fbpx
giovedì, Marzo 27, 2025
Home Blog Page 3

Il corpo dissidente di Kassandra: intervista a Roberta Lidia De Stefano

GIORGIA VALERI / PAC LAB* | 7 settembre 2020. Maria Kalesnikova viene rapita a Minsk, in strada, da uomini incappucciati dei servizi segreti bielorussi con l’accusa di tentato colpo di stato. 16 settembre 2022. Masha Amini viene uccisa dalla Polizia morale iraniana per aver indossato l’hijab in modo sbagliato. Colpevoli senza colpa, giudicate senza appello. Nell’intersezione longitudinale e temporale tra i due eventi, leggermente dislocata a sinistra, si trova la Grecia, che nell’assetto geopolitico rappresenta la linea di confine tra occidente e medioriente.
Se esistesse una macchina in grado di affrontare quei 3530 chilometri di strade sterrate, foreste e pianure militarizzate, sarebbe una Smart Fortwo con impianto stereo integrato, un bagaglio contenente una tuta da Bugs Bunny, tubi led versatili, una tastiera e, al volante, non una donna ma un’identità stratificata: I’m not a man, I’m not a woman, it’s complicated, I’m Kassandra. Kassandra – nella K si condensa il passaggio dall’età ellenistica al nuovo millennio – emerge dall’abitacolo, tacchi bianchi vertiginosi, un microscopico top a X nero e una gonna nera, corta quanto basta.
È ad Atene, a Roma, Budapest, Minsk o Teheran: la nebbia densa dentro cui è immersa sfoca gli spazi fisici, diventa segno di un luogo altro, di una periferia anonima e al contempo universale. Quella che la performer Roberta Lidia De Stefano e la regista Maria Vittoria Bellingeri evocano è una figura mitica, che racchiude e racconta, prima con il corpo poi con la voce, un passato e un futuro che giocano nel presente una partita già vinta. E per questo libera da ogni vincolo. Quindi Kassandra chiede sigarette al pubblico, si diverte a ricordare il passato incestuoso con il fratello Ettore, la passione corrosiva per Agamennone, i kink del prossimo cliente, canta. Non c’è colpa né vergogna nelle sue parole. I movimenti e la gestualità ricordano talvolta una drag queen, altre una sex worker, altre ancora figure indeterminate. Ogni singolo gesto diventa magnetico, cattura l’attenzione e la trasporta nel flusso della narrazione, la spinge fino a giustificare un improvviso rave che trasforma il Teatro Fontana nel Berghain. E Kassandra lo fa live, dal tettuccio della Smart, sotto l’effetto di luci strobo che frammentano l’immagine e il suono.

Ph. Serena Serrani

La dinamica del corpo è così intensa da svuotare di senso le parole, che si fanno eco di una nenia, del canto di un coro greco di cui si sceglie di ignorare il significato. Persino quando indossa il costume da Bugs Bunny, rivendicandolo come idolo infantile, al pubblico scappa una risata ma è bonaria, permissiva. Le viene concesso tutto. Per la prima volta.
Bellingeri e De Stefano hanno operato sul testo del drammaturgo franco-uruguayano Sergio Blanco un lavoro minuzioso di stratificazione letteraria, performativa, storico-sociale che emerge in tutta la sua espressione nella performance di De Stefano, seppur non nel contesto deputato al primo debutto dello spettacolo: nel maggio 2022, infatti, Kassandra è stato messo in scena all’Arena del Sole di Bologna con la produzione di ERT, ma nasce in realtà un anno prima come produzione indipendente da replicare soltanto per due sere al Campania Teatro Festival.
Ed è chiaro perché fosse stato pensato come produzione indipendente: Kassandra, per sua natura, non è credibile. È scomoda, oltraggiosa, sboccata ma reclama il diritto a esistere, così com’è. Non chiede applausi, non le interessano. Vuole esserci, nel senso heideggeriano del termine: un essere che per sua struttura è con gli altri. E persino esprimendosi in un inglese esperanto colorato da un accento dell’est-Europa, tutti capiscono cosa voglia dire, la sua voglia di raccontare. Soprattutto, il suo farsi testimonianza corporea di tutte le donne, attiviste e rivoluzionarie che hanno fatto la storia, ma a cui la storia ha negato il diritto d’esistenza. Abbiamo intervistato Roberta Lidia De Stefano per approfondire le dinamiche di costruzione dello spettacolo e del personaggio.

Kassandra, che nasce dal mito e quindi può essere considerato un “personaggio contenitore”, in questi 4 anni si è arricchita, o forse appesantita, di presente, della scena politica, della scena sociale? Come è cambiata?

In realtà sì e no. Il personaggio è nato in un momento post-pandemico, durante il quale si stavano conducendo riflessioni sugli stigmi sociali, in particolare su quelli più gravosi in assoluto: l’identità, la razza, la povertà, l’emarginazione. Questo ha giustificato episodi che hanno minato i diritti, soprattutto delle donne, ma è qualcosa che ha riguardato intersezionalmente tutto.
In quel periodo Maria Kolesnikova, che era l’oppositrice del regime bielorusso di Lukašėnka e che aveva fondato un partito politico costituito da tre front women, dopo uno speech in pubblico è stata portata via con un furgone ed è stata arrestata. Tutt’oggi si trova in carcere. Questo solo per essersi opposta al regime totalitario bielorusso. Con la regista Maria Vittoria Bellingeri, abbiamo quindi pensato che l’immagine di Kolesnikova fosse una figura universale, che rappresentasse molte donne dell’est. Poi ci siamo poste come riferimento anche le Femen, le Pussy riot – che comprendono attiviste, attivisti, persone trans – cioè tutte le attiviste che utilizzano il corpo in maniera performativa, non come una protesta formale da salotto ma come protesta fisica, reale.
Rispetto alla dittatura di Alice Weidel, ad esempio, c’è stata un’attivista del gruppo femen che si è truccata da Hitler, si è scoperta il seno, ha disegnato una svastica ed è stata prontamente portata via. C’è stata anche l’uccisione di Masha Amini, la donna iraniana che è stata picchiata a morte per non aver portato bene il velo e che ha dato vita alla rivolta delle donne iraniane “donna, vita, libertà”, ma anche alla negazione dello studio alle donne, alle bambine afghane. Insomma questi sono i modelli di performance, di street art, politica e poetica per Kassandra. Sono stati grandi fonti di ispirazione per la creazione di questo personaggio dal punto di vista del suo essere testimonianza.

Kassandra non può servirsi della voce perché non viene creduta, quindi il corpo è il suo strumento principale, come per le performer. C’è quindi un riferimento specifico per questo particolare trucco e costume scenico?

Sicuramente nel nostro immaginario si sono combinate tante cose. È vero che è un personaggio molto queer, perché lo dichiara anche il dramaturg Sergio Blanco nella scrittura. L’ha descritta come la figura di una donna in transito ma può essere una donna biologica o anche un uomo biologico, non è questo il punto. Lo dice: I’m not a man, I’m not a woman, it’s complicated, I’m Kassandra. È unica, una specie di punta di convergenza di un triangolo, la cui fisicità, un po’ ambigua e imponente, può suggerire il costume e l’aspetto di una drag queen.
Come riferimento interiore invece, abbiamo preso spunto dal documentario Soft White Underbelly, in cui un fotografo famosissimo in America andava a incontrare alcune prostitute con la sua automobile e le pagava. Loro pensavano di dover fare delle prestazioni sessuali mentre lui voleva soltanto fotografarle e parlarci. Queste donne raccontano la loro storia, la loro vita. Per il lavoro sul corpo mi sono ispirata a quella fisicità, a quel tipo di corpo poetico, iper femme o molto ambiguo, che non lascia capire veramente se sei una donna o un uomo, cosa sei: una figura completamente ibrida e con il suo diritto all’esistenza semplicemente in quella forma lì. Il trucco invece è ispirato al teatro kabuki, a livello della maschera, che chiaramente ha delle affinità anche con le maschere greche.
C’è tanta contaminazione, stiamo parlando anche di luoghi che in qualche modo sono confinanti. Sapevamo poi che Kassandra avrebbe cantato, come un flusso in piena, quindi abbiamo pensato di citare Klaus Nomi, un contraltista tedesco famosissimo morto di AIDS che si truccava più o meno in questo modo. Nella sua ultima apparizione fece The Cold Song di Purcell e cantava “Let me freeze, Let me freeze to death”. Erano gli anni Ottanta, l’AIDS non era un fenomeno di cui si poteva parlare, era uno stigma sociale e lui dichiarava che stava morendo di AIDS.

Ph. Serena Serrani

E lo spettacolo? Com’è cambiato negli anni e da città in città?

Lo spettacolo è sicuramente cresciuto, innanzitutto perché sono cresciuta io. Dal punto di vista fisico e canoro ho più dimestichezza, mi sento sempre più incollata a quello che faccio. Sono passati due anni prima che riprendessimo questo lavoro per il Festival Opening, prodotto da Emilia Romagna Teatro, ma per me è stato come se non fosse passato neanche un giorno. È stato un innamoramento per me, questo lavoro, questo testo, questa possibilità di entrarci veramente con tutte le scarpe.
Purtroppo ancora non l’abbiamo portato tanto al Sud, però adesso andremo a Roma, al Teatro Quarticciolo. Anche in situazioni di pubblico non esperto è sempre stato capito.  In alcune sere entra meglio la commedia, in altre la tragedia, in alcune sere c’è più equilibrio. Ho imparato a sentire il pubblico e a portarlo dove deve andare, e al tempo stesso anche io mi lascio trasportare da quello che mi trasmette.

C’è un minimo margine di improvvisazione, rispetto al testo o alle parti musicali?

Il testo è scritto da Sergio Blanco, pubblicato da QPress. Lui ci ha dato la grande disponibilità di poterlo aprire, di poterci lavorare. Di tutte le messinscene di Kassandra, forse la nostra è quella che mette insieme più elementi, quella più performativa. Quindi con Maria Vittoria Benigeri, che ha curato anche le scene, abbiamo deciso di far andare in giro Kassandra con una macchina, perché il progetto era nato veramente per essere fatto all’aperto. Poi il lavoro è stato introdotto in un circuito più ampio ma abbiamo deciso comunque di conservare la sua natura un po’ punk. Neppure la musica c’era nel testo di Blanco. Mi sono permessa di scrivere le canzoni, ispirandomi chiaramente al testo. Le musiche, i rave, sono tutte cose che ho voluto mettere io: Kassandra canta perché io stessa sono anche una cantante e per me è un mezzo espressivo importante.
E non è bellissimo il paradosso per cui canta una donna a cui si castra la voce? Proprio avere quel tipo di mezzo espressivo e di vocalità ha creato un gran bel conflitto. E quindi sì, c’è un margine di improvvisazione ma c’è perché nella padronanza di questo flusso, mi permetto di entrare in una relazione sempre diversa con il pubblico. Io sono proprio lì e non li mollo mezzo secondo e loro non mi mollano mezzo secondo. Sta nel ritmo, nel tempo.

Come mettete quella Smart sul palco?

Ci sono teatri in cui la macchina entra così com’è ma sono pochissimi. Quindi il comparto tecnico di ERT, capitanato da Gioacchino Gramolini con il direttore di scena, ha progettato una Smart, l’hanno tagliata e segata in tre parti. Un grande furgone porta la scenografia, principalmente questa macchina divisa in tre pezzi (senza motore) che viene trasportata all’interno del teatro, montata e assemblata. Funziona il quadro elettrico, dove è presente un apparato interno di audio, macchina del fumo, casse, spie, led, stretch.

Ph. Serena Serrani

C’è quindi la volontà di mantenere sempre il progetto originale.

Noi teniamo molto a questo, deve essere così. Tante volte ci siamo chieste se adattarlo, ma la macchina è tanto per Kassandra: è il carro di Apollo, è la cosa che la salva dalla notte, è la macchina della prostituta ma anche il luogo dove vive, è il luogo con cui si sposta.
È una clandestina, quindi corre in luoghi indefiniti, è il suo mezzo di trasporto ma all’occorrenza è il camerino dell’attrice, la camera da letto di Agamennone, anche la sua tomba. Quindi la macchina fa parte della drammaturgia, così come anche il Bugs Bunny e la parte in greco, fortemente voluta dalla regista, che è una critica di un certo teatro contemporaneo.

Ci sono anche altri riferimenti letterari, come la Cassandra di Christa Wolf?

Sicuramente Sergio Blanco ce l’aveva in mente. C’è una grande descrizione del mito e di derivazioni del mito. Però, come si lamenta Kassandra stessa, non c’è una vera scrittura classica del personaggio, solo intermezzi in altre opere. Anche in questo caso c’è un discorso intersezionale, artistico.
Kassandra è una sorta di medium tra il passato e il futuro. Me la immagino un po’ crocifissa, come nell’immagine finale di Milva che canta Kurt Weill: è attirata dal passato, ne ha nostalgia perché lo conosce. E nella memoria del passato è contenuta anche la premonizione del futuro: c’è una continua tensione verso l’eterno ritorno delle cose, per questo Kassandra è sempre viva. È una figura che esisterà sempre, nonostante tutto.
Poi è una donna, cioè una creatura fuori luogo, potrebbe la pazza del villaggio, la barbona sotto casa, che però ha quella scintilla nell’occhio di chi ha vissuto una vita sbalorditiva, che si ha voglia di conoscere. Kassandra in questo modo invita a non giudicare, a pensare veramente che nel presente non borghese, non capitalistico, l’umanità sia qualcosa di più complesso, di più stratificato, che non necessariamente deve connettere soltanto gli spazi ma anche il tempo.
Nel buio di oggi, Kassandra dovrebbe girare il mondo. E farà difficoltà a farlo, perché non dimentichiamoci che questo spettacolo stesso è una Cassandra.

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

A tavola per il Führer: l’Assaggiatrice di Hitler secondo Mabellini

ph Alessandro Botticelli

MARIA FRANCESCA SACCO / PAC LAB* | Cosa succede quando si scivola nel male, senza tuttavia averlo mai scelto? Cosa resta quando la vita si riduce a mera sopravvivenza?
«Tutto quello che ho imparato dalla vita è sopravvivere», è la frase conclusiva e incisiva dello spettacolo L’assaggiatrice di Hitler, con la regia di Sandro Mabellini. Un’affermazione che ogni essere umano potrebbe sentire sua, in alcuni momenti della vita, e che conferisce allo spettacolo un valore universale. Ambientato tra le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, esso esplora la solitudine, la paura, ma non dimentica la speranza, incarnata da un’incomprensibile e ostinata voglia di sopravvivere.

ph Alessandro Botticelli

L’assaggiatrice di Hitler è tratto dal romanzo di Rosella Postorino (Premio Campiello 2018) e alla sceneggiatura ha contribuito la stessa autrice, insieme a Gianfranco Pedullà, mettendo in evidenza il confronto tra esistenza e annientamento, vita e morte, con l’elemento del cibo come filo conduttore. Esso è, infatti, la variabile cruciale che determina il destino delle protagoniste: un gruppo di donne pagate per assaggiare i piatti destinati al Führer, garantendo che non contengano veleno. Non hanno scelta: ogni boccone che ingoiano è una pesante zavorra che affonda nei loro stomaci, come un promemoria di un destino ineluttabile. L’atto di nutrirsi, invece di dare loro vita, le prosciuga, schiacciandole sotto il peso della consapevolezza di un rischio che non sanno mai se avrà esito fatale.

In questo scenario di costante tensione e claustrofobia, i personaggi prendono vita grazie alle impeccabili interpretazioni di Silvia Gallerano e Alessia Giangiuliani. Le due attrici, con un abile alternarsi di battute, conferiscono al racconto un ritmo variegato, rendendo palpabili le emozioni che attraversano la narrazione: dal terrore alla speranza, dalla paura all’amore. La scelta registica è avere due interpreti che creano un cast corale attraverso dialoghi intensi e rimbalzanti: tutte le battute, prima di tutto quelle della protagonista, passano dall’una all’altra senza sosta, lasciando allo spettatore immaginare dove inizi e finisca un dialogo o un monologo. Questa soluzione sembra funzionare grazie alla bravura delle attrici in grado di sostenerne il ritmo senza sbavature e anche da un impianto scenografico minimale, che concentra l’attenzione sulle donne in scena. Qui si vedono solo due sedie, mentre tutto il resto, la tavola apparecchiata ad esempio, è suggerito da immagini proiettate su una sorta di cortina trasparente. Questa, come un velo, separa due luoghi di azione dove agiscono le attrici e prendono vita i personaggi, dando dinamicità a una pièce prettamente narrativa. La recitazione frammentata e alternata, unita alla scenografia fatta di due spazi distinti, suggerisce un effetto di distacco che rende al pubblico quello scollamento interiore che accompagna Rosa Sauer, protagonista della pièce e del romanzo. Lei diventa assaggiatrice per il regime nazista, accettando un ruolo che si trasforma in un macabro paradosso: Rosa è spettatrice e vittima allo stesso tempo, in bilico tra la lealtà al suo paese e il timore di essere complice di un male più grande. 

Lo spettacolo si apre in un’atmosfera cupa dove aleggia la figura enigmatica di una donna, Marlene Fuochi, vestita di nero che, senza parole, suona la fisarmonica. La sua presenza è straniante per tutto il durare della perfomance, durante la quale occupa talvolta  la scena principale e talvolta resta sullo sfondo, dietro la cortina della scenografia dove vi sono una serie di finestre che lasciano intravedere la sua ombra che vaga. Non sembra essere sempre presente sullo sfondo, talvolta la si perde di vista immaginando tuttavia che sia sempre là. Ciò fa pesare ancora di più la sua presenza, come la morte che incombe e osserva da vicino il destino dei personaggi imbracciando quella fisarmonica che con il suo respiro diventa a sua volta simbolo di una vita sospesa tra azione e morte.

ph Alessandro Botticelli

Nel costante contrapporsi di sentimenti, il desiderio percorre tutta la narrazione. Le pietanze, con il loro aspetto invitante e sensuale, diventano metafora di una passione viscerale, così come le vesti rosse indossate dalle attrici. Anche il linguaggio utilizzato fa spesso riferimento al cibo e all’oralità come una pulsione potente, una seduzione incessante. Un esempio emblematico è il gesto d’amore che Rosa condivide con il marito Gregor, quando si lascia introdurre due dita in bocca, con la fiducia che non sarebbero state morsicate.
Ancora più complessa è la relazione che la protagonista intreccia con Albert Ziegler, un generale delle SS, dal quale è attratta nonostante rappresenti il male assoluto. Immersa nella solitudine e nello strazio della notizia della scomparsa del marito Gregor, partito per il fronte e dato per disperso, Rosa si lega a Ziegler come se questi momenti di passione fossero gli unici che le permettessero di dare un senso alla sua esistenza ormai vuota, facendole credere di ribellarsi, almeno in parte, ‘all’oggettificazione’ cui sono sottoposte lei e le sue compagne, rendendo così più sopportabile questo loro «sopravvivere». la relazione soffre però di con un senso di colpa che deriva dal rapporto di Rosa con il padre defunto, che non avrebbe mai accettato di aderire al regime. Rosa, invece, si dice: «Non c’era alternativa, questo è il nostro alibi».

Nella performance, la complessa psicologia di Rosa Sauer è riproposta fedelmente al romanzo, il cui impianto narrativo si presta alla scena, riuscendo a rendere il carico di orrore e verità che la storia contiene. È importante ricordare infatti che Rosa Sauer, nella realtà, si chiamava Margot Wolk e la sua vicenda è attesa anche nelle sale cinematografiche, in un film con la regia di Silvio Soldini.
Il finale lascia spazio a una riflessione: due piccole candele accese tra le mani delle attrici mentre la figura vestita di nero danza freneticamente, sola in scena. La luce fredda contrasta con quella calda delle candele mentre la danza sembra risucchiare tutto ciò che resta, le vite e le speranze. Una conclusione circolare che invita il pubblico a riflettere sulla morte sottolineandone la dimensione sistematica e spietata durante il periodo del regime nazista, dove non era solo una minaccia ma una pratica pianificata e imposta con crudeltà: anche chi riusciva a sfuggirle, non poteva fare altro che viverne l’ombra per sempre. 


L’ASSAGGIATRICE DI HITLER

tratto da Le assaggiatrici di Rosella Postorino 
con Silvia Gallerano e Alessia Giangiuliani
drammaturgia Gianfranco Pedullà e Rosella Postorino
regia Sandro Mabellini
fisarmonica e voce Marlene Fuochi
musiche originali Francesco Giorgi
scenografia Giovanna Mastantuoni
costumi Veronica Di Pietrantonio
produzione Teatro popolare d’Art

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Teatro Carcano, Milano | 20 Febbraio 2025

Vizita: Iodice racconta la storia della caduta di un angelo sul filo spinato

ESTER  FORMATO | Scritto nel 1985 dal britannico Herbert George Wells, “La visita meravigliosa” è un romanzo visionario che nel 1970 colpì anche la sensibilità di Nino Rota, che ne trasse un’opera musicale.
Al centro della vicenda c’è una misteriosa creatura che letteralmente atterra in un piccolo paese – rappresentato coralmente da più personaggi – visitando un reverendo che, reduce dal dramma della guerra e preso dal timore, gli spara. Tuttavia, subito dopo riconosce la straordinarietà dell’essere e lo soccorre, dandogli ospitalità. Come nell’Annunciazione, il prete  accoglie umilmente la presenza di quest’uomo alato, ravvisando in lui una grazia salvifica, un dono e sin da subito si convince che sia effettivamente un angelo. Intorno alla sua casa si concentrano la vita del paese, turbato dal singolare arrivo e quindi pronto a manifestare fastidio e repulsione verso lo straniero, percepito come un corpo estraneo in un assetto sociale chiuso e impermeabile.

foto di scena Eniko Mosi

Da questa storia Davide Iodice e Fabio Pisano, supportati da Sardegna Teatro e in collaborazione con l’Istituto italiano di cultura di Tirana, traggono uno spettacolo – già vincitore di premi d’oltre Adriatico – con interpreti albanesi che recitano nella loro lingua, con sovratitoli in italiano, per questo il titolo “Vizita”, che significa appunto, “visita”.
Partendo dalla traduzione di Zija Vuka, Iodice, che cura regia e adattamento scenico, e Pisano (drammaturgia) hanno lavorato per restituire al contenuto del romanzo una forma teatrale nel rispetto della scansione narrativa originale, affinando la compagine drammaturgica e scenica.
La regia ci presenta una scena carica di oggetti e di simboli: all’apertura di spettacolo vediamo troneggiare un enorme crocefisso, punto focale di tutto l’assetto scenico. Panche di legno circoscrivono lo spazio d’azione, colori e fragranze ci orientano verso un ambiente liturgico atavico. Sarà forse per la scelta linguistica, particolare e rara, o per la compostezza austera della recitazione degli attori e il rigore dei costumi, che tutto ciò ci riporta a una solennità tragica, ma soltanto per il piano visivo perché l’adattamento è invece caratterizzato da dialoghi semplici e prosaici.
Inoltre nel paese, rappresentato per lo più da donne devote, si riconosce un organismo corale che funge sia da narratore sia da condensatore del punto di osservazione collettivo, esattamente come nello schema della tragedia classica. In più ciò serve a contraddistinguere specifiche individualità come il matto (Nikolin Ferketa) che vede e preannuncia ciò che di straordinario si sta verificando, il reverendo (Pjerin Vlashi), l’angelo (Fritz Selmani) e la serva Delia (Julinda Emir) che, diversamente dalle altre donne, crede nella soprannaturalità dell’uomo e finisce per innamorarsene. Questi ultimi sono dotati di una carica poetica che pervade il dramma, sebbene la compresenza frequente di più personaggi smorzi talvolta la loro preminenza.

foto di scena Eniko Mosi

Inoltre, sono immersi nella scenografia curata da Divni Gushta, arricchita da riferimenti religiosi e da tinte chiaroscurali e che ricorda un certo rigore ortodosso in bilico fra eccessivo realismo e atmosfera a-storica. Sul piano musicale, invece, le composizioni di Lino Cannavacciuolo si caratterizzano per il suono del violino, elemento preponderante della storia, che ci riporta ad armonie dell’est Europa e che conferiscono qua e là allo spettacolo una natura visionaria con un vago rimando a una sorta di miracle play moderno.
Lo spettacolo si sviluppa in modo lineare, nella drammaturgia si riconosce facilmente una cifra didascalica che in molti momenti tende a fornire una narrazione semplicistica della storia, senza problematizzare gli aspetti più significativi. I quadri sono giustapposti per permettere che la storia segua il suo corso, e sono legati fra loro dalla figura dell’angelo, intorno al quale se ne muovono altre: dal medico che arriva in bicicletta e che è certo che le ali siano una malformazione, alle donne che, scettiche, non accettano di buon grado la sua permanenza, come altri compaesani per cui le ali malandate diventano oggetto di dileggio, fino allo stesso reverendo. L’angelo si palesa nella sua purezza, forza e fragilità, mistero e sospetto che si incarna nell’arte del violino il cui suono arreca effetti benefici a chi lo sa accogliere; il prete, ascoltandolo, riesce spiritualmente a elevarsi, mentre la giovane Delia riconosce in quell’uomo l’amore.
Ma ciò non basta a persuadere gli altri della bontà dello straniero che, dunque, finisce per essere ingabbiato in una prigione che ricorda palesemente le reti in filo spinato con cui l’Occidente sta circoscrivendo e murando le proprie frontiere. Che sia il confine con il Messico o il confine con l’Europa orientale, l’allusione ai giorni nostri è lampante, il rigetto dell’antica hospitalitas che tanto ha plasmato le antiche culture mediterranee è una chiara denuncia dello spettacolo.

foto di scena Eniko Mosi

Pur ritrovando simboli interessanti che ripuliscono l’opera dallo stantio contesto vittoriano, resta il fatto che, forse anche data l’intrinseca natura dell’opera, lo spettacolo risulta in alcuni momenti stucchevole, anche quando la storia avrebbe avuto bisogno di un affondo drammatico più vigoroso da permettere allo spettatore di penetrare nella profondità del conflitto sia all’interno della comunità che nel singolo personaggio, come quando il reverendo racconta di sé all’angelo, confessando quanto ai suoi occhi ogni celebrazione gli paia priva di senso e di fede e quindi solamente un modo per scalfire la ciclicità dell’esistenza del paese. Qui l’intensità della confessione viene smorzata dalla mimesi in micro-quadri che tendono a banalizzare la psicologia dell’uomo.
Pathos maggiore, invece, si manifesta in concomitanza con l’epilogo della vicenda, la cui drammaticità è rafforzata dalla presenza, sulla quinta di fondo, del filo spinato, mentre si assiste inermi a un incendio che divampa nella casa del prete.
È il fuoco che disvela tragicamente la realtà dei fatti, sostanziando, nella duplice sepoltura di chi è stato in grado di riconoscersi reciprocamente come dono, la miopia e la povertà umana di una comunità, incancrenita nella diffidenza e nella maldicenza collettiva.

Spogliata dai riferimenti del contesto originario, la materia del romanzo di Wells sembra vestire nel lavoro di Davide Iodice i panni di un’Europa stanca, atavica, sospesa nei suoi riti e nei suoi codici sociali e immemore della sua antica hospitalitas.

VIZITA

da La Visita Meravigliosa di H.G.Wells
testo Fabio Pisano
traduzione Zija Vuka
adattamento, spazio scenico e regia Davide Iodice
musiche originali Lino Cannavacciuolo
l
uci Loic Hamelin
costruzioni scenografiche e costumi Divni Gushta
assistente alla regia Jozef Shiroka
produzione Teatro Migjeni, Sardegna Teatro
e con il supporto dell’ Istituto Italiano di cultura di Tirana
distribuzione Danilo Soddu
con Vladimir Doda, Julinda Emiri, Nikolin Ferketa, Rita Gjeka Kacarosi, Raimonda Markja, Alexander Prenga, Fritz Selmani, Jozef Shiroka, Merita Smaja, Pjerin Vlashi
Spettacolo vincitore del Festival del Teatro Albanese “Moisiu” come miglior spettacolo, migliore musica, migliore scenografia e Spettacolo vincitore del Premio della stampa Oslobodenje al Festival di Sarajevo
media partner Albania Letteraria                                                     

foto di scena Eniko Mosi

Teatro Fontana, Milano | 27 febbraio 2025

La guerra e la pace ci riguardano da sempre: De Fusco rilegge il capolavoro di Tolstoj

LAURA NOVELLI | Un palazzo aristocratico ormai in rovina dominato da una lunga scalinata centrale che funge da spazio praticabile e, al contempo, da rimando architettonico fortemente allusivo. È in questa scatola/mondo dai colori vividi e cangianti che si svolgono le complesse vicende raccontate in Guerra e pace, seconda incursione registica di Luca De Fusco nell’immensa eredità letteraria di Lev Tolstoj dopo il precedente e fortunato allestimento di Anna Karenina con Galatea Ranzi protagonista (2023).

E se il titolo è di quelli che risuonano con familiare nitidezza nel tessuto culturale di tutti noi, tanto più l’ossimoro che lo compone non può che apparirci oggi un tema tragicamente universale. Urgente sempre e da sempre. «Detesto la parola “attuale” collegata al teatro – spiega il regista – Il teatro non è una trasmissione televisiva o un sito. Il grande teatro e la grande letteratura non sono attuali, sono eterni. In questa messa in scena teatrale di Guerra e pace non si troveranno, quindi, immagini della guerra in Ucraina o in Medio Oriente […]. Ovviamente, però, non è un caso se mettiamo in scena uno dei maggiori titoli sulla guerra di tutti i tempi nel momento in cui ben due conflitti devastano la nostra vita. Il problema è che non c’è bisogno di attualizzare il classico di Tolstoj. La convivenza tra guerra e pace, amore e morte, tiranni e popolo, parla già alla nostra coscienza contemporanea».

Guerra e pace. Foto di Rosellina Garbo

Motivo per cui, lo spettacolo, in programma al Teatro Argentina di Roma nelle settimane scorse, non percorre la strada dell’attualizzazione formale e contenutistica del celebre romanzo (come succedeva, ad esempio, nella performance War and peace che il collettivo anglo-tedesco Gob Squad presentò a Torino nel 2017) quanto, semmai, quella dell’analogia: nell’intento di restituire tutta la potenza e l’universalità del materiale di partenza, esso non solo ci propone un necessario slittamento di codici, segni, forme espressive dalla grande letteratura “epica” dell’autore russo al teatro, ma anche – e soprattutto – una grammatica visiva e interpretativa ben riconoscibile. Il tempo dilatato della materia originaria si restringe, la trama di relazioni tessuta dai numerosi personaggi si avviluppa velocemente ma in modo chiaro, il tema cruciale della guerra – e della sua contrapposizione alla pace – è introdotto subito, le lunghe digressioni filosofiche, morali, metafisiche disseminate nei cunicoli della vicenda diventano materia di una narrazione super partes che tiene insieme i gangli centrali della colossale prosa tolstojana consegnandoli ad un’efficace essenzialità.

Potremmo dire che, coadiuvato nella stesura dell’adattamento da Gianni Garrera (drammaturgo, filologo musicale, traduttore e grande studioso di Kierkegaard), De Fusco metta a segno qui una sorta di condensazione dell’opera. Condensazione che riguarda, innanzitutto, i fatti e i nodi drammatici, fluidamente legati gli uni agli altri senza cesure, ma, piuttosto, avvicinati e raccolti in tempi dal respiro breve, in un ritmo incalzante di entrate e uscite, di cambiamenti di prospettiva da un personaggio all’altro, da una vicenda all’altra. La trama c’è tutta, sebbene se ne perda giocoforza la generosa ariosità a vantaggio di un’agile costruzione per quadri, in cui restano tuttavia vivi il significato e la forza del romanzo.

Foto di Rosellina Garbo

Un simile processo di condensazione investe poi anche l’avvolgente impianto scenico firmato, come i bellissimi costumi, da Marta Crisolini Malatesta: il palazzo che ci accoglie all’inizio del lavoro resta lo stesso per l’intera durata della pièce; cambiano le luci, le atmosfere, gli scorci, i particolari, visto che i fasti salottieri di un tempo precipitano in muri scrostati; le stanze disadorne, prima luminose, diventano via via buie e ingrigite. E, soprattutto, cambia la funzione della sontuosa, icastica, scalinata centrale, simbolo di ascesa e caduta, vitalità e declino (tale da ricordarci quella disegnata da Margherita Palli per la regia ronconiana de Il lutto si addice ad Elettra di Eugenie O’Neill, allestita nel 1997 proprio all’Argentina) che, grazie all’intenso disegno luci di Gigi Saccomandi, si fa qui casa, camera di sospiri amorosi, salone da ballo, campo di battaglia, teatro di massacri e di morte, tomba.

Siamo, insomma, in un mondo che crolla. Un lampadario di cristallo dalla raffinata fattura è appoggiato a terra sul proscenio, di lato: nessuno lo ha tolto o rimesso al suo posto, quasi fosse un reperto archeologico testimone di tempi passati. Un simbolo e, insieme, un monito. Ma anche quello che semplicemente è: un oggetto scenico. L’area della rappresentazione sempre meglio si delinea, dunque, come un palcoscenico sul palcoscenico dove si racconta la decadenza privata e storica di una classe aristocratica inquieta, alla costante ricerca di amori, denaro, gloria, e persino votata all’idea “virile” che la guerra sia molto più interessante della pace.

Ciò che maggiormente domina, infatti, nelle relazioni tra i numerosi personaggi della pièce, in molti casi attraversati da una nostalgia che lascia presagire la disarmante modernità di Čechov, è una decisa dicotomia tra l’anima pacifista delle donne e quella bellicista degli uomini. Non è un caso che il lavoro si apra nel salotto nobile di Anna Pàvlovna Scherer (Annette), cui Pamela Villoresi regala una bella prova in equilibrio tra lirismo e razionalità. A lei il compito di difendere la pace, di legare la pace alla vita e all’amore, di guidare il plot dei fidanzamenti e dei matrimoni giovanili. Con lucida consapevolezza Annette/Villoresi è anche, però, la voce narrante principale dello spettacolo; una sorta di sguardo interno e, insieme, esterno, che orchestra i diversi passaggi narrativi, agendo al contempo come puro personaggio drammatico.

Foto di Rosellina Garbo

Intorno a questo nucleo di vitalismo materno, si organizzano poi le altre figure del romanzo, opera di proporzioni omeriche (sulla cui analisi restano fondamentali le pagine del saggio Tolstoj o Dostoevskij di George Steiner, Garzanti, 2021) che intreccia i destini di due famiglie, i Bolkonskij e i Rostov, sullo sfondo della campagna di Russia di Napoleone. Ecco il bonario e schivo Pëtr Kirillovič Bezuchov (Pierre) dell’ottimo Francesco Biscione, il più ingenuo e sentimentale dei personaggi maschili, figlio illegittimo del vecchio Bezuchov e della stessa Annette ed erede, suo malgrado, di un’ingente fortuna, che collezionerà delusioni e scelte sbagliate prima di trovare la felicità nell’epilogo. Di indole assai diversa ci appaiono poi sia l’appassionato Nikolaj Rostov interpretato da Giacinto Palmarini sia l’impavido e volubile Principe Andrej Bolkonskij di Raffaele Esposito. Per entrambi la guerra rappresenta la forza animatrice dell’esistenza, l’antidoto vitale alla monotonia, alla noia del quotidiano. Per entrambi, tanto più, il mito di Napoleone coincide con un ideale di eroismo, genio e coraggio che prescinde persino il naturale odio per i nemico e ci ricorda l’afflato pre-romantico di quel Foscolo giovanile ancora ignaro delle cocenti delusioni legate a Campoformio.

Il destino di Andrej (un Esposito energico e possente, anche se a tratti forse un po’ troppo enfatico) si impone come il più simbolico del romanzo: mentre il suo cuore passa di donna in donna, l’adesione cieca alla guerra lo vedrà attraversare esaltazione e dolore, eroismo e paura, finché la battaglia di Borodino gli sarà notoriamente fatale. In questa visione bellicista che anima le figure maschili di Tolstoj spetta, infine, al generale Kutùzov di Federico Vanni – quasi un alter ego della saggia Anna Pàvlovna – tradurre l’inerzia in strategia: scettico sull’efficacia di un attacco diretto, egli ordinerà alle truppe russe di attendere che i francesi entrino a Mosca e la incendino, per poi passare all’offensiva e costringerli a una disastrosa ritirata in pieno inverno. La Storia, come ben sappiamo, gli darà ragione.

Foto di Rosellina Garbo

Malgrado il tema della guerra innervi molte delle scene dello spettacolo (soprattutto nella seconda parte), è però la trama femminile della pace a spostare l’ago della bilancia verso i sentimenti e la speranza nel futuro. Le giovani donne del romanzo qui volteggiano in perenne attesa di un agognato coronamento amoroso, di un sogno, di uno spiraglio di novità. La fragile ed eterea Natàl’ja Il’ìnična Rostòva (Nataša) trova in Mersila Sokoli (già apprezzata protagonista del monologo Giovanna d’Arco della Spaziani che, sempre su regia di De Fusco, PAC ha recensito a ottobre scorso) un’ottima interprete, matura e lieve, affiancata dalle altrettanto incisive Eleonora De Luca, Sòf’ja Aleksàndrovna Rostòva (Sòn’ja), e Lucia Camalleri, Màr’ja Nikolàevna Bolkònskaja, l’anima forse più dolente dell’opera, vittima di un padre-padrone e di una spiritualità vissuta come cupa prigionia.

In queste giovani donne, tenute insieme dalla saggia maturità di Annette/Villoresi, risiede la forza più potente di Guerra e pace. Il loro desiderio di amore è un urlo delicato, ma assordante contro l’insensatezza della violenza e del male: moderne eroine tragiche dal cuore sempre in subbuglio, perché è lì – nel cuore – che si combatte la battaglia più importante di sempre, quella per la vita. E non è certamente un caso che questo lavoro – estremamente corale, coreografico, e scandito dal violino che nutre il tappeto musicale di Ran Bagno – dedichi alla sostanza femminile del romanzo un respiro del tutto particolare. Complici anche le grandi proiezioni video realizzate da Alessandro Papa che, già impiegate in precedenti produzioni del regista, ne enfatizzano alcuni passaggi salienti (si veda, ad esempio, il festoso momento del ballo), ingrandendo i corpi e i volti delle attrici e degli attori, e moltiplicando corpi e volti per moltiplicare l’idea che, in fondo, siamo tutti caduchi ed effimeri come ombre.

Poi arriva una luna blu stagliata nel cielo che sembra una luna di Chagall o di Magritte, e ci dimentichiamo per qualche minuto di Napoleone, Austerlitz e Borodino. E mentre le vicende si rincorrono, la città va in fiamme, Andrej perde la vita, i francesi si ritirano, i matrimoni si sfasciano e compongono, la trama del romanzo corre verso il suo dovuto epilogo e fa la sua straordinaria giravolta: l’amore tra Natasha e Pierre non può, infatti, che agganciarci fermamente alla pace. Al bisogno estremo che ne abbiamo. Ieri come oggi.

GUERRA E PACE
di Lev Tolstoj

adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco
regia Luca De Fusco
aiuto regia Lucia Rocco
con (in o.a.) Pamela Villoresi, Federico Vanni, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Alessandra Pacifico Griffini, Raffaele Esposito, Francesco Biscione, Eleonora De Luca, Mersila Sokoli, Lucia Cammalleri
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
assistente alle scene e ai costumi Francesca Tunno
assistente ai costumi Laura Giannisi
disegno luci Gigi Saccomandi
musiche Ran Bagno
creazioni video Alessandro Papa
coreografia Monica Codena

Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo, Teatro Stabile di Catania

Teatro Argentina | 16 febbraio 2025

I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante attraverso gli occhi di Gaia Saitta

CHIARA AMATO / PAC LAB* | In Italia la disparità di genere in ambito retributivo si manifesta come un problema importante: gli stipendi percepiti dalle donne sono del 20% inferiori ai loro pari di sesso maschile. Questo, legato alla minore occupazione femminile e alla maggiore frequenza di contratti precari per le donne, crea un gap ancora oggi difficile da colmare e lascia varchi aperti alle violenze economiche. La violenza economica, infatti, è la terza causa di abuso più diffusa, dopo quella fisica e psicologica, e tuttavia ancora sottovalutata. La questione si complica ulteriormente in caso di separazioni/divorzi dai partner dal quale si dipendeva economicamente, per il banale concetto di “guadagno abbastanza per entrambi”.
Con questa premessa (e non solo) e chiave di lettura, Gaia Saitta ci presenta Olga, la protagonista di Les jours de mon abandon / I giorni dell’abbandono, spettacolo che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Studio Melato di Milano. Il testo si ispira al romanzo I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante, pubblicato nel 2002, e la regista ha sentito l’urgenza di raccontare una storia comune a tantissime donne. La trama è quasi un cliché: siamo negli anni ’90 e una giovane coppia di fidanzati si sposa; lei segue il marito nel nord Italia per il suo lavoro e per realizzare il suo destino di moglie e madre, finché non viene lasciata per un’amante più giovane. Ha permesso che il nido familiare le rubasse le ambizioni da scrittrice per poi trovarsi senza lavoro e senza la famiglia felice.

ph. Masiar Pasquali

Da qui inizia un vortice di disperazione e ossessione per la perdita dell’amato che però Olga trasforma in disfacimento di tutto il suo mondo: non ha più cura per sé stessa, a malapena porta avanti la casa e i figli, fino a diventare volgare nel linguaggio e brutale nell’animo. 
Il romanzo è molto duro, nelle parole come nei fatti che racconta, non lasciando respiro al lettore, fino alla catarsi finale e… vive l’amour. A differenza del libro – ed è la prima libertà che la messa in scena si prende – Olga si trasferisce a Bruxelles (non a Torino) per il marito Mario, e il testo oscilla tra dialoghi in italiano e francese. La scelta non è casuale, visto che la regista è nata in Italia ma vive e lavora a Bruxelles: dal 2013 al 2020 è stata artista associata a Les Halles de Schaerbeek e attualmente lo è al Théâtre National Wallonie-Bruxelles, che coproduce lo spettacolo con il Piccolo.
Lo spazio circolare del teatro è completamente occupato dalla scenografia (di Paola Villani): siamo a casa di Olga, una casa senza muri divisori ma con strutture d’acciaio che separano gli spazi e con cavi elettrici a vista.
Partendo dal fondo abbiamo la camera dei bambini e il bagno – composto da una vasca e un lavabo – mentre sulla destra c’è la camera da letto di Olga e il salotto con un divano e il telefono. Al centro è posta una porta stesa al suolo, in pendenza, come se fosse stata buttata a terra, e quattro televisori ammassati l’uno sull’altro, che trasmettono per tutta la durata dello spettacolo trasmissioni nazional-popolari e partite di calcio. Siamo in una casa della media borghesia italiana dell’epoca: la televisione non si spegne mai ed è parte integrante del quotidiano. Infine, in prossimità dell’entrata abbiamo la cucina con un tavolo e il frigo.

ph. Masiar Pasquali

Tutto è caotico e sa di deteriorato, di tristezza, come sopravvissuto a un bombardamento. Anche la pavimentazione è precaria e sdrucciolevole, e già nell’arredo abbiamo parte delle luci di scena (idea di Amélie Géhin) che sono quelle dell’abitazione stessa – varie abat-jour, un neon, una luce blu – che vengono supportate, all’inizio, da una forte illuminazione circolare dall’alto. Gli abiti (Frédérick Denis) connotano una famiglia media nella sua piena “normalità”: la bimba con un abito a fantasia colorata, il figlio maggiore con un completo da calcio e la madre in gonna longuette, blusa e decolleté con tacco.
In questa casa non ci sono i due uomini co-protagonisti del romanzo ma solo Olga con i suoi figli (Jayson Batut, Mathilde Karam) e il cane (Vitesse). Il personaggio del marito e del vicino di casa sono in absentia: il marito interverrà in scena solo tramite telefonate, mentre Carrano sarà interpretato da uno spettatore, guidato dalla protagonista, in un breve dialogo.
Mentre il pubblico entra in sala, la padrona di casa fa accomodare alcune spettatrici sulla scena e con loro avrà brevissime interazioni durante la performance, come se fossero sue aiutanti. Il cane, altro personaggio cardine del romanzo, qui si aggira per la platea.
Lo spettacolo viene introdotto dall’attrice e regista con una vera e propria spiegazione dell’operazione artistica alla quale assisteremo e un riassunto della trama del romanzo. Ci fornisce molte indicazioni, per facilitare la simbiosi con gli stati d’animo e le vicende della protagonista.
Della trama viene selezionata una porzione limitata di eventi: il possibile ritorno del marito, che chiama i propri figli per una cena nella sua vecchia casa, e la giornata negli abissi dell’inferno che Olga vive prima di risollevarsi.

ph. Masiar Pasquali

Il primo episodio mette un’ondata di ottimismo nella casa, si tirano tutti a lucido, preparano la tavola ma è un’attesa impietosa e silenziosa, finché tutti capiscono che non ci sarà nessuna cena in famiglia. Un’immagine molto suggestiva è quella in cui l’attrice sale su una scala altissima sul lato destro della casa e fuma una sigaretta: si isola dai suoi affetti perché la stanno distruggendo, le rodono l’anima e le rubano il tempo. E infatti le parole che popolano il suo sfogo, dopo la telefonata noncurante di Mario che avverte che non tornerà a casa, suonano così: «Lui si è preso tutto il mio tempo, tutto il tempo della mia vita (…) Lui me lo deve quel tempo». La dedizione totale a quella vita familiare ora è rimpiazzata da un pensiero unico: la vita sessuale di suo marito con la sua amante.
Gli artisti si muovono nello spazio in maniera convulsa e frenetica per motivi diversi: Olga si aggira frammentando ogni singola azione in infinite distrazioni e cambi di direzione, sommersa dai suoi pensieri ossessivi; i bambini, invece, giocano, saltano da una parte all’altra e soprattutto fanno rumore. I suoni sono uno degli elementi più interessanti dell’operazione registica di Pawel Wnuczynski e Ezequiel Menalled: traducono sul palco l’interiorità del mondo di Olga.
Lo spazio sonoro si aggiunge a quello fisico nel creare una forte connessione con il corpo di Olga. «Un rubinetto che gocciola, granelli di zucchero che rimbalzano, le lame del vecchio ventilatore guasto: tutto fa risuonare l’abbandono, scandisce il ritmo del pensiero, della disperazione, e, alla fine, della visione e comprensione», spiega la regista nel dialogo con Claudio Longhi sul programma di sala. Questo accentua uno stato di apnea del pubblico, l’aria è tesa e densa, la violenza è il modo più utilizzato da Olga e dai suoi figli per amarsi e i rumori sono assordanti, cadenzati e irritanti. Allo stesso modo, le luci seguono i tilt mentali e i collassi emotivi della protagonista: ora si affievoliscono, ora hanno cali di tensione momentanei.
Soprattutto nella seconda parte, quando Olga deve affrontare una pessima giornata – il figlio malato, il cane che sta agonizzando e la porta di casa che non si apre – la scelta di accentuare la presenza dei suoni sembra riflettere quel martellante senso di inadeguatezza e di sconfitta che la casalinga sente ogni giorno rispetto alla nuova fiamma del marito. Più giovane, senza responsabilità genitoriali e vincoli matrimoniali, Giulia, il nuovo amore, non ha niente da temere dal vecchio.

Foto di Anna Van Waeg

La regia resta molto fedele a Ferrante nel non dividere i personaggi in buoni e cattivi: anche i bambini sono cattivi, anche una madre può non sopportare più la visione dei suoi amati e scacciarli. Sorprendente la presenza scenica di Karam che, pur essendo una bambina, ha una profondità espressiva importante, e alterna i toni capricciosi e infantili a quelli da spalla complice e solidale alla madre. Riflette appieno quella saggezza ingenua che spesso i bambini hanno in piccole azioni.
Il ribaltamento che il personaggio di Olga attua nei confronti delle aspettative della madre e moglie tradita è espresso dall’interpretazione di Saitta in maniera perfetta: si impasta la bocca con parole forti, volgari e spietate, non la manda a dire a nessuno, non teme giudizi, perché purtroppo già se ne dà di terribili da sola. Cade continuamente in errori, dimenticanze, rabbie improvvise e stati depressivi, non celando né risparmiando nulla ai suoi figli: vivono il loro inferno a tre. La sua performance è ricca di pathos e si percepisce un legame molto forte con il testo, che però decide di cambiare nel suo finale.

Foto di Anna van Waeg

Mentre Ferrante ci fa vedere la luce in fondo al tunnel con un nuovo amore, la protagonista torna a parlare al suo pubblico come la donna e regista Gaia Saitta e gli chiede di smantellare fisicamente insieme a Olga il vortice di violenze che le donne subiscono: dalla violenza economica alle umiliazioni, dall’abbandono ai ruoli prestabiliti, dagli stereotipi alle solitudini delle madri. Il luogo cardine di questi dolori e sopraffazioni è il focolare domestico.
Così, parte del pubblico assiste allo smontaggio della scenografia che alcuni spettatori mettono in atto con alcuni operatori del Piccolo: la casa sparisce e la scena si riempie di oggetti da spiaggia. Il buio e il chiuso lasciano spazio a limonata fresca, musiche estive, occhiali da sole. I due figli entrano felici insieme alla loro madre ritrovata, che ha vinto una battaglia con i suoi sconforti, da sola, a testa alta, e senza subire pietismi dalla società.

LES JOURS DE MON ABANDON / I GIORNI DELL’ABBANDONO
ispirato a “I giorni dell’abbandono” di Elena Ferrante 

ideazione, adattamento, regia Gaia Saitta
collaborazione artistica Sarah Cuny, Mathieu Volpe, Jayson Batut
testo e drammaturgia Gaia Saitta, Mathieu Volpe
assistente alla regia Sarah Cuny
scene Paola Villani
costumi Frédérick Denis
suono Ezequiel Menalled
luci Amélie Géhin
con Jayson Batut, Flavie Dachy / Mathilde Karam, Gaia Saitta, Vitesse (il cane)
coordinamento tecnico Giuliana Rienzi
regia suono Pawel Wnuczynski
regia luci Corentin Christiaens
creazione e regia video Stefano Serra
assistente ai video Arthur Demaret
direzione di scena Thomas Linthoudt e Stefano Serra
meccanizzazione scene Chris Vanneste
coach bambini Lola Chuniaud
educatore cinofilo (addestramento condotto nel rispetto dell’animale) Casting Tails, Tim Van Brussel
stagiste Lou-Ann Bererd (scene), Tania Chirino (regia), Paul Canfori (regia)
costruzione scene e realizzazione costumi Ateliers du Théâtre National Wallonie-Bruxelles
uno spettacolo di Gaia Saitta / If Human
produzione Théâtre National Wallonie-Bruxelles coproduzione Kunstenfestivaldesarts, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, TNC-Teatre Nacional de Catalunya Barcellona, Théâtre de Namur, Le Manège Maubeuge, La Coop asbl, Shelter Prod con il sostegno di BAMP – Brussels Art Melting Pot asbl, Taxshelter.be, ING et du Taxshelter du gouvernement fédéral belge

Teatro Studio Melato, Milano | 1 marzo 2025

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Il chiodo, il quadro, la persona e il personaggio: Vetrano Randisi in Ognissanti di Petyx

Ognissanti. Foto di Luca Del Pia

RENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | MB: Due grandi cornici ritagliano lo spazio del Teatro Fabbricone di Prato. È rosso acceso, come alcune sale dei Nuovi Uffizi di Firenze. Qui però siamo a Palazzo Abatellis, a Palermo.
Dentro le cornici, a rifare i due santi anonimi del maestro seicentesco Pietro Novelli, Enzo Vetrano e Stefano Randisi. L’uno, a sinistra, su uno scarno inginocchiatoio; l’altro, a destra, su una sedia imbottita, con alle spalle una libreria. Di fronte, a completare la fascinosa scena di Mela Dell’Erba (suoi anche i costumi) una panchina nera, vuota.
Intanto che prendiamo posto anche noi, una voce registrata annuncia che l’esposizione sta per chiudere e i visitatori sono invitati a uscire. Per un po’ si sentono i rumori del museo, tra una notifica al cellulare e un selfie ricordo.
Quando finalmente si fa silenzio, nella solitudine di un sospiro quasi di sollievo, Vetrano si ridesta. Esce dal quadro, rientra nella vita. Dà inizio così alla sera di Ognissanti di Sabrina Petyx, sera dei miracoli, avrebbe cantato Lucio Dalla. Un dramma giocato da due interpreti dal garbo sconfinato, che chiamano alla rivoluzione, prima di tutto della rappresentazione di sé. Perché è il chiodo che regge il quadro, mentre la cornice è solo una gabbia dorata. Buona per chi crede che vivere sia continuare a mentirsi.

Ognissanti. Foto di Luca Del Pia

RF: È un’atmosfera in stile ‘A livella di Totò, sotto certi punti di vista: i musei sono come i camposanti di notte. Misteriosi e inaccessibili, contengono tanta parte della vita umana eppure di notte, chiuso il turno di apertura, ci sono silenzio e buio totale ad avvolgere tutto. Il pretesto drammaturgico a cui si appella Petyx parrebbe effettivamente surreale: un pittore che ha dipinto due santi anonimi. In realtà, come hai detto, la vicenda è vera: i due dipinti in questione sono conservati presso la Galleria Regionale di Palazzo Abatellis a Palermo, raffigurano una coppia di Santi Martiri (n. Inv. 165-166); sono due quadri di formato pressoché identico, olio su tela, e suggeriscono una comune e condivisa natalità ideativa e creativa. Alcuni studi ne ascrivono l’ispirazione alla rivoluzione formale, seguita all’arrivo in Italia di Anton Van Dick. Ma qui apriremmo un discorso che non ha a che fare con lo spettacolo, perché si tratta di un pretesto creativo e nulla più.

Due quadri intitolati a due santi anonimi, un po’ come il poveraccio che nella poesia del maestro de Curtis si ritrova con la sua tomba vicino a quella del ricco. Da questa prossimità nasceva il conflitto, nella poesia in dialetto napoletano, con il ricco che intimava al povero di farsi in là, e il povero che, con i suoi pochi strumenti culturali, lo faceva riflettere su questioni filosofico-esistenziali robuste, come la transitorietà della gloria cumulata durante la vita umana e il fatto che la morte non distingua il censo.
Parimenti, di natura esistenziale è il dialogo fra i due “santi” dipinti e che diventano tableaux vivants, e diventerà poi dialogo fra i due modelli che il pittore assoldò per posare e che, in quanto poveri cristi che si vedono ritratti e portati all’eternità, riflettono sulla vita e sull’arte, sull’immortalità e sulla provvisorietà.
Siamo tutti appesi a un chiodo, con il nostro ruolo sociale, mentre dentro di noi si agita l’identità reale, ammesso che si riesca davvero a conoscerla.

Foto di Luca Del Pia

MB: La scena parla con sé stessa. Vetrano agisce fuori dal quadro, Randisi, invece, ci resta perlopiù dentro (a parte una breve parentesi alla fine). Questa loro diversa scelta di campo si rispecchia esattamente nella contrapposizione dei valori. Nel rimpallarsi la colpa dell’essere dove sono, l’uno esprime la libertà di essere chi vuole – di essere sé stesso –, mentre l’altro vuole restare inchiodato alla sua storia, che poi, in verità, non è nemmeno la sua.
Sono santi nonostante loro stessi, santi a loro insaputa, non hanno neppure un nome. Hanno in comune, però, la cornice, il pittore, e la morte che li ha portati fino a qui. Entrambi inquisitori, “beniamini del dogma” e per questo assassinati. Hanno ridotto la vita in cenere eppure sono stati santificati – misteri della fede, o meglio della Chiesa. Hanno esercitato il male con banalità, ma adesso il santo di Enzo Vetrano ha deciso di dire basta.

RF: La scena di Mela Dell’Erba che accoglie, come raccontavi, gli spettatori, pur piccola nello spazio agito, ha grandissima potenza evocativa e capacità eye-catching. Fa tutt’uno con gli splendidi costumi e con l’impianto dei quadri che, pur senza citare esplicitamente questa o quell’opera, rimanda genericamente con grande sapienza a una summa della storia della pittura, che va dal Rinascimento fino a Bacon, dall’Innocenzo X di Velasquez a quello di Francis Bacon (qui con paramenti neri, per stare nelle cromie dell’opera di Novelli).
Alle spalle del santo filosofo di Randisi, libri e librerie gli conferiscono l’attributo sapienziale, mentre l’altro, quello di Vetrano, è un santo penitente, un cardinale Borromeo inginocchiato, con le mani giunte che ricordano quelle di Albrecht Dürer. Qui, oltre all’inginocchiatoio, non ci sono elementi di connotazione, se non il buio fondale del quadro, dal quale appunto il personaggio e la persona uscirà.
Hai voglia a dire, ma se nasci in una terra, volere o volare, gli influssi comunque restano presenti. E qui, secondo me c’è anche tantissimo di Pirandello nel suo tema identitario, alcune cose di Scaldati, come il dialogo assurdo dell’avvio.
Di fatto, tornando alla similitudine con ‘A livella, ma anche a quella fra il museo e il camposanto, rifletto ora sul fatto che i due interpreti di questo lavoro avevano portato in scena alcuni anni fa proprio un testo di Scaldati, intitolato Totò e Vicé, in cui i due personaggi vagavano nottetempo in un camposanto come anime in pena. Ed erano, infatti, anime in pena.

Foto di Luca Del Pia

MB: Ognissanti è la festa del risveglio della coscienza quando questa riconosce che l’arte eterna dei vincitori si regge su un misero chiodo, che può cedere in qualsiasi momento. L’appello è rivolto al presente, a far prevalere la verità sulla notorietà, la libertà davanti al ritorno di nuove inquisizioni, di nuovi roghi delle idee non conformi. Non si parla qui di “cancel culture”, nell’invenzione di Petyx è il soggetto che si ribella all’opera stessa. Ma, certo, ci interroga su quanto il male consacrato ad arte sia l’eredità, la memoria più deteriore che la Storia ci può trasmettere.

RF: Devo dire di essere ancora un po’ suggestionato dal ragionamento precedente, e mi viene da riflettere su quanto la pratica critica aiuti a mettere a posto alcuni tasselli della visione, che magari vagano in uno spazio, passibili di essere usati per puzzle diversi, ma finché non c’è un ragionamento unificante restano nel mondo delle idee.
Nel caso di Ognissanti il ragionamento unificante secondo me riguarda proprio quello che ognuno di noi è realmente e la costrizione, il fingimento sociale. Al confronto, la maschera teatrale è una bazzecola rispetto a quella che indossiamo fuori dal teatro, e nulla più della maschera neutra, del santo anonimo, può portare a un ragionamento su questo.

MB: Ognissanti è quasi l’apologo filosofico di un duo di improbabili santi che ammazza il tempo della solitudine parlando nel chiuso di un museo, isolato dalle luci di Max Mugnai e amplificato dalle musiche originali di Gianluca Misiti. I nostri sono su questo palco, infatti, non per fare dei personaggi ma per vivere le parole che li attraversano. Un progredire di immagini e astrazioni a tratti anche impervio, che culmina nel rogo di un giullare, lo stesso Vetrano, da parte del santo inflessibile, granitico, di Randisi. Nella morte, che dovrebbe lasciarci soli, si ritrovano però in due. Figure, modelli che nel quadro rappresentano altri due, che non sanno chi siano. Una volta svelate, le cose non tornano a posto. Importa chi siamo, oltre a dove siamo. Non è così anche il teatro?

Foto di Luca Del Pia

RF: Vedi che arrivi anche tu allo stesso ragionamento… il tuo schema di pensieri era più, se mi passi il termine, logico-filosofico. Il mio, invece, discendeva come una sorta di precipitato derivante dalla storia e geografia stessa degli interpreti, oltre che della drammaturga. Ho sempre provato a teorizzare questo tema dell’ossessione, del punto nodale attorno al quale si snoda l’intera vicenda artistica di un attore, di un regista, di un drammaturgo. È come se si cambiasse sempre, per dire sempre la stessa cosa.
La drammaturgia ha una prima parte ironico-assurda, una sorta di largo sinfonico-filosofico centrale, per chiudere con un’uscita più esistenziale, affidata a un paio di monologhi di un potente Enzo Vetrano, chiamato, sono d’accordo con te, al risveglio delle coscienze e delle identità in ascolto.
Come nel film Stalker di Tarkovskij, l’arte serve a garantire l’accesso a un’altra dimensione con la quale, attraverso il filtro delle proprie ossessioni, si cerca di arrivare alla verità su quello che siamo.

Foto di Luca Del Pia

MB: La verità porta o no alla felicità? È notevole che l’ultima parola su cui si scontrano sia ‘peccato’. Non come colpa legata alla sfera del sacro, ma come espressione di disappunto, rammarico umano, molto umano. Peccato per le cose che potevano essere, e non sono state. Peccato aver sprecato la vita contro il muro di scelte che non sono le nostre. In attesa che qualcuno si accorga anche di noi, noi che abbiamo appeso al chiodo il desiderio di cambiare, per paura di sbagliare. Di diventare nessuno.

RF: Anche nel film di Tarkovskij qualcuno finiva per scoprire la Verità, amara. Qui il finale è bello, perché gioca proprio su quella parola di cui è intrisa la morale cristiana nella sua declinazione cattolica, l’opprimente senso del peccato, quello che appunto portava il santo in posizione genuflessa, prostrata. Che qui diventa ‘peccato!’ inteso come esclamazione.
Peccato! Peccato passare la vita ad andar dietro a cose altrui, influenzati dal giudizio esterno, senza dedicare attenzione a realizzare il sogno del nostro demone interiore. Peccato, appunto, vivere la vita recitando come a teatro, fingendosi qualcos’altro da quello che si è. Che quasi verrebbe da dire: Signore, non liberarci dai peccati, ma dai ‘peccato!’.

 

OGNISSANTI
di Sabrina Petyx

interpretazione e regia
Enzo Vetrano e Stefano Randisi
scene e costumi Mela Dell’Erba
luci Max Mugnai
musiche originali Gianluca Misiti
direttore di scena Loris Giancola
produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con LE TRE CORDE società cooperativa
un ringraziamento a Raffaella D’Avella

Prima Assoluta

Teatro Fabbricone, Prato | 26, 27 febbraio 2025

DonneTeatroDiritti, al Pacta La Mussolina Ida Dalser: così hanno deciso la sua follia

MARIA FRANCESCA SACCO / PAC LAB* | Parlare troppo, sapere troppo, disturbare la visibilità di un uomo e/o la sua ascesa sociale, essere in disaccordo con le aspettative del mondo, mostrare una certa autonomia: tutto ciò era sufficiente, in passato, per tacciare una donna di follia, rinchiudendola, senza troppi indugi, in manicomi e strutture simili. C’erano ad esempio le isteriche e le loro crisi emotive, c’erano coloro che avevano figli fuori dal matrimonio e dunque rappresentavano un pessimo esempio per la società, c’erano quelle che, avendo idee proprie e diverse dalla massa, potevano essere pericolose per l’ordine sociale. Se prima erano bruciate e chiamate streghe, più tardi sono state rinchiuse e considerate pazze.
Si possono fare tanti esempi: Sylvia Plath o Virginia Woolf e i loro soggiorni in manicomi, e persino un personaggio letterario che simboleggia la marginalità inferta alle donne, Bertha Mason, che appare in Jane Eyre di Charlotte Brontë: questa, benché frutto della fantasia della scrittrice, subisce un trattamento che riflette le esperienze reali di molte donne internate in manicomio senza motivo. Bertha è descritta come una donna «pazza», rinchiusa nella soffitta di casa perché rappresenta una minaccia per l’ordine sociale e familiare. La storia di Bertha Mason è stata letta come una critica alle convenzioni sociali che imponevano alle donne di essere perfette madri e mogli e di come la psichiatria e le istituzioni fossero utilizzate per confinare chi non rispondeva a questi ideali.

Su questa scia, tra le tante donne dimenticate dalla storia, zittite con l’accusa di essere matte e sbattute in manicomi, spicca anche la prima moglie di Benito Mussolini, Ida Dalser, dalla quale avrà anche un figlio che deciderà di non riconoscere.
Ed è questo emblematico personaggio che affronta lo spettacolo Dalser. La Mussolina, presentato, in prima milanese, al PACTA Salone di Milano dal 7 al 12 marzo. Un progetto che nasce dalla collaborazione tra la drammaturga Angela Dematté e la regista/attrice Michela Embrìaco, in coproduzione con MultiversoTeatro e PACTA e che inaugura la rassegna DonneTeatroDiritti. Qui dal 7 marzo al 7 maggio, si darà voce a storie di emancipazione e lotta per la libertà, in un momento storico in cui la libertà stessa è messa in discussione. Un percorso culturale che riflette sulla violenza, sulle disuguaglianze e sul diritto delle donne a non essere più trattate come vittime ma come soggetti liberi e sovrani del proprio destino.

Lo spettacolo Dalser. La Mussolina è un invito a immergersi nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1935, quando Ida Dalser, fuggita dal manicomio in cui il regime fascista l’aveva rinchiusa, affronta il bosco nella speranza di trovare rifugio e salvezza dalla figura che l’ha tradita, Benito Mussolini. In un flusso di coscienza senza tregua, la sua mente torna a rivivere una realtà distorta, in cui spera ancora che il suo amore, il Duce, possa aiutarla e salvarla. Un monologo di grande intensità, che fa da specchio a una donna emarginata dalla storia ma costantemente ingabbiata nelle imposizioni di un regime totalitario che esalta gli stereotipi di genere. Infatti, Ida Dalser era una donna che, dopo essersi diplomata a Parigi come estetista, aveva intrapreso a Milano una vita indipendente e si era affermata aprendo un salone di bellezza di stampo francese. Un’imprenditrice che, d’un tratto, si è gettata senza riserve nel vortice del fascismo per amore di Mussolini.
Come mai, si chiede Angela Dematté, una donna così forte e determinata ha scelto di sacrificarsi per un uomo che, alla fine, la distruggerà? La risposta non è semplice e questo spettacolo vuole indagare le ragioni profonde che spingono molte donne a cercare nel potere maschile una via di salvezza, anche a costo di dignità e libertà.


Nel cuore della drammaturgia emerge una riflessione sul rapporto tra fascismo e donne: Mussolini, simbolo del potere, ha imprigionato le donne dentro un sistema fatto di leggi repressive, confini sociali e aspettative imposte. Una riflessione che oggi, purtroppo, non sembra aver perso la sua forza, come sottolineato dalla saggista Mirella Serri nel suo libro Mussolini ha fatto tanto per le donne!, in cui porta alla luce le contraddizioni e le ambiguità delle politiche fasciste verso le donne, rivelando che dietro la propaganda pro-femminile si celavano reali limiti alla libertà delle donne, alla loro partecipazione politica e sociale e alla loro autonomia. La visione patriarcale del fascismo relegava le donne ai ruoli di madre e moglie, rinforzando la divisione dei ruoli di genere in modo autoritario.
E così, Michela Embrìaco che nella sua carriera si è dedicata spesso al tema della donna nella società moderna (ricordiamo il suo lavoro Pandora, non aprire quel vaso! del 2021) con la sua direzione e interpretazione vuole dare corpo a una figura storica che la cultura ufficiale ha emarginato, facendo risuonare la sua solitudine e la sua disperazione. Attraverso questo lavoro teatrale, nonostante il legame con un periodo storico preciso, il tema diventa universale, parlando della lotta delle donne contro un sistema che ancora, a distanza di decenni, continua a condizionare la nostra realtà. Non è solo un tributo alla memoria di Ida Dalser ma un monito a non dimenticare le radici del maschilismo, in un’epoca in cui la memoria storica diventa fondamentale per garantire i diritti umani, la dignità e la libertà delle generazioni future.



DALSER. LA MUSSOLINA

drammaturgia Angela Demattè
regia Michela Embrìaco
con Michela Embrìaco
musiche originali Adele Pardi
ottimizzazione suono Stefano Artini
scenografie e costumi Giusi Campisi
visual art Pierluigi Cattani Faggion
partitura luci Mariano de Tassis
realizzazione costume Lea Lausch
coproduzione MultiversoTeatro e PACTA . dei Teatri
in collaborazione con il Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento
in partnership culturale con la Fondazione Museo Storico del Trentino

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

COSI. DUCI. Anatomia di una famiglia tra passato e futuro. Intervista ad Andrea Lapi – Compagnia Lucipicuraru

RITA CIRRINCIONE | Tra gli appuntamenti di Scena Nostra Winter Edition 2025 – la rassegna trimestrale sulla creazione teatrale contemporanea diretta da Giuseppe Provinzano in corso allo Spazio Franco dei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo – nel focus dedicato alle realtà siciliane, il 6 e 7 febbraio è andato in scena COSI. DUCI. della Compagnia catanese Lucipicuraru con la regia di Andrea Lapi e la drammaturgia dello stesso Lapi e di Flavia Monfrini.

COSI. DUCI. spettacolo finalista alla XVI edizione del Premio Dante Cappelletti racconta la storia di una famiglia che, in occasione della morte della madre, si riunisce per la veglia funebre. Il momento della commemorazione innesca una serie di inedite dinamiche familiari, facendo emergere vissuti dimenticati, sentimenti repressi, contraddizioni e non detti.

Flavia Monfrini, Vincenzo Ricca, Oriana Martucci, Maria Elena Iozza – ph. Dino Stornello

La scena iniziale – una scena fissa, spoglia, quasi buia – rappresenta un immaginario triangolo al centro del quale, su un catafalco costituito da un’asse di legno inclinata ricoperta da un lenzuolo bianco, è adagiato il corpo della madre; in piedi, agli angoli, sono disposti i tre figli.
C’è “U picciriddu” (Vincenzo Ricca), il figlio prediletto, con il suo sorrisetto di eterno bambino sempre stampato in faccia e con le sue frasi fatte, infantili e autorassicuranti. “Cosi duci del titolo riprende una di queste.
C’è “Figlia 1” (Flavia Monfrini), la quale, per prima, commemora la madre con un discorso funebre in cui enumera un lungo elenco di qualità che, piuttosto che definirla, la rendono ancora più misteriosa e indecifrabile.
C’è “Figlia 2” (Maria Elena Iozza), che prova più volte a leggere una poesia dedicata alla madre,  ma c’è sempre qualcuno o qualcosa che glielo impedisce.
C’è “U papà”, personaggio ombra, figura solo evocata, assente in scena e nella vita familiare, tenuto in disparte anche in questa estrema occasione: «Lassatilu stari u papà, è stancu!» è il mantra che ripetono spesso le donne di casa.
E poi c’è “Madre” (una perfetta Oriana Martucci, terribile e umana, vecchia e bambina, tenera e crudele). Per tutta la vita ha tenuto le redini delle vite di tutti, ha protetto i maschi di famiglia – di fatto castrandoli ed esautorandoli – e non ha perso occasione per criticare e svalutare le figlie. Persino “da morta”, non rinuncia a prendersi la scena, controllando le esequie e contando presenti e assenti.

Su queste coordinate scenografiche e drammaturgiche si sviluppa lo spettacolo nel corso del quale i personaggi, in una sorta di redde rationem, svelano parti inaspettate e sorprendenti. E così Madre, in quel supplemento di vita che si prende, sembra riconoscere in extremis di essere essa stessa vittima di uno schema patriarcale di cui ha incarnato l’altra faccia. Finalmente, può abbandonarsi alla spensieratezza e alla leggerezza nella scena potente del ballo quasi edipico con Figlio che, a sua volta, mostra un nuovo volto, vitale e poetico.

Andrea Lapi e Flavia Monfrini – ph. Dino Stornello

Presentato come uno spettacolo sulla famiglia tradizionale, con una specificità sul contesto culturale siciliano, COSI. DUCI., in realtà, prende un respiro più ampio e mette lo spettatore di fronte a una dimensione più universale della famiglia e della vita stessa con i suoi aspetti tragici, o meglio tragicomici. Anche i personaggi, che inizialmente sembrano rientrare in prevedibili stereotipi, grazie anche alla bravura degli attori, nello sviluppo drammaturgico si evolvono, svincolandosi da ogni cliché.
Per  approfondire alcuni aspetti di COSI. DUCI. e per saperne di più sulla Compagnia, mi metto in contatto con Andrea Lapi. Nasce così questa intervista.

Andrea Lapi, ci presenti brevemente la Compagnia Lucipicuraru?

Lucipicuraru (‘lucciola’ in dialetto siciliano) è nata nel 2016 a Catania presso il Teatro Machiavelli, all’interno del progetto SPAZIOstudio, come laboratorio di ricerca teatrale e di sperimentazione drammaturgica su tematiche legate alla contemporaneità. Nel 2018 ha debuttato al Teatro Machiavelli con lo spettacolo CUNFINI-Sicilia e Grande Guerra (con la mia regia e la drammaturgia di Flavia Monfrini), all’interno di un progetto del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania. Nel 2019, sempre al Teatro Machiavelli, abbiamo portato in scena HABITUS (ancora con la mia regia), un progetto antropologico sulle convenzioni sociali. Nel giugno 2022 abbiamo costituito l’Associazione Culturale EROSIONI (presieduta da Paola Gusmano), che svolge attività in ambito teatrale e pedagogico. Nel 2022 è finalista alla XVI edizione del Premio Dante Cappelletti con COSI. DUCI. Nel 2023 partecipa alla quarta edizione di Fai il tuo teatro!, nell’ambito del festival Urbino Teatro Urbano.

Qual è la genesi di COSI. DUCI. e il processo che l’ha portato nella forma in cui l’abbiamo visto?

COSI. DUCI. ha avuto una gestazione lunga: come tutti i progetti ha avuto bisogno organico di digestione per maturare e mutare. L’idea è nata poco prima della pandemia, all’interno di un laboratorio di scrittura. Dal racconto delle esperienze personali emergeva che ogni trauma, vittoria o delusione, aveva una profonda radice nel tessuto familiare: su questo si era pensato di sviluppare uno spettacolo. Poi, la pandemia ha dilatato tutto.
Durante il lockdown abbiamo continuato a tenere vivo il progetto, raccogliendo materiale, racconti, testimonianze e visioni. Quando la situazione è migliorata, io e Flavia abbiamo cominciato a imbastire un primo frammento di drammaturgia che nel 2022 è stato selezionato per le semifinali della XVI edizione del premio Dante Cappelletti. Siamo andati in finale a Roma insieme ad altre sei compagnie. Il nostro era l’unico testo in vernacolo. Questa esperienza ci ha dato la spinta a completare la drammaturgia.
Nel 2024 COSI. DUCI. ha debuttato nella sua forma completa a Viagrande Studios con una coproduzione Erosioni, Sciara Progetti Teatro e Viagrande Studios. Ed eccoci qua!

La veglia funebre in un contesto familiare è un tòpos che, per il suo forte carico emozionale e per le dinamiche che può innescare, è stato spesso usato come motore drammaturgico. Come è nata l’idea di utilizzarlo in COSI.DUCI.?

Volevamo affrontare il tema della famiglia e, in particolare, alcuni temi a essa connessi, come le difficoltà dei figli di affrancarsi e trovare un posto nel mondo, le derive di un amore eccessivo, di un sentimento che finisce per contraddire sé stesso, fino a diventare controllo e arma di ricatto. Il momento del funerale ci è sembrato il non-luogo ideale per affrontare il crocevia di emozioni tra le figure coinvolte. Paradossalmente, la morte chiude una porta, ma riesce a sbloccare una parte di comunicazione lungamente sommersa.

Nel momento di ritualizzare la morte di Madre, il viluppo emozionale suscitato dall’evento, crea una sorta di cortocircuito che fa inceppare la cerimonia della veglia. «Chiffà u facemu stu funerali?» ripete più volte Figlia 2. Qual è il senso drammaturgico di questo ristagno?

COSI. DUCI. mantiene una circolarità tipica del teatro dell’assurdo. Le figure sono intrappolate in una situazione di stallo, senza uno sviluppo narrativo lineare. La scena, simbolica e reiterata, è apparentemente statica: per 55 minuti sosta attorno a un’immagine alla quale non si può sfuggire. L’assurdo e il non senso ci consentono di intrappolare l’atto e di farlo durare.

Nei personaggi c’è una sorta di tensione dinamica tra il rivelare e il nascondere: Figlia 1, che per prima prova a raccontare la madre, dice tanto di lei, forse troppo, finendo per non dire nulla; Figlia 2 legge una poesia a lei dedicata che nessuno ascolta; Figlio le scrive delle parole che alla fine non leggerà. Che relazione c’è tra il detto e il non detto in COSI. DUCI.?

Credo che la drammaturgia non debba spiegare, svelare, altrimenti non svolge la sua funzione di porta verso altri luoghi. Uno spettacolo teatrale deve sempre avere qualcosa di indefinito, di non detto. In COSI.DUCI. l’incomunicabilità, soprattutto emotiva e sentimentale, in un contesto familiare in cui i contorni dell’amore sono spesso confusi, appiccicosi, scivolosi, è uno dei temi principali. La comunicazione verbale non basta a descrivere l’universo di emozioni e contraddizioni che la abitano. L’essere umano cerca di essere visto, di essere compreso, ma non è facile essere visti o compresi dai propri cari.  In famiglia non è facile salvare sé stessi, senza affogare gli altri.

Maria Elena Iozza, Vincenzo Ricca, Oriana Martucci, Flavia Monfrini – ph. Dino Stornello

In COSI.DUCI. tutti i personaggi sono mutilati e tutti su quella menomazione trovano una strategia di sopravvivenza. Anche Madre, che sembra controllare e castrare la vita degli altri, ha vissuto la perdita di qualcosa. È questo qualcosa che prova a riprendersi in quel “supplemento di vita” che interrompe le esequie?

Madre, in questa dilatazione, trova il coraggio di esprimere il proprio attaccamento a tutto ciò che è stato. Trova il modo per durare. Ancora. In un’azione scenica che si reitera attorno all’atto del funerale, tutti i protagonisti tentano di consumare questo capitolo doloroso. Il tempo si dilata attorno a questo trapasso grazie al linguaggio teatrale.

Eppure durante lo spettacolo si ride molto! Ho pensato a quel proverbio siciliano «‘Un c’è mortu senza risati e ‘un c’è zita senza chianciuti». Immagino che la scelta del registro tragicomico sia stata naturale. È così?

Il tragicomico è la frequenza della vita. Viviamo barcamenandoci tra questi estremi. È molto importante per calcare i contrasti che convivono dentro ognuno di noi. Anche all’interno della medesima azione. Nello spettacolo sono presenti numerosi momenti esilaranti che ci permettono di ridere, respirare e alzare la soglia dell’empatia. Poi, in un attimo arriva la compassione. La tenerezza. La poesia. La comicità, però, è spesso cattiva. Le scene in cui si ride in COSI. DUCI. partono da racconti reali, avvenimenti con sfumature grottesche, ma estremamente dolorosi.

Per questo allestimento hai messo insieme una compagnia a metà strada tra Catania e Palermo, una scelta abbastanza insolita per due città antropologicamente diverse che tengono molto alla loro specificità. Come ci sei arrivato?

Avere nel cast due attrici palermitane non è stata una scelta pianificata. Abbiamo riflettuto molto soprattutto sul fatto di accostare i due dialetti, visto che COSI. DUCI. è stato concepito in catanese, il dialetto degli autori. Abbiamo concluso che questa soluzione, anzi, avrebbe arricchito il carattere assurdo e grottesco dello spettacolo.

L’uso esclusivo del dialetto siciliano per un verso sembra intrinseco alla drammaturgia di COSI. DUCI., ma porta con sé il rischio di una connotazione troppo ristretta o localistica. È stata una scelta fatta senza tentennamenti?

La scelta strutturale del dialetto è stata da subito voluta. Le figure presenti in scena dovevano avvicinarsi il più possibile a maschere archetipiche. Il siciliano porta con sé una forte carica poetica e dà accesso a una comunicazione più potente, dinamica e ricca di immagini, che permette di superare la questione della comprensibilità in altri contesti linguistici, grazie anche al carattere universale dei temi trattati. Il fatto che lo spettacolo, l’unico con un testo in vernacolo, sia arrivato finalista in un concorso nazionale, ha confermato la validità della scelta.

Quali sono i progetti per il futuro della Compagnia Lucipicuraru?

Lavoreremo ancora per dare un futuro a COSI. DUCI. Dopo questa messinscena ci auguriamo che possa darci altre soddisfazioni. Inoltre, io e Flavia stiamo scrivendo altri due lavori: un progetto su una poetessa lucana del rinascimento e una riscrittura in dialetto siciliano che trae spunto da una nota drammaturgia americana.

COSI. DUCI.
Compagnia Lucipicuraru, Catania
drammaturgia Andrea Lapi, Flavia Monfrini
regia Andrea Lapi
con Maria Elena Iozza, Oriana Martucci, Flavia Monfrini, Vincenzo Ricca

Spazio Franco – Cantieri Culturali alla Zisa, Palermo | 7 febbraio 2025

Un po’ meno fantasma: Tommaso Bianco nel disagio piumato di Cheli/Sarteanesi

Un po' meno fantasma. Foto di Luca Del Pia

MATTEO BRIGHENTI e ELENA SCOLARI | ES: Teatro Elfo Puccini di Milano, Sala Bausch. All’ingresso le maschere ci fanno pescare da una scatola piena di piccolissime bustine bianche: ognuna contiene un bottone. Per non perdere il filo. Sì, perché il personaggio di Tommaso Bianco si schiude alla platea lentamente, ma poi ‘attacca un bottone’, intimo e raccolto, che finirà solo con lo spegnersi delle luci.

MB: Il poco, quel poco che Marcello ha per non soccombere all’oblio di sé, Bianco lo mette tutto negli occhi e nella fissità di ogni singolo muscolo. È una sorprendente sfida di resistenza, per lui e per il pubblico, presi insieme nel gorgo di un personaggio che vive nell’ombra ma insegue la piena luce. È appena il chiarore di un battito di cuore, che poi esplode nello scintillio che Rebecca Ihle consegna al costume più scenografico che abbia mai visto a teatro: un’armatura, una corazza di colori sgargianti, che lo protegge, lo rivela e pure lo ingabbia nel suo desiderio di essere Un po’ meno fantasma. Nient’altro. Perché il carattere ideato da Tommaso Cheli e scritto con Francesca Sarteanesi – che cura anche la regia – fantasma, comunque, lo è e lo rimarrà. Come il chiarore che lo illumina, come il silenzio che lo circonda. Nonostante voglia, fortissimamente voglia lavorare sulla sua trasparenza. Cioè, sulla sua esistenza, per essere finalmente visto, ascoltato e, infine, accettato.

Un po’ meno fantasma. Foto di Luca Del Pia

ES: Dopo i primi minuti si ha l’impressione che la testa di Bianco sia sospesa in mezzo al grande bozzolo piumato, come se spuntasse al centro di un pouf, un po’ come il sorriso dello Stregatto di Alice. E allora Marcello diventa solo la sua voce. Un fil di voce.
Anche perché quel costume è un simbolo che sopraffà qualunque altro elemento, non se ne può prescindere. Io mi sono lungamente chiesta il motivo di tanta opulenza sartorial-cromatica per un personaggio che dichiara di essere poco meno che invisibile e che vorrebbe essere preso più in nota. Hai voglia a non vederlo! Ma siccome il contrasto è una ragione banale, la risposta che mi sono data è quella metaforica: quel piumaggio sgargiante è una condizione dello spirito di Marcello, un’idea astratta. Uno come lui, se riuscisse a farsi notare, non circolerebbe certo così acconciato.

MB: Un fantasma è chi appare in un modo ma si sente in un altro. Il costume-mondo di Marcello racconta questo, e si fa eco dissonante di un’essenza che passa, come dici bene, innanzitutto dalla voce. Tommaso Bianco, alla sua prima prova attoriale in solitaria sul palcoscenico per un progetto di Kronoteatro, ma portato per mano dal disegno luci di Alex Nesti e dalla supervisione di Maurizio Sguotti, parla in sottrazione, quasi soffia le parole. Cerca una voce che elimini sfumature, inflessioni, movimenti di tono, come a inseguire il colore neutro, l’unico che praticamente non ha sul costume: il bianco. Si dice, ricorda a sé stesso che è vivo, nonostante tutto.
Marcello è un pensiero che prova a ripensarsi sempre, si guarda allo specchio dei suoi racconti e si fissa sulle cose: le persone non lo capiscono, non lo vogliono. Gli oggetti, invece, restano lì. E lui ha la capacità di entrarci dentro, di attraversarli, di sentirli. Proprio come un fantasma.
A ogni fiato sembra sempre più spaventato della vita, della sua stessa vita. Quasi preferisca non essere lui a viverla ma un altro, un altro con la presenza, la manifestazione abbagliante che ha trovato qui, su questo palco.

(da destra) Francesca Sarteanesi, Rebecca Ilhe, insieme nel progetto “Almeno nevicasse”

ES: Questo rimanere sempre di fianco a sé, un po’ discosto e un passo indietro rispetto alla propria vita, è coerentemente supportato da un testo evanescente, che corrisponde, per impalpabilità, alla sostanza esistenziale dell’uomo piumato. Teatralmente parlando, colpisce la prova di Bianco, che mostra la capacità di toccare tanti toni sul pentagramma del testo, senza mai muoversi dal centro della scena.
A determinare il respiro dello spettacolo è la curva discontinua degli attraversamenti umani che Marcello subisce: i personaggi che fanno parte del suo racconto entrano in scena come un treno che passa veloce e fai appena in tempo a vederlo. Improvvisamente sbatti gli occhi perché la voce si alza, riacquista pasta tangibile e arrivano un prof. veneto, l’amico dei treni, la principale del nuovo lavoro, un proprietario di merceria (che vende bottoni).
Che ognuno abbia un marcato accento regionale è forse un po’ troppo album di figurine, ma certo aiuta a distinguere le meteore umane esterne in modo ancora più deciso.

MB: Se la voce di Marcello è sottile, esile, un niente che si spegne subito, senza clamore, il mondo fuori è una babele di dialetti ed espressioni gergali che lo sovrasta. Il contrasto produce lo sconcertante effetto che, ti dico la verità, a me sembrava di rifiatare solo quando a parlare erano ‘gli altri’. Ovvero, l’espressione della normalità più bieca, stereotipata e grottesca. Con lui, che è la rappresentazione più pura della diversità, mi ritrovavo, invece, in un’apnea snervante, volevo smettesse il prima possibile. Per lunghi tratti Marcello è davvero scomparso alla mia vista, tirandosi dietro anche Bianco, diventato irriconoscibile da quanto tiene a essere Marcello. E lasciando al suo posto un senso di angoscia profonda. È il lascito più imprevisto e importante di Un po’ meno fantasma, che mi interroga a distanza di giorni: troppa sensibilità è una condanna, e porta a rifiutarla.

(da sinistra) Tommaso Bianco, Maurizio Sguotti, Alex Nesti. Foto di Nicolò Puppo

ES: L’elogio della mitezza e della timidezza torna ciclicamente come un topos, forse accade inconsciamente quando aumenta il livello di grossolanità globale per cui nel vociare continuo si nota il flauto e non la grancassa. A distanza di giorni, però, io ricordo i particolari della nonna che dava il cognac al nipotino bambino, l’orchestra di fratini in peltro, la teoria degli amori non corrisposti… Ma il quadro d’insieme sfuma.

MB: Allora, l’amore non è vero amore, il lavoro non dà soddisfazioni, e la famiglia è un insieme di conti che non tornano. Marcello è ‘il triste’, così l’hanno soprannominato. È più e meno di un personaggio, è una maschera che trattiene tutto dentro di sé, nella sua testa, e non lascia andare nulla. Un punto di colore nel vuoto più nero che c’è, opprimente come un urlo o una portiera sbattuta di una macchina che non ti porta da nessuna parte che riguardi te.

ES: E questo è un punto focale: dove porta Un po’ meno fantasma? Forse, da nessun parte. Lo stile ‘understate’ della scrittura di Cheli e Sarteanesi sembra sempre voler suggerire, senza arrivare mai a dire. Già parlando del loro monologo Sergio (di cui Sarteanesi era anche l’interprete) lei diceva: «Volevo inventare uno spettacolo dove non ci fosse nient’altro che il corpo dell’attore e in cui attraverso la scrittura e il modo di stare in scena si facessero vedere oggetti e altre persone». Porta quindi avanti questo obiettivo cucendo addosso a Bianco un ruolo che estremizza la sua idea di teatro nella immobilità fisica, a vantaggio della sola parola e di una melodia drammaturgica che si esplica in picchi solo quando sono i comprimari a entrare “di sfroso” nel flusso narrativo.
Non c’è una vera trama, il racconto è puntellato di figure, di ricordi, di incontri recenti, è una rete di rapporti da cui Marcello sfugge sempre, uscendo dalle maglie larghe.

MB: La trama, per me, è il palpitare di un’anima che le prova tutte ma alla fine capisce che è sconfitta. Dopo la storia delle sue ultime disgrazie, cala anche l’ultima maschera che gli rimane: il volto. Tommaso Bianco ci dice con un impercettibile “svuotamento” dello sguardo che Marcello ha capito. Deve tornare nel bozzolo da dove è venuto, l’uovo-cuore che batte come all’inizio. Non sono bastati nemmeno tutti quei colori. Per questo, fantasma ora non lo è un po’ di meno: lo è un po’ di più.

Foto di Luca Del Pia

UN PO’ MENO FANTASMA
terzo capitolo del progetto triennale La libertà dei ciottoli
un progetto di Kronoteatro + Francesca Sarteanesi

ideazione Tommaso Cheli
drammaturgia Tommaso Cheli / Francesca Sarteanesi
regia Francesca Sarteanesi
con Tommaso Bianco
disegno luci e responsabile tecnico Alex Nesti
scene e costumi Rebecca Ihle
supervisione progetto Maurizio Sguotti
produzione Kronoteatro
coproduzione Teatro Nazionale di Genova
con il sostegno di PimOff, Spazio ZUT!, L’arboreto/Teatro Dimora 

Elfo Puccini, Milano | 19, 23 febbraio 2025

Orbita l Spellbound e trent’anni di danza. L’intervista a Valentina Marini e Mauro Astolfi

Jacopo Godani_Forma Mentis_foto di Cristiano Castaldi

CRISTINA SQUARTECCHIA l Trenta candeline per la Spellbound Contemporary Ballet – fondata da Mauro Astolfi e Valentina Marini – che in questi giorni festeggia a Roma al Teatro Vascello un traguardo importante per la danza in Italia e, in particolare, nella Capitale. Un lavoro operoso e ostinato sul territorio condotto con una sensibilità incondizionata verso gli artisti e uno sguardo sempre aperto verso nuovi orizzonti, rispondendo con dinamicità alle sfide del presente. Una necessità e un volerci essere per una realtà divenuta dal 2022 Centro Nazionale di Produzione della Danza come Orbita | Spellbound.
Recollection of a falling è il titolo dell’appuntamento ideato dai due fondatori che celebra, fino al 2 marzo, questo Trentennale con due creazioni che guardano al futuro e alla Storia, ai giovani e alla condizione femminile: Forma Mentis di Jacopo Godani – ex solista del Ballet Frankfurt di William Forsythe e poi, dal 2015 al 2023, coreografo della Dresden Frankfurt Dance Company – e Daughters and Angels dello stesso Astolfi.

Il 1994, anno di nascita della Spellbound Contemporary Ballet, e il presente, con le sue incognite e contraddizioni, in mezzo la danza e le sue trasformazioni che hanno indicato, anno dopo anno, i passi da creare e seguire. Ne abbiamo parlato con Valentina Marini e Mauro Astolfi.

In questi anni di lavoro  la vostra progettualità ha portato la danza in luoghi e spazi un po’ dimenticati. Il vostro è stato un lavoro di riqualificazione anche urbana delle periferie, penso al Teatro Biblioteca Quarticciolo, per esempio, facendo rete e intrecciando collaborazioni con altri partner dentro e fuori la città, nel segno della promozione, formazione e produzione della danza. È stato il contesto a indicare le vostre scelte o esisteva a monte un’idea di base?

Valentina Marini: Di sicuro il contesto è stato un’inevitabile guida, la cornice entro cui direzionare energie, sforzi e ripensare i progetti. In una Capitale spesso disattenta alle attività intorno dalla danza contemporanea, al di fuori dei grandi contesti festivalieri, è curioso come dal basso, da spazi e quartieri meno centrali alle geografie e ai discorsi artistici, si siano generate delle forze che oggi hanno messo insieme la costellazione di progetti della casa produttiva di Orbita | Spellbound.
I partner dentro e fuori la città sono stati il secondo motore, forti della rete solida di professionalità incontrate in 30 anni di tour e progettazione anche internazionale. Hanno cementato il desiderio di unire a una solida esportazione di produzioni di danza un’altrettanto continuativa attenzione sulla città e sulla programmazione non solo dei nostri lavori, ma di quella immensa comunità della scena contemporanea.
L’occasione di trovare spazi ha acceso la miccia delle possibilità e da lì è stato naturale trasformare il bisogno di rafforzare la presenza di danza in città con la rete di spazi che si stava costruendo in parallelo e attorno a questo obiettivo.

Come stai vivendo questo momento e quale è il futuro nella Capitalia del vostro Centro Nazionale di Produzione della Danza?

V.M.: Il percorso di crescita è ancora in corso, ma di sicuro in questi primi anni di attività come Centro la risposta è stata non solo positiva, ma armonica. L’aver conquistato la fiducia del pubblico, ma anche della comunità di professionisti e critica della città, ci ha convinto che avevamo realmente intercettato un bisogno di spazio di discussione, di programmazione, di attenzione.
La struttura sta approfondendo in parallelo e con grande slancio le attività di Spellbound al trentesimo taglio di torta, con nuovi tour internazionali all’orizzonte e le nuove progettualità affidate agli artisti associati come Irene Russolillo e Piergiorgio Milano e la solidificazione dei programmi di stagione e festival in città.
Il futuro è nella scommessa di riuscire a costruire uno spazio nella Capitale, che sia davvero dedicato soltanto alle attività di danza, e poter quindi dialogare con le altri Capitali europee con la stessa autorevolezza e possibilità di networking, partendo dai luoghi identitari e non solo, dai necessari contenuti.

SpellBound Contemporary Ballet_Daughters and angels_Ph di Cristiano Castaldi

In questi anni di creazione con la Spellbound Contemporary Ballet hai affinato uno stile molto personale nel quale si fondono il linguaggio del codice classico con le tecniche contemporanee ispirandoti a temi diversi: dalle più piccole sensazioni umane come If you were a man a omaggi ai grandi compositori Rossini ouvertures e Vivaldiana, fino al prossimo Daughters and Angels sul maschile e femminile. C’è un filo conduttore in questi lavori e come trasmetti e sviluppi poi questa scintilla creativa ai danzatori?

Mauro Astolfi: È un desiderio costante e profondamente radicato: interpretare con sensibilità il trascorrere del tempo e tutto ciò che ne consegue. Il mio interesse per la potenza e l’efficacia espressiva del corpo resta il mio principale riferimento, un modello attraverso cui decifrare e rielaborare i codici della contemporaneità.

La Orbita l Spellbound è la tua casa artistica nella quale hai avuto la fortuna e le condizioni per crescere e affermati come artista internazionale. Cosa consigli ai giovani coreografi?

M.A.: Credo che i giovani coreografi debbano imparare costantemente a osservarsi dall’esterno. Il processo di “non identificazione” con il proprio lavoro è, a mio avviso, un elemento chiave per attivare più di un motore creativo. Non si tratta semplicemente di tecnica o stile: la coreografia richiede, in un certo senso, la capacità di rinunciare alla propria immagine di sé, di rimettere tutto in discussione, di ridefinire continuamente la propria visione e le proprie esperienze da una prospettiva sempre nuova. Non credo che esista un artista che possa semplicemente decidere di diventarlo. In un’epoca come la nostra, imparare a creare un “vuoto” volontario può rappresentare una chiave fondamentale per lasciarsi attraversare in modo autentico da stimoli, influenze e percezioni. Solo così questi elementi possono realmente contribuire alla formazione di un linguaggio coreografico significativo e innovativo.