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sabato, Luglio 27, 2024
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Nutida: a Scandicci la V edizione del festival di danza (quasi) unplugged al tramonto

RENZO FRANCABANDERA | Con il tempo, con la frequentazione, ci si affeziona ad alcuni progetti perché se ne vive e percepisce l’intensità. A volte sono quelli meno artefatti, che ti accolgono in uno spazio bello, per proporti cose con semplicità e senza fronzoli. La danza contemporanea all’ora del tramonto, mettendo insieme artisti di fama internazionale e giovani talenti, è l’idea che da cinque edizioni ispira Nutida Nuovə danzatrici/ori, il festival di danza contemporanea nato a Scandicci con la direzione artistica di due personalità dal carattere intenso come Cristina Bozzolini e Saverio Cona.
Al loro invito per questa edizione hanno risposto, per presentare performance di danza di breve durata ma grande intensità,
esponenti importanti della scena contemporanea come Philippe Kratz, Michele di Stefano, Pablo Girolami, Rachelle Anais Scott, Giovanni Insaudo, che come da tradizione della kermesse si uniscono alla presenza di giovani talenti, tra cui Lorenzo di Rocco, Francesca Santamaria, Jennifer Rosati, Beatrice Ciattini, Niccolò Poggini, Rita Carrara, Isabella Giustina, Daria Lidonnici.
Nel poco tempo dell’imbrunire si compie questo rito che fa a meno delle luci, della sofisticazione tecnica, per proporre dentro gli spazi di una piccola corte i corpi e la musica.
No fringe, no frills, just dance.

La rassegna è un progetto di Stazione Utopia, realizzato con il sostegno pubblico: per un mese dal 13 giugno al 4 luglio Nutida ha presentato spettacoli e studi nell’ora che precede il tramonto, in un rapporto di semplicità naturale tra pubblico e artisti all’interno della bellissima corte piccola del Pomario del Castello dell’Acciaiolo. Con l’intenzione di recuperare quanto il Balletto di Toscana ha fatto in questi decenni passati in termini di formazione, oltre che di diffusione culturale, la direzione artistica ha invitato al festival anche due prestigiosi coreografi della scena internazionale formatisi al Balletto di Toscana: dalla Germania Giuseppe Spota, direttore artistico della MiR Dance Company e dall’Australia Davide di Giovanni, direttore artistico di New Old Now.
Oltre a loro sono state ospiti, tra gli altri, le compagnie Centro Coreografico Nazionale/Aterballetto, Nuovo Balletto di Toscana, Ivona, Artemis Danza, CodedUomo, Compagnia degli Istanti e la MiR Dance Company, insieme alle numerose produzioni del Festival.

Raccontiamo 3 dei 21 titoli proposti in programma, presentati al pubblico il 2 e 3 di luglio, e che mettono insieme danzatori, realtà emergenti, coreografi affermati dentro uno spazio di grande semplicità espressiva, con l’obiettivo primario di sostenere processi di crescita di giovani artisti, ponendoli in relazione con autori di fama e offrendo loro opportunità produttive.

Partiamo proprio da uno di questi, ovvero Whispers of Resonance, coreografia di Rachelle Anais Scott interpretata da lei stessa in scena con Dayne Florence.
In fondo, a sinistra dello spazio scenico, sono presenti un tavolino e una sedia. I due entrano in scena. Lei si siede, lui inizia a muoversi sul tavolino in modo agitato e confuso. Siamo subito dentro una storia di coppia.
Lei è vestita con giacca e pantaloni neri, lui ha i pantaloni scuri e una camicia chiara. Lei ha i capelli raccolti e l’aria contrita. Lui è di colori più chiari e mantiene una postura più spavalda, sebbene di tanto in tanto abbia esplosioni di mimica isterica che interrompono il corso dei suoi gesti, mimando tagli, mani che si dirigono tese verso la bocca, quasi a simboleggiare una nevrosi della relazione che coinvolge subito anche lei, che cerca in qualche modo di trattenerlo.

Rachelle Anais Scott è coreografa e danzatrice di origini franco/statunitensi che vive a Basilea e in questo duetto indaga le risposte istintive, le emozioni non mediate che si sviluppano nella vita e nelle relazioni personali. Il lavoro è preciso, indica una storia senza ammantarla di didascalie. Nitidi i movimenti e la mimica, che nella creazione assume una importanza specifica, con i ballerini che incarnano le correnti mutevoli delle avversità nelle relazioni interpersonali e la forza d’animo che occorre per andare oltre le complessità, un po’ come le tracce sonore scelte, che essendo riproduzioni au contraire di brani musicali –fra i quali si riconosce distintamente la voce di Anohni and the Johnsons –  crea quell’inquietudine insita nel sincopato, nell’irrisolto: due sentimenti che si leggono bene anche nella coreografia.

Attesissima la presenza nelle serate del 2 e 3 luglio, della coreografia di Philippe Kratz, che è arrivato a Nutida con An echo, a wave, una creazione firmata per Centro Coreografico Nazionale/Aterballetto, e qui proposta in anteprima.
Kratz, nome consolidato della danza contemporanea, è da alcuni anni di stanza presso Aterballetto. N
ato a Leverkusen (Germania) nel 1985, dopo gli studi di danza classica e contemporanea alla École supérieure de danse du Québec, Montréal, sotto la direzione di Didier Chirpaz, ha poi completato la formazione con Gregor Seyffert, e da quindici anni è entrato a far parte del centro emiliano, riscuotendo nel frattempo anche premi e riconoscimenti, come nel 2018 quello al 32° International Choreographic Competition Hannover 2018 con il passo a due O e il Premio Danza&Danza 2019 per Miglior Coreografo.

Interpretano questa coreografia Federica Lamonaca e Giovanni Leone, due danzatori che fanno organicamente parte di Aterballetto, figure scenicamente molto diverse dalle due che le hanno precedute e di cui abbiamo parlato sopra: qui la fisicità si spinge al limite dell’acrobatico, del gesto ginnico, a voler incarnare, secondo l’idea del coreografo, il mare, luogo di meraviglia, di sogni, di promesse, di fascino travolgente. Quindi il sistema di gesti che compone l’opera è fatto di insinuazioni e prese, di onde e tumulti che non si arrestano mai, un continuo fluire del movimento di un danzatore dentro quello dell’altro. Lei quasi parte fluida, lui tenace e inscalfibile, quasi duro. L’equilibrio è dato proprio dall’accostamento di queste due corporeità distinte e dalla precisione dei gesti, che per questo genere di operazioni diventa essenziale.
Una composizione impattante dal punto di vista fisico, piano espressivo che viene leggermente sovrappesato dal coreografo rispetto a quello mimico, che resta più neutrale, rimanendo quindi tutto interno alla cifra del danzato.

Altro appuntamento di rilievo è la creazione Nero è il colore dei capelli del mio vero amore, in programma il 3 luglio. La produzione di Nutida/Stazione Utopia in prima assoluta reca la firma di Davide di Giovanni, talento in evidenza, in arrivo da Sydney, danzatore e coreografo che vanta collaborazioni con importanti formazioni tra cui Staatstheater am Gärtnerplatz di Monaco di Baviera e la Sidney Dance Company in cui è stato solista.
Il lavoro vuole affrontare il tema amoroso, partendo nell’ispirazione dalla canzone Black Is the Color of My True Love’s Hair nella magnifica versione di Nina Simone. Il solo che di Giovanni immagina per Matilde Di Ciolo, interprete non ancora trentenne e componente dell’organico del Balletto di Toscana, vuole in qualche misura incarnare la ragazza di cui canta Nina Simone, una donna che non teme di affidarsi alla speranza per il sentimento cristallino.
L’azione coreografica è un  piccolo gioiellino di poco meno di dieci minuti, che inizia con un lungo tempo senza musica, in cui la danzatrice, che incomincia seduta sul tappeto danza di spalle al pubblico, si porta in avanti verso la platea per incominciare un lento cercare gesti di aggraziata intensità, che mirano a liberarla da un continuo avvitarsi su se stessa che la intrappola in modo ricorsivo. L’unione di corpo e anima di cui l’assolo vuole essere testimonianza parte proprio dall’idea di spingere in avanti, in una danza che vince ogni ferocia della vita. Cifra peculiare della creazione è proprio una corretta, e verrebbe da dire giustamente enfatizzata, alternanza di vuoti e pieni, che non riguarda solo la musica, che arriva solo nel finale: come se l’interprete, una volta studiati e raffinati i gesti, dopo un momento di discontinuità, si sentisse pronta ad affrontare l’interpretazione del brano musicale.
Davide di Giovanni lavora accuratamente sulle pause, sui vuoti, sulle assenze che proprio in quanto tali, con forza chiaroscurale, spingono poi i gesti successivi e amplificano il senso di quelli precedenti.
Il corpo della di Ciolo viene utilizzato non solo nelle sue abilità gestuali di derivazione classica. La completezza arriva proprio da piccoli ma essenziali inserti post-drammatici, dal mantenimento delle posizioni, dagli equilibri che finiscono per dare alla creazione una limpidezza specifica, che esalta sia una corporeità che Di Giovanni lascia elegantemente trasparire da un top nero di raffinata fattura, sia le caratteristiche interpretative della artista. 

WHISPERS OF RESONANCE 

Prima assoluta
coreografia di Rachelle Anais Scott
con Dayne Florence e Rachelle Anais Scott
musiche AA.VV

AN ECHO, A WAVE

Anteprima
coreografia di Philippe Kratz
con Federica Lamonaca e Giovanni Leone
musiche di Tommaso Michelini
produzione Centro Coreografico Nazionale / Aterballetto

 

Nero è il colore dei capelli del mio vero amore

Prima assoluta
coreografia di Davide di Giovanni
con Matilde Di Ciolo
musiche AA.VV
produzione Nutida/Stazione Utopia

Festival Nutida, Scandicci | 2 e 3 luglio 2024

Giardini Aperti: a Cagliari la 17esima edizione del festival – intervista a Rosalba Piras

RENZO FRANCABANDERA e LEONARDO DELFANTI | Anche quest’anno si rinnova l’appuntamento con il Festival Internazionale della Sostenibilità GiardiniAperti 2024, alla sua diciassettesima edizione e organizzato da Abaco Teatro. Un festival multidisciplinare che dal 22 giugno al 4 agosto propone un fitto programma di eventi multidisciplinari diffusi tra Cagliari, Villaspeciosa, Elmas, MaracalagonisMonserrato, Quartucciu, Quartu S. Elena e Siliqua.
Questa edizione enfatizza le abilità degli artisti chiamati ad animarla proprio grazie alla varietà dei linguaggi con cui i grandi temi del presente vengono affrontati, attraverso opere e autori che attingono al contemporaneo ma anche al passato.

Tantissimi gli appuntamenti pomeridiani anche per bambini, da sempre oggetto di particolare attenzione da parte della direzione artistica, tra rivisitazioni di antiche fiabe, miti sardi allestimenti interattivi, ma anche i più grandi, i preadolescenti, cui sono dedicati laboratori creativi a cura di Legambiente, Unicef e Operazione Africa ODV. Si parlerà di tutela ambientale, riciclo, acqua e diritti dei più piccoli. Delle 51 rappresentazioni ben 20 sono dedicate ai bambini e 31 al pubblico adulto, tra teatro, musica e danza.
Ma ci saranno anche 4 incontri letterari, 4
 laboratori creativi, 2 mostre fotografiche e la proiezione di un documentario, oltre a flash mob e bizzarre incursioni artistiche nel centro urbano.


Abbiamo parlato di questa edizione, ma anche di alcune questioni fondanti di politica culturale, con la Direttrice Artistica Rosalba Piras.

Rosalba, Giardini aperti è un appuntamento ormai rituale per la città, pensi che negli anni abbia permesso a una parte della città di ripensare, prima ancora che all’arte, alla sua geografia?

Credo che le due cose vadano parallelamente,  perché l’utilizzo creativo degli spazi della città favorisce la frequentazione e la riscoperta degli stessi. Infatti l’obiettivo del Festival non è solo quello di proporre spettacoli, ma anche di favorire la vivibilità dei quartieri, delle piazze e dei parchi per una migliore qualità della vita all’aria aperta.

Andiamo invece all’arte. A quale edizione del Festival siete arrivati? Quale filo rosso lega le scelte della direzione artistica?

Il festival è giunto alla sua diciassettesima edizione, seguendo sempre i temi della sostenibilità ambientale e proponendo quindi eventi che creano attenzione su questi argomenti di vitale importanza. In particolare quest’anno abbiamo messo in evidenza due filoni narrativi con 4 giornate di spettacoli dedicati alla scienza e tre serate incentrate sulla bicicletta, mezzo green per eccellenza. Riguardo alla scienza abbiamo in cartellone rappresentazioni che vedono protagonisti illustri scienziati, due donne e due uomini, che hanno segnato la storia di ieri e di oggi. Parliamo della botanica Eva Mameli Calvino messa in scena da Abaco Teatro e presentata in prima nazionale, Margherita Hack nell’interpretazione di Laura Curino. E ancora, per quanto riguarda gli uomini, focus su Galileo Galilei in un allestimento molto originale, ITIS Galileo,  su testi di Marco Paolini firmato da Teatro d’Inverno, per finire con il popolarissimo Mario Tozzi che assieme al matematico Lorenzo Baglioni parlerà dell’emergenza climatica che minaccia tutto il pianeta nello spettacolo “Al clima non ci credo”.

I 3 giorni invece dedicati alla bicicletta vedono protagonisti campioni del ciclismo ma non solo: in calendario “Ottavio Bottecchia – vite in volata” di Abaco Teatro tutto dedicato a questa indimenticabile figura sportiva, immerso in uno spaccato storico che emerge nell’allestimento. E poi Alfonsina Strada nella pièce “Perdifiato”,  coproduzione Meridiano Zero, Teatro Tabasco, Compagnia Vaga, unica donna nella storia a correre il Giro d’Italia, nel 1924. Infine ci sarà l’acrobata – performer Jessica Arpin che a cavallo della sua bicicletta stupirà il pubblico con incredibili evoluzioni.

Il sistema delle arti performative è in notoria sofferenza di fondi e risorse. Come pensi possa evolvere questa situazione? Che tipo di dialogo si può instaurare con le amministrazioni?

Purtroppo ultimamente la tendenza da parte degli enti preposti è quella di tagliare le risorse destinate allo spettacolo a causa delle contingenze politiche  e del bilancio delle stato, sempre più a debito. Una situazione certamente grave che comunque credo non frenerà più di tanto la crescita dello spettacolo dal vivo, laddove la passione degli artisti spesso supera i deficit economici, sebbene comporti parecchi sacrifici. Riguardo alle amministrazioni locali, l’importante è tenere sempre aperto il dialogo, proponendo attività che agiscano a vari livelli, muovendo anche l’economia, le potenzialità turistiche dei territori, gli scambi con l’estero e l’incremento  delle opportunità lavorative soprattutto per i giovani. Tutto questo per far sì che la cultura si innesti sempre più nel tessuto sociale per una vera crescita collettiva.

Quali linguaggi coinvolgono maggiormente il pubblico giovane?

Oggigiorno i giovani prediligono gli  influencer e i personaggi che hanno grande visibilità sui social. Noi però abbiamo riscontrato un notevole gradimento e partecipazione del pubblico più giovane, puntando su spettacoli di alto livello caratterizzati da stili e linguaggi vivaci, brillanti, che trattano temi contemporanei, animati da giovani attori. Inoltre i ragazzi hanno l’opportunità, durante il Festival, di vivere in prima persona il clima e l’ambiente dello spettacolo dal vivo, visto che gran parte dello staff tecnico/organizzativo è reclutato proprio tra i più giovani. Il coinvolgimento poi nei laboratori che proponiamo, è un’altra carta vincente per catturare l’attenzione delle nuove generazioni.

I festival estivi non riescono, per stagionalità, a intercettare il tempo scolastico, ma è sempre possibile creare progetti specifici per le generazioni future. Che cosa avete pensato in questa edizione su questo fronte?

I laboratori sono in generale il mezzo più efficace per arrivare ai più giovani e il Festival, ogni anno, propone un ampio ventaglio di opportunità in questo senso in collaborazione con Unicef, Legambiente e Operazione Africa. I progetti specifici riguardano il coinvolgimento costante dei ragazzi delle scuole primarie, secondarie, superiori e università nell’arco di tutto l’anno. Abaco Teatro infatti propone tanti laboratori nelle scuole, il cui esito finale approda poi al Festival estivo. Ci sono poi attività che portiamo avanti come vero e proprio excursus su singoli temi. Per esempio insegniamo ai bambini a costruire dei pupazzi e sveliamo i segreti della loro animazione. Alla fine, assistendo durante il Festival, al Teatro di figura, i bambini completano il ciclo di apprendimento verso questa arte.  

Ifigenia in Aulide, il sacrificio di una bambina e le false ragioni dei grandi

ph Gianfranco Negri

OLINDO RAMPIN | Siamo nell’area archeologica di Veleia, sull’appennino piacentino, circondati da boschi e radure, immersi in una perfetta oscurità, illuminata dalle luci teatrali e rotta ogni tanto dal verso di rapaci notturni, dal tubare di piccioni, da latrati di cani in lontananza. Davanti a noi i giovani interpreti, forgiati da Fausto Russo Alesi nella Bottega XNL ideata da Paola Pedrazzini, direttrice del Festival di Teatro Antico, pronunciano con trepidazione le parole scritte 2500 anni fa dal drammaturgo greco Euripide nella sua opera intitolata Ifigenia in Aulide. Agamennone, Menelao, Achille e i soldati attraversano la scena con impetuosità, facendo risuonare l’impiantito di legno con i loro scarponi moderni; come moderne sono sia le loro divise militari sia l’abito di Clitennestra, moglie di Agamennone e madre di Ifigenia, sia gli abiti da collegiali indossati dalle giovani del Coro.

A poco a poco si viene chiarendo davanti a noi la natura mostruosa della vicenda narrata: la decisione di un padre di sacrificare sua figlia perché così vuole la divinità. Una storia, come spesso accade nella tragedia greca, di onnipotenza del divino sull’umano, di dominio della necessità e della sorte, rivissuta e ripensata da Fausto Russo Alesi in dolente ascolto dei fremiti bellicisti di ieri e di oggi, delle guerre del Novecento, dell’orrore in Ucraina, a Gaza, dei presagi di una possibile nuova guerra mondiale.

ph Gianfranco Negri

È incommensurabile la diversità tra il mondo moderno e quello antico, pur nella consapevolezza della forza perenne di un’opera come questa, della sua capacità di dire ancora e sempre cose nuove. È la diversità genialmente intuita da Leopardi in pagine poco lette della sua altissima e ancora sottovalutata riflessione storico-politica, nella quale individuò nell’antichità greco-romana un modello supremo, in cui la condizione naturale dell’uomo non era ancora stata distrutta dalla “civiltà”, da un processo di spiritualizzazione distruttore delle illusioni e dell’immaginazione.
Un modello ineguagliabile anche per il rapporto tra arte e politica, quell’epoca essendo “inarrivata e inarrivabile nelle arti belle, pur considerate l’une e l’altre come suoi passatempi e occupazioni secondarie”. A questa differenza, non facilmente superabile con scorciatoie soggettivistiche o strumentalmente attualizzanti, va riferita anche la percezione, nello spettatore di oggi, della presenza sovrastante degli dèi nelle vicende umane.
È quel che accade qui: Agamennone non accetta forse l’aberrante decreto della dea Artemide che, adirata con i Greci, impone il sacrificio della figlia Ifigenia? Rispetto agli altri grandi tragediografi in Euripide la divinità appare ancora più tirannica, indecifrabile, incomprensibile, nevrotica, mutevole negli umori: come Artemide, appunto, che ritiene di doversi vendicare di Agamennone con l’uccisione della figlia solo perché durante una battuta di caccia egli ha osato dire di essere più bravo di lei; e che con la stessa matta arbitrarietà decide all’ultimo momento di salvare Ifigenia dal coltello sacrificale facendola sparire e sostituendola con una cerva.

ph Gianfranco Negri

Antefatto della saga della guerra di Troia, la vicenda della figlia di Agamennone diventò, grazie a Euripide, uno dei miti più amati dagli scrittori latini. Lucrezio ne fece acutamente l’emblema della barbarie di ogni superstizione religiosa. Ogni epoca diede la sua lettura della leggenda, e anche l’arte figurativa ne restò colpita. Un esempio pittorico a suo modo insuperato, di interpretazione in chiave attualizzante, tutta emotiva e atmosferica, per non dire pre-fumettistica, è quella che ne offre il celebre affresco dipinto nel 1756 da Giambattista Tiepolo sessantenne a Vicenza, nella Villa Valmarana “ai Nani”, che trasferisce il dramma euripideo in un antiquariato di grandioso effetto scenografico, nel quale Ifigenia è inopinatamente ritratta come una bionda e sensualissima dama del patriziato veneziano settecentesco a seno scoperto.

Fausto Russo Alesi con sensibilità moderna coglie uno dei nuclei più fecondi della scrittura euripidea nel conflitto di coscienza di Agamennone, maschio-alfa in crisi, leader che si scopre irresoluto ma non lo accetta, e cambia più volte idea sulla necessità del sacrificio della figlia.
È questo il motore di un doppio sviluppo drammatico: di fine introspezione dei conflitti interiori e di lucida analisi della spietatezza della lotta politica che si può leggere in controluce nel presente. Non a caso si è spesso parlato di un “realismo” e di un “razionalismo” di Euripide. La crisi investe qui nel profondo l’uomo e il Re di Argo, interpretato da Salvatore Alfano, vibrante e nervoso, dalla dizione infuocata da un costante vulcanismo espressivo, con cui lamenta più volte il peso del potere e l’invidia per l’uomo comune che non ha gravose responsabilità pubbliche. Al tempo stesso consente a Menelao, impersonato da Riccardo Francesco Vicardi, sinistramente avido di guerra e di potere nella sua divisa da comandante multimedagliato dal sapore fascista, di sfruttare cinicamente la debolezza del fratello per cercare di sopraffarlo.
Il diapason della tensione nei rapporti tra le diverse personalità in conflitto si esprime con ancora maggiore concitazione emotiva nel confronto inevitabile tra il re argivo e la moglie Clitennestra, di cui Elena Orsini, altissima, magra e fibrillante nel suo castigato abito rosso vintage da moglie borghese secondo Novecento, veste i panni con un ardore interpretativo che tocca punte parossistiche.

ph Gianfranco Negri

È questo un apice emotivo che la lettura di Russo Alesi indirizza sensibilmente verso la rappresentazione di una lotta che oggi diremmo di emancipazione femminile, uno scontro impari tra moglie e marito in una società, quella greca del V secolo, avanzatissima nella democrazia, riservata pero ai maschi greci e liberi, con conseguente assoluto apartheid di donne, stranieri e schiavi. Difficile non pensare che la futura vendetta consumata da Clitennestra, assassina del marito al rientro da Troia, debba trovare origine anche in questo antefatto, che la vede subire un’umiliazione e una ferita non rimarginabile, dove i diritti della donna sono brutalmente conculcati. Eppure Oreste, il figlio piccolo, interpretato da Marcello Russo Alesi, quando sarà grande farà grondare nuovo sangue dal corpo della madre, in quella che oggi verrebbe chiamata una famiglia gravemente disfunzionale.

Ifigenia è la minuta, solida e leggera Marita Fossat, forse la più bella sorpresa della serata, cui non si riesce a dare un’età. Bambina e già donna, con la agilità di uno spiritello dai lunghi capelli ricci fende in lungo e in largo la scena, ma i suoi passi e le sue corse, prima allegre e poi disperate, non producono cacofonia. La sconcertante mutevolezza della sorte, che Euripide analizza da par suo, la fa virare inaspettatamente dalle esternazioni di un affetto irrefrenabile e fisico per il padre alla disperazione incredula della vittima, che supplica e si dibatte perché non vuole morire, con note di quella tendresse touchante per cui provava profonda empatia Racine. Infine, la contraddittorietà (o mutevolezza?) di cui è capace l’essere umano, la conduce ad autoerigersi a emblema della virtù patriottico-nazionale, eroina coraggiosa che fa propria la volontà disumana del genitore, il maschio-padre-patriarca-capo. Volontà che in realtà è rivelatrice di una debolezza e di una sottomissione dello stesso eroe maschile, e degli essere umani tutti, perché coincide con il dispotismo irrazionale e crudele della divinità, ma forse più, in un artista intellettualmente irrequieto come Euripide, spesso definito “ateo”, con la irragionevole Ragion di Stato e con la “Necessità”, con “Ananke”, la dea del destino, l’ineluttabile sorte, forza cosmica imperscrutabile.

IFIGENIA IN AULIDE

Un miracolo scandaloso

da Euripide
traduzione di Letizia Russo
adattamento di Letizia Russo e Fausto Russo Alesi
regia e progetto scenico Fausto Russo Alesi
costumi Emanuela Dall’Aglio
disegno luci Max Mugnai
assistente alla regia Davide Gasparro
consulenza movimenti del coro Alessio Maria Romano
musiche Fausto Russo Alesi con il contributo di composizione degli interventi originali di Giovanni Vitaletti e la consulenza di Roberta Faiolo
sound designer Corrado Cristina
con (in ordine alfabetico) Giulia Acquasana, Salvatore Alfano, Chiara Alonzo, Giuseppe Benvegna, Simone Di Meglio, Jacopo Dragonetti, Marita Fossat, Sara Fulgoni, Elisa Grilli, Alessio Iwasa, Pietro Lancello, Carlotta Mangione, Ilaria Martinelli, Michele Marullo, Irene Mori, Elena Orsini Baroni, Giovanni Raso, Giorgio Ronco, Arianna Serrao, Chiara Terigi, Riccardo Francesco Vicardi, Mattia Zavarise e con il piccolo Marcello Russo Alesi

Festival di Teatro Antico, Velleia (PC) | 21 giugno 2024

Biennale Teatro 2024: Re Lear di Tim Crouch in carne, fool e visore e il mondo verde di Rosalinda Conti

ELENA SCOLARI | L’Enrico V di Shakespeare (titolo originale The Life of Henry the Fifth) comincia con l’esortazione del coro al pubblico a immaginare ‘le sterminate campagne di Francia e il cielo di Azincourt’ perché ‘questa platea non potrà mai contenerle nel suo ristretto spazio’, e allora ‘sopperite alle nostre deficienze con le risorse della vostra mente: moltiplicate per mille ogni uomo, e con l’aiuto della fantasia createvi un poderoso esercito’.
Immaginare. Questa è la questione, in teatro e in arte.
Del resto, alcuni secoli dopo, anche l’artista svizzero Jean Tinguely agiva e creava secondo la sua massima “Le rêve, c’est tout, la technique ça s’apprend” (trad. Il sogno, è tutto, la tecnica si impara). E qual è il compito dell’arte se non essere così forte da creare mondi, grazie all’immaginazione?
Immagina l’artista ma immagina anche lo spettatore, chi assiste a uno spettacolo come chi guarda un quadro o una scultura, chi legge un romanzo o ascolta un concerto. Questo pensa anche l’attore e drammaturgo inglese Tim Crouch, che pochi giorni fa è stato ospitato dalla Biennale Teatro 2024 – ancora diretta da ricci/forte – con Truth’s a dog must to kennel al Teatro alle Tese dell’Arsenale di Venezia, produzione del Royal Lyceum Theatre di Edimburgo.
Il titolo è una frase tratta dalla tragedia Re Lear, significa più o meno “la verità è un cane che deve essere tenuto nel canile”, sono parole pronunciate dal fool che rimprovera Lear per aver punito la giovane figlia Cordelia che è stata la sola a dirgli la verità. Crouch inserisce questo recente lavoro nell’alveo di un annoso e popolato progetto dedicato a Shakespeare in cui ha lavorato creando monologhi su alcuni personaggi del bardo, a volte secondari: I, Caliban da La tempesta, I, Peaseblossom (Fiordipisello) dal Sogno di una notte di mezza estate, I, Banquo dal Macbeth, poi I, Malvolio da La dodicesima notte e infine I, Cinna dal Giulio Cesare. Questa volta però l’intento non è solo sviluppare un singolo carattere per costruire una prospettiva nuova o laterale di opere celebri, bensì ragionare proprio sul concetto di verità, in teatro soprattutto, indagando quale sia la ‘vera’ finzione tra il recitare e il ‘rappresentare’ virtualmente. Intendiamo precisamente la cosiddetta realtà virtuale, che, in quanto tale, reale non è.

Crouch porta solo se stesso, in scena, in t-shirt e pantaloni neri, non ci sono ne’ scenografie ne’ oggetti, salvo un visore da realtà virtuale, appunto, che l’attore mette e toglie, fingendo che lì dentro si stia mettendo in scena un Re Lear. In realtà (realtà? Che bisticcio), e ce lo dirà, indossandolo non vede assolutamente nulla, finge.
Oppure è cieco come Gloucester a cui vengono cavati gli occhi: “È la piaga dei tempi quando i pazzi guidano i ciechi”.
Crouch è il fool, il matto del re che decide di andarsene dalla tragedia; e in effetti questo personaggio esce di scena senza un vero motivo prima dell’intervallo, ma nella lettura di Crouch il giullare di corte non abbandona solo la tragedia ma anche il palco e forse la vita, non trovando più senso nel teatro perché è l’arte a non avere più senso in questo mondo. Il pensiero gli è venuto riflettendo sull’idea, che ha purtroppo preso corpo durante la pandemia, che sia possibile assistere virtualmente a uno spettacolo, stando sul divano di casa, osservando la scena in video.
Ecco perché Crouch mette tutto il fuoco sul corpo dell’attore e sulla potenzialità espressa nell’atto teatrale ‘dal vivo’.

In Truth’s a dog must to kennel, quando l’attore ha il visore descrive l’azione che sta accadendo nella tragedia e quando lo toglie inventa una seconda pièce che avviene nel teatro dove siamo: indica la platea dove c’è uno spettatore annoiato, c’è una signora che dà di gomito al marito, c’è un signore che ha avuto la pessima idea di mangiare prima di entrare in sala, c’è uno scroccone che si è imbucato senza pagare il biglietto, c’è il regista, un critico. E a queste persone succedono alcuni fatti: uno (quello che ha cenato) dà prima segni di malessere e poi si sentirà proprio male, la signora ne sarà prima infastidita e poi spaventata, arriveranno i soccorsi, ecc.

TRUTH’S A DOG MUST TO KENNEL

All’uscita dall’Arsenale, dopo gli spettacoli e mentre ci si avvia a percorrere le calli, in quell’atmosfera sempre in bilico tra vero e sogno lagunare, ci si intrattiene a scambiare impressioni su ciò che si è appena visto con gli altri osservatori della scena presenti, tra questi chiacchiero con il collega Giambattista Marchetto che pone un punto di vista particolarmente critico sul lavoro di Crouch: “In questa operazione di destrutturazione shakespeariana, che porta alle estreme conseguenze la provocazione del Bardo sulla confusa discrasia tra illusione e (presunta) realtà, va detto che l’istrione britannico compie un’operazione riservata a chi si può avvalere di una dotazione interpretativa approfondita. Salvo apprezzarne la bravura tecnica, che emerge immediata anche nel coinvolgimento del pubblico, risulta difficile proporre a uno spettatore che non maneggi il King Lear quel filo di senso teso fino alla realtà virtuale. E forse la dichiarazione più eversiva – la tematizzazione del valore cruciale dell’arte per una società che voglia definirsi tale – finisce per arenarsi su una risacca intellettuale elitaria”.
Concordo sul fatto che nella prima parte non sia facile seguire l’altalenare delle due vicende, poi si cominciano ad avvertire i paralleli solo se si ha un’idea della trama di Re Lear, questi sono però precisi ed efficaci: Cordelia muore e Lear cerca segni di vita in lei come i paramedici intervenuti in sala cercano segni di vita nello spettatore assistito, la corona di Lear è ormai diventata larga sulla sua testa, è allentata come il collo della camicia dell’uomo viene allentato per farlo respirare.
Crouch/fool arriva alle porte del paradiso e racconta a San Pietro di aver trovato una lampada sgomberando la soffitta, la strofina e il genio che ne esce esaudirà tre desideri: il matto chiede prima di cancellare le ineguaglianze dal mondo, poi che tutti imparino a rispettare le scelte altrui. E il terzo è “uccidimi, cazzo”.
Il matto non ha più battute, ha finito gli scherzi, non ne può più di stare in quella storia.

Chiudo il mio diario dalla Biennale 2024 con le impressioni sulla mise en lecture di Così erano le cose appena nata la luce, il testo di Rosalinda Conti, vincitrice della Biennale College Teatro – Drammaturgia Under 40, che abbiamo ascoltato nella Sala d’Armi dell’Arsenale grazie all’interpretazione di Barbara Chichiarelli, Loris De Luna, Michele Eburnea, Alessandro Riceci e con la regia in nuce di Martina Badiluzzi.

Tre fratelli e una sorella sono i quattro figli di una madre prossima alla fine, sono tutti riuniti nella stessa casa, vicina a un bosco, seduti intorno a un lungo tavolo rettangolare di legno. La madre scompare, inspiegabilmente, le ricerche sono vane e cose strane cominciano a succedere: spariscono i mobili, svaniscono pezzi di casa, poi intere stanze, il bosco sembra avanzare e mangiarsi lo spazio. Sul letto vuoto della madre è comparso un grosso insetto, il cui incedere ricorda curiosamente quello della donna anziana. La sospettata metamorfosi non si ferma però alla citazione kafkiana, è più complicata, se possibile. Infatti per soprammercato l’insetto è un trilobite, estinto dall’era paleozoica; ma la trasformazione in atto coinvolge tutto: le piante stanno tornando ad avere il sopravvento, inglobano pian piano la casa e le persone. Sul balcone c’era un libro sull’estinzione della razza umana, che è esattamente ciò che sta avvenendo in questa storia.

Il lavoro è ben scritto, irreale (speriamo!) e assai inventivo, i quattro attori lo reggono piuttosto bene, soprattutto Alessandro Riceci, l’entomologo, ma il testo tende a dilatarsi nella seconda parte, con un eccesso di compiacimento nelle lunghe descrizioni di ciò che succede. Dopo il ‘colpo di scena’ sarebbe più efficace avvicinarsi prima alla chiusura, senza troppo spiegare e senza troppo aggiungere. Si reclama la presenza dell’autore nel testo ma, se tutto funziona, l’autore è il testo. E nel testo.
Questo è un racconto con un suo fascino, non privo di punti poetici come “il pozzo del futuro nelle pupille” di uno dei personaggi, e con alcune interessanti riflessioni sulla vecchiaia. È però appunto un racconto, in cui i caratteri parlano molto e agiscono poco; questo si spiega – in parte – con l’amore per Cechov dichiarato da Conti ma per giustizia verso il drammaturgo russo va detto che c’erano moltissima azione interiore e passione per la vita nell’apparente fissità dei suoi personaggi.
Nell’incontro post-spettacolo coordinato da Andrea Porcheddu, la regista Badiluzzi ha parlato di “disfacimento della parola” ma in realtà qui la parola rimane regina, è la sola cosa di cui le quattro figure sono armate. Sarà interessante vedere di quali altri strumenti saranno dotati gli interpreti nell’allestimento finale dello spettacolo che si potrà vedere nella Biennale 2025.

TRUTH’S A DOG MUST TO KENNEL – prima nazionale

scritto e interpretato da Tim Crouch
coregia Karl James, Andy Smith
musica, sound design Pippa Murphy
disegno luci Laura Hawkins
organizzazione Brian Ferguson, Adura Onashile
responsabile di produzione Craig Fleming
produzione The Royal Lyceum Theatre, Edinburgh

COSÌ ERANO LE COSE APPENA NATA LA LUCE – mise en lecture

testo Rosalinda Conti, vincitrice Biennale College Teatro – Drammaturgia Under 40
regia Martina Badiluzzi
con Barbara Chichiarelli, Loris De Luna, Michele Eburnea, Alessandro Riceci
musiche dal vivo Daniele Gherrino
aiuto regia Giorgia Buttarazzi
produzione La Biennale di Venezia
coproduzione Cranpi

Biennale Teatro, Arsenale di Venezia | 26/27 luglio 2024

Biennale Teatro 2024: il Leone d’Oro a Back to Back e il Medea’s children di Milo Rau per il gran finale

RENZO FRANCABANDERA | Un finale esaltante, una settimana di grandissimo teatro, aperto a uno sguardo internazionale che speriamo resti anche con la prossima direzione artistica di Biennale Teatro, dopo il quadriennio guidato da Stefano Ricci e Gianni Forte che si è appena concluso con l’edizione 2024, il 30 giugno scorso.
A suggellare la linea di sensibilità e ascolto di questa direzione è arrivato il Leone d’Oro alla compagnia australiana Back to Back Theatre, capofila del rinnovamento teatrale nel continente australe e fra le più conosciute al mondo nel fare della disabilità strumento di indagine artistica: fondata nel 1987 dagli artisti con disabilità Simon Laherty, Sarah Mainwaring, Scott Price, cui si è aggiunto nel 1999 Bruce Gladwin come direttore artistico, i Back to Back hanno girato il mondo con i loro lavori.
Non mancano anche in Italia in questo ambito esperienze ultradecennali dai pregevolissimi esiti, vale la pena ricordarlo, come i collettivi Teatro della Ribalta, Teatro Pirata o Nèon teatro, e le esperienze performative di singoli artisti, sia nel teatro che nella danza: esperienze fattesi sempre più forti e urgenti negli ultimi anni, simbolicamente culminate con l’UBU a Chiara Bersani.

Dopo il Leone d’Argento al collettivo anglo-tedesco Gob Squad, con il loro teatro filmico e partecipato, la cerimonia del Leone d’Oro alla carriera, consegnato in chiusura di Festival domenica 30 giugno nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian, è stato un momento intenso e commovente che ha mostrato come il teatro resti ancora per tantissimi anche un modo per uscire dall’isolamento e dalle condizioni più difficili, realizzando il proprio bisogno di fare arte sociale, come ha ricordato Andrea Porcheddu nel dialogo con la compagnia a fine cerimonia.
Back to Back Theatre ha conquistato le platee di tutto il mondo nell’arco di trent’anni e con oltre trenta titoli, creazioni che affrontano temi sociali, politici, filosofici mettendo in discussione la costruzione dei nostri immaginari e la nostra percezione della normalità. Un percorso costellato di premi, dall’International Ibsen Award nel 2022 all’Herald Angel Critics’ Award dell’International Edinburgh Festival nel 2014 e al Bessie Award di New York nel 2008, oltre ai tanti Green Room Awards collezionati in patria. A Venezia, e per la prima volta in Italia, hanno presentato un loro spettacolo storico, Food Court, andato in scena al Teatro Piccolo Arsenale il 28 e 29 giugno: una performance-concerto che porta lo spettatore in un ambiente problematico e oscuro.

Due performer con disabilità entrano in scena, dopo una breve ouverture eseguita da parte dei tre musicisti a cui è affidata la colonna sonora dello spettacolo. Sono in proscenio, con il sipario chiuso dietro di loro. Si dispongono per il lungo e inizia una conversazione che riguarda il corpo e le abilità. I dialoghi vengono riportati a microfono da una terza figura che va dall’una all’altra a permettere la declamazione delle battute, introducendo un elemento di finzione ma esacerbando la crudezza del dialogo, che aumenta quando entra una terza figura, una donna con importanti limitazioni di motricità.
Le due donne, pur non corrispondendo all’idea del fisico impeccabile e quindi divenendo così interpreti della medietà che appartiene a tutti, iniziano a fare oggetto la terza di un violentissimo body shaming, al quale questa risponde con il silenzio.
Si aprirà poi il sipario per portare la vicenda quasi dentro un piano psichico, ancora più scuro, fatto di proiezioni ma sostanzialmente incentrato sul rapporto vittima/carnefice, dai toni molto espliciti e offensivi, dai quali non c’è salvezza se non un ultimo sospiro affidato alla poesia, come atto di resistenza, lasciato alle parole di Emily Dickinson.
Parliamo di una creazione di poco meno di 20 anni fa: storicizzandola, si comprende benissimo come – al netto di tutti i dibattiti sulla gender equality e sull’inclusione sulle quali siamo edotti oggi anche nel mainstream – questo spettacolo dovette sicuramente essere un gesto dirompente e incredibilmente coraggioso, perché non portava l’attore con disabilità a farsi solo interprete ma a impersonare i disagi e le crudezze della propria condizione in modo trasfigurato ma esplicito.
Forse oggi – viene da dire: per fortuna! – molte questioni sono di dominio più ampio e il dibattito si è spostato qualche passo in avanti (anche se siamo ancora in difficoltà a immaginare che se abbiamo ospite un disabile occorre facilitargli l’ingresso nei luoghi, la mobilità, abbattendo le barriere); resta comunque che la società social-mediale, evochi ancora concetti di idealità dell’apparenza fisica in modo soffocante, chiedendo ai giovani una continua omologazione, schiacciando le diversità individuali e imponendo forme e stereotipie estetiche addirittura figlie del foto-ritocco più che della realtà.

Andiamo dunque al secondo evento apicale dello scorso fine settimana: con Medea’s Children Milo Rau affronta senza mediazioni il ruolo dei bambini nel teatro, partendo da uno dei uno dei suoi grandi classici, Medea, con la vicenda a tutti nota dell’infanticidio, perpetrato per vendetta contro il marito da cui la donna viene abbandonata.
L’innesco drammaturgico in questa circostanza è il legame fra il classico e un vero caso eclatante di cronaca nera occorso in Belgio: una madre disperata decise, diversi anni fa, di uccidere i suoi cinque figli e di provare poi a togliersi la vita, cosa che non le riuscì. Solo nel 2023 ebbe l’autorizzazione all’eutanasia. Nella drammaturgia i nomi reali di questo caso sono modificati ma la sfida al narrato realistico portata avanti da Rau è ben più ampia.
Il regista svizzero, noto per il suo teatro ammantato di realismo, costruito fra attorialità tradizionale e uso dei video in scena, conduce fino all’estremo una serie di scelte ardite.
Descriviamo lo spettacolo.
L’azione ha inizio con un immaginario talk post-spettacolo fra attori e spettatori di tono finanche comico, in cui uno degli interpreti principali, l’attore Peter Seynaeve, invita in scena i giovanissimi interpreti di una versione riveduta di Medea. Sono bambini non ancora adolescenti (Bernice Van Walleghem, Aiko Benaouisse, Ella Brennan, Helena van de Casteele, Juliette Debackere, Elias Maes) ma con un piglio interpretativo davvero notevole. Parlano come se noi spettatori avessimo già visto lo spettacolo e lo commentano ragionando su idee registiche e criticità interpretative, su quanto la crudezza dell’allestimento fosse filologicamente distante dalle scelte del grande tragediografo greco, che nel suo capolavoro evitò di descrivere la scena in cui Medea uccide i figli. Uno di loro chiede perché la contemporaneità senta il bisogno di modificare i testi dei grandi classici.
Poco a poco lo spettacolo diventa più aderente alla idea di rappresentazione tradizionale, i ragazzi che erano seduti in proscenio con il sipario chiuso alle loro spalle chiedono di poter reinterpretare alcune scene, per restituire l’idea di quello che era stato l’allestimento (che ovviamente non si era visto fino a quel momento, quindi con un effetto di disvelamento al contrario).
Si apre dunque il sipario e a quel punto inizia la “Medea” di Rau vera e propria, che mescola, per scene successive, la trama del classico teatrale, raccontata da interpreti e attori maturi, a quella della famiglia belga all’interno della quale matura l’orribile crimine: la ragazza che da giovane incontra all’università uno svogliato studente di origini marocchine, adottato da un uomo belga assai avanti negli anni e benestante; il rapporto fra i due uomini, l’anziano ricco e il giovane marocchino, che ha tratti equivoci, i due andranno frequentemente in viaggio da soli, lasciando la donna, nel frattempo diventata moglie e madre di cinque figli, spesso da sola.
La vicenda è registicamente sviluppata su un piano duplice: viene disvelata attraverso video affidati nell’interpretazione ad attori esperti e adulti; i bambini in scena duplicano queste sequenze in contemporanea e anche loro sono ripresi in video, come se incarnassero gli interpreti adulti che vediamo nella proiezione, ai quali in dissolvenza si sostituiscono. Tutto si intreccia con la vicenda di Medea: le aspettative, l’abbandono, la solitudine, fino al drammatico finale (drammaturgia di Kaatje De Geest).
Il regista svizzero, che anche in Five easy pieces aveva affrontato il tema della pedofilia, portando in scena dei bambini, imbocca una strada inaspettata, cruda.
Se per un’ora e dieci lo spettacolo ha un andamento tutto sommato coerente con gli stilemi dei suoi precedenti lavori, negli ultimi venti minuti Rau decide – provocatoriamente e in modo estremamente distante rispetto alla tradizione classica che tipicamente stende  sull’atto tragico il velo della pietà – di raccontare in modo iperrealistico la carneficina: le telecamere inquadrano in primo piano la ragazzina che interpreta la madre belga e che chiama uno alla volta i suoi figli (gli altri bambini), poi li ammazza uno a uno, colpendoli con un coltello e poi tagliandogli la gola da parte a parte.
È tutto finto, visto che i ragazzi attori sono davanti ai nostri occhi, ma è anche tutto estremamente realistico, nella proiezione filmica, compreso il taglio alla gola e la copiosa fuoriuscita di sangue (certo, finto). Diversi in sala sopportano a fatica la visione estremamente cruenta. Qualcuno decide di andarsene. Il primo omicidio, un soffocamento, dura veramente tantissimo e perturba gli animi in modo sconvolgente.
Si capisce subito che assisteremo alla mattanza fino in fondo e che non avremo respiro fino all’ultimo omicidio. Per altro, nell’ultimo di questi, come attestato anche dalla cronaca, la figlia maggiore – i figli furono assassinati dal più piccolo al più grande – provò a resistere e a fuggire, come testimoniano i segni di taglio che aveva sul corpo. Il regista, con un ulteriore colpo di scena, mentre la giovane ragazza cerca di fuggire alla furia omicida della madre scappando dalla stanza (in modo invisibile allo spettatore, se non fosse che tutto viene ripreso dalle telecamere) all’interno della quale, nella finzione, Rau fa intervenire l’attore adulto, che blocca la corsa verso la sopravvivenza della giovane ragazza, aiutando così la madre ad assassinarla con una coltellata in pancia, per poi finirla con lo sgozzamento finale.
Insomma, venti minuti che mettono a dura prova lo spettatore che è sì abituato alla cronaca delle violenze che bombardano i nostri sensi da mattina sera fra telegiornali e immagini raccapriccianti sui social media o sui siti di informazione che pubblicano video orribili preceduti semplicemente da un disclaimer, ma vedere dal vivo compiere questi atti strazianti, sebbene nella finzione, non è cosa facile.
Il regista avrebbe potuto chiudere qui lo spettacolo, lasciando gli spettatori effettivamente sconvolti, ma decide per un atterraggio un po’ più soft, ritornando al talk con le sedie in proscenio, a cui partecipano i bambini, questa volta insanguinati dal trucco di scena. C’è un’edulcorazione finale per smorzare la tragicità orrorifica di quanto fino a quel momento si è visto.
I sentimenti degli spettatori sono contrastanti: chi è ammirato dal piglio attorale dei ragazzi, a cui viene tributata, a fine spettacolo, una standing ovation clamorosa; chi ancora non riesce a digerire tutta quella violenza, chiedendosi se è davvero necessaria.

Questa volta il realismo ha tagliato la membrana del pudore, catapultandoci in un vero e proprio film horror, in una Wunderkammer della atrocità. Nelle informazioni che precedono la visione dello spettacolo, sul sito di Biennale Teatro che co-produce questo lavoro e di cui ospita la prima italiana, in merito alle intenzioni registiche si spiega che l’allestimento vorrebbe rispondere a domande più generiche su emozioni e sentimenti nell’età di passaggio fra infanzia e adolescenza, cercando di approfondire il ruolo dei bambini riguardo al teatro: “un’occasione per riflettere su loro stessi, sulla storia della famiglia, sul primo amore e sui primi incontri con la morte, sui desideri per il futuro e sulle paure legate alla fine del mondo che condividiamo tutti. Come affronta un bambino il divorzio dei genitori? Come affronta l’ingiustizia, la rottura di un’amicizia, lo stress della scuola? Come affronta la forza radicale di Medea o, in generale, la tragedia?”.
Ma tutto questo, in verità, si sviluppa poco nella drammaturgia. Sì, c’è una lunga parte introduttiva in cui si affronta una serie di interrogativi, fra cui alcuni di questi, ma certamente non risultano in alcun modo centrali, alla fine della visione, rispetto alle consistenze emotive che vengono sviluppate e ai nuclei di addensamento intorno ai quali si coagulano le emozioni degli spettatori.
Restano addosso i turbamenti per la vicenda dolorosissima del nostro tempo, le contraddizioni insite nelle società multiculturali, di cui sono esponenti visibili anche alcuni bambini-attori che appartengono alla seconda o terza generazione di famiglie arrivate in Belgio dei paesi del Nord Africa e probabilmente scelti non a caso per raccontare le pieghe socio-antropologiche di questa storia drammatica.
L’analisi del segno scenico ci porta però a interrogarci sulla scelta di abolire la pietà in scena, di arrivare a raccontare in forma così estrema la violenza sull’infanzia. Già Pasolini in Salò o le 120 giornate di Sodoma, nel drammatico finale in cui un giovanetto offre piacere erotico a un gerarca nazista mentre davanti i suoi occhi vengono perpetrate crudezze inenarrabili, aveva squarciato il velo sul piacere sadico della violenza.
Ma era cinema, mancava la corporeità.
Qui, sebbene non tutti gli omicidi vengano compiuti davanti all’occhio dello spettatore e la maggior parte delle immagini siano riprese solo filmicamente, certamente ci troviamo in una condizione, in una posizione, come spettatori, di attivata complicità.
Viene testata la nostra resistenza all’orrore.
Pochi fuggono, la maggioranza non solo resta, ma appena calate le luci che segnano la fine dello spettacolo, si produce in un catartico applauso liberatorio ai giovanissimi interpreti, quasi a voler chiudere la parentesi della finzione, richiamandola. L’applauso qui sembra avere una specifica funzione psicologica: porre fine all’evento crudele, sigillandolo dentro l’esperienza teatrale, di cui l’applauso è ritualmente il compimento.

Dello spettacolo si è parlato e si parlerà molto, sicuramente con toni enfatici, ma qui abbiamo preferito concentrare l’attenzione su alcuni interrogativi che riguardano la forma e il ruolo delle arti sceniche rispetto alla narrazione, nel teatro realistico o documentale contemporaneo. Rau ne è di certo un interprete: i suoi spettacoli raccontano tragedie del presente, ricollegandosi spesso ai drammi antichi, quasi a significare che i grandi temi dell’umanità non cambiano mai. E d’altronde è il motivo per cui le tragedie di 2500 anni fa vengono ancora replicate (anche integralmente e senza quasi cambiarne il testo!).
I tragediografi antichi, per un loro senso di bilanciamento nel rapporto fra narrazione e poetica, hanno però sempre scelto di non mostrare la truculenza.
Chiudo quindi la riflessione con uno scambio, per me illuminante, avuto con il collega Edgardo Bellini, acuto osservatore della scena contemporanea, che non ha potuto assistere allo spettacolo e quindi me ne chiedeva conto.
Nel leggere i miei interrogativi via Whatsapp, Bellini mi rispondeva: “Però la mia perplessità è proprio questa: il teatro greco non mette mai in scena il delitto ma lo racconta (e anche il racconto è una forma “verista”); lo spettatore si commuove e piange. A un immaginario puro, la parola basta per accendere una forte emozione. Oggi lo spettatore è desensibilizzato alla parola, e ormai anche a buona parte dell’immagine del dolore; per provocare un risultato equivalente a quello greco antico, il regista, il drammaturgo, è costretto a superare l’esperienza del segno, le immagini sanguinolente, che a mio avviso non hanno alcuna funzione provocatoria ma semmai di riposizionamento del segno rispetto al significato percepito. In venticinque secoli si è spostato significativamente lo zero, e il drammaturgo lo insegue“.
E io a questo stimolo rispondevo: ”Condivido questo pensiero e lo leggo molto nitidamente. Ma è proprio l’inseguimento dello zero il tema che pongo nella mia lettura critica. Esattamente questo”; ovvero: se lo zero del disumano si sposta, il medium scenico deve necessariamente inseguirlo? Io personalmente risponderei no.


FOOD COURT

Anno/Durata: 2008, 60’ (prima italiana)
Uno spettacolo di Mark Deans, Bruce Gladwin, Rita Halabarec, Nicki Holland, Sarah Mainwaring, Scott Price
Regia, scene Bruce Gladwin
Interpretazione Sarah Goninon, Simon Laherty, Sarah Mainwaring, Scott Price, Tamika Simpson
Musica The Necks: Chris Abrahams (piano), Lloyd Swanton (basso), Tony Buck (batteria)
Scene Mark Cuthbertson
Disegno luci, direzione tecnica Andrew Livingston, Bluebottle
Animazione Rhian Hinkley
Sonorizzazione Hugh Covill
Costumi Shio Otani
Sostitute Erin Kearns, Jessica Walker
Fonico Byron Scullin
Direttrice di scena Alana Hoggart
Assistente direzione di scena Jo Leishman
Responsabile di produzione Bao Ngouansavanh
Manager compagnia Erin Watson
Produttori Tanya Bennett, David Miller
Direzione della produzione Tim Stitz
Nota: Back to Back Theatre è sostenuto dalla Città di Greater Geelong, dal governo dello Stato di Victoria attraverso il programma Creative Victoria e dal governo australiano attraverso il programma Creative Australia

MEDEA’S CHILDREN

Anno/Durata: 2024, 90’ (prima italiana)
Con Peter Seynaeve, Bernice Van Walleghem, Aiko Benaouisse, Ella Brennan, Helena van de Casteele, Juliette Debackere, Elias Maes
Ideazione e regia Milo Rau
Drammaturgia Kaatje De Geest
Video design Moritz von Dungern
Disegno sonoro Elia Rediger
Disegno luci Dennis Diels
Scene ruimtevaarders
Costumi Jo De Visscher
Attrezzeria Joris Soenen
Produzione NTGent
Coproduzione La Biennale di Venezia, Wiener Festwochen, ITA – Internationaal Theater Amsterdam, Tandem – Scène nationale (Arras Douai)
Note: Spettacolo in olandese sovratitolato, traduzione in lingua italiana e adattamento sovratitoli di Matilde Vigna

Opera Prima 2024: Festa del Teatro e della Comunità

LEONARDO DELFANTI | Opera Prima, festival organizzato dallo storico Teatro del Lemming, compie trent’anni, venti di questi passati a presentare e mappare l’evoluzione del teatro nella città di Rovigo. Una festa nella terra tra i due fiumi che diede i natali a Giacomo Matteotti e che oggi più che mai rinnova l’impegno per la creazione di una comunità inclusiva e attenta ad accogliere criticamente la diversità in tutte le sue forme estetiche e politiche.

Dal giovedì alla domenica siamo dunque stati spettatori privilegiati di una manifestazione non solamente culturale ma soprattutto umana. Dove il vecchio si riallaccia al nuovo e la moltitudine delle voci non viene forzatamente incasellata in rigide etichette accademiche, quanto piuttosto osservata, discussa e infine vissuta.

Perno dell’operazione è il Prefestival, un incontro tra pubblico e operatori coordinato dal direttore artistico Massimo Munaro nella suggestiva cornice dei Giardini due Torri, cuore pulsante della società rodigina. Vetrina per quanti andranno in scena in giornata, spazio di discussione partecipativa per il pubblico e infine di riflessione per coloro che in scena sono già andati il giorno prima, il Prefestival inaugura le giornate dense di appuntamenti diffusi in tutta la città.

La nostra avventura, la cui prima parte potete leggere nell’articolo scritto di Renzo Francabandera, inizia nella cornice di Piazza Vittorio Emanuele II, un lastricato coronato da bar e punto di passaggio obbligatorio per tutti coloro che si muovono nella città.
Qui, il coreografo svizzero-americano Joshua Monten ha presentato Linearity, una riflessione sull’impossibilità di “rigar dritto”. Due performer sono chiamati a rispondere alla domanda “quante curve siete in grado di gestire?” attraverso un raffinato mix di clownerie e arte circense. Vestiti in divise da cantiere e armati di nastro adesivo giallo o rosso, un uomo e una donna costruiscono la struttura architettonica dello spazio d’azione: un quadrato suddiviso in sezioni su cui eseguono passi e gesti grotteschi in una sfida all’ultimo pezzo di scotch. Ben presto anche il pubblico viene coinvolto, chiamato a sostenere una seconda griglia sospesa a mezz’aria che obbliga i danzatori ad aggiungere, per lo stupore generale, la loro maestria acrobatica alle mosse di vogue che prima costituivano la partitura.

Dal contesto dell’arte di strada al concerto pubblico, il Collettivo Rosario, offre 30 minuti di puro benessere in un ambiente acustico, come quello di Piazza Garibaldi, dove erano già stati ospiti in precedenti edizioni del Festival, apparentemente poco favorevole per i dieci performer ritmici provenienti da tutta Italia. Maestri nell’arte del canto, i versatili artisti del collettivo hanno incantato il pubblico con un repertorio musicale che spazia dal Brasile fino al Sud dell’Italia, meritando la richiesta di un bis a gran voce. Lo spettacolo Fio Azul è un esempio straordinario di come uniti dal desiderio di crescere e migliorare, si possa portare in scena un lavoro di alta qualità nonostante le difficoltà legate alla distanza geografica.

La giornata di sabato 29 giugno si conclude con Attorno a Troia_Troiane del Teatro del Lemming, un evento andato presto sold out che fa parte del ciclo Attorno a Troia. La cifra stilistica di Massimo Munaro, nota per la compenetrazione di ricerca drammaturgica e sensoriale, indaga qui il tema dell’esilio e della distruzione della civiltà troiana prima di molte, se non tutte, le civiltà a venire.

Nove performer, a conclusione del percorso annuale I cinque sensi dell’attore, incontrano altrettanti spettatori privati dei loro beni (gioielli, borse, scarpe e pendagli) in un’anticamera opportunamente allestita nel foyer del Teatro Studio di Rovigo. Così lo spettatore affronta un incontro al buio, reso possibile solo dopo aver attraversato mano nella mano la platea, sotto la guida dello stesso regista che recita per loro pochi ma cruciali versi durante lo svolgersi della scena, illuminata da faretti posti sopra a ognuno.

Nella mente di chi crede di essere solo un osservatore passivo, inizia una serie di momenti quotidiani guidati da giovani attori e attrici, non meno esperti se si considera la loro età. Un percorso di flashback e premonizioni, reso possibile dall’uso sapiente dell’illuminotecnica e culminante in una travolgente esperienza prossemica. Per coloro che avranno il coraggio di lasciarsi andare, amore, dolore, perdita, nostalgia, paura e desiderio si succederanno senza soluzione di continuità; mito e realtà si giustapporranno fino a che solo l’urlo liberatore delle fiamme e l’invocazione della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo riusciranno a riportarli alla loro pacifica realtà, lontana dalle atrocità perenni appena intuite.

Al termine di questa odissea nell’intimo della barbarie umana, mano nella mano, gli spettatori vengono riconsegnati ai loro beni e poi reimmersi nel mondo, confusi e con una lettera a cui, se lo desiderano, potranno rispondere.

Le molte riflessioni nate dalle esperienze vissute si consumano all’interno della comunità cittadina in occasione del Dopofestival, sempre all’ombra dei Giardini due Torri e fortunatamente suggellate dal semplice gusto dei rodigini vicini al Festival che accolgono a braccia aperte coloro che sono venuti a trovarli per celebrare il rito del teatro.

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Credits: Rovigoinfocitta.it

La giornata successiva si apre con un laboratorio della pluripremiata compagnia Anagoor, realtà veneta vincitrice del Leone d’Argento per il Teatro alla Biennale di Venezia nel 2018 e che presenterà poi nel pomeriggio Todos Los Males, un film fondato sul doloroso spettacolo della Conquista spagnola del 1500.

Un caldo sole estivo riscalda il selciato di Piazza Vittorio Emanuele II. Nel cuore pulsante della vita cittadina si incontrano per la prima volta Giselda Ranieri e Zoe Pia, coreografa genovese e polistrumentista rodigina, dando vita a un’improvvisazione basata sulla loro naturale empatia artistica e umana. La prima misura la piazza alternando movimenti fluidi a pause d’ascolto capaci di bilanciare l’attrazione che il pubblico nutre per l’eleganza del gesto scenico, al desiderio di abbracciare con lo sguardo la bellezza che pian piano si va formando in una delle cornici storico-architettoniche più belle del Polesine; l’altra alterna sapientemente le melodie del clarinetto a quelle dei campanacci, base armonica che sostanzializza l’esperienza del meriggio estivo.

Poco dopo ci incontriamo nuovamente, ora in Piazza Annonaria, per ascoltare Urlo e Falistre. La coppia Marco e Massimo Munaro ha deciso infatti di narrarci la sua infanzia sotto forma di poesia. Due fratelli, l’uno poeta e l’altro drammaturgo, ripercorrono dunque i sentieri che dal fiume dove hanno imparato a nuotare li conduce alle corse per le distese del Polesine. “Emozioni che perdurano ancora in me”, rivela Marco, che nel loro cristallizzarsi in forma poetica di endecasillabi e settenari fanno del fiume Po inizio, svolgimento e immancabile fine di una dualità rappresentata in scena dalla presenza dei due attori agli estremi opposti della scena, a incorniciare col loro vestito nero la vetrina/sfondo della storica casa editrice di poesie Il Ponte del Sale.

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Credits: Rovigoinfocitta.it

Chiude e sancisce il messaggio universale del festival Aeham Ahmad, noto come Il pianista di Yarmouk, il giovane siriano di origini palestinesi che nel 2013 decise di suonare tra le macerie dei territori occupati dall’ISIS a rischio della sua stessa vita. Insignito di diversi premi internazionali e concertista acclamato in tutta Europa, Aeham ha portato in scena il suo ultimo lavoro in collaborazione con il sassofonista Steve Schofield.

Che lo si guardi come un messaggio di speranza per gli idealisti o come una prova di integrazione per i più pragmatici, questo concerto dimostra ancora una volta la missione civile e solidale di Opera Prima, che da ormai venti edizioni scandisce il ritmo delle estati venete con il lento passo di chi l’uomo lo osserva senza sconti di pena.


OPERA PRIMA FESTIVAL 

Rovigo, dal 26 al 30 giugno

coreografia Joshua Monten
con Alina Lugovskaya, Yiorgos Pelagias
drammaturgia Florence Ruckstuhl
costumi Sandra Klimek
sound design Matthias Schoch
produzione Verein Tough Love
coproduzione Centre de Création Helvétique des Arts de la Rue (CCHAR) Das Tanzfest Bern

FIO AZUL

con Sara Capanna, Francesca Cristofaro, Simone Magnoni, Linda Palazzolo, Gennaro Pantaleo, Luna Pauselli, Valentina Romizi, Andrea Sampalmieri, Silvia Sasso, Sara Tinti
direzione artistica Charles Raszl

ATTORNO A TROIA_TROIANE

con Diana Ferrantini, Veronica Di Bussolo, Giovanni Cataldi, Marina Aspidistria, Maddalena Dal Maso, Francesca Marzotto, Marta Plescia, Simone Spes, Carlotta Zampieri
drammaturgia, musica e regia Massimo Munaro
produzione Teatro del Lemming 2024

TODOS LOS MALES
tutto il male possibile

una produzione ANAGOOR | KUBLAI FILM
un film di Simone Derai – da un progetto artistico ANAGOOR 
tratto dallallestimento de LES INCAS DU PEROU/ LES INDES GALANTES musica di Jean Philippe Rameau – libretto di Louis Fuzelier
direzione della fotografia Giulio Favotto –  montaggio Simone Derai, Elia Risato – scene e costumi Simone Derai
interpreti principali Juana Myriam Chero Tarazona, Maria Elena Soto Chero, Marco Ciccullo, Cristian Alexis Alarcon Jara,  Ekaterina Protsenko, Nicholas Scott, Matteo Dolcini

VETRO

concept, danza e voce: Giselda Ranieri
Live music a cura di  Zoe Pia
Produzione ALDES; in collaborazione con Attraversamenti Multipli

L’URLO E ALTRE FALISTRE  
rito a due voci

con Marco Munaro e Massimo Munaro
poesie Marco Munaro
musica e regia Massimo Munaro

IL PIANISTA DI YARMOUK

piano e voce Aeham Ahmad
sassofono Steve Schofield

Opera Prima 2024: a Rovigo trent’anni di storia di teatro militante

RENZO FRANCABANDERA | Trent’anni sono un tempo molto lungo. Nel mondo dell’arte lunghissimo, se si pensa a festival e momenti di incontro con il pubblico e i territori. Come tutte le precedenti, anche l’edizione numero XX di Opera Prima, il Festival organizzato a Rovigo dal Teatro del Lemming sotto la direzione di Massimo Munaro, è dedicata a due compagni di viaggio che non ci sono più, Martino Ferrari e Roberto Domeneghetti.
Rovigo, con Opera Prima, da questo punto di vista, è una di quelle periferie dell’impero delle arti sceniche che con il suo fare ibridato e sperimentale ha facilitato in questi decenni (30 dalla prima edizione, sebbene con qualche buco nel tempo), la nascita, la crescita e la diffusione del linguaggio dello spettacolo dal vivo.
Sono passati tutti di qui. Il festival, da alcuni anni, ha proprio la logica di abbinare l’esperienza al segno giovane, i maestri ai nuovi segni delle arti sceniche e performative, le stanchezze insieme ai turbamenti e ai sussulti improvvisi.
È klimtianamente quanto racconta anche l’immagine iconica di questa edizione, una rivisitazione al femminile delle Tre età, con tre figure di donna che testimoniano il passare del tempo e delle generazioni del teatro, con rimandi ai manifesti della prima edizione del 1994 con una figura femminile nera, per passare alla donna vestita di bianco e al futuro della donna in rosso.

Ma anche la programmazione è stata un viaggio dentro la storia del festival, per via della ripresentazione di spettacoli storici, occasione imperdibile per rivedere alcune opere importanti, come Jago di Roberto Latini, che fu a Opera Prima nel 1998 con questo stesso lavoro, o come le Ariette con Teatro da mangiare?, presentato per la prima volta a Opera Prima nel 2001, o il leggendario QUIJOTE! del Teatro Nucleo, spettacolo del 1990, ripreso dalla compagnia quest’anno per i cinquant’anni dalla sua fondazione.
Il Lemming ha aperto il festival presentando la sua nuova produzione, Attorno a Troia_TROIANE, che si è chiuso con il concerto del pianista siriano-palestinese Aeham Ahmad.

Iniziamo il racconto di questa edizione da Rivolti di MOMEC, una piccola performance che, come gli altri anni, si svolge nella loggia antistante la piazza centrale di Rovigo. MOMEC è un collettivo di artist3 che lavora sul tema della memoria, fondato nel 2018 da Mario Previato, ex attore del Teatro del Lemming. Qui propongono una creazione realizzata con la partecipazione in presenza di due performer, Fiorella Tommasini e Antonia Bertagnon. Rivolti gioca sul pensiero della condizione di impossibilità, che molti percepiscono, di attivare e attivarsi in una forma di cambiamento. Cosa possiamo cambiare? Si può cambiare?


Perché non iniziare da sé stessi, è la risposta.
L’esperienza si fruisce singolarmente e si attiva per un partecipante ogni 15 minuti circa. Entriamo in un ambiente di riflessione, sulla Loggia della Gran Guardia, dedicato anche ai caduti nelle guerre. Le lapidi ricordano le vite spezzate dall’azione, mentre le nostre paiono spezzate dall’inazione. Dubitiamo che di questa nostra inettitudine verrà fatta memoria con qualche lapide dai posteri. Siamo in una condizione di paralisi del pensiero critico e dell’azione, come sostiene MOMEC, in una situazione di ignavia che ci rende passivi, tanto a livello politico-sociale, quanto nell’ambito privato. Ecco perché, dopo un primo ambiente di introspezione, si passa a un secondo in cui ci viene chiesto in che modo vorremmo cambiare, partendo da noi. Abbiamo il coraggio di dirlo ad alta voce? Davanti a tutti?
Si conclude proprio così questa performance. Pubblicizzando la propria intenzione di cambiamento. Un atto forse piccolo, ma di coraggio, che nell’intenzione del collettivo può stimolare la liberazione da questo immobilismo interiore, per accorciare anche solo di un pochino la distanza che separa il mondo che viviamo dal mondo che desideriamo.

Tuffarsi dopo questa visione dentro il racconto di Paola Berselli e Stefano Pasquini, coadiuvati in scena da Maurizio Ferraresi, per tanti versi è qualcosa che ha a che fare con la stessa domanda, la stessa intenzione. I due artisti, in questo spettacolo che ha la rituale forma della cena per un limitato gruppo di spettatori, raccontano la loro decisione di spostarsi dal tumulto cittadino alla vita nei campi, trasformando questa scelta in dinamica artistica attiva, fatta di un grande impegno di autorealizzazione del proprio sogno. Come il cibo che offrono agli ospiti, così tutto alle Ariette in Valsamoggia è fatto con tanta fatica.
Il Teatro delle Ariette, nato nel 1996 da Paola Berselli e Stefano Pasquini insieme a Maurizio Ferraresi, produce, studia, organizza e promuove teatro in Valsamoggia, dove ha costruito con le proprie mani, in mezzo ai campi, il Deposito Attrezzi, ex edificio rurale diventato teatro nel 2017.
Una pratica che ha qualcosa di obsoleto e spirituale, che affascina da decenni coloro che vengono attorno al tavolo a prendere parte al rito. Un rito che, come ricordano, si è iniziato con un folle invito di Cinzia de Felice e Armando Punzo, che alcuni decenni fa li spinsero a proporre questa forma spettacolare, che abbinava una pratica di nutrimento materiale a una di nutrimento spirituale. Da allora, da decenni, va così. E queste lunghissime tavolate, sempre affollate e colme di gratitudine a fine spettacolo, stanno lì a ricordarlo.

A loro il miracolo della coagulazione delle intenzioni di chi sta seduto attorno al tavolo riesce sempre. Sarà il cibo, sarà il loro modo di raccontare come se si stesse chiacchierando in cucina, che poi si irrobustisce teatralmente con la presenza mimica, ora tragica ora clownesca, della Berselli, ma alla fine questo tuffo fra memorie e gesti antichi diventa una sorta di ritorno al ventre materno, di accoglienza del viandante. Siamo a oltre 1300 repliche in giro per l’Italia e l’Europa per questo spettacolo. Evidentemente funziona!

Funziona oggi come allora l’incredibile Jago di Roberto Latini, che come definisce l’artista stesso è un concerto scenico con pretesto occasionalmente shakespeariano per voce dissidente e musica complice. È il frutto di un lavoro in trio, un terzetto che avrebbe poi continuato a lavorare insieme per anni: affiancano Roberto Latini, infatti, Gianluca Misiti alle musiche e al suono, mentre alle luci e alla direzione tecnica Max Mugnai.
Lo spettacolo concertato si fonda sulla musicalità e la polifonia con cui Latini ricrea gli ambienti, le atmosfere e le voci del dramma shakespeariano, leggendolo dal punto di vista di uno dei più controversi personaggi del Bardo. Lo spettacolo concludeva il percorso RADIOVISIONI, insistendo su alcune tappe della ricerca del gruppo sull’amplificazione. Questo Jago è riproposizione, quasi fedele, in veste sonora, di un precedente Jago, distante circa trent’anni. Latini lo aveva presentato nel 1998 proprio a Opera Prima con un gruppo che allora si chiamava Clessidra Teatro.
In un teatro apparentemente disarmato, Latini è forma e spirito di una recita incentrata sulla sua voce, ma anche sul suo corpo, liminale fra chiaro e scuro, fra luce e ombra, mentre dietro il sipario si illumina di coloriture colossali e drammatiche. Inizia in sala questa recita, Jago, quasi a farsi parte di chi è al di qua e a ricordare che un po’ di questo personaggio appartiene a tutti, per poi portarsi al centro della scena e rievocare un rito di rappresentazione che ha trent’anni, ma non li dimostra.

Chiudiamo il racconto della serata del 27 giugno con una breve, ma non debole menzione per il concerto che ha concluso la serata, quello di TIRGAN-FANTINI e CIRI. I primi due si incontrano nel 2022 per il progetto Rap (Requiem al poeta), performance di spoken word, spoken music e rap.

Il progetto arriva in finale al Premio Alberto Dubito 2023 e vince la menzione del Premio Inedito Colline di Torino, mentre CIRI è un artista rodigino che si è contraddistinto negli anni per aver spaziato tra rap/pop/house riuscendo a caratterizzare un suo modo di fare musica. Il suo ultimo EP MEMORY è il primo capitolo di un nuovo progetto.
La musica che ha riecheggiato sotto le due torri antiche della città ha avuto un sapore intenso, politico, duro, come deve essere il rap. Ben distinto e distante dal ciarpame musicale che passa in radio. Un atto contemporaneo, ma dal sapore d’altri tempi, quando il rap era linguaggio di lotta. Bentornato rap!

RIVOLTI

da un’idea di Mario Previato / MOMEC
con Fiorella Tommasini, Antonia Bertagnon
assistenza e cura Nadia Poletti
allestimento Fioreria Boscolo di Marta
assistenza tecnica Silvia Massicci
produzione Festival Opera Prima

TEATRO DA MANGIARE?

di Paola Barselli, Stefano Pasquini
con Paola Berselli, Maurizio Ferraresi, Stefano Pasquini
produzione Teatro delle Ariette 2000

JAGO

concerto scenico con pretesto occasionalmente shakespeariano per voce dissidente e musica complice

di e con Roberto Latini
musiche e suono Gianluca Misiti
luci e direzione tencnica Max Mugnai
produzione Compagnia Lombardi / Tiezzi

CIRI – TIRGAN/FANTINI

DOPOFESTIVAL

Biennale Teatro 2024: nell’anno niger et albus di ricci/forte ci sono Phobia e Livido

Phobia

ELENA SCOLARI | Armando Testa è stato un pubblicitario davvero di genio. Tra le sue creazioni più note e amate ci sono Carmencita e il caballero misterioso per il caffè Paulista, Pippo l’ippopotamo blu della Lines, il pianeta Papalla per la Philco. Una bella mostra a Cà Pesaro a Venezia ne racconta esordi e successi. Testa è stato anche autore di campagne tematiche su argomenti importanti, per esempio il referendum del 1978 per non abrogare il diritto all’aborto, qui sotto il suo manifesto con lo slogan “Meglio il divorzio che inchiodati nell’odio”.

Uno stile diretto ed esplicito, con un’immagine molto forte, che chissà se sarebbe accettata oggi, su un cartellone affisso nelle nostre città in Italia.

Si può scegliere di parlare di questioni scomode in tanti modi. In bianco o in nero, come suggerisce il titolo dato da ricci/forte per la loro quarta direzione artistica della Biennale Teatro di Venezia (Niger et albus), oppure con molti colori ma con una divisione di ruoli così netta da risultarne una visione del mondo tutt’altro che arcobaleno, come accade per Phobia di Markus Öhrn Karol Radziszewski, in cui si affronta la discriminazione contro la comunità Lgbtq+ in Polonia, dove vige anche una delle leggi più restrittive dell’Ue sull’aborto; oppure ancora usando un solo tono, il verde di un Livido, fiorito dopo una violenza, come nel testo omonimo di Eliana Rotella, vincitrice della sezione Biennale College Teatro – Drammaturgia Under 40 e protagonista di una delle mise en lecture dei testi nati o sviluppati durante la masterclass in drammaturgia tenuta nel 2023 da Davide Carnevali.

Entrambi i lavori sono in sintonia con il tema dell’anno, almeno per come noi lo abbiamo recepito, benché siano espressioni teatrali lontane, proprio come il bianco e il nero, si concentrano però sul male, sull’esplosione e il superamento di azioni aggressive o subdole.
L’idea di Phobia è un commando di terroristi gay – i Fag fighters (trad. “i combattenti froci”) – che assale le case con indosso un passamontagna rosa shocking (però tuta e calzini Adidas).

Phobia

I criminali agiscono in coppia e hanno un modus operandi: pongono tre quiz sulla storia della Polonia ai malcapitati, se questi ultimi non conoscono le risposte allora giù botte, sodomie, stupri e via seviziando. In realtà è tutto piuttosto comico perché l’esibizione della violenza è talmente in stile Grand Guignol, così gustosamente splatter, che non può fare impressione a nessuno. Al massimo si può essere un po’ disgustati, perché certe torture sono volutamente stomachevoli ma è tutto un gioco fatto con le tempere, la Nutella, con colori come quelli degli Sguish (per chi se li ricorda). In una scena scatola bianca i personaggi indossano maschere che li rendono simili a cartoni animati, occhi molto grandi cerchiati di nero e bocche aperte a mo’ di tragedia greca, e le mazzate che colpiscono le vittime sono sonorizzate con colpi secchi, amplificati come nei film che si reggono sui cazzotti.
Le domande che i Fag pongono riguardano personaggi storici, regnanti, scrittori (Gombrowicz), ballerini (Nižinskij), tutti omosessuali, anche donne, travestiti o femministe ante litteram, di cui nei libri di storia si sono misconosciute o nascoste o trascurate le tendenze sessuali, anche quando queste sono state causa di dileggio o peggio.
I vendicatori in rosa colpiscono, in tre lunghi episodi, piuttosto ripetitivi, tre diversi bersagli: una famiglia madre-padre-figlia, un art director di un’azienda di abbigliamento che opera il cosiddetto pinkwashing (campagne pubblicitarie per l’inclusione sociale con obiettivi di vendita) e un regista/drammaturgo identificabile come Öhrn stesso. Nel primo caso la famiglia è una banale presa in giro delle mode: lei fa yoga, lui si disinteressa di lei, per salvarsi dicono cose come ho un sacco di colleghi gay, lavorano come tutti gli altri o noi andiamo alle parate e gridiamo love is love; la ragazzina cucina sanguinacci vegani e vuole adottare un cane senza zampe. È l’unica che indovinerà uno dei quiz e sarà così risparmiata, verrà coperta con una bandiera arcobaleno per non vedere il castigo inferto ai genitori. Gli episodi successivi sono un crescendo di luna park della violenza, i due picchiano, sodomizzano, fanno a pezzi e poi copulano con le membra dell’ucciso mentre un pianista e violoncellista al lato della scena suonano musiche soavi, in una pallidissima eco di Arancia meccanica.

Phobia

Con il suo lavoro, il drammaturgo svedese Öhrn, qui in collaborazione con l’artista queer polacco Radziszewski, intende superare “il fatto di essere cresciuto in una società fortemente eteronormativa e patriarcale nel nord della Svezia”. E noi che pensavamo che i Paesi scandinavi fossero più aperti e più avanti di noi, da decenni! Pare che ci sbagliassimo, dunque.
Per ottenere lo scopo l’autore e regista ha scelto una via grottesca, eccessiva, satura ed esplicita, con una vena di spirito, spinta all’estremo; ci auguriamo stia riuscendo nella sua lotta personale. Quanto all’effetto sull’uditorio rimane il dubbio che il semplice ribaltamento di buoni e cattivi per cui la minoranza “da proteggere” diventa invece la falange armata da cui proteggersi, sia uno schema povero e che non dia nuovi stimoli di riflessione sull’argomento intolleranza.
C’è bisogno di mettere il tema all’attenzione, certo, ma se l’appropriazione dei rozzi mezzi di chi discrimina da parte dei discriminati è il cambio di prospettiva – seppur strumentale – non c’è granché da aspettarsi. Più interessanti invece gli inserti sui personaggi, non tanto per le singole figure quanto per il fatto che possano essere stati traditi nel racconto storico proprio perché portatori di scelte anticonvenzionali.

Decisamente ellittico è invece l’atteggiamento della scrittura di Eliana Rotella. Nella lettura scenica del suo Livido l’autrice è presente in scena, terzo vertice tra i due poli interpretativi Marco Cavalcoli e Bianca Cavallotti, entrambi molto ben centrati; il primo nel ruolo di un medico che deve fare dei controlli alla seconda, una ragazza che supponiamo essere stata vittima di un trauma non meglio specificato ma di cui si lascia sospettare possa essere proprio il medico il responsabile. I tre sono chiamati Ovidio, Narciso ed Eco, evidente richiamo al mito. E il livido è la traccia di un fatto di cui si è persa la memoria: la giovane Eco dice quello che l’autrice/Ovidio ha scritto per lei, nel tentativo di ricordare l’origine di quella macchia verde.

Livido, Eliana Rotella

Il testo è sincopato, scritto secondo una precisa armonia (anche se un poco attorcigliata) fatta di spigoli, di inciampi, di ripetizioni, di reiterazioni che danno il ritmo dello sforzo che si compie cercando di ricostruire una sequenza di azioni che la mente ha confuso, rimosso, per difesa. Le parole di Rotella sono un percorso accidentato in una vita accidentata ma che guarirà, come quell’alone verdastro. Ovidio è la sorgente che scrive e riscrive la storia, la interrompe, la riprende, la fa ripetere a Eco e Narciso. Non è chiaro l’inizio, non è chiara la fine.
C’è senz’altro rigore, nello stile di Rotella, la volontà precisa di suggerire soltanto, dicendo il meno possibile, scelta condivisa dalla regia – per ora solo abbozzata, come è naturale sia nella fase di una messa in lettura – di Fabio Condemi, che utilizza importanti inserti sonori (a cura di Andrea Gianessi) a rendere un’atmosfera fatta di vuoti e di buchi che contribuisce alla sensazione di una certa sgradevolezza, proprio come quando ti tocchi un livido e provi a capire da dove viene il male che senti.
 

PHOBIA – prima nazionale

di Markus Öhrn e Karol Radziszewski
regia Markus Öhrn
scene e costumi Markus Öhrn e Karol Radziszewski in collaborazione con Saskia Hellmann
immagini Karol Radziszewski
musica Michał Pepol, Bartek Wąsik
maschere Makode Linde
trucco Monika Kaleta
con Wojciech Kalarus, Ewelina Pankowska, Piotr Polak, Magdalena Popławska, Jan Sobolewski
direttore di scena Łukasz Jóźków
assistenti alla regia Anna Lewandowska, Angelika Mizińska
produttrici Anna Skała, Angelika Mizińska
(spettacolo in polacco, traduzione in italiano e adattamento sovratitoli di Matilde Vigna)
progetto cofinanziato dal Ministero della Cultura Repubblica di Polonia

LIVIDO – mise en lecture

testo Eliana Rotella, vincitrice Biennale College Teatro – Drammaturgia Under 40
regia Fabio Condemi
con Marco Cavalcoli, Bianca Cavallotti, Eliana Rotella
musica e sound design Andrea Gianessi

Biennale Teatro, Venezia | 26/27 giugno 2024

L’isola del teatro, il docufilm sulla storia di Inteatro Polverigi – intervista a Velia Papa

RENZO FRANCABANDERA | È davvero affascinate, per certi versi incredibile, la storia di Inteatro, il festival che abita dal 1977 il comune di Polverigi fra giugno e luglio. Dopo molti anni di vita e militanza alla frontiera del nuovo teatro e della performatività contemporanea, Velia Papa, la direttrice uscente di Marche Teatro, ha voluto suggellare questo percorso in un docu-film intitolato L’isola del teatro.
La pregevole testimonianza filmica è stata presentata al pubblico Venerdì 21, sabato 22 e domenica 23 giugno presso la Sala Sommier di Villa Nappi a Polverigi, nelle giornate del festival 2024. Non è un filmato autocelebrativo in alcun modo, anzi, rifugge qualsiasi dinamica autobiografica. Si tratta invece di un bellissimo viaggio che ripercorre oltre 40 anni, narrato attraverso interviste, filmati d’archivio (diversi dei quali anche estrapolati con un impegnativo lavoro di ricerca dalle Teche Rai della sede regionale delle Marche), con tantissime immagini e backstage dei protagonisti, non solo del Festival, ma della storia del Teatro e della Danza contemporanei, alcuni dei quali hanno voluto rilasciare specifiche testimonianze per questo documentario. Per certi versi, a voler vedere a fondo, si legge anche l’evoluzione del dialogo fra media, quello fra teatro e televisione, e la sofferenza che è stata inflitta ai territori con la chiusura di molte redazioni locali delle testate regionali, che hanno provocato anche buchi narrativi in questo viaggio a ritroso nel tempo.

Il documento ha dunque una valenza a suo modo storica, abbracciando un un arco temporale che va dalla fine degli anni ’70 ad oggi. Racconta il luogo, il borgo, il sogno, la capacità di quella amministrazione illuminata di allora di accogliere una sfida per tanti aspetti eroica e anche gli operatori che resero possibile nel 1977 la nascita del Festival Internazionale di Polverigi, frutto dell’idea di Roberto Cimetta e Velia Papa di creare una sede d’incontro di gruppi teatrali indipendenti, nel tempo divenuto un punto di riferimento per pubblico ed artisti.

Erano gli anni dei festival dei piccoli borghi capaci di proporsi a livello mondiale: Santarcangelo, Polverigi. Si creò un circuito di artisti, di pubblico, di operatori e critici capace di trasformare Polverigi nel centro del movimento della cultura performativa. Un grande sogno collettivo in un’epoca in cui il teatro e le arti sceniche erano il medium del cambiamento, delle nuove possibilità della società transnazionale che voleva cambiare le regole di vita a livello globale, vedersi raccontata e raccontarsi in scena. In questi spazi hanno avuto le prime occasioni, i primi debutti, alcuni grandi nomi che hanno fatto la storia del Teatro e della Danza – come ad esempio Romeo Castellucci, Jan Fabre, Wim Vandekeybus, Mario Martone. Qui sono stati ospitati allestimenti memorabili, alcuni dei quali anche sulla costa. I primi spettacoli a tematica ambientale, che assumevano una dimensione site specific, spettacoli che hanno segnato un’epoca con grandi personalità che, magari anche solo per un’edizione, sono passate dal Festival Inteatro di Polverigi.

Ma questo sogno è stato non solo un sogno di politici illuminati; è stato anche una storia costruita dalla comunità locale, dal pubblico e da tutti gli artisti ed operatori che, negli anni, sono stati ospitati in questo piccolo centro. Fa impressione leggere alcuni nomi passati di qui in questi decenni. Dall’inizio dell’attività sono state ospitate più di 700 compagnie, attive nella ricerca e nell’innovazione artistica, per un totale di più di 8.000 artisti provenienti da tutti i Paesi del mondo, tra cui Teatro Campesino de Luis Valdez (USA) 1978, 1980, Farid Chopel (Francia) 1979, 1980, 1987; Squat Theatre (USA) 1981, 1985; Jan Fabre (Belgio) 1983, 1984; Festina Lente & Francesca Lattuada (Francia, Italia) 1997, 1999; Tuxedomoon (USA) 1997; Leo Bassi (Spagna) 2004, 2006; Wim Vandekeybus (Belgio); Benjamin Verdonck (Belgio); Ron Athey (USA); Mauricio Celedon (Cile); Mike Figgis (Inghilterra); William Kentridge (South Africa); Eduard Lock (Canada); Caden Manson (USA); Joseph Nadj (Francia/Ungheria); Alain Platel (Francia); Test Dept/Brith Gof (UK). Tra gli italiani figurano nomi di artisti esibitisi al Festival quando ancora erano agli esordi e talvolta poi tornati a distanza di anni: ricordiamo, oltre a Martone già citato, anche Giovanna Marini nel 1983 e da poco scomparsa. Abbiamo avuto uno scambio di punti di vista con Velia Papa, che ne ha curato produzione, soggetto e sceneggiatura, oltre che la regia insieme allo sguardo attento e intelligente di Eleonora Diana, filmmaker, scenografa e artista.

Velia, come è nata l’idea di questo viaggio nel tempo e nell’arte? Che effetto ti ha fatto curarlo?

È un viaggio nel tempo ma non in senso cronologico. Infatti ho scelto di non seguire un’evoluzione temporale lineare. È piuttosto un flusso di memoria che procede per associazioni di idee, argomenti, tendenze artistiche evitando di sistematizzare ed ingabbiare scelte artistiche frutto piuttosto di affinità. Ci sono dentro tante esperienze e ricordi personali, certo, ma anche e soprattutto la vicenda di un territorio, di un paese, a suo modo trasformato per un certo tempo da un grande sogno visionario.

Guardando questo docufilm ho pensato che davvero hai vissuto una vita straordinaria, tutta dedicata all’arte. Ha avuto anche un suo prezzo?

Dal punto di vista personale è stato catartico, quasi una riconciliazione con i sentimenti contrastanti che ho riversato su un festival esaltante ma faticoso, come del resto, in Italia, sono tutte le iniziative artistiche fuori dai circuiti convenzionali.

A questo proposito viene da considerare che nel documentario non ci sono solo ricordi. A guardare bene in controluce pare esserci anche un messaggio per il teatro oggi, una sorta di testimone per le generazioni che verranno. Cosa ha voluto davvero fare ed essere Inteatro in tutto questo tempo?

Il docufilm traccia anche i percorsi evolutivi di un progetto che ha cercato continuamente di promuovere artisti meno conosciuti creando occasioni di formazione, di promozione e soprattutto di produzione.

 

L’ISOLA DEL TEATRO
docufilm

produzione, soggetto e sceneggiatura Velia Papa
regia Eleonora Diana, Velia Papa
fotografia Alessandro Cecchi
montaggio Eleonora Diana
sound designer e postproduzione audio Guglielmo Diana
operatore di camera Alessandro Cecchi
fonico di presa diretta Claudio Pauri
sottotitoli Lara Virgulti
organizzazione Alessia Ercoli
capo ufficio stampa e coordinamento area comunicazione Beatrice Giongo

un ringraziamento speciale a Comune di Polverigi, Mediateca di Polverigi, Rai Direzione Teche, Direzione Sede Rai Marche

si ringraziano in particolare Anna Betti, Daniele Carnevali, Mario Corinaldesi, Maurizio Esposto, Patrizia Fabbretti, Giovanni Iannelli, Cristiano Lassandari, Roberto Nisi, Massimo Paesani, Silvano Turbanti, Giorgio Valeri, Massimo Vitangeli

ricerca materiali di repertorio Eleonora Diana, Alessia Ercoli, Beatrice Giongo, Velia Papa, Lara Virgulti

operatori video di repertorio Alessandro Bracalente, Alessandro Cecchi, Sergio Canneto, Alessio Pacci, Massimo Scoponi, Gianmario Settimi, Lara Virgulti
riversaggio video Antonio Violet
postproduzione video e color correction Eleonora Diana
comunicazione Fabio Leone, Lara Virgulti

direzione organizzativa Marta Morico
assistenti di produzione Emanuele Belfiore, Paolo Brega, Alessandro Gaggiotti, Serena Martarelli, Benedetta Morico
direzione tecnica Roberto Bivona
tecnici Leonardo Buschi, Michele Carelli, Mauro Marasà, Franco Mastropasqua, Jacopo Pace
logistica e accoglienza Raela Cipi, Marco Mazzeri
mezzi Tecnici Marche Teatro
alloggi Foresteria Teatro delle Muse Ancona, Foresteria di Villa Nappi Polverigi, Grand Hotel Palace Ancona
direzione amministrativa Monia Miecchi
amministrazione Katya Badaloni, Alessandra Barigelli, Laura Fabbietti, Camilla Morani

ufficio personale Claudia Meloncelli, Valeria Taborro
consulente del lavoro Claudia Cantori
consulenza amministrativa fiscale e tributaria Enrico Severini
assicurazione Assicurazioni Generali

Venerdì 21, sabato 22 e domenica 23 giugno | Sala Sommier, ore 17.30

Marina Abramović, il corpo come luogo per un’evoluzione dell’umanità

Marina Abramović

GIANNA VALENTI | “In front of me a cave and I’m going to explore it.” È questa l’immagine finale del documentario Body of Work su Marina Abramović. L’artista cammina di spalle, minuscola di fronte alla vastità di paesaggi rocciosi inesplorati. I suoi cinquantacinque anni di carriera nella Performance Art: un viaggio inarrestabile verso il non ancora esplorato e verso il corpo come luogo di incontro della propria umanità e dell’umanità di ogni altro corpo con cui entra in relazione e in ascolto, nel qui e ora dell’azione performativa.
All’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, in questo giugno 2024, l’artista riceve il diploma honoris causa in Tecniche Performative per le Arti Visive e con generosità, semplicità, e senza mai negarsi una dimensione di vulnerabilità, condivide con il proprio pubblico e con i giovani (perché qui è venuta per incontrare gli studenti) la sua eredità, il suo messaggio sulla forza trasformativa dell’arte performativa e sul corpo, nella sua umanità più profonda, al di là di ogni categoria sociale o politica, come luogo di questa trasformazione.

Marina Abramović all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino durante la cerimonia di consegna del diploma honoris causa in Tecniche Performative per le Arti Visive

Abramović non perde tempo a raccontare il proprio percorso, sa nel profondo dove ci vuole portare e, citando Brancusi, parla dell’opera d’arte come presenza fisica, mentale ed energetica dell’artista che l’ha agìta, dichiara l’ascendenza del proprio lavoro dalle filosofie orientali, dà spazio al silenzio, al vuoto, alla consapevolezza del sé, al controllo mentale e porta attenzione alle modalità creative per la ricezione di impulsi intuitivi oltre la realtà tridimensionale, dall’attività onirica alle capacità visionarie che si attivano inaspettatamente nel quotidiano.
Temi già condivisi nel suo An Artist’s Life Manifesto, dalla necessità di creare silenzio — “An artist has to understand silence. An artist has to create a space for silence to enter his work. Silence is like an island in the middle of a turbulent ocean.” — alla necessità di creare vuoto attraverso una pratica di solitudine — “An artist must make time for the long periods of solitude. Solitude is extremely important”, perché è dopo il silenzio, la solitudine e la meditazione che il corpo fisico, mentale ed energetico può dirsi pronto a manifestare l’opera e a farsi opera.

È questo il terreno che l’artista ha scelto per spingere sempre oltre i propri limiti mentali e fisici ed è questa l’introduzione che sceglie per prepararci al racconto dell’immaterialità dell’arte performativa e della sua estemporaneità.
Con la sua presenza, con la chiarezza dello sguardo e una scelta di parole semplici, ci parla del valore della realtà del presente come unico tempo della performance, perché non si può fare performance, sottolinea con forza, pensando al passato o al futuro: l’unico tempo che abbiamo per essere presenti l’uno all’altro, come performer e pubblico, è questo, qui ed ora, just now.
Il corpo del performer e del pubblico sono una concentrazione energetica impossibile da separare. Ma qual è il risultato di questo incontro nell’arte performativa? “Non stiamo creando nulla di fisico… la Performance Art è una forma d’arte immateriale e bisogna essere lì di persona per farne esperienza” ed è proprio per questa totalità di presenza richiesta — confessa — che questa forma d’arte ha avuto difficoltà ad affermarsi come mainstream e ha ricevuto un cambio di attenzione solo in questi ultimi anni.

Marina Abramović, The Artist is Present, MoMA New York, 2010

Il passo successivo che ci propone è il long durational approach to Performance Art, qualcosa di speciale che soltanto lei può dare perché l’ha incarnato, perché è soltanto attraverso la lunga durata che “la performance non è più solo pratica performativa e si fa vita.” Un’azione performativa di due o tre ore è fisicamente difficile — confessa — ma è gestibile. Se invece fai qualcosa un mese, tre mesi, otto o dieci ore al giorno, la performance slitta sul piano della vita. Mostri la tua vulnerabilità, il tuo essere esausta, il tuo vero sé, ed è su questo terreno che avviene una connessione incredibile con il pubblico a livello emotivo, perché le persone sono vulnerabili, non perfette, ed è mostrandoti nella tua imperfezione come artista che riesci a dar vita a tutto questo.
La Performance long durational è punto di svolta nel suo percorso artistico e avviene al MoMA di New York nel 2010 con The Artist is Present: 700 e più ore di azione performativa in presenza di pubblico e 1.675 persone incontrate. Una performance che non ha solo generato un incontro — racconta Abramović — ma le ha permesso di creare una “comunità di pubblico” che “ti supporta, ci crede, ritorna per sostenerti e diventa sempre più coinvolta, perché nel XXI secolo non è più sufficiente che il pubblico venga in un museo per guardare qualcosa, viene per esserne parte, to be part of something.”
The Artist is Present, evento performativo iconico ormai parte della nostra memoria collettiva, condensa il punto più alto del suo percorso artistico, si fa segno di una trasformazione fisica, emotiva e spirituale sia per Abramović che per il suo pubblico, diventa codice performativo per il suo lavoro successivo, le apre una visione completamente inattesa del senso profondo del suo fare arte e le regala una percezione che si fa chiave di lettura per il futuro e l’evoluzione dell’umanità. 

Marina Abramović, The Artist is Present, MoMA New York, 2010

È così che si racconta: “avevo un tavolo e due sedie e chiunque poteva sedersi quanto desiderava, sette ore, venti minuti, trenta secondi… non potevano parlarmi, potevano solo guardarmi negli occhi. (qui il breve video del MoMA, con voce dell’artista, per preparare il pubblico all’incontro con lei). Mi sono solo cambiata il vestito. Il primo mese blu, perché dovevo calmarmi, il secondo mese rosso, perché era estremamente difficile continuare e avevo bisogno di energia e infine bianco, quando ho ritrovato la mia energia; a quel punto ho anche deciso di rimuovere il tavolo… C’era poi anche la difficoltà di aver scelto una sedia senza poggioli, perché esteticamente più bella… non potevo appoggiare le braccia e questo era estremamente doloroso… ero terrorizzata all’idea di dover interrompere e il dolore era insopportabile… quando vai così lontano, poi succede qualcosa di miracoloso, il dolore scompare. Era come se non ci fosse mai stato… Poi ho realizzato che c’era così tanto spazio all’interno del mio corpo… così tanto spazio che ti riesci a muovere senza muoverti. Vai verso l’interno.”

La drammaturgia spaziale e teatrale del lavoro è potente. Due corpi immobili uno di fronte all’altro in uno spazio ampio. Il corpo dell’artista che lavora per sottrazione e si fa presenza energetica pura, che sceglie l’azione più semplice e complessa al tempo stesso, quella di stare, che agisce un campo vibrazionale aperto, senza schermi o scudi protettivi, che sa donarsi e contemporaneamente ricevere, l’azione che nel suo Manifesto Abramović chiama Transparency: “The artist should give and receive at the same time. Transparency means receptive. Transparency means to give. Transparency means to receive”. Di fronte al corpo dell’artista, un corpo del pubblico, intorno ai due corpi lo spazio vuoto e, sul perimetro, una fila regolare o gruppi di persone in attesa di sedersi e già parte, consapevolmente o inconsapevolmente, dell’evento performativo. La vulnerabilità di un incontro e l’imprevedibilità di un tempo presente condiviso come valori guida.
Una performance — confessa Abramović —  che ha saputo gestire solo grazie alla saggezza e alla concentrazione dei suoi sessantacinque anni. In questa situazione “non c’è nessun luogo in cui andare se non noi stessi”. Ma poi è successo qualcosa di inaspettato, come un miracolo: “ho capito che il mio cuore si apriva a un enorme amore incondizionato per ogni singolo essere seduto difronte a me e che non avevo mai visto prima nella mia vita”. “Quando mi sono alzata da quella sedia dopo settecentoquindici ore di incontri, ero cambiata, non ero più la stessa persona e non ero solo io a essere cambiata, il pubblico era cambiato con me. Questo è stato l’inizio della mia Performance Art. Ho realizzato allora che dovevo lasciare la mia eredità ai giovani, agli artisti, al pubblico.”

Marina Abramović, The Life, Pesaro2024. Photo Culto productions

Chiama la sua eredità The Transformative Force of Performance, una forza che è il seme del progetto artistico e di vita di costruire un museo per la Performance Art a nord di New York e rendere così possibile la condivisione, con più corpi possibili, dell’esperienza trasformativa dell’azione performativa.
Un seme da cui nasce anche la scelta di fare dell’amore incondizionato il valore guida di ogni sua pratica presente e futura e del corpo, di ogni corpo, la sede di quest’emozione trasformativa, il luogo per un’evoluzione dell’umanità. Perché in un mondo dove le guerre e le uccisioni di altri esseri umani si ripetono sempre uguali e senza sosta — conclude — è importante chiedersi che cosa possiamo fare personalmente: “è molto facile criticare gli altri, ma la domanda è, che cosa posso fare personalmente per cambiare qualcosa?”  

Ecco le sue ultime parole sulla responsabilità individuale e artistica rispetto agli eventi dell’umanità: “L’unico cambiamento possibile avviene se facciamo qualcosa a livello personale e penso che gli artisti abbiano una grande responsabilità e debbano fare qualcosa. Per me si tratta di creare arte che elevi lo spirito umano e dar vita a situazioni dove possiamo di fatto imparare come agire l’amore incondizionato.”