni di piume di struzzo, gli stivali alti dal bordo largo e rivoltato, le gorgiere amplissime, le fibbie vistose sulle scarpe, le gonne gonfiate dal guardinfante e le impressionanti parrucche a campana, i nei di seta, il rossetto sbavato e i pomelli rossi nel viso ricoperto di biacca colpiscono gli spettatori, seduti sui due lati lunghi della scena rettangolare, con una composizione di sollecitazioni figurative. Echi delle dame e delle nane di corte di Velázquez, della Ronda di Rembrandt e di certa sua erotica burbanza nell’autoritrarsi con la moglie: un’estetica da Seicento spavaldo e manigoldo, come nelle illustrazioni ottocentesche di Francesco Gonin per i Promessi Sposi manzoniani.

Stefano Guerrieri (Willmore) impegnato in un duello – ph Andrea Morgillo

La rigidezza puritana dell’epoca di Cromwell, attimo fuggente in cui l’Inghilterra conobbe le virtù repubblicane da cui poi, e per sempre, si ritrasse inorridita, dev’esser stata ben greve se tra i suoi frutti sono sbocciate invenzioni teatrali come questa. Il femminismo pragmatico e industrioso-mercantesco che vi trionfa ci ricorda molte donne narrate dal Boccaccio, animose e abilissime avvocate di sé stesse e del proprio diritto naturale al piacere. A incarnarle è qui Elena, interpretata da Lucia Lavia, giovane monaca che all’ingresso del pubblico giace silenziosa e immobile a terra, come è d’uso nel giuramento d’obbedienza a Dio. Minuta, volitiva, prensile, presumibile alter-ego di Aphra Behn, sarà il motore di un girotondo inesauribile di sorprese, colpi di scena, equivoci, seduzioni, intrighi, duelli. Androgina e nervosa enfant terrible, Elena è l’eloquente promotrice di una filosofia pratica dell’amore carnale, una litigiosa propugnatrice del diritto femminile agli accoppiamenti non giudiziosi.

Valentina Banci (Angelica Bianca) – ph Andrea Morgillo

Corre, cade, scalcia, ipotizza, deduce. Sale e scende, come tutti i personaggi, da una altissima doppia scala di legno (anch’essa così british, così Globe), che si congiunge creando una balconata: unica scenografia, che sviluppa in verticale l’azione che al livello del pubblico si sviluppa a croce, con quattro uscite che si aprono in tutti i lati che dividono la scena.
Da quella balconata freme di sdegno e di dolore Valentina Banci, che veste i panni di Angelica Bianca, celebre prostituta d’alto lignaggio, proveniente da Padova e attesa nella Napoli governata dagli spagnoli, nella quale è appena approdata una compagnia di gentiluomini inglesi in cerca di avventure sessuali, durante il Carnevale. Scaltra ed esperta professionista, Angelica si scopre invece fragile, sedotta con destrezza, mentre giace distesa in déshabillé dentro una vasca da bagno, da Willmore (Stefano Guerrieri), spadaccino audace, immoralista dall’eloquio inarginabile, in cui il libertinismo si volgarizza in spavaldo elogio di un pansessualismo sfrenato, predestinato a unirsi nel finale con il suo doppio femminile, Elena.

Da sinistra Massimiliano Aceti (Blunt), Francesca Tripaldi (Florinda) e Luca Nucera (Frederick) – ph Andrea Morgillo

Il capovolgimento della sorte delle due figure femminili è la misura della struttura e della “morale amorale” di questo intrigo avventuroso, in cui chi doveva essere destinata all’unione mistica con Cristo si scopre paladina dell’amore libero, mentre la cortigiana scaltra ed esperta sconta la dolorosa scoperta della sua fragilità di donna innamorata e abbandonata.
A fare le spese dei satiri britannici è però anche Florinda (Francesca Tripaldi), sorella di sangue di Elena ma non in ispirito: gentildonna appassionata, sensibile, elegantissima, capace di un amore profondo verso il colonnello Belvile (Luca Cicolella) ma, come Elena, in lotta con i piani del fratello (Massimiliano Sbarsi). Per due volte è oggetto della furia stupratrice della compagnia di inglesi, dalla quale si distingue il solo Frederick (Luca Nucera), ma solo perché, direbbe un Boccaccio oggi politicamente scorretto, «delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni; del contrario più che alcun altro tristo uomo si dilettava».

Non sembra un caso che Napoli sia la meta della lussuriosa combriccola inglese. Ancora centocinquant’anni dopo, quando vi morì Leopardi, la grande metropoli mediterranea manteneva la sua fama di città-emblema di una sessualità e bisessualità libere e a basso costo. La Napoli di Aphra Behn pullula di cortigiane a buon prezzo, mentre Angelica Bianca, la puttana d’alto bordo, viene non a caso dalla Repubblica di Venezia, di cui Padova faceva parte: quella Venezia che Boccaccio nella novella di Frate Alberto definisce «d’ogni bruttura ricevitrice».
Boccaccio ci sembra una presenza ubiqua alla fantasia di Aphra Behn: nel furto ordito da una esponente del nutrito clan di prostitute napoletane ai danni di uno dei sodali dell’avventuriero, lo sciocco Blunt (Massimiliano Aceti), è palese l’eco di un’altra celebre novella del Decameron, che ha per protagonista Andreuccio da Perugia. Là un giovane e inesperto mercante di cavalli resta intrappolato a Napoli nella rete di una prostituta, una «ciciliana bellissima», catapultato senza abiti in un vicolo dove finiscono gli escrementi dei napoletani. Torna tutto.

Ma più ampiamente, in tutta l’intricata trama seicentesca vibrano motivi boccacciani: il saper vivere, l’umana «industria», che vince gli ostacoli e si libera da situazioni difficili, l’accortezza, la malizia, la sospensione del giudizio morale, il ruolo del caso. La “ragion di mercatura”, la glorificazione dell’intelligenza dell’età eroica dei mercanti e dell’ambiente borghese comunale si trasfonde e si rinnova nell’elogio del buon umore e del gusto della vita nell’Inghilterra uscita dai timori e tremori puritani.

 

L’AVVENTURIERO
di Aphra Behn
nuova traduzione di Luca Scarlini

con (in o.a.) Massimiliano Aceti, Valentina Banci, Cristina Cattellani, Luca Cicolella, Laura Cleri, Rosario D’Aniello, Irene Paloma Jona, Davide Gagliardini, Viviana Giustino, Stefano Guerrieri, Francesco Lanfranchi, Lucia Lavia, Nicola Lorusso, Luca Nucera, Salvo Pappalardo, Giovanna Chiara Pasini, Massimiliano Sbarsi, Francesca Tripaldi

maestro d’armi Renzo Musumeci Greco
costumi Andrea Sorrentino
luci Luca Bronzo
assistente alla regia Francesco Lanfranchi

regia Giacomo Giuntini

Nuova produzione Fondazione Teatro Due

Teatro Due, Parma | 12 marzo 2025

Love-lies-bleeding: l’ultimo respiro di Phoebe Zeitgeist

Luca del Pia

ESTER FORMATO | Dopo tanti anni di ricerca teatrale e attività artistica che abbiamo accuratamente documentato nel corso del tempo, la compagnia milanese Phoebe Zeitgeist ritorna in scena con Love-lies-bleeding grazie al supporto trentino di TeatroE che ha tenacemente creduto in quest’ultimo progetto, curato in toto da Francesca Marianna Consonni. Stavolta, com’è accaduto in passato, l’allestimento si basa su una pièce d’autore, firmata da Don DeLillo nei primi anni duemila, quando la questione del fine vita era già su molte agende politiche.

Love-lies-bleeding è una drammaturgia ambientata in New Mexico, ipoteticamente in un luogo semi-desolato e circondato da paesaggi montuosi. Precisamente, l’azione è immaginata all’interno di una camera in cui gli astanti sono catalizzati dalla presenza di un malato terminale che, a seguito di due ictus, vive in stato vegetativo. Si tratta di Alex Macklin, scultore che negli ultimi anni sembra non aver più trovato alcuna gloria artistica, ora sottoposto alle cure instancabili di Lia (Liliana Benini), sua giovane e terza moglie, e contestualmente circondato dalla non tanto amorevole presenza di Sean (Daniele Fedeli), suo unico figlio, ormai adulto, e da Toinette (Francesca Frigoli), amante e poi seconda moglie, accorsa al suo capezzale. Tre figure molto complesse – dato anche il controverso rapporto che li lega ad Alex – il cui flusso di pensieri confluisce come un innesto nei dialoghi concepiti già nel testo originale, ma che Giuseppe Isgrò – cui si devono ideazione e regia dello spettacolo – rimodella con l’aiuto di Matteo Colombo che cura l’adattamento drammaturgico, sulla base della cifra artistica che la compagnia porta avanti da anni.

Difatti, il testo di Delillo costituisce una base, un pretesto narrativo solido e sicuro tramite il quale approfondire una visione più onirica e concettuale, specifica di Phoebe Zeitgeist, soprattutto grazie al lavoro profuso nel corredo sonoro e visivo e a quello nel registro interpretativo che respinge la cifra naturalistica, per rendere leggibile il livello più introspettivo dei personaggi.

Luca del Pia

Innanzitutto, Isgrò immagina Alex come una sorta di automa, una figura posta al centro della scena con alle spalle una pannello semi-trasparente attraverso il quale riprodurre, in certi momenti, le ombre dei protagonisti. Il totem, che è in realtà un calco, quasi come a voler assimilare Alex Macklin alla sua stessa arte, polarizza l’attenzione di tutti, in quanto i suoi occhi sono illuminati, pronti a diventare, quindi, il punto di fuga di tutta quanta la scena ideata da Giovanni De Francesco cui sono affidati anche i costumi, efficaci nel puntualizzare i profili degli interpreti. Ne consegue che i personaggi sono come costantemente osservati dal fantoccio, generando un primo corto circuito psicologico ed emotivo. Naturalmente, l’ambiente scenico perde i caratteri realistici, trasformandosi in un luogo polisemico entro il quale l’asse cronologico non è quello lineare e ordinario, ma un concentrato di passato e presente. Privilegiato è l’astrattismo, la distillazione dei nuclei narrativi più caldi.

Inoltre, la trasfigurazione totemica e dunque concettuale del pur compromessa biologicamente presenza di Alex (che, da bravo scultore, non smette di plasmare le coscienze dei presenti) viene potenziata e resa ancora più inquietante da un articolato progetto di luci, in equilibrio fra tonalità fredde e artificiose e dal ricco corredo del suono, ideato da Stefano K. Testa in collaborazione con Sharif Delorian; questi introduce nello spettacolo pezzi americani d’autore, per lo più ballate folk malinconiche, funzionali per restituire al pubblico la dimensione emotiva, talvolta taciuta dalla natura insidiosa dei dialoghi, spesso disorientanti anche a causa della loro lunghezza.

Luca del Pia

Ma probabilmente è proprio questa la caratteristica che consente a una compagnia di ricerca come Phoebe Zeitgeist di riproporre il testo secondo la propria cifra artistica, andando a riempire con segni scenici le parti più cruciali della drammaturgia. Ne è un esempio Toinette – che anche grazie all’interpretazione di Frigoli, diviene l’anima dello spettacolo – la quale, sollecitata dalle domande di Sean sulla sua antica relazione con Alex, crea dei veri e propri varchi temporali, riposizionati dalla drammaturgia in precisi momenti dello spettacolo; si tratta infatti di frammenti di memoria, flashback che vedono la donna dialogare con Alex, interpretato dallo stesso Daniele Fedeli con indosso una maschera integrale che riprende i tratti facciali del totem in scena. Anche nel ricordo della donna, allo scultore non è concessa una presenza realistica, ma resta impelagato in un surrogato concettuale, (prodotto dalla coscienza di Toinette?) asservito a un sentimento controverso fra i due.

Ma dov’è il loro presente? Qual è l’esatta e reale dimensione in cui vivono i tre personaggi? La risposta la troviamo nel fulcro della vicenda: porre fine allo stato terminale dell’uomo. Sean, seppur combattuto e agitato, trova ben presto la complicità dell’antico amore del padre, e un’iniziale, ma trattabile, repulsione da parte di Lia, donna dolce, dedita ma non per questo asservita – parafrasando una delle prime battute di Daniele Fedeli. Il passaggio dal dire al fare è ovviamente faticoso e turbolento, la somministrazione graduale a piccolissime dosi di morfina obbliga a una lenta tortura psicologica ed emotiva, e ciò si traduce benissimo nella compagine drammaturgica, riorganizzata in due parti: la prima in cui la maturazione della scelta passa per laboriosi confronti fatti di dialoghi che ridisegnano una certa geometria della relazione fra i tre, arricchiti da inserzioni d’immagini digitali (parte visuale curata da Luca Intermite), che rallenta coerentemente il ritmo dell’allestimento; la seconda in cui si concentra il vero e proprio piano d’azione con una sequenza di quadri più serrata certamente, ma che verso l’epilogo va scompaginandosi nell’ordine temporale, frenando ancora una volta bruscamente, al fine di riprodurre teatralmente il concetto dell’agonia, estendendone dolorosamente la durata. L’angoscia che ne deriva è scandita da respiro del totem Alex, il cui suono è abbastanza amplificato e che, imprevedibilmente, sembra non affievolirsi.

Ph. Luca del Pia

A compimento di questo lungo e laborioso percorso narrativo troviamo una struttura ad anello in cui l’epilogo rimanda al prologo e viceversa, forma in cui l’intenso lavoro multidisciplinare e attoriale implode. Se ne resta intrappolati ma senza accorgersene immediatamente! Love.-lies Bleeding infatti, richiede quel giusto tempo per essere decodificato nei linguaggi e nei segni scenici, così come per riconoscere nella raffinatezza con la quale si è lavorato sui singoli personaggi e nella scrupolosità dei dettagli a più livelli, una potenza espressiva che ha dato vita a un vivido e palpabile limbo di coscienze che, alla fine, non avranno alcuna soluzione consolatoria.

LOVE-LIES-BLEEDING

di Don DeLillo
traduzione Alessandra Serra
regia Giuseppe Isgrò
con Francesca Frigoli, Daniele Fedeli, Liliana Benini

scena e costumi Giovanni De Francesco, Edoardo Colandrea
disegno e architettura del suono Stefano K Testa
con la consulenza di Shari DeLorian
visuals Luca Intermite
dramaturg Matteo Colombo
cura del progetto Francesca Marianna Consonni
assistente alla regia Giulia Dalle Rive
spettacolo di Phoebe Zeitgeist, prodotto da Teatro E (Trento) con il
sostegno di Silent Art Explorer

Teatro  Elfo Puccini, Milano | 11 marzo 2025

Commento al Vangelo di Giovanni: la Biennale di Venezia omaggia Meister Eckhart

Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem al Portego delle Colonne - Venezia ph Andrea Avezzù

ENRICO PASTORE | Meister Eckhart rappresenta una sfida per ogni intelletto. I suoi scritti paiono logici eppure impossibili, sembrano una cascata di paradossi costantemente in bilico tra il razionalismo della scolastica e i verticismi della mistica. La Chiesa lo considerò a lungo un pensatore eterodosso assiso sul pericoloso confine dell’eresia, una fonte da cui attingere cum grano salis, da leggere dunque con sospetto e diffidenza.
A questa figura affascinante, persino misteriosa, del pensiero medievale, a cui si ispirarono molti artisti del Novecento (John Cage su tutti), la Biennale di Venezia ha dedicato un progetto speciale: tre voci eminenti del teatro italiano, Federica Fracassi, Leda Kreider, Dario Aita, hanno dato vita al Commento al Vangelo di Giovanni (Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem) insieme al Coro della Cappella Marciana, sotto la guida del Maestro Marco Gemmani, per la regia di Antonello Pocetti e l’ideazione scenica di Antonino Viola e con le videoproiezioni curate da Andrew Quinn (autore di parte degli effetti speciali di Matrix).

Prima di entrare nel merito dell’allestimento, tratteggiamo un breve ritratto della figura di Meister Eckhart. Johannes Eckhart nasce nel 1260 in Turingia, da famiglia nobile e si fa monaco tra i domenicani in giovane età. Studia a Colonia ripercorrendo i passi di Tommaso d’Aquino e Alberto Magno. Insegna a Parigi dapprima come lector sententiarum, poi come maestro di teologia e infine, unico con San Tommaso, come magister actu regens, la più alta carica accademica del mondo medievale. Dal 1314 al 1324 è vicario generale dei domenicani a Strasburgo, con giurisdizione sui monasteri femminili presso i quali svolge una fervida attività come predicatore. Nello stesso periodo riprende l’insegnamento nello studio di Colonia.
Proprio qui iniziano i suoi guai. I sermoni e le prediche vengono scritti non più in latino ma in volgare, in una forma più libera, intima e vicina all’anima dei suoi ascoltatori; anche il suo pensiero mistico si sgrava, via via, dei razionalismi scolastici e delle rigidità accademiche. La sua mistica si inabissa nella teologia negativa laddove Dio si nullifica insieme all’io del credente. Dio abita la contraddizione, l’indeterminatezza, l’oscurità prima della luce. Questo Dio indistinto, che sfugge a qualsiasi definizione e individuazione, sorge all’interno dell’uomo, nel fondo insondabile della sua anima; un fondo senza fondo dove il Dio nascosto emana la sua luce facendo dell’uomo il figlio di Dio e quindi assumendolo come parte integrante della Trinità: Homo Deus. Dio e l’uomo si riflettono come in uno specchio, sono uno l’immagine dell’altro e la preghiera diventa superflua perché Dio si conosce solo nel silenzio della propria anima.

Ph Andrea Avezzù Courtesy

Queste tesi ardite spinsero l’arcivescovo Enrico di Vinenburg a intentare nei confronti di Meister Eckhart un processo per eresia associando i suoi assunti a quelli degli eretici della Setta del Libero Spirito, in Italia perseguiti da quell’Ubertino da Casale che troviamo ne Il nome della Rosa. Eckhart si appellerà al papa sfruttando il privilegio dei domenicani di essere giudicati solo dal Santo Padre. Siamo nel periodo della cattività avignonese, durante il quale il papato sta «a puttaneggiar coi regi», per dirla con Dante; anni che vedono il processo ai templari con le relative ingerenze di Filippo il Bello e il papa è Giovanni XXII, pontefice accusato da Dante di comminare scomuniche per poi cancellarle dietro pagamento. Il 27 marzo 1329, nella Bolla In agro dominico, alcune delle proposizioni di Eckhart vengono considerate eretiche, ma il mistico tedesco è già morto, forse a Colonia o, più probabilmente, ad Avignone, in attesa di giudizio. Nella Bolla è detto che, prima della morte il mistico, avrebbe rigettato le sue tesi ritornando in seno all’ortodossia di Santa Madre Chiesa. Eckhart non era più in grado di smentire o confermare e comunque le sue opere furono ritenute a lungo sospette e pericolose.

Al Portego delle Colonne della Scuola Grande di San Marco a Venezia, di questo grande e scomodo pensatore è stato allestito un oratorio moderno e multimediale ispirato al commento al Vangelo di Giovanni, il più mistico e filosofico dei quattro. L’oggetto della dissertazione è il primo capitolo, quello maggiormente intriso di elementi gnostici presi in prestito dal mondo greco in Efeso, dove il testo fu composto. Questo capitolo, detto anche Inno al Logos, così comincia: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio». Queste sono anche le prime parole del Commento, recitate in latino.
Il Verbo, ossia il Logos, la Parola, è dunque al principio, ma non è il principio stesso, è ciò che crea ma è a sua volta creato, è la prima stilla d’acqua che sgorga dalla sorgente divina.
Proprio la centralità della Parola nella creazione spiega questo progetto di Biennale di Venezia. Anche in teatro la parola è fondamentale ma non è l’origine del teatro. Quello tra parola e performatività è un legame fondante ma altrettanto difficile da descrivere. La parola è dunque centrale, un motore di vita, un atto magico, capace di  creare e modificare il reale, ma è anche qualcosa che segue un linguaggio più oscuro eppure più immediato che è quello della fisicità dei corpi.

Risulta quasi impossibile condensare in poche frasi il il percorso mistico e filosofico proposto da Eckhart a commento di un testo così profondo e difficile. Non resta che operare una scelta e cogliere un esile filo dall’intreccio e illuminarlo per quanto si può.
Come ha affermato il teologo, scrittore e poeta Cardinale José Tolentino de Mendonça, – prefetto del Dicastero della cultura e dell’educazione della Santa Sede – nella sua introduzione alla serata del 5 marzo (ogni serata è stata introdotta da un ospite differente), il Verbo è anche Logos, ossia la ragione illuminante e per Eckhart «quando l’anima entra nella luce della ragione essa non sa più nulla dei contrari». Ogni cosa è allo stesso tempo affermazione e negazione e pertiene al mondo della contraddizione. Il paradosso è il luogo in cui abita il Verbo, in prima istanza perché nasce in quel fondo senza fondo dell’anima, unica dimensione in cui si può incontrare il dio indefinibile. Come spiega Marco Vannini – curatore italiano dell’intera opera tedesca e latina di Eckart – «Non vi sono più parole, ma si è, nel silenzio, quella Parola che è tutte le parole, la loro origine e la loro fine».

Ph Andrea Avezzù – Courtesy

Nel sermone Dum medium silentium, Eckhart usa le parole del libro della Sapienza: «Quando tutte le cose erano in mezzo al silenzio, venne in me dall’alto, dal trono regale, una parola segreta». È nel silenzio che Dio parla: «Voglio sedere e tacere, ed ascoltare quel che Dio dice in me». Ecco perché la luce risplende nelle tenebre: essa rifulge: «nel silenzio e nella pace, lontano dal tumulto delle creature». Questa la conclusione del Commento, insieme a una invocazione: «Anima mia, sii sorda, nell’orecchio del tuo cuore, al tumulto della tua vanità».
Da queste poche parole si comprende la fascinazione di Cage per Meister Eckhart. Per entrambi il suono, o la Parola, nascono dal silenzio del mondo e dell’io. Un paradosso intrigante che un inno alla Parola lodi e glorifichi il suo contrario.

Il secondo filo che vorremo portare alla luce riguarda l’incarnazione della parola. Dice l’Evangelista: «Et Verbum caro factum est. Il Verbo si è fatto carne». Il Verbo per Eckhart è come l’idea di Platone, si congiunge con la carne ma non partecipa della sua natura: «la causa prima regge tutte le cose senza mescolarsi ad esse». Ma la parola non è solo idea nella purezza dello spirito, è anche rappresentazione della cosa nel mondo ed è quindi corruttibile. In questa sua seconda accezione, l’uomo nobile si deve distaccare da ogni attaccamento d’amore alla parola per ritrovarne lo spirito, abbandonare l’illusione della carne per la realtà dello spirito. Scrive ancora Marco Vannini: «all’unitas spiritus appare mistificazione e peccato ogni contenuto in cui ci si ferma e in cui ci si compiace». Quanto ritroviamo di Carmelo Bene in questo pensiero, lui che pensava, come i greci, che non bisogna dire ma esser detti.

Come dunque la parola di Eckhart si è fatta carne sulla scena? Federica Fracassi, Leda Kreider, Dario Aita salgono su un podio nascosto da un velo al centro del Portego delle colonne. Il Coro circonda il pubblico disposto a specchio su due lati. Sulle pareti lunghe della sala sorgono le immagini visive ideate da Andrew Quinn. I tre attori, come il Dio nascosto di Eckhart, uno e trino, espongono le vertiginose tesi di Eckhart, mentre il coro risponde con canti e bordoni alle singole sezioni. Lettere e parole si formano sulle pareti: soli, fontane, fuochi artificiali, forme frattali, caleidoscopi generano mondi e realtà fatte di parole. Come nella mistica della Kabbalah ebraica, le lettere si combinano in modi oscuri e imperscrutabili sgranando davanti ai nostri occhi l’essenza del mondo alla ricerca del vero nome di Dio.
Una meditazione sia laica che religiosa sul senso e l’importanza della parola, in un mondo odierno in cui essa ha perso la sua verità. Un rito religioso e laico insieme per contemplare il Verbo al di là di ogni significato. In questo forse vi è l’attualità del pensiero di Eckhart, nel ritenere la parola ancora magica e potente, un atto creativo che scaturisce dal suo contrario, da quel silenzio che è il vero principio del mondo, oggi sempre più difficile da ascoltare e contemplare.

In conclusione una piccola riflessione. Il Commento al Vangelo di Giovanni di Meister Eckhart è un testo stupendo ma alquanto ostico per chi non è avvezzo ai termini filosofici della scolastica e al linguaggio mistico medievale. Questa performance, per quanto riuscita, non era diretta a tutti i palati. Qui ci si pone davanti a più di un dilemma: semplificare Eckhart sarebbe potuta essere una soluzione? Oppure vi sono opere che per quanto ci si sforzi non possono essere accessibili ai più? O, ancora, si poteva accogliere Eckhart in forme diverse, addirittura paradossali come le sue tesi? Non è facile affrontare queste questioni e trovare il giusto equilibrio tra accessibilità e complessità, soprattutto oggi che si tende a semplificare fino a snaturare il senso originario. Forse il segreto non è capire, ma lasciarsi attraversare dal mistero.

EXPOSITIO SANCTI EVANGELII SECUNDUM IOHANNEM

di Meister Eckhart 
voci recitanti Federica Fracassi, Leda Kreider, Dario Aita
insieme al Coro della Cappella Marciana,
con la direzione del M° Marco Gemmani
scene Antonino Viola
video Andrew Quinn
luci Tommaso Zappon
musica e proiezione del suono Thierry Coduys
grafica Studio Leonardo Sonnoli
regia e drammaturgia Antonello Pocetti
produzione La Biennale di Venezia
Progetto Speciale dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia

Le prime cinque serate saranno introdotte da:
5 marzo  Cardinale José Tolentino de Mendonça Logos
6 marzo  Peter Sloterdjik Essere
7 marzo  Cristiana Collu Amore
8 marzo  Monica Centanni Bene/Male
9 marzo  Monsignor Francesco Moraglia Anima/Corpo

Scuola Grande di San Marco, Venezia | 5 marzo 2025

Chi ha ancora il coraggio di dire la verità? ErosAntEros e la rilettura di Bertolt Brecht

LUDOVICA TAURISANO / PAC LAB*| C’è chi tira cannonate e chi tira i binocoli a teatro. Chissà quale forma di lotta genera risultati più duraturi. Questa è la domanda che assilla alla fine della visione di uno spettacolo come Sulla difficoltà di dire la verità. A uno spettacolo così bisogna essere pronti: intendo dire, essere mentalmente predisposti all’impegno, alla fatica della concentrazione. ErosAntEros non cerca vie edulcorate per denunciare l’agonia della verità (aggiungo io, dell’onestà intellettuale) dei nostri tempi. Del resto, una denuncia morbida e carezzevole è una contraddizione in termini. Eppure persino le denunce stanno sbiadendo in questi tempi accomodanti in cui le polemiche, rivoltate e denudate delle loro ipocrisie, hanno fini di costruzione di un consenso privato. Invece, ErosAntEros aggira la polemica sterile e, anzi, si scaglia proprio contro gli astrusi rigurgiti filosofici dell’intellettualismo contemporaneo blandamente politico.

Ph. Dario Bonazza

Nella proposta di Davide Sacco e Agata Tomšič, la matrice testuale è immediatamente riconoscibile. L’architettura dello spettacolo ha lo stesso andamento di un manifesto politico-letterario, non soltanto per l’evidente divisione in capitoli – procedimento ormai consueto anche per l’esperienza filmica e teatrale – ma per la paziente elaborazione teorica che sottende all’appello finale. Dichiaratamente lo spettacolo prende avvio dal saggio di Bertolt Brecht scritto del 1934, dopo l’avvento di Hitler al potere, Cinque difficoltà per chi scrive la verità.
L’adattamento ha lo spessore della consapevolezza. Per diretta dichiarazione degli artisti, è un procedimento citazionistico, nel senso di Walter Benjamin: il testo non viene riesumato per malinconia passatista o vezzo analogico. Ciò che sconcerta lo spettatore è l’assoluta attualità di quel reperto del secolo scorso, non solo per la pregnante eloquenza dei j’accuse, ma anche per il ricamo accorto degli artisti che fanno luce sui parallelismi.

Letteralmente, fanno luce e fanno suono. Sulla difficoltà di dire la verità è uno spettacolo scenicamente povero in apparenza, perché lo spazio nudo ospita esclusivamente corpo-voce e il corpo-luce dell’attrice: definire la sua una performance vocale è corretto, perché da lei fuoriescono una voce esterna, quasi divinatoria, e una voce della coscienza, pervasiva e virale nella sua capacità di rendere densa l’aria, complice anche la struttura intima del Teatro della Contraddizione.
I registri vocali sono in perfetta sintonia con i momenti del testo e con le parole che Tomšič accarezza con le mani e riecheggiano nei live electronics di Davide Sacco avvolgendo, senza lesinare anche sulla violenza del suono, lo spettatore. Allo stesso modo, è il corpo-faccia di Tomšič a essere polo magnetico assoluto: una faccia plastica, che si dilata e si deforma quando investita da luce livida, contendendosi il centro di attenzione con le immagini crude ed evocative di Michele Lapini. Come nella cifra stilistica del duo, infatti (è il caso di nuovo della produzione internazionale del Brecht di Santa Giovanna dei Macelli, ma anche di Vogliamo tutto!), l’apparato visuale dello spettacolo è affidato alle proiezioni sullo sfondo in un rapporto dialettico multilivello tra testo, iconografia e performance.

Il quadro ideologico di riferimento è immediatamente chiaro: la mortifera alleanza tra fascismo e libertà borghese ha generato gli orrori bellici del secolo scorso, ma anche un demone che allunga l’ombra delle sue fauci fino ai giorni nostri. Il capitalismo, si desume dall’interpretazione del testo brechtiano da parte degli autori, è tra i boia della verità. In nome della vendita, la vendita del sé e dunque dei propri prodotti intellettuali e materiali, si declamano generiche verità dal suono fintamente perturbante. I poeti della verità di cui parla Brecht sono, evidentemente, creature rare.

La verità bisogna innanzitutto riconoscerla, dentro quello che con metafora liberista si descrive marketplace of ideas e in questo scambio di merci si compra la verità che aumenta il proprio ritorno di interesse. Ma se pure si ha l’arguzia e l’onestà di riconoscere quella verità, occorre maneggiarla come un’arma e non aver paura del sangue che deriva da quell’utilizzo. Invece, accade che le lame di uomini e donne di cultura, oggi, siano un marchingegno di finzione, una protesi, un trucco, mentre i veri macellai hanno le mani sempre pulite, lavate con cura. Un testo, e uno spettacolo dunque, come questo, cercano le macchie sfuggite all’operazione di discolpa.

Come da manifesto, deve esserci un momento di appello, di chiamata alle armi. Appurato che è compito dello scrittore onesto identificare la verità e maneggiarla come una lama, per chi farlo? L’astuzia rivoluzionaria è di quelli capaci di diffondere la verità fra i molti, proclama l’attrice in scena. I molti senza tetto, i molti senza libro, i molti senza potere, i molti senza pane. “Voi molti”, sembra dire Brecht, negli inserti poetici inframmezzati nel testo, “voi molti cominciate a..”: contare il prezzo del grano, usare le parole giuste, verificare voi stessi, a chiedere ai vostri compagni.

Al termine della visione, resta un grande vuoto, l’ombra del lampante scarto tra la pretesa ideale del testo e l’efficacia dell’attività intellettuale oggi. Se il fulcro di Sul coraggio di dire la verità è l’auspicio che i pionieri della verità la pongano al servizio di chi ne ha bisogno, si deve cominciare a chiedersi con quali mezzi. Si può cominciare andando a guardare uno spettacolo impegnativo, che coniuga procedimenti scarni a un testo dallo spessore filosofico, che però vale tutto il nostro impegno.

SULLA DIFFICOLTÀ DI DIRE LA VERITÀ

ideazione Davide Sacco e Agata Tomšič / ErosAntEros
con Agata Tomšič
live electronics e regia Davide Sacco
immagini di Michele Lapini
produzione ErosAntEros, E production
in residenza presso Drammatico Vegetale / Ravenna Teatro, Odin Teatret / Nordisk Teaterlaboratorium
con il sostegno di CISIM, Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Ravenna e i partecipanti alla campagna di crowdfunding “ErosAntEros incontra l’Odin Teatret”

Teatro della Contraddizione, Milano | 22 febbraio 2025

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Silvio Castiglioni rilegge il poeta Nino Pedretti: l’uomo è davvero un animale feroce?

ph Gianluca Di Ioia

MARIA FRANCESCA SACCO/ PAC LAB* | Uscire da uno spettacolo con la mente in fermento e la sensazione di aver appreso qualcosa di nuovo significa che il teatro ha davvero colpito nel segno, assolvendo alla sua missione più nobile: stimolare pensieri e idee.
È proprio ciò che accade con L’uomo è un animale feroce di Silvio Castiglioni e Giorgia Galanti che prende vita da una decina di monologhi tratti da Monologhi e racconti del poeta e traduttore romagnolo Nino Pedretti, scomparso nel 1982. Originario di Santarcangelo di Romagna, Pedretti si è distinto in particolare per la scelta di utilizzare il suo dialetto in poesia, non solo come strumento di espressione culturale, ma anche per raccontare storie e tradizioni popolari legate alla sua terra.
I testi di Pedretti dai quali prende spunto lo spettacolo, scritti quasi sul letto di morte, erano originariamente destinati a una serie radiofonica commissionata dalla Rai per Radio 3 ma, a causa della scomparsa del poeta, quelle parole non furono mai registrate. Rimasti in silenzio per decenni, i monologhi hanno trovato una voce grazie a questo lavoro che li riadatta al palcoscenico, restituendo loro vita e vigore: il risultato è un’esperienza teatrale che è al contempo un omaggio al poeta e una riflessione sull’essere umano.

ph Valentina Bianchi

La scena è molto semplice, un tavolo e una sedia, e quando Castiglioni entra lo fa dalla platea, recando una scatola in mano con dentro degli oggetti e con un camice azzurro indosso. Si guadagna l’ingresso sul palco sistemando qua e là sul tavolo il contenuto dello scatolone: una lampada, una bottiglia, un bicchiere. L’attore romagnolo – per anni direttore del Festival di Santarcangelo e al momento in scena anche con Viaggio in Armenia – porta sul palco i protagonisti di questi brevi monologhi passando da una storia all’altra senza mai perdere l’intensità dell’interpretazione.
Inizia, dopo essersi tolto il soprabito, la storia del primo personaggio che racconta dello status symbol che deriva dal possedere un terrazzo invidiato da tutti. Poco a poco, la scena si arricchisce di nuove vicende, tutte introdotte dal suono di un campanello che segna il passaggio sul ring di un’altra narrazione; si scivola così in quella successiva in cui si incontra un bibliotecario infastidito dalla gente che chiede informazioni sui libri; ancora, una moglie che esprime i suoi desideri nascosti per sfuggire alla monotonia.

Come un camaleonte, ma sempre in giacca e cravatta, l’attore ci traghetta da un personaggio all’altro esaltando la capacità di Pedretti di descrivere i caratteri: nel monologo del venditore di tappeti di paglia, ad esempio, il protagonista non parla solo del suo mestiere umile e faticoso, ma rivela un senso di solitudine e frustrazione. I tappeti, prodotti con le sue mani, sono il simbolo di una vita di sacrificio che rimane inascoltata: una riflessione sulla condizione di chi lotta per un cambiamento che sembra impossibile.

ph Valentina Bianchi

Questa galleria di personalità ben tratteggiate parla al suo pubblico di una normalità nella quale spiccano i disagi della vita quotidiana, i fastidi della comunicazione con gli altri esseri umani, le frustrazioni della routine in cui l’uomo resiste ferocemente. Castiglioni, del resto, ha la grande dote di riuscire a rendere in scena le pieghe più fragili dei personaggi, senza note patetiche né eccessi, con particolare interesse per quelli femminili, come ad esempio nel monologo della suora.
La galleria si arricchisce con la storia della donna che ha scelto la vita religiosa ma che è tuttavia combattuta da emozioni e desideri che sembrano contraddire il suo voto di castità e la sua dedizione a Dio. Non è solo una riflessione sulla sua vita da religiosa, ma anche sulla solitudine che essa comporta, sul sacrificio e sulla fatica di rinunciare alla propria identità personale per una causa superiore. Pedretti non la dipinge come una figura idealizzata o completamente devota, ma come una persona in lotta con sé stessa, con i suoi sentimenti e le sue aspirazioni. Grazie alla scrittura potente e senza filtri e alla precisa recitazione di Castiglioni – mai una sbavatura, mai un esagerazione – la suora diventa simbolo universale di tutte quelle persone che, pur vivendo un’esistenza di grande impegno e sacrificio, non riescono a liberarsi dai propri conflitti interiori.

La riflessione su questa umanità variegata è mossa da un elemento costante nello stile del poeta romagnolo: una sottile ironia derivante dal contrasto tra la serietà con cui i personaggi affrontano eventi che sono fondamentalmente ridicoli (si pensi al bibliotecario che si indigna con chi osa chiedergli la collocazione dei libri). Da qui emerge un continuo paradosso che attraversa tutta la narrazione, fondato sulla discrepanza tra la realtà dei fatti e le aspettative o le convinzioni personali dei personaggi. Il sarcasmo, in questo contesto, consente a Pedretti di offrire osservazioni pungenti sulla società, mantenendo però un tono leggero e vivace che l’attore rende perfettamente in scena. 

L’interruzione dei monologhi per raccontare la genesi dello spettacolo e le scelte di Castiglioni è un momento interessante della performance, quasi didattico: l’attore spiega come abbia rimaneggiato i testi, parlando al pubblico della figura di Pedretti e del suo valore poetico, soffermandosi anche sulla questione del dialetto, mezzo per conservare e trasmettere la memoria storica e le esperienze quotidiane delle persone comuni, a lui molto care.
Ma è la capacità di trattare temi profondamente umani a caratterizzare più di tutto questi monologhi: la morte del desiderio, la fede, la solitudine e il conflitto tra spiritualità e corpo, invitando alla riflessione sulla complessità della vita e delle scelte umane. Del resto la rivisitazione della teoria aristotelica secondo cui l’uomo è un animale sociale la dice lunga sulla tipologia di umanità presentata: la fragilità dell’uomo che rivolge lo sguardo solo a sé stesso. Castiglioni riesce, ancora una volta, a dimostrare quanto il teatro possa essere un potente strumento di riflessione e scoperta. L’indomani, per certo, tutti in libreria alla ricerca di un’opera di Pedretti.

 

L’UOMO È UN ANIMALE FEROCE

da Nino Pedretti
con Silvio Castiglioni
musica dal vivo Marco Capicchioni piano, Serena Lucchi flauto
ideazione e adattamento Silvio Castiglioni
produzione Celesterosa/I sacchi di Sabbia
con il contributo di Provincia di Rimini e Regione Emila Romagna
in collaborazione con Comuni di Cattolica e Santarcangelo, Università degli Studi di Urbino, associazione ‘Noi della Rocca’ di Santarcangelo

Teatro Cesare Volta, Pavia | 3 marzo 2025

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

L’infamante accusa di assenza: Oscar De Summa e le passioni tristi nell’era digitale

L'infamante accusa di assenza. Foto di Duccio Burberi

MATTEO BRIGHENTI | Non contano gli anni: contano le emozioni che non esprimi. Per Oscar De Summa l’adolescenza è una risposta al mondo che non ha età.
Demi è una ragazzina, ha tutta la sua vita nel cellulare, certo. Il segreto che non vuole rivelare, però, lo nasconde in un computer portatile che chiama apertamente PC. Quale altrǝ adolescente, oggi, lo farebbe? È un piccolo, ma significativo indizio: è giovane e, al tempo stesso, non è così giovane, è di questo secolo e, anche, del secolo scorso. È tuttɜ noi che ci sentiamo assenti a noi stessɜ. Smarritɜ in una rivoluzione digitale che non riusciamo a guidare: possiamo solo subirla.
L’infamante accusa di assenza è il tentativo di scuotere Demi, di riportarla e, quindi, riportarci alla vita, attraverso una pazzoide favola amara, con un finale in nero, che rivela tutto il pessimismo di De Summa per un impossibile risveglio delle nostre coscienze (a differenza di quanto celebrano, ad esempio, Enzo Vetrano e Stefano Randisi nella loro festa di Ognissanti).

L’infamante accusa di assenza. Foto di Duccio Burberi

Così, le scene di Lorenzo Banci e il progetto luci di Matteo Gozzi raccontano di un universo lattiginoso, levigato, senza spigoli, quasi avessimo attraversato lo schermo di uno smartphone. Cinque sedie sul fondo, due relle di vestiti ai lati, e un’americana a vista completano il quadro iniziale del lavoro di Oscar De Summa, con un contributo di Lorenzo Guerrieri. È proprio De Summa, non appena la compagnia prende posto sul palco del Teatro Metastasio di Prato, che si alza per primo e, rivolgendosi al pubblico, accorda furbescamente i suoni, chiede gli diano il La, l’intonazione giusta. Ovvero, il genere di spettacolo che faranno. Concordano su “giallo esistenzialista”.
Un simile incipit è una chiara dichiarazioni di intenti: andrà in scena del teatro. Più che personaggi, vedremo agire dei caratteri o, meglio, le declinazioni di un medesimo carattere che interpreta la realtà come lotta, invece che come fuga. Del resto, gli stessi De Summa e Guerrieri, ma anche Mattia Fabris e Andrea Macaluso, hanno la biacca in faccia, sinonimo di precisa neutralità identitaria. Sono pagine bianche, il cambio d’abito (costumi di Chiara Lanzillotta) non cambia la loro personalità, ma il modo in cui questa si esprime. Valeria Sibona è l’unica del gruppo senza quel trucco neutralizzante. Demi non solo ha un nome, ha anche una natura che la individua, e la pone in netto contrasto con tutti gli altri: tra lottare e fuggire, vuole, semplicemente, restare immobile.

Foto di Duccio Burberi

L’infamante accusa di assenza va, innanzitutto, prodotta e notificata. La prima parte, allora, si dipana tra le indagini di un investigatore pedante e del suo aiutante beccamorto, il mancato sostegno del fratello suscettibile, la comparsa del vivace avvocato difensore e, infine, il messo punk del tribunale sommo dell’io. In un modo o nell’altro, tutti questi uomini la spronano a vivere, invece che farsi vivere, anche se questo vuol dire sbagliare, soffrire, finanche morire. La sua posizione di assenza a sé stessa, le comunicano, è difficile, ma non grave, e comunque comune.
Demi non capisce, e noi neppure, chi siano quelle strane persone che invadono il suo spazio privato. Perché sono qui? Che cosa vogliano? La girandola schizzata del grottesco, dell’eccesso, viene innescata fin da subito. Gli attori praticano l’overacting, spingono sull’acceleratore della sovra-recitazione che, per contrasto, accentua l’apatia della ragazzina.
Da fuori, infatti, sembra triste, ma dentro non prova emozioni: si sente vuota, distante da tutto, anche quando fa quello che glɜ altrɜ vogliono da lei. Sente di non essere abbastanza in nulla: ci guarda, da sola a solɜ che siamo, e si scusa di essere patetica. La voce furiosa di Kurt Cobain che canta la sua Smells Like Teen Spirit – la voce, soltanto quella – urla tutto ciò che Demi ha dentro, e non riesce a tirare fuori. È lo stacco emotivo che ci conduce alla seconda parte de L’infamante accusa di assenza, invero più a fuoco e coinvolgente della prima: l’istruzione del processo.

Foto di Duccio Burberi

Tra gli scranni di giudice, pubblico ministero, avvocato difensore, e il banco dell’imputata, ora vestita come Alice nel paese delle meraviglie, si gioca un dibattimento kafkiano che non contempla di ascoltare l’adolescente. È in assenza della sua opinione, dunque in contumacia, quasi a voler sottolineare il comune fallimento nel capire e intendere la sua posizione.
Volano parole come ansia, trauma, male, e quando rievoca la morte del cane si mettono a ridere. È un luna park della violenza anarchica, con un Guerrieri adesso battitore/imbonitore lucidamente fuori controllo – dà l’idea di fermarsi sempre ad appena un passo dall’irreversibile – una giostra della strafottenza erudita del togato mosso da Macaluso o cialtrona del difensore agito da De Summa. Provocano Demi per suscitare in lei una qualche reazione, pensando che metterla in difficoltà la aiuti a imparare qualcosa su di sé. Ma è una terapia shock che non funziona affatto.

Foto di Duccio Burberi

Lasciata sola, Demi si apre per la seconda e ultima volta, con un cupo monologo che Sibona ci porge con acuta rabbia e dolce sconfitta. Confessa che ha scelto di non provare più emozioni, perché sente troppo forte il troppo dolore che c’è nel mondo. Non è insensibile, tutt’altro: semmai è ipersensibile. L’ipersensibilità può effettivamente portare a dire addio alla realtà, al presente, a chiudere gli occhi per non vedere più il gioco a perdere della vita.
Come darle torto, alla fine, se chi vuole farle la morale è un adulto come quelli che ha di fronte? Cioè, ancora più adolescenti di lei?
L’infamante accusa di assenza si chiude sull’attesa di un verdetto che avverrà a luci spente. Che sia colpevole o innocente, a questo punto, ha poca importanza. Perché questo mondo fatto così, impazzito e stanco, l’abbiamo creato noi. Demi ci è soltanto nata.

L’INFAMANTE ACCUSA DI ASSENZA
di Oscar De Summa
con un contributo di Lorenzo Guerrieri

con Oscar De Summa, Mattia Fabris, Lorenzo Guerrieri, Andrea Macaluso, Valeria Sibona
assistente alla regia Tommaso Rotella
progetto luci Matteo Gozzi
progetto musicale Oscar De Summa
scene Lorenzo Banci
costumi Chiara Lanzillotta
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il contributo di Wordbox – Parole per il teatro / Teatro Stabile di Bolzano

Prima Assoluta

Teatro Metastasio, Prato | 7 marzo 2025