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domenica, Luglio 13, 2025
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Senza sesso: l’esordio alla regia di Caterina Guzzanti in Secondo Lei

ROBERTA FUSCO | PAC LAB* | È possibile avere una vita di coppia senza fare l’amore? Avere una relazione in cui da una parte c’è una persona che brama contatto e passione, mentre dall’altra ci si accontenta di poco per amare?
A parlarne è Caterina Guzzanti in Secondo Lei, il suo primo spettacolo da regista, e di cui è anche protagonista accanto a Federico Vigorito. Con la collaborazione artistica di Paola Rota, Guzzanti si è messa alla prova con la sua prima firma nel mondo registico teatrale attraverso un testo nato durante Scritture, la Scuola di Drammaturgia diretta da Lucia Calamaro, la quale ha accompagnato la stesura del testo portato in scena nel 2024. Lo spettacolo è stato proposto alcuni giorni fa tra gli appuntamenti del Campania Teatro Festival, il 19 Giugno al Teatro Mercadante di Napoli. 

Caterina Guzzanti, seguendo le orme dei fratelli Sabina e Corrado, ha alle spalle una carriera costruita sulla satira televisiva, con personaggi iconici come l’ex Spice Girls Geri Halliwell o la bimba posseduta nel programma Rai 2 “Bulldozer”, la Contessina Orsetta Orsini Curva Della Cisa. Amata dal pubblico nel personaggio di Arianna nella sitcom dissacrante Boris affianco a Francesco Pannofino, con Secondo Lei Guzzanti esplora un mondo finora vissuto solo come attrice, tuffandosi nelle sfumature dell’esperienza registica e proponendo la sua scrittura all’arte teatrale.

Secondo Lei è una storia d’amore che, nonostante il tono comico dato al recitato, non appare come una commedia. La scena si apre con Caterina Guzzanti seduta a terra, assorta nei ricordi di un tempo in cui, spensierata, usciva ogni sera. Lei era il collante del gruppo: quella che entrava in un locale per chiedere di unire più tavoli per un numero indefinito di persone. In una di queste serate appare lui per aiutarla. Un incontro imbarazzante che, per quanto ridicolo, sembra il titolo di una brutta canzone: “Ci siamo incontrati spostando sedie e unendo tavoli”. Parte la musica e Guzzanti sale su un palco rialzato, con un fondale illuminato da luci pop, per cantare e ballare quella brutta canzone dal sound techno-pop. 

Nasce una storia d’amore intensa, ma presto emerge il problema: sotto le lenzuola non accade nulla. E quel nulla continua, notte dopo notte. Lui russa, lei insonne; e puntualmente cade in una botola da cui riemerge attraverso una porticina nascosta sotto il palco, domandandosi perché non riesca a essere inclusa nel “respiro della notte”. Di qui prende corpo il fulcro centrale della pièce. L’insonnia riflette la disperata ossessione che l’attanaglia.La scenografia è di una semplicità assoluta: un blocco rialzato su cui il duo artistico si distende, balla, cammina o tira dal sottopalco un wc con il galleggiante da aggiustare. Fanno da cornice la gamma dei colori che si proiettano sul fondale del palco: colori pop con una predominanza di rosso intenso, per simboleggiare amore. I colori proiettati seguono le emozioni che si alternano nella vita di coppia, passando dal blu, al verde, al giallo e il rosso. A battere il tempo, i momenti emotivi vengono scanditi dal rumore di una serie di scatti, come il suono delle vecchie macchine fotografiche, per portare il pubblico in una dimensione senza tempo: senza musica, solo un suono forte che immortala i movimenti placidi di una relazione che si sgretola. Un colpo d’occhio e si entra nella casa della giovane coppia con lo spettatore che viene riportato alla quotidianità con gli abiti indossati. Un jeans e una camicia per lui, una vestaglia per lei, suggeriscono una sfera intima fatta di una semplicità senza pretese.

Anche se la donna appare come la cantastorie, narrando in scena gli eventi dal suo punto di vista – e nonostante il titolo lo suggerisca – la storia non è esclusivamente al femminile. Il disagio, inizialmente taciuto, diventa sempre più opprimente, nonostante le rassicurazioni di lui. La frustrazione si riflette anche nel corpo della donna, percepito man mano come inadeguato: come se si spogliasse di sé stessa, lei si libera di un coordinato rosso fuoco, indossa una vestaglia e si lega i capelli in uno chignon malandato. Lui, invece, evita il confronto: non vuole ammettere l’assenza di desiderio, rifiuta la terapia e preferirebbe pagare pur di non parlarne, sperando che il tempo renda superflua ogni dimostrazione d’amore.

Il concetto di impotenza non viene mai pronunciato dalla coppia: un problema troppo intimo, una questione top secret per cercare spiegazioni esterne, o meglio ancora, soluzioni concrete. Si procede così inesorabilmente verso un collasso dei sentimenti di “una relazione che sembra che stia per iniziare ma in realtà sta per finire”: smettono di baciarsi e abbracciarsi diventa una tortura. L’amore dapprima ingenuo e spontaneo, si trasforma in un ospite indesiderato che piomba  inaspettatamente a casa, sotto forma di crisi intima e comunicativa. Siamo dentro un racconto romantico che ricorda una moderna versione a metà strada tra American Beauty, per il disincanto coniugale, e la tensione inespressa per il non detto tra Tom Cruise e Nicole Kidman nell’Eyes Wide Shut di Kubrick. Ma senza bondage e cappucci.

Il risultato è una drammaturgia della sottrazione. Un’operazione testuale che elimina ogni elemento superfluo per concentrarsi su un unico e devastante conflitto. Guzzanti costruisce un meccanismo teatrale essenziale composto da due personaggi, un problema e zero sottotrame. La scrittura procede per sottrazione progressiva – come i vestiti che lei si toglie, come le parole che loro non si dicono – fino a raggiungere il nucleo puro della crisi. Nessun elemento aggiuntivo, come personaggi secondari, narrazioni devianti o flashback elaborati: tutto converge verso il centro del non detto, trasformando il vuoto in presenza scenica.

Gli spettatori seguono l’evolvere dei sentimenti che come i colori mutano seguendo l’arco emotivo: il rosso dell’amore si spegne nel blu della malinconia, il giallo dell’illusione sfuma nel verde dell’inquietudine. E così anche i suoni. Gli scatti fotografici non sono semplice colonna sonora ma punteggiatura drammaturgica: fermano il tempo nei momenti cruciali, trasformando la vita in una sequenza di istantanee che si accumulano senza risolversi. L’armonia nasce dal contrasto controllato tra elementi minimali e massima espressività.

Quella di Caterina Guzzanti è senza ombra di dubbio una penna caratterizzata da un taglio ironico, pronto ad affiancare un velo di tristezza che avvolge i personaggi. Ciò che sorprende è l’evolvere della vicenda in un finale intriso di una grande insoddisfazione. Forse è proprio l’intento della regista, affidare al pubblico l’interrogativo sul futuro della coppia per innescare nello spettatore un senso di impotenza, come in una questione dove non si può dire la propria. La materia è semplice: parlare di un problema come l’assenza di desiderio fisico nel partner senza alcuna volgarità, piuttosto con ironia e mettendo luce sulle dinamiche malsane – come dipendenza, ostinazione, isolamento ed egoismo -, che si possono generare all’interno di una vita di coppia insoddisfatta. Guzzanti in veste di regista costruisce uno spettacolo su misura per sé in cui porre la sua ironia, le repliche incalzanti, le smorfie e quel tocco di serietà che trapela dalle battute, in un testo leggero e poco impegnativo ma di cui restare compiaciuti.

SECONDO LEI

con Caterina Guzzanti e Federico Vigorito
Scritto e diretto da Caterina Guzzanti
Testo realizzato nell’ambito di Scritture-Scuola di Drammaturgia diretta da Lucia Calamaro
Collaborazione artista Paola Rota
Luci Cristian Zucaro
Scene Eleonora De Leo
Effetti sonori Angelo Elle
Una produzione Pierfrancesco Pisani e Isabella Berettini per Infinito Teatro e Argot Produzioni
In co-produzione con Teatro Stabile di Bolzano
E in collaborazione con Riccione Teatro e con il contributo di Regione Toscana

Campania Teatro Festival 2025
Teatro Mercadante
Napoli
19 Giugno

*PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

SUQ Festival 2025: dove il mondo si incontra, si sbaglia e si innamora

RENZO FRANCABANDERA | C’è un posto a Genova dove per due settimane tutte le regole del gioco sociale saltano, le identità si mescolano e quello che sembrava un semplice festival si trasforma in un esperimento vivente di cosa potrebbe essere il futuro se solo ci lasciassimo davvero andare.
Era da molti anni che volevo venire a Genova per il SUQ Festival, che ha raggiunto la sua ventisettesima edizione, e il motivo è che questo festival non è più soltanto un evento culturale: è diventato una specie di utopia temporanea, un laboratorio dove musica, teatro, cibo e politica si fondono in un mix esplosivo che lascia addosso una strana sensazione di irragionevole speranza. L’edizione 2025 ha superato ogni aspettativa, trasformando il Porto Antico in una piazza globale dove le differenze non vengono celebrate retoricamente ma vissute, sperimentate, a volte persino sbagliate con tutta l’onestà di chi prova davvero a capirsi.

Quando arrivo al porto di Genova, di fianco all’acquario, c’è chi siede sotto una tenda da tuareg a bere il tè, un vero e proprio Suq con negozietti e botteghe; un odore di cibo e incenso che sembra Marracash e un crogiolo di gente per veramente incredibile.
E chi le vede tante persone ai festival di teatro!

Dobbiamo essere onesti: i festival di teatro sono sempre un po’ anemici quanto al rimescolamento del pubblico. Nonostante i grandi sforzi che si strombazzano sul famoso nuovo pubblico, il nuovo pubblico purtroppo a teatro ancora non c’è. E il motivo è che il teatro pretende di attrarre il nuovo pubblico rimanendo spesso arroccato dentro un fortino di certezze e di moduli espressivi e comunicativi stra-vecchi, noiosi, che non hanno nulla a che fare con la vera complessità e stratificazione del presente, quello che nelle grandi città sta oltre i viali delle circonvallazioni interne. La società che preme ai confini, quella che fa cadere i grandi imperi, sta sempre oltre le circonvallazioni!
Immaginate questo, invece: camminare tra bancarelle profumate di za’atar e pesto mentre un gruppo di ragazzi italiani e siriani improvvisa un rap in arabo e genovese davanti a un piccolo palco. Poco più in là, una lezione di calligrafia persiana si trasforma in un dibattito sull’arte come resistenza politica, mentre dall’altro lato del porto risuonano le note di uno strumento che non sapete identificare – forse un oud modificato con effetti elettronici, forse qualcosa di completamente nuovo. E per sfondo la cornice del porto di Genova e l’isola galleggiante delle chiatte a ospitare gli spettacoli.
Cioè, scusate, ma di che stiamo parlando? Questa è la società in cui viviamo! Mica quell’altra… E, infatti, si vede: qui alle 23,30 quando SUQ chiude, la gente deve essere addirittura invitata ad andare via.
Il pubblico, composto da genovesi doc e turisti, studenti e rifugiati, fa poetry slam in almeno cinque lingue diverse. E poi c’è il cibo, ovviamente: chef indiani, siriani, greci, africani cucinano piatti nati dall’incrocio delle loro storie personali con la città in cui vivono. Vedere una nonna genovese e un rifugiato litigare amichevolmente sulla quantità giusta di aglio in una ricetta che non apparteneva a nessuno dei due, per poi scoprire insieme un sapore nuovo, è stata forse la migliore metafora possibile di cosa questo festival rappresenta davvero.

Il famoso ponte transculturale nelle società “multi” mira a facilitare l’integrazione attraverso pratiche partecipative che decostruiscono stereotipi e creano spazi di negoziazione identitaria. Progetti come SUQ dimostrano come collaborazioni tra artisti emergenti, outsider e comunità migranti riescano a tradurre patrimoni etnografici in opere relazionali, trasformando le antiche geografie cittadine, talvolta anche degradate, in luoghi di incontro e risignificazione. Autori come Arjun Appadurai sottolineano il ruolo dell’immaginario artistico nel plasmare “comunità diasporiche” attraverso narrazioni condivise, mentre Bourdieu analizza come l’arte possa sfidare le gerarchie culturali riattivando capitali simbolici marginalizzati. A SUQ, come in tutte le frontiere di ricerca su questo campo di indagine si esplora l’arte come strumento di agency politica per soggetti subalterni (es. progetti che usano performance per rivendicare memoria collettiva) , l’ibridazione tra pratiche tradizionali e digitale (STEAM) , e il potenziale trasformativo di laboratori site-specific in contesti urbani. La criticità che si prova a tenere lontana è quella assai nota della partecipazione “strumentale”, dove l’arte, non di rado, è diventata retorica istituzionale senza che abbia contribuito a redistribuire potere, tema affrontato da teorici come Claire Bishop nei dibattiti sull’arte partecipativa.

Sotto questo aspetto, la missione principale dell’Impresa Sociale Suq Genova, ora raccontata anche in un libro dal titolo Le voci del Suq, edito da Altraeconomia, è promuovere il teatro e le arti performative come strumento per l’interazione sociale, il dialogo tra culture e lo sviluppo sostenibile, nell’ottica di una combinazione proficua tra finalità estetiche e sociali della ricerca artistica. Dalla sua fondazione, nel 1999, SUQ ha mirato a coinvolgere, intorno a temi di attualità, un pubblico diversificato per età, provenienza, classi sociali, captando il bisogno di rinnovamento del comparto teatrale, sia nella compagine artistica che nel coinvolgimento di nuove fasce di cittadinanza, continuando ad accogliere la sperimentazione indipendente, come è stato in questa edizione  con il debutto del nuovo lavoro di Daniele Timpano, Poemi Focomelici.

Lo spettacolo nasce portando in scena una selezione dei componimenti poetici raccolti anche in un libro omonimo edito da Cue press. La creazione di Timpano  rappresenta l’esito più recente della sua decennale ricerca sulla parola poetica come corpo mutilato e rigenerato. Attraverso un linguaggio che fonde performance, voce e gestualità ritual-pop, Timpano esplora la deformazione linguistica ereditata dalle avanguardie, in particolare dai futuristi, sui quali ha lavorato per anni, studiando il loro rapporto tra violenza verbale e frammentazione del senso.

ph Renzo Francabandera

Lo spettacolo, dal titolo che evoca sia la focomelia – malformazione fisica che Timpano cita da subito, quasi che affliggesse le sue composizioni nella struttura – sia la poesia come residuo mutilato, trasforma il verso in un organismo vivo e sofferente, dove la voce dell’attore, fra reading e finta regia di un impianto che malfunziona, si fa strumento di una lacerazione insieme fisica e semantica. L’influenza dei manifesti futuristi, soprattutto il loro culto della velocità e della distruzione, riemerge in certa misura anche qui, in una chiave contemporanea, privata dell’esaltazione bellicosa ma carica della stessa urgenza di scandagliare i limiti del dicibile, con un focus che che si poggia sulle ossessioni dell’artista: la morte, le figure genitoriali nel loro risvolto antieroico domestico, la sfera erotica accennata per metonimia e fatta oggetto di tragica irrisione. Timpano continua a muoversi, negli spettacoli da solista, in questa tradizione della poesia in scena, con immagini fra l’ironico e il raccapricciante, trasformando il gesto petrolin-avanguardista in una meditazione sulla vulnerabilità: la poesia non è certo più urlo ma ferita, talvolta anche autoinferta, cicatrice sonora che interroga lo spettatore sulla sua dimensione trasparente, fragile, che lo fa sentire piccolo topo imprigionato in quella gabbia toracica esposta che l’artista Cristiano Baricelli ha pensato per la copertina della silloge dei componimenti del performer; il topo diventa la vittima di una crudeltà di cui ci diremmo incapaci ma che invece alberga anche nel più indifeso poeta metropolitano, crudeltà alla quale Timpano dedica un racconto cruciale, crudo e bellissimo sul finire di questo spettacolo.

Oltre a Timpano e al poetry slam interculturale, abbiamo assistito, nella chiesa di San Pietro ai Banchi, anche a Piccolo canto di resurrezione, uno spettacolo/rito al femminile, di e con Francesca Cecala, Miriam Gotti, Barbara Menegardo, Swewa Schneider.

Il lavoro, visto il luogo, potrebbe ben definirsi una piccola messa cantata (molto laica) che parte dall’ispirazione della figura mitica della Loba, donna selvatica e custode delle ossa, per poi allargarsi e diventare un un canto a più voci che intreccia storie di morte e rinascita, memoria e trasformazione. Le quattro donne in scena, coadiuvate nell’arrangiamento dei canti (pregevoli) dalla stessa Gotti, si muovono tra poesia, preghiera e invettiva, e danno voce a un femminile che vuole risvegliarsi. Apice tragicomico dello spettacolo, l’episodio della donna, interpretata dalla Gotti stessa, che, con voce sopranile, racconta le sue numerose morti e resurrezioni alla fine di ogni relazione, mentre le altre tre le intonano attorno una marcia funebre da banda di paese (esecuzione a cappella geniale), andando in giro nello spazio antistante l’altare della chiesa.
Buone, nel complesso, la coralità e l’azione scenica, come pure pregevole il lavoro sulle musiche e la cifra da cabaret-espressionista del lavoro. Si può lavorare, dopo questo felice debutto nazionale, all’amalgama drammaturgica per rendere più nitido il filo conduttore delle parti testuali.

Partiamo mentre si prova freneticamente Nel nome una storia, lo spettacolo ispirato al libro Ti racconto com’ero di Emilia Marasco, e che nasce da un’idea di Carla Peirolero, figura cardine del SUQ Festival,  che ne è anche interprete insieme a Irene Lamponi, cui si deve la cura drammaturgica. Le due si muoveranno dentro l’allestimento scenico e impianto visivo studiato da Arianna Sortino, per raccontare anche qui una storia al femminile, attraverso l’intreccio di due vicende, una più vicina nel tempo, una più lontana. La prima è quella di una bambina che arriva dall’Etiopia e in Italia trova una madre, un padre, un fratello, una casa. L’altra storia è quella di Maria, una bambina abbandonata in un brefotrofio di Savona nel 1925, che viene adottata da una famiglia di contadini, ma che a scuola resterà sempre “la figlia di NN”.
In scena le storie rivivono nel racconto della madre di Saba e della figlia di Maria, al bordo fra spazi della memoria e narrazione, secondo l’impianto registico voluto da Marcela Serli, la regista e performer italo-argentina, da anni fra le figure più interessanti del teatro di indagine sui temi dell’identità nel contemporaneo. Lo spettacolo si configura come una nuova tappa della Compagnia del Suq sul tema della maternità, dopo Madri Clandestine e Da madre a madre.

Cosa rende il SUQ diverso da qualsiasi altro festival? Forse è il fatto che qui nessuno fa finta che il dialogo interculturale sia facile, cosa che mi appare sempre più chiara man mano che mi perdo e affondo in questo corpo sociale così diverso da quello di altri festival di arti performative in Italia.
Gli errori di traduzione ci possono essere, i malintesi anche, i momenti di imbarazzo sono all’ordine del giorno nelle vite di tutti – eppure è proprio in questi momenti che arriva il cortocircuito. Come superare la dimensione violenta della convivenza fra diversi, se non provando a capirsi e conoscersi? In un’epoca in cui i social media ci dividono in bolle sempre più isolate, in cui la politica gioca sulla paura del diverso, in cui le guerre ci ricordano ogni giorno quanto può essere fragile la convivenza, il SUQ ci dimostra che un altro mondo non solo è possibile, ma è già qui… almeno per due settimane all’anno. E forse, chissà, è proprio da esperienze come queste che potrà nascere un futuro diverso.

facce da SUQ – particolari dai disegni realizzati durante il festival da Renzo Francabandera

POEMI FOCOMELICI

versi, gesticolazioni e voce Daniele Timpano
collaborazione Elvira Frosini
musica originale di Marco Maurizi
disegno luci di Omar Scala
un progetto di Frosini/Timpano
produzione Gli Scarti Centro di Produzione Teatrale di Innovazione, Kataklisma teatro

PICCOLO CANTO DI RESURREZIONE

di e con Francesca Cecala, Miriam Gotti, Barbara Menegardo, Swewa Schneider
arrangiamento canti Miriam Gotti
disegno luci Simone Moretti
produzione Compagnia Piccolo Canto, I Teatri del Sacro, Associazione Musicali Si Cresce

NEL NOME UNA STORIA
di adozioni felici, segreti, speranze

ispirato al libro “Ti racconto com’ero” di Emilia Marasco
un’idea di Carla Peirolero
cura drammaturgica Irene Lamponi
con Irene Lamponi, Carla Peirolero
regia a cura di Marcela Serli
allestimento scenico e impianto visivo Arianna Sortino
produzione Suq Genova Festival e Teatro

SUQ Festival, Genova | 19 e 20 giugno 2025

Cry Why: Moritz Ostruschnjak a Interplay 25

Moritz Ostruschnjak, Cry Why, Interplay 25. Ph. Andrea Macchia

GIANNA VALENTI | Cry Why è una favola sulla solitudine, su un pianeta Terra e un Universo che non offrono risposte al bisogno di essere ascoltati e amati. Per creare questo mondo, Moritz Ostruschnjak sceglie due giovani interpreti, una ragazza e un ragazzo, Miyuki Shimizu e Guido Badalamenti, e il pianista Reinier van Houdt, non semplice accompagnatore ma performer parte di una coreografia che crea immagini e azioni come continui tentativi di dialogo in cui, quando ci si connette non ci si guarda o, quando ci si avvicina, si fa di tutto per svincolarsi. In scena, un pianista con due pianoforti, due danzatori e due pattini a rotelle che lavorano sulle distanze e sulle vicinanze e che, ignorandosi o incrociandosi, creano immagini surreali e continui slittamenti di senso.
Cry Why è stato presentato a Interplay 25 sulla scena della Lavanderia a Vapore di Collegno. Due anni prima, a Interplay 23, avevamo visto Moritz Ostruschnjak con Tanzanweisungen.

Moritz Ostruschnjak, Cry Why, Interplay 25. Ph. Andrea Macchia

Non c’è posto per il tragico, la rabbia e il dolore in questa favola che si apre con i pianoforti su rotelle spinti sulla scena, presenze musicali, spaziali e luminose che continueranno a funzionare come elementi mobili che definiscono lo spazio, aprendolo, restringendolo o segmentandolo. Uno spazio che, nonostante la diversità spesso contrastante delle singole scene, riesce ad affermarsi come morbida continuità grazie alla danza fluida su un solo pattino di Guido Badalamenti, presenza lirica di leggerissima potenza che, con il suo scivolare, collega elementi scenici e azioni, prendendosi cura di spazi e corpi.
La sua è una danza che ricorda la leggerezza del pattinaggio sul ghiaccio e che si definisce in contrasto alla danza di Miyuki Shimizu, gestualmente e linearmente definita, minuziosa, controllata e disegnata, che propone una fluidità anomala fatta di bits singolarmente riconoscibili ma incalzanti e montati come in un linguaggio cinematografico di frames estratti da esperienze reali o digitali più ampie.
Movimenti, gesti o frammenti di azioni come esperienze ricercate, scelte e salvate (search, select, save); memorie dalle nostre cronologie di ricerca, tracce di surfing digitale, diari di esperienze memorizzate nella pluralità dei nostri dispositivi; elementi di un linguaggio non verbale che, pur nella brevità, riescono a portare sulla scena l’ampiezza del contesto e delle azioni di provenienza per poi creare — attraverso un fraseggio veloce di avvicinamenti e di contrasti — una nuova realtà che sfonda nel surreale.
Il bellissimo solo di Miyuki Shimizu, con cui si apre Cry Why, sotto luce piena e bianca da avanspettacolo, è un manifesto di questa modalità di lavoro. Definito e sostenuto dal suono di van Houdt e dalla musica avanguardistica di Alvin Curran, rimane tuttavia un momento a sé, mentre il resto del lavoro si muove verso tempi più lenti e sospesi in cui gli slittamenti di senso, dati dalla velocità del montaggio coreografico, lasciano il posto alla possibilità di guardare e contemplare ogni singolo gesto.

Moritz Ostruschnjak, Cry Why, Interplay 25. Ph. Andrea Macchia

Anche le musiche, in questo lavoro, si muovono sul piano degli avvicinamenti inediti e dei contrasti, creando tensioni inaspettate e effetti surreali. La voce melodiosa e operistica di Roy Orbison, con Crying, amatissima dal grande Elvis, è avvicinata a momenti punk e pop o alla voce della sperimentazione vocale, urlata, di Yoko Ono, con Why.
È con un lip synch di Miyuki Shimizu sul testo di Crying che termina questa coreografia, riaffermando la scelta per un’immagine al limite del reale, che avvicina il corpo contemporaneo e androgino della danzatrice all’atmosfera postbellica americana da miracolo economico di sentore hollywoodiano: «And from this moment on, I’ll be crying, Crying, Crying, Crying… I’m crying, Crying, Over you.» E «Why…Why…Why…» urla, sempre in silenzio, grazie alla voce di Yoko Ono, la danzatrice sopra il corpo del danzatore, immobile a terra, in un passaggio precedente.
Ma non aspettatevi il tragico e l’oscurità nella loro danza, perché alle musiche è lasciato il compito di incarnare queste profondità emotive, utilizzando i corpi solo come tramite: corpi che agiscono tentativi di dialogo, avvicinamenti falliti o incontri misurati e controllati, mantenendosi a un livello di grande leggerezza e con un effetto esteso di dolcezza e purezza infantile che contamina l’intero lavoro. 

Moritz Ostruschnjak, Cry Why, Interplay 25. Ph. Andrea Macchia

Eppure Ostruschnjak ci introduce alla sua favola con le parole fuori campo (le uniche di tutto il lavoro) della nonna nel Woyzek di Büchner: «C’era una volta un povero bambino, povero, povero, e non aveva né papà né mamma e tutti erano morti e così lui non aveva proprio nessuno, era solo al mondo. Erano morti tutti, lui non aveva nessuno e allora si è messo in cammino, e cammina cammina, e piangeva giorno e notte. E siccome sulla terra non c’era più nessuno, lui aveva pensato di andare in cielo, e mentre saliva la luna lo guardava buona buona, ma quando arrivò sulla luna si accorse che era solo un pezzo di legno tutto marcio e allora lui pensò di andare sul sole, vide che il sole era un grande fiore appassito, un girasole sfiorito e morto. Allora decise di andare fino alle stelle, ma anche quelle, da vicino, erano soltanto moscerini dorati, infilzati come fa lo sparviero quando te li infila sulle prugne selvatiche. E allora pensò di tornare sulla terra, anche la terra non era nient’altro che un pentolone rovesciato e lui era solo, tutto solo, e allora si mise a sedere e cominciò a piangere, ed è ancora là che piange, solo solo…»

È in questo mondo post-umano, dove a regnare è la solitudine e dove gli uomini agiscono in un silenzio stellare, per poi urlare per chiedere del perché di quella solitudine, o cantare e piangere per ascoltarsi nel loro bisogno d’amore, che il coreografo fa agire i suoi personaggi. Ma il pianto e il grido, così come il cupo espressionismo di una solitudine inspiegabile, sono lasciati alle parole delle musiche e al testo di Büchner, che agiscono come materiali atmosferici per gli eventi coreografici.
I danzatori, che si muovono duettando in un incrocio di assoli, non trasmettono tragicità, la loro darkness è leggera e sognante, carica di cura verso i bisogni dell’altro e legata al mondo dell’infanzia nella sua dolcezza. La loro danza crea percorsi paralleli, i brevissimi duetti sono terreno di prova di possibili avvicinamenti in cui non vince una fredda distanza ma sopravvive il desiderio di continuare a danzare in solitudine, all’interno di percorsi paralleli possibili, con compassione e affetto, e possibili incontri futuri al di là del pianto.

Cry Why –  trailer 

Interplay 25

CRY WHY > 60’
MORITZ OSTRUSCHNJAK (DE)

di Moritz Ostruschnjak
collaboratrice Coreografica Daniela Bendini
interpreti Miyuki Shimizu & Guido Badalamenti
piano Reinier van Houdt
light design Thomas Zamolo
costumi Daniela Bendini
drammaturgia Armin Kerber
produzione Susanne Ogan
PR Simone Lutz
management Alexandra Schmidt
touring Pascal Jung
artista selezionato alla piattaforma della danza tedesca 2022
progetto reso possibile da Bavarian State Association for Contemporary Dance (BLZT) con i fondi del Bavarian State Ministry of Science and the Arts

PRIMA REGIONALE  

Festival Interplay 25, Lavanderia a Vapore, Collegno | 12 giugno 2025

Il fascino indiscreto della povertà: Kelly Jones al Bonsai Festival

OLINDO RAMPIN | Chi è andato a vedere Il funerale di mia madre: the show in prima italiana al Bonsai Festival di Ferrara, cercando prima qualche sparsa informazione sull’autrice, l’inglese Kelly Jones, sarà rimasto sorpreso.
Ad assistere allo spettacolo, prodotto da Enchiridion/TangramTeatro, diretto da Francesca Montanino e Mauro Parrinello, anche interprete con Elsa Bossi e Alice Giroldini, c’era anche l’autrice, protagonista di una rilassata conversazione con il pubblico. Timida e cordialissima, Kelly Jones ha scritto un testo che ci pare rispecchi solo parzialmente la presentazione di lei come «working-class playwright» che ama scrivere di «queerness, class and her relationship to home», come leggiamo sul sito della sua agenzia.

Kelly Jones

Dentro le parvenze di una dark comedy che inscena le peripezie di una scrittrice teatrale sprovvista dei denari per pagare le spese del funerale della madre, quello a cui assistiamo è un racconto saporoso e a tratti commovente di irrisolti rapporti famigliari: un insidioso triangolo madre-sorella-fratello, il padre, forse considerato superfluo, non si menziona nemmeno o quasi. È un ritratto vivo e partecipe dei paradossi, delle contraddizioni, delle rimozioni, delle rabbie, delle assurdità, dei nodi che non si sciolgono nell’istituzione famiglia. O almeno così sembrerebbe, perché il finale è quasi un happy end. Kelly Jones intreccia questo gran magma, classico come ogni narrazione-mito, nella cornice di una relazione conflittuale e comica tra l’artista e l’istituzione teatrale, tra il cittadino privo di mezzi e l’industria del lutto: le onoranze funebri.

A Kelly Jones preme ridere con il pubblico sull’esperienza irreale che tocca a ciascun vivente quando muore un genitore: entrare in un’impresa funebre, spazio jettatorio che funziona come qualsiasi negozio del libero mercato. C’è un listino prezzi, dalla fascia economy al super luxury. Lei che, come leggiamo sul web, ama i miti, in Italia sconosciuti, della stand up comedy britannica come Victoria Wood e Kathy Burke, potrebbe approfittarne per farci fare delle gran risate bloody. Invece sono risate brevi, strane, a labbra serrate. Qualche volta ci porta verso territori kenloachiani: quel che le preme è la “dignity” lesa della working class: il funerale non possono permetterselo tutti, come ci fanno credere la nostra ingenuità e l’ipocrisia del sistema.

Alice Giroldini – ph Cinzia Campana

La protagonista, Abigail, che è una “working-class playwright” proprio come l’autrice, scopre che i poveri come lei, i sommersi, gli invisibili, non raggiungono neanche il budget funerario minimo, nel nostro mondo detto capitalistico. Se poi si ha un fratello che ha o pensa di avere enormi crediti affettivi in sospeso con la madre che non vedeva da anni e non vuol contribuire alle spese delle esequie, allora ci si imbatte nella squallida prospettiva a cui non si pensava nemmeno: i funerali pagati dai servizi sociali.
La protagonista se ne vergogna e ingaggia un complicato agone con un direttore teatrale più arcigno del più severo dei critici stroncatori della vecchia guardia, il quale le rifiuta un progetto perché «non fa venire i sensi di colpa al pubblico».

Mauro Parrinello – ph Cinzia Campana

Dal che deduciamo che in Gran Bretagna i burocrati teatrali sono fin troppo arguti, anche più dei critici. Infatti finiscono per scrivere insieme alla protagonista il testo perfetto, con cui lei si auto-costringe a “vendere” all’industria culturale la sua pena reale, per poter pagare il funerale materno. Senonchè il direttore-regista-critico-autore, mostro a quattro teste che abbiamo temuto tornasse come residuo psichico diurno nei nostri sogni, non molla: il personale ospedaliero continua a lasciare messaggi in segreteria invitando con melensa cordialità la drammaturga incapiente a liberare l’obitorio della salma materna. Alla fine la fossa comune, auspice l’apparizione della madre in veste benigna e saggia, non è cosa di cui vergognarsi, come capita a quei falsi dei borghesi, che guardano alle apparenze e a quel dirà la gente. La ferocia della critica sociale si affida a uno stile leggero, che in qualche momento può ricordare Alan Bennett.

Elsa Bossi – ph Cinzia Campana

La regia di Francesca Montanino, anche traduttrice e scopritrice dello spettacolo al Fringe Festival di Edimburgo, condivisa con Mauro Parrinello, non si fa sentire, e con questo testo fittissimo di temi e di idee non ci sembra un pregio da poco. Soprattutto se il terzetto di attori è in serata. Si deve anche alla loro perizia, a una recitazione che ha l’apparente naturalezza dell’artificio temperato con il tempo, se la drammaturgia di Kelly Jones, che come direbbe Yasmine Reza è di quelle che tirano via tutto il “grasso” superfluo dall’azione, non molla la presa sul pubblico.
Ciascuno di loro è più personaggi. Elsa Bossi è, oltre che l’intermittente e implacabile voce falsamente blanda dell’istituzione ospedaliera che richiama Abigail ai suoi obblighi di legge, una madre che passo passo conquista una tonalità interpretativa sempre più persuasiva, in cui risuona un’umanità, una comprensione che viene dalla distanza, dall’essersi liberata dalla quotidiana lotta per la vita e dalle folli relazioni degli umani. La metamorfosi della sua funzione, innescata dalla morte, permette al figlio una ricognizione graduale ma infine compiuta della propria acredine, del proprio complesso di figlio non amato. Mauro Parrinello la trasferisce sulla scena con una interpretazione disincantata, morbida, malinconica. Caratteri che non deve esser stato semplice liquidare per vestire credibilmente anche i panni dell’incontentabile e freddo direttore e committente di Abigail. Alice Giroldini, nascosta tra il pubblico all’inizio dello spettacolo, abita con vivezza e passione la vicenda di figlia e di artista che si carica di più responsabilità. Non ultima quella di accettare e riaccogliere il “fratel prodigo” nella home di cui adesso lei sembra essere la più consapevole custode.
Gli spettatori, che hanno richiamato in scena più volte gli interpreti e hanno partecipato con molta adesione all’incontro dopo lo spettacolo, sono usciti soddisfatti e senza sensi di colpa. Anche il verso dell’assiolo, all’uscita, ci è sembrato meno lugubre del solito.

 

IL FUNERALE DI MIA MADRE: THE SHOW
prima italiana

di Kelly Jones
traduzione Francesca Montanino
con Elsa Bossi, Alice Giroldini, Mauro Parrinello
regia Francesca Montanino e Mauro Parrinello
produzione Enchiridion/TangramTeatro

Bonsai Festival, Ferrara | 15 giugno 2025

I vecchi e i giovani: Biennale Teatro avvicina il secondo ‘900 e le nuove generazioni

RENZO FRANCABANDERA | Strane le combinazioni della vita, che poi a volte combinazioni non sono. Forse davvero Willem Dafoe voleva il corto circuito. Voleva mettere assieme i segni più spinti della tradizione rituale del teatro senza orpelli, quello millenario, fatto di corpi, azioni e voci, fino al limite del religioso, con l’esplosiva dinamica di autonarrazione delle giovani generazioni di oggi.
Questo è stato, in estrema sintesi, l’ultimo weekend di Biennale Teatro 2025 a Venezia.
Iniziamo dalla presenza dei Dervisci rotanti: non una semplice citazione esotica, ma un gesto radicale che riporta al centro del discorso performativo la dimensione rituale, il corpo come strumento di trascendenza, la danza come preghiera senza parole. In un contesto contemporaneo dominato dalla frammentazione digitale e dallo smarrimento identitario, la loro danza ipnotica – un vortice che dissolve, nel riverbero della partitura musicale e vocale che la accompagna, l’io nell’infinito – diventa un atto politico, una resistenza alla desacralizzazione dell’esistenza.
I corpi degli appartenenti all’Istanbul turkish ancient music ensamble che ruotano, i bianchi mantelli che, all’improvviso, emergono dalle mante nere e si aprono come ali, il silenzio interrotto solo dal fruscio del tessuto e dal respiro cadenzato: tutto concorre a creare una temporalità altra, un tempo sospeso in cui lo spettatore non è più un osservatore distaccato, ma un testimone di un’epifania. Non si tratta di folklore, ma di una pratica che sfida la nostra idea di teatro come intrattenimento, riportandolo alla sua origine più antica, quella di rito collettivo: fin dall’inizio ci viene ricordato di non applaudire a fine dell’azione, che ha proprio un suo darsi sacrale.

In questa direzione, con gesti che rimandano alla dimensione sacrale del fare dell’interprete, la scelta curatoriale della Biennale sembra voler riannodare i fili di una tradizione che nel Novecento, da Artaud a Grotowski, ha cercato di riconnettere l’arte scenica alla dimensione spirituale. Ed è proprio qui che l’arrivo di Thomas Richards, erede diretto del lavoro di Jerzy Grotowski, assume un significato profondo. Richards non è solo un continuatore, ma un innovatore che ha portato avanti la ricerca sul “teatro povero” trasformandola in una disciplina viva, un’antropologia teatrale che indaga le potenzialità del corpo-voce al di là della rappresentazione. Il suo lavoro alla Biennale – che sia un laboratorio aperto o una performance strutturata – è stato un invito a ripensare l’attore non come interprete di un testo, ma come medium di energie ancestrali.

Se i dervisci ruotano per annullarsi nel divino, Richards lavora sull’attore attraverso una partitura narrativa che si basa su uno dei testi scritti più antichi al mondo, fra quelli conosciuti. Il Poema più antico del mondo è stato scritto nel 3000 a.C., da una sacerdotessa molto importante della città di Ur, Enkheduanna, che ha dedicato questi bellissimi e lunghissimi versi alla dea per la quale esercitava il sacerdozio. Il poema più antico del mondo, quindi, è stato scritto da una donna e Richards lo affida ai suoi performer che, fra canto e recitazione, lo ricompongono. L’attore qui si annulla nel ruolo, non attraverso la psicologia, ma attraverso un training fisico che è al tempo stesso ascesi e possessione, e vive una deframmentazione della narrazione che è però volta proprio ad esaltare la dinamica interpretativa. La voce non è più semplice veicolo di significato, ma vibrazione che scuote le ossa, il respiro non è più meccanica fisiologica, ma strumento di connessione con l’invisibile.

Il dialogo tra queste due presenze – i dervisci e Richards – è più che una coincidenza: è una dichiarazione di poetica. Entrambi pongono al centro il corpo come luogo di trasformazione, entrambi rifiutano l’artificio narrativo a favore di un’esperienza diretta, fisica, quasi violenta nella sua purezza. Ma, mentre i dervisci operano in una dimensione sacrale codificata, Richards lavora sulla decostruzione e sulla ricostruzione del gesto, sul caos controllato di quel fare che ha una cifra talmente naturale da voler sembrare improvvisazione. Se i primi cercano l’estasi attraverso la ripetizione millenaria di un movimento, il secondo la cerca nella rottura delle convenzioni, nell’urlo che strappa via la maschera sociale. Eppure, in fondo, il fine è lo stesso: raggiungere uno stato di presenza totale, in cui non ci sia più separazione tra chi agisce e chi guarda.

In una Biennale che spesso ha oscillato tra sperimentalismo e grandi produzioni di richiamo, questa edizione sembra voler tornare alle domande fondamentali: cos’è il teatro quando smette di essere spettacolo? Può ancora essere uno spazio di confronto con l’indicibile? La risposta, forse, sta proprio nella compresenza di queste due linee di ricerca. I dervisci ci ricordano che il teatro può essere preghiera, Richards ci ricorda che può essere un coltello che squarcia il velo dell’abitudine. Nell’epoca della crisi delle narrazioni, dello smarrimento politico e spirituale, questa doppia direzione – tradizione e rivoluzione, estasi e disintegrazione – diventa un faro. Non è un caso che entrambi i linguaggi abbiano a che fare con la circolarità: i dervisci girano su se stessi fino a perdere i confini, Richards lavora su un teatro che è cerchio, energia condivisa, coro primitivo.

Ma accanto a queste presenze consolidate, Biennale Teatro 2025 offre, in questo ultimo weekend, spazio a una nuova generazione di artisti che, pur muovendosi in direzioni diverse, condividono una ricerca sul corpo, la memoria e l’identità. Eccoci allora indossare occhiali fosforescenti ed entrare nella Sala d’Armi dell’Arsenale dove Alessio Maria Romano, con lo spettacolo NOI prodotto dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, ci accoglie in uno spazio evento; passeremo poi a Princess Isatu Hassan Bangura, presente con due lavori: Great Apes of the West Coast e Blinded by Sight – An Oedipus Monologue.

Romano, coreografo e regista, presenta a Biennale un lavoro che è un flusso di azioni fisiche che si susseguono in un continuum ipnotico, quasi un carillon di gesti ripetuti e variati dentro un ambiente che sembra un cabaret parigino immersivo: luci al neon rosa, postazioni itineranti per gli spettatori e un continuo entrare e uscire dal gioco dei personaggi/persona in cui gli interpreti sono catapultati. Lo spettacolo esplora la relazione tra individuo e collettività attraverso una drammaturgia del corpo che ricorda certi lavori dell’avanguardia, gli spettacoli/happening. Romano, vicino per poetica ad Antonio Latella – che ha curato in certo modo anche questa occasione veneziana – è appassionato di movimento di scena, cosa di cui si è occupato anche nel recente Zorro. E anche qui il movimento non manca, anzi.

I sei interpreti – Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo e Daniele Valdemarin – si muovono freneticamente in uno spazio scenico essenziale, dove le luci di Simone de Angelis disegnano geometrie di presenza e assenza, cercando di tessere una relazione fra lo spazio scenico e la platea. Un quadrato delimita un’area in cui i performer sviluppano piccole azioni danzate, accompagnate da un commento sonoro a microfono. Tutto attorno, una zona percorribile liberamente in qualsiasi momento dagli spettatori, che possono entrare e uscire, durante le tre ore di performance, ogni volta che vogliono. Proprio per questo la drammaturgia di Linda Dalisi sembra voler evitare ogni linearità narrativa, privilegiando un accumulo di micro-azioni che, nel loro insieme, suggeriscono una riflessione sul tempo e sulla ritualità quotidiana. Gli spettatori possono sfogliare libri di immagini, affogare in miriadi di foto/cartoline, lasciare segni del proprio passaggio o ascoltare a cuffia un ininterrotto flusso di voci che narrano un presente spezzettato. Personalmente ho riassaporato il gusto dei diversi allestimenti immersivi cui anni addietro (ma ogni tanto anche adesso, quando gli riesce) si è dedicato con passione Marco Maria Linzi del Teatro della Contraddizione di Milano. Se, da un lato l’opera di Romano risente ancora di qualche manierismo, alcune sequenze appaiono capaci di vera intensità, dimostrando una maturità nel trattamento dello spazio e del ritmo, che lo segnalano come un artista da seguire.

Radicale e politicamente carica è la proposta di Princess Isatu Hassan Bangura, artista la cui ricerca si situa all’incrocio tra afro-futurismo e teatro fisico, ancorato però alla certezza della parola millenaria del teatro. Great Apes of the West Coast, prodotto da NTGent, è un monologo performativo in cui Bangura, anche autrice del testo e della scenografia, ripercorre le tracce della diaspora africana attraverso un linguaggio ibrido, fatto di parole, danza e suoni ancestrali. L’artista, già nota per lavori come Black Bazar (2022) con cui aveva raggiunto una felice notorietà, costruisce un’opera che è al tempo stesso atto di resistenza e celebrazione, in cui il corpo diventa archivio di memorie coloniali e strumento di riappropriazione identitaria.

La drammaturgia di Giacomo Bisordi sostiene questo viaggio con una struttura frammentaria, mentre le luci di Sander Michiels e i costumi di Tricia Mokosi amplificano la dimensione rituale, evocata da una capanna isolata immersa nella notte africana.

Se Great Apes guarda al passato per immaginare un futuro, Blinded by Sight – monologo ispirato al mito di Edipo – rovescia invece la prospettiva, interrogando le nozioni di colpa e destino attraverso un linguaggio viscerale. Bangura, in scena da sola, prima, ci accoglie con una travolgente danza sulle note di Free di Florence+The machine e poi trasforma la figura del re tebano in un simbolo universale di caduta e redenzione, utilizzando una fisicità ampia e che, pur con qualche ingenuità dovuta all’assenza di uno sguardo registico esterno, comunque coinvolge gli spettatori.

Torniamo a casa portando con noi quello che, in controluce, ci è apparso un confronto voluto tra questi giovani artisti e le figure storiche presenti in programma. Se i dervisci rappresentano una forma di teatro come ascesi spirituale e Richards incarna l’eredità di Grotowski nel suo lavoro sulla voce e sul corpo, Romano e Bangura propongono invece un teatro che è innanzitutto indagine identitaria e politica. Esperienze accomunate, tuttavia, dalla centralità del corpo come luogo di trasformazione, sia esso il corpo rotante del derviscio, l’attore grotowskiano di Richards, i corpi anonimi e che si confondono nel caos delle tre ore di performance di NOI o il corpo narrante di Bangura. Forse Dafoe vuole suggerire, con questa scelta sicuramente non casuale di giustapposizione, che il teatro contemporaneo può trovare rinnovamento proprio nel dialogo tra queste polarità. Romano, con la sua ricerca sul movimento, e Bangura, con il suo approccio decoloniale, dimostrano che la scena può ancora essere uno spazio di confronto con le grandi questioni del nostro tempo; a patto, però, di evitare tanto il ripiegamento autoreferenziale quanto l’adesione acritica alle mode. In questo senso, la loro presenza accanto a maestri come Richards e ai dervisci non è una semplice giustapposizione, ma un vero e proprio statement artistico: il teatro vive solo se riesce a essere, allo stesso tempo, radice e germoglio.

ISTANBUL HISTORICAL TURKISH MUSIC ENSEMBLE – MEVLEVI SEMA

tercüman Kürşat Bener
postnişin Nezih Çetin
Dervisci Adem Demirel, Haluk Luş, Mahmud Sami Güçlü, Muharrem Burak Ecevit, İbrahim Safa Alçın, Sabahattin Harma

NOI

a cura di Alessio Maria Romano
di e con Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo, Daniele Valdemarin
coproduzione La Biennale di Venezia

GREAT APES OF THE WEST COAST

ideazione, testo, scenografia, regia e performance Princess Isatu Hassan Bangura
drammaturgia Giacomo Bisordi
musica Edis Pajazetovic
costumi Tricia Mokosi
design luci Sander Michiels
acting coach Peter Seynaeve
dance coach Reintje Callebaut
produzione NTGent
coproduzione Via Zuid, Likeminds
coproduzione La Biennale di Venezia

BLINDED BY SIGHT – AN OEDIPUS MONOLOGUE

scritto e interpretato da Princess Isatu Hassan Bangura
musica Edis Pajazetovic
traduzione e adattamento sovratitoli Matilde Vigna
produzione NTGent
(prima italiana)

Biennale Teatro, Venezia |  13,14 e 15 giugno 2025

Rami d’ORA 2025: quando arte e natura diventano un rifugio

VALENTINA SORTE | Dall’11 al 29 giugno la rassegna di arti performative Rami d’ORA, promossa dal collettivo Laagam, torna nuovamente ad animare le Orobie valtellinesi con performance ed esperienze in natura, diramandosi dalla sede di ORA a Castellaccio/Piateda alla provincia di Sondrio, da Morbegno a Tirano, per allungarsi – novità di quest’anno – sino a Spriana Valmalenco, dove si trova il Teatro più piccolo del mondo.
Diretta da Erica Meucci e Francesca Siracusa, con la direzione organizzativa di Riccardo Olivier, anche questa quinta edizione, dal titolo Farsi riparo, intreccia in modo originale le arti performative con l’esperienza intima del territorio. Si può infatti considerare Rami d’ORA come una dimora temporanea nel cuore della Valtellina, una dimora fatta di rami e di fili, di cura e di cultura, dove trovare rifugio e relazione. Il tempo di una sosta.  

Nella prima settimana del festival siamo riusciti a seguire tre lavori: Je Suisse (or Not) dell’artista svizzera Camilla Parini/Collettivo Treppenwitz che l’11 giugno ha inaugurato il cartellone con uno spettacolo per massimo due spettatori alla volta; a seguire il 12 giugno Danzare gli alberi di e con la performer valtellinese Katia Della Fonte, già nota al pubblico della rassegna; infine, il tableau vivant Murillo, lezioni di elemosina di Claudia Castellucci, con Silvia Ciancimino. 

In Je Suisse (or Not) Camilla Parini compone e scompone un’idea di famiglia, di appartenenza identitaria e di memoria, condividendo con lo spettatore una versione inedita della propria storia personale, in bilico tra realtà e finzione, tra un urgente bisogno di raccontarsi e l’incapacità di definirsi.  

Je Suisse (or not)_Camilla Parini_Collettivo Treppenwitz

La performance inizia già nell’atrio dell’appartamento scelto come location, presso Freeabile, l’Albergo Etico di Sondrio. Siamo all’ultimo piano. L’allestimento è molto curioso, sembra quasi un’installazione: ci sono fotografie di famiglia, o meglio collage fotografici di famiglia, una carta d’identità dell’artista da bambina, dei materiali turistici sulla Svizzera, sul ghiacciaio del Rodano; altri libri, un ritaglio di giornale che parla di Genetica dei ricordi del neurobiologo Andrea Levi; dei post-it con delle annotazioni personali.
Si continua all’interno dell’appartamento. Ad attendere c’è un orso polare che, seduto su una poltrona, fa accomodare lo spettatore e gli porge un album fotografico – uno di quelli tradizionali, intervallati dalle veline – sulla copertina si legge “Fragile”. Non resta che sfogliarlo. Ci sono collage fotografici che compongono quadri familiari, dichiaratamente fittizi ma fortemente desiderati, insieme a riflessioni molto intime. Ci sono espliciti riferimenti biografici – con date, luoghi, persone – e insolite incursioni di orsi polari. Man mano che si sfogliano le pagine la voce narrante passa dalla prima persona, ovvero Camilla, alla terza persona, l’orso. La stessa cosa avviene nei video che ogni tanto vengono proiettati su uno schermo di fronte allo spettatore: si alternano pellicole originali della famiglia sulle piste da sci e montaggi video con la giovane artista ticinese vestita da orso, negli stessi luoghi, anni dopo. I due piani narrativi vengono accostati, si passa dall’uno all’altro e viceversa. 

Je Suisse (or not)_Camilla Parini_Collettivo Treppenwitz

Si tratta di un lavoro interessante che si interroga in modo profondo sui meccanismi di produzione della memoria (in particolare sulla memoria a lungo termine) ma soprattutto sui processi di selezione dei ricordi: quali ricordi conserviamo? Quali cancelliamo? Quali rimodelliamo inconsciamente per costruire una nostra narrazione personale? 

Parini sfrutta e insiste a livello drammaturgico sulla stretta e inestricabile relazione tra realtà/finzione  (spesso lo spettatore si domanda se ciò che vede è vero, reale o se si tratta di un’invenzione artistica) per indagare il modo in cui ciascuno di noi, attraverso un non-sempre-consapevole rimodellamento dei propri ricordi, costruisce una narrazione “ufficiale” e personale della propria vita. Quell’operazione che il neurobiologo Andrea Levi chiama “l’effetto Photoshop” della memoria. Qui però l’effetto non solo è evidente, ma volutamente sottolineato. Come scrive più volte Camilla Parini sull’album: «Dove finisce la mia storia e dove inizio io? Dove inizia la mia storia e dove finisco io?». Difficile dirlo, probabilmente impossibile. Allo spettatore, però, viene lasciata la possibilità di scegliere alla fine della performance tra realtà e finzione, gli viene chiesto, infatti, se togliere il costume all’orso polare oppure no. 

Non è facile raccontare Je Suisse (or not), perché la drammaturgia di questo lavoro non è completamente scritta, ma prevede una partecipazione intima dello spettatore. Un suo tuffo nei ricordi e nelle proprie narrazioni familiari. Insomma, c’è un alto tasso di interferenze personali. Sicuramente attraverso l’uso dell’album, Camilla Parini riesce ad agganciare emotivamente il pubblico e a condurlo in un’originale e profonda ricerca sulla memoria. Nel suo lavoro, inoltre, esplora e ibrida diversi linguaggi, performativi e non: performance dal vivo, teatro partecipativo, collage fotografico, collage video e installazione. Tuttavia, ci sono alcuni momenti in cui lo spettatore avverte una sensazione di staticità, una certa mancanza di ritmo, date proprio da questa forma di narrazione. Rimane comunque un lavoro originale e interessante. 

Katia Della Fonte

Il secondo appuntamento è con Katia Della Fonte, nei suggestivi Giardini di Palazzo Sertoli di Sondrio, un magnifico esempio di giardino d’arte. Qui lo spazio verde è concepito come un percorso museale all’aperto in cui le opere d’arte e le sculture di artisti nazionali e internazionali dialogano strettamente con gli elementi naturali del paesaggio in un processo di continue metamorfosi e variazioni.
Questo sito è stato scelto dall’artista valtellinese per proseguire il suo progetto di sensibilizzazione e di mappatura degli Spazi-Natura all’interno delle città. Il suo intento è quello di portare i cittadini a vivere gli spazi urbani con uno sguardo più attento e consapevole, capace di leggere nella presenza degli alberi, e in generale della natura, un elemento di grande bellezza e vitalità, superando la dicotomia tra urbano e naturale.
 

In Danzare gli alberi, Katia Della Fonte usa il movimento innanzitutto come strumento di conoscenza dell’ambiente circostante. La performance inizia infatti tra i rami di un mirto (forse un mirto crespo)  posizionato al centro del giardino. L’artista esplora l’albero con gesti lenti e molto attenti, seguendo una direttrice verticale: dall’apparato radicale che vive – invisibile – sottoterra, alla spinta verticale e vigorosa del tronco e dei rami verso l’alto. È allo stesso tempo una danza di radicamento e di slancio. Ad un certo punto i suoi gesti diventano meno esplorativi e più simbiotici. I rami creano in realtà uno spazio circolare, da abitare con movimenti intimi e pieni, molto raccolti. O forse, sono proprio i gesti della performer a sottolineare all’interno dell’albero la presenza di questo spazio circolare.  

Molto diverso il dialogo che l’artista intesse con un altro albero, poco lontano, probabilmente una particolare varietà di acero. Qui non ci sono direttrici verticali così nette, al contrario alcuni rami molto robusti creano come linee di sostegno, orizzontali, che consentono a Katia Della Fonte di accovacciarsi, come in un abbraccio accogliente. La connessione che riesce a creare con il mondo vegetale diventa in alcuni punti una profonda ibridazione, se non una vera e propria fusione, che regala visioni prodigiose che turbano ed emozionano. Brava. 

Murillo, lezioni di elemosina_Claudia Castellucci_ph.Pietro_Bertora

Tutt’altra cornice quella scelta da Claudia Castellucci per il tableau vivant Murillo, lezioni di elemosina. Dagli spazi aperti ci ritroviamo infatti in uno spazio molto circoscritto, una piccola stanza in vicolo Meneghini 14. La performance concepita dall’artista è riservata a gruppi di massimo dodici persone alla volta. Le indicazioni che vengono date prima di entrare sono di girare attorno al soggetto come intorno ad una statua e, nell’eventualità, di sedersi alle spalle di chi osserva in piedi.  

Il lavoro è dedicato al pittore seicentesco spagnolo Bartolomé Esteban Pérez Murillo, presente nel titolo e famoso per i suoi dipinti di misera gente, ritratta nell’atto di chiedere elemosina. Il primo impatto, entrando nella stanza. è quello dell’incertezza: si procede con cautela. Tutto è avvolto nel buio, c’è solo un cono di luce che taglia in obliquo lo spazio, ma il suo effetto è smorzato da una fitta nebbia che confonde forme e contorni. L’atmosfera è molto densa. L’occhio dello spettatore ha bisogno di tempo per mettere a fuoco lo spazio scenico e i suoi elementi. Quando finalmente ci riesce, quasi come un’epifania, compare la figura di Silvia Ciancimino. Indossa un mantello nero e un cappello a tesa larga che impediscono di riconoscere con precisione le sue fattezze. Dalla sua sagoma, una macchia scura, emergono però porzioni di corpo, porzioni di pelle nuda – i piedi, le mani e a volte il viso – su cui lo spettatore concentra la sua visione. Ora sono meno definite, ora sono più a fuoco, in base all’oscillazione della luce, anche se in realtà la luce è ferma. A muoversi sono la performer, che assume man mano diverse pose plastiche, e il pubblico che lungo un’ipotetica linea circolare insiste nell’osservazione del questuante.  

Il tableau vivant Murillo è una vera e propria antologia di elemosine. Indaga i modi in cui tendere la mano per chiedere qualcosa, esplorando tutte le dicotomie del movimento: alto/basso, sopra/sotto, dentro/fuori. Dietro c’è uno studio molto attento e dettagliato del gesto, per intensità, durata e prospettiva. Claudia Castellucci – Leone d’Argento alla Biennale Danza di Venezia 2020 e co-fondatrice della Societas – lavora come uno scultore che attraverso la luce, il movimento e il suono (curato da Stefano Bartolini) fa emergere la forma/ le forme dalla materia. “L’immagine, è fatta”. 

Alla potenza dell’immagine, si accompagna ovviamente una riflessione non scontata sul ruolo dello spettatore, all’interno e fuori dal tableau vivant. Se da una parte c’è chi chiede l’elemosina, dall’altra c’è chi guarda e allunga o ritrae il braccio. Le due figure sono complementari. Il gesto è allora ancora più potente perché contempla accanto a sé questa presenza/assenza. In un momento storico in cui la percentuale delle famiglie che vivono in povertà assoluta aumenta sempre di più, riflettere sulla questione dell’indigenza non è tanto o solo un fatto estetico, quanto un atto di consapevolezza etica, che ha implicazioni tanto personali e private, quanto collettive e pubbliche.  

La direzione artistica di Rami d’ORA ha fatto un’altra volta centro. Oltre a presentare proposte artistiche di qualità che rendono il suo cartellone interessante, riesce ad affrontare questioni sempre molto attuali e vive – l’identità, la memoria, gli spazi urbani e la questione ambientale, la collettività e la relazione con l’altro – capaci di parlare al suo pubblico, che qui ritrova sempre una dimensione di cura. Un riparo temporaneo ma solido, dove appunto ospitare e creare vera cultura. 

 

JE SUISSE (OR NOT)

di e con Camilla Parini
collaboratori artistici Francesca Sproccati, Simon Waldvogel
supporto drammaturgico Jessica Huber
tecnica Alessandro Macchi
produzione Collettivo Treppenwitz
coproduzione far° Nyon e Südpol Luzern nell’ambito del programma Extra TimePlus
con il sostegno di Pro Helvetia–Fondazione svizzera per la cultura, DECSRepubblica e Cantone Ticino–Fondo Swisslos, Fondation Ernst Göhner, FondationLandis&Gyr, Fondation Edith Maryon, Fondation Johnson, Città di Lugano, Comune di Agno
in collaborazione con FIT Festival Internazionale del Teatro e della scena contemporanea, LAC Lugano Arte e Cultura, l’Usine à Gaz Nyon e Cima Città

DANZARE GLI ALBERI

di e con Katia Della Fonte

MURILLO, LEZIONI DI ELEMOSINA

tableau vivant di Claudia Castellucci
interprete Silvia Ciancimino
musica e suono Stefano Bartolini

Rami d’ORA V | 11 maggio-29 giugno 2025

Sulla soglia del presente: il ritorno di Zona K con LIFE

GIORGIA VALERI / PAC LAB*| Dal 2009, Zona K abita il quartiere Isola di Milano. Ci abita ma non sempre ci ha vissuto: questo spazio culturale e teatrale fondato da Valentina Kastlunger e Valentina Picariello ha spesso praticato il luogo della soglia, il margine che divide le mura delle istituzioni dalla città brada, gli impomatati spettacoli di stagione dalle proposte di giovani gruppi europei di ricerca teatrale partecipativa. I Rimini Protokoll, ad esempio, sono arrivati per la prima volta a Milano nel 2014 proprio grazie al loro invito, aprendo un buco nella stratosfera teatrale milanese per l’ingresso dell’avanguardia europea. L’obiettivo di questa apertura non era tanto il teatro per il teatro, ma l’approfondimento di macrotemi, spesso socio-politici, che interrogano il presente attraverso strumenti a impatto immediato. Ecco quindi il teatro: site-specific, nella maggior parte dei casi, e spesso anche in buona collaborazione con i “big” della scena italiana.
Una realtà piccola, agile, profondamente radicata nel territorio, che per anni ha fatto delle geografie urbane il proprio campo d’azione, inseguendo linguaggi performativi capaci di dialogare con lo spazio e con le persone che lo abitano.

Eppure qualcosa sembra essersi incrinato. Le esperienze partecipative, quella rocambolesca giornata al Parco delle Groane che lo scorso giugno aveva portato il teatro tra i cespugli e i silenzi della periferia milanese, non sembrano avere più presa sul presente. Come se il teatro partecipativo avesse esaurito la propria carica propulsiva. Come se la distanza tra spettatori, attori, associazioni e territori si fosse allungata e assottigliata al punto da esaurire la forza elastica. Lo confermano le stesse direttrici artistiche che, in una nostra intervista per i dieci anni dell’associazione, avevano dichiarato di aver scelto deliberatamente di non fare un festival. E invece…
Si rientra dalla periferia e si riapproda nel cuore della città, anche se decentrato: Fabbrica del Vapore, Teatro Out Off e Teatro Fontana, oltre a luoghi non teatrali, diventano spazio, anzi, “zone” di LIFE, festival che torna a verticalizzare i rapporti e ricostruire la quarta parete. Nel sovraffollato circuito dei festival teatrali, LIFE vuole ricavarsi uno spazio d’ascolto dove il teatro diventi strumento di aggregazione, di dibattito, più che di spettacolarità. La partecipazione diretta viene cambiata di segno, si sfrutta per creare dibattito, ricerca, tensione all’ascolto più che all’azione impulsiva. To see Life; to see the world recitava il motto dell’omonima rivista statunitense di fotogiornalismo. Ed è anche il leitmotiv che ha guidato la scelta dei gruppi, degli artisti e dei performer presenti in cartellone: 22 gruppi di artisti, di cui solo 6 nomi italiani. E forse è proprio lo sguardo internazionale a segnare il vero scarto del nuovo corso di Zona K. Per “vedere il mondo” oggi non basta più esperirlo: serve sviscerarlo, decodificarlo. Non a caso, lo slow journalism sta guadagnando terreno rispetto alle notizie usa e getta. Zona K intercetta questa esigenza di profondità: un’indagine lenta, fondata su fatti e documenti, che rifiuta la logica delle breaking news. Quando questo lavoro si traduce in immagini sceniche, il teatro diventa strumento di comprensione immediata, ma non superficiale.

Tra gli enormi corridoi di mattoni rossi della Fabbrica del Vapore, due sono gli spazi che hanno ospitato la prima parte del Festival LIFE, andato in scena dal 7 al 19 maggio: lo spazio Messina e la maestosa “Cattedrale” che, con la loro architettura post industriale, hanno disposto perfettamente la scenografia concettuale – lo stato grezzo della materia da rimodellare attraverso la riflessione.

Rabih Mroué e Lina Majdalanie, Agrupación Señor Serrano, Boris Nikitin, Nicola Di Chio, Mariam Selima Fieno e Christian Elia, Kepler -452, Lola Arias e Arkadi Zaides sono solo alcuni nomi della scena nazionale e internazionale che si servono del teatro documentario per raccontare la realtà in cui vivono. Tra questi anche il giornalista tedesco Jean Peters, del collettivo CORRECTIV, che, presidiato da due guardie del corpo, accoglie il pubblico da un piccolo palco e un semplice sfondo bianco per slides alle spalle per la conferenza-spettacolo Schwarz Rot Braun (Nero Rosso Marrone). Ottobre 2023, Sicilia. Peters riceve un invito goffo su whatsapp per «un incontro patriottico tedesco per risolvere problemi tedeschi». È così che inizia una delle più grandi inchieste degli ultimi anni sull’estrema destra in Germania. Il racconto che ne fa, in un inglese con forte accento tedesco, è coinvolgente: mostra selfie personali, ricostruisce tassello dopo tassello la strategia con cui lui e il suo collettivo sono riusciti a infiltrarsi nella villa a Postdam dove si è tenuto l’incontro; tutto con ironia e un sostenuto ritmo da podcast true crime ma sorretto da prove concrete e verificabili. È una dimostrazione a soggetto di come il giornalismo d’inchiesta, oggi, sia una delle poche armi rimaste all’opposizione: alla pubblicazione dell’inchiesta sul secret plan against Germany – nel quale i membri dei partiti dell’estrema destra tedesca, tra cui AfD, prevedevano un “remigrazione” di cittadini non propriamente tedeschi, la ridefinizione di concetto di cittadino tedesco e la raccolta di fondi per le elezioni – la Germania ha risposto con una feroce protesta, la più grande dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il rapporto frontale con il pubblico impedisce al giornalista di perdere il tracciato della narrazione: Peters accoglie gli sguardi attoniti e i sussulti e li trasforma, per naturale conclusione di racconto, nel canto corale di Bella ciao, partecipato e sostenuto a gran voce dai presenti.

Jean Peters in Schwarz Rot Braun (Nero Rosso Marrone)

D’altro tipo e d’altro impatto è lo spettacolo del coreografo bielorusso Arkadi Zaides, stavolta immerso nell’immenso spazio della Cattedrale, dove Zaides allestisce due gradinate, una frontale e l’altra lungo il lato destro del palcoscenico. Dall’altro lato, un lungo tavolo di regia e, frontalmente, un enorme schermo bianco. Sgabello, microfono e fogli in mano, Zaides mette a tema un’altra urgenza contemporanea attraverso l’espediente di una catastrofe passata: il disastro di Černobyl’, raccontato dal punto di vista dell’impatto sulla storia personale del coreografo fino al suo più grande riverbero in tutto il mondo occidentale. The cloud è quindi un termine ombrello sotto il quale Zaides mescola la riflessione sulla parcelizzazione fisica delle cellule corporee sottoposte alle radiazioni radioattive, ma anche della disgregazione delle informazioni operate dall’AI per nutrire il proprio database e della minuziosa selezione di notizie del governo bielorusso da far trapelare all’estero. Mentre Zaides legge un lungo monologo che, come da manuale di teatro documentario, attraversa la propria microstoria per riflettere sulla più grande Storia, i tecnici al tavolo di regia utilizzano tool di intelligenza artificiale per tradurre simultaneamente il testo e per suddividere le immagini in un complesso reticolato di testi e fotografie che va via via prendendo vita autonoma sullo schermo retrostante. Finché la narrazione digitale non prende il sopravvento di quella monologica, si distorce e spezza il discorso attraverso distorsioni audio e video, lasciando spazio alla performance di Misha Demoustier in tuta antiradiazioni.

In tutto lo spettacolo non c’è mai appello diretto all’ethos degli spettatori: solo suggestioni visive e sonore che suggeriscono lo schieramento politico della restituzione scenica; mai una presa di posizione esplicita. La commistione di linguaggi enfatizza il concetto di frammentazione, ma segmenta anche il contenuto. Forse è proprio questo l’obiettivo stesso dello spettacolo: cercare di costruire autonomamente una propria mappa concettuale per muoversi nell’universo frammentato delle informazioni. S perde tuttavia immediatezza e si apre la strada a un certo solipsismo.

Misha Demoustier in The Cloud

La scena come lente per leggere il presente è anche la cifra stilistica del collettivo Kepler 452, che Nicola Borghesi, Enrico Baraldi e Paola Aiello hanno fondato nel 2015 con l’obiettivo di scandagliare le storture contemporanee attraverso il teatro documentario. La zona blu quindi rientra perfettamente nelle maglie dell’ampio reticolato tessuto da LIFE, che include con questa lettura anche il tema dell’immigrazione. Lo scorso luglio 2024, i Kepler-452 si sono imbarcati sulla Sea-Watch 5, nave che si occupa di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo. Gli appunti di bordo dell’esperienza quindi sono stati trasformati in una prima lettura scenica, La zona blu, con commento musicale della contrabbassista Francesca Baccolini.
In scena solo Nicola Borghesi racconta l’esperienza con spirito divertito ma mai comico: gli attivisti tedeschi sono «punkabbestia che dirigono le azioni sulla nave con spirito calvinista», che in un mese hanno soccorso 156 persone, sbarcate poi nel porto di La Spezia, con l’aiuto del gruppo italiano. Non c’è neanche in questo caso schieramento politico esplicito: è il racconto in sé che suggerisce una prospettiva, un’angolatura da cui leggere la realtà.

Nicola Borghesi in La zona blu

E si torna allora al principio: LIFE vuole rappresentare una riflessione su che cosa significa guardare, raccontare, testimoniare, senza necessariamente partecipare. In questo senso, la nuova direzione di Zona K si pone in continuità più profonda di quanto sembri con il proprio passato: non un tradimento della relazione, ma uno scarto, un cambio di prospettiva. Dal teatro partecipativo al teatro della testimonianza, dove l’urgenza non è più agire nello spazio, ma decifrare e decodificare l’enorme quantità di dati, narrazioni, immagini che ci circondano.
È uno sguardo che non si limita a documentare, ma cerca un’etica dell’osservazione. Il festival è un invito a restare in bilico tra empatia e distanza, tra immedesimazione e dubbio. Ma come ogni scommessa, contiene già in sé il nucleo della propria disfatta: questa formula crea senza dubbio aggregazione e dibattito, ma se si rivolge a un pubblico già consapevole? Non è comunque un problema diretto di Zona K, ma della generica ricezione teatrale stessa. L’intuizione di fondo resta solida: in un’epoca di sovraccarico informativo, il teatro può tornare a essere uno spazio privilegiato di elaborazione collettiva, purché sappia rinnovare i propri linguaggi senza perdere la propria specificità.

 

SCHWARZ ROT BRAUN

di e con Jean Peters
presentato da CORRECTIV

THE CLOUD

coreografia e regia Arkadi Zaides
drammaturgia Igor Dobricic
sviluppo AI e suono Axel Chemla-Romeu-Santos
direttore della fotografia Artur Castro Freire
performer Misha Demoustier, Arkadi Zaides
direzione tecnica Etienne Exbrayat
co-produzione Montpellier Danse (FR), Charleroi Danse (BE), Maison
de la Danse (FR), Mousonturm (DE), CAMPO (BE)
sostegno alla residenza PACT Zollverein (DE), Orbita | Spellbound National Production Center for Dance (IT), Dialoghi / Villa Manin, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli
Venezia Giulia (IT)

LA ZONA BLU

di Kepler-452
scritto e interpretato da  Nicola Borghesi
video di Enrico Baraldi
compositrice contrabbassista Francesca Baccolini
luci Tiziano Ruggia
in collaborazione con Sea-Watch

Fabbrica del Vapore, Milano | 7-19 maggio 2025

 

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Ode alla Distruzione: il gioiellino di SuckerPunch al Bonsai Festival Ferrara

RENZO FRANCABANDERA | Se proprio dovessi parlare di gioiellino inaspettato di questa prima parte dell’estate dei festival italiani, sicuramente Ode alla distruzione ha tutte le caratteristiche per candidarsi alla definizione. Il collettivo SuckerPunch, guidato da Iacopo Loliva e Manuel Kiros Paolini, l’ha presentato in prima nazionale al Bonsai Festival di Ferrara: un lavoro che indaga con linguaggio punk e musica elettronica i temi dell’apocalisse contemporanea, della fine delle relazioni e delle identità.
Il collettivo, oltre al duo di performer, ha una serie di altre intelligenze che con loro collaborano, ed era già stato in residenza a Ferrara negli spazi gestiti da Ferrara Off, l’associazione che promuove fra maggio e giugno anche il festival Bonsai. Come abbiamo testimoniato in diversi articoli che hanno accompagnato la rassegna in queste ultime settimane, Ferrara Off è una realtà che negli anni ha saputo costruire una dimensione alchemica che, pur nel piccolo (non viene casuale il titolo della rassegna), cerca di attirare qualità, ospitando non solo artisti italiani, ma anche giovani realtà che crescono fuori dal territorio nazionale.
Nel caso di SuckerPunch, si tratta certamente di una dimensione ibrida: il duo ha caratteristiche artistiche e vocazione internazionali, essendo i due performer uno basato ad Amsterdam e uno a Berlino, ma sono entrambi di origine italiana. Sono fuggiti non solo con il cervello ma con tutto il corpo, per usare la metafora cara di questi tempi a chi cerca fortuna fuori dai confini nazionali. Eppure, nel talk successivo allo spettacolo, ci confermano tristemente che anche all’estero, dove per molti anni gli artisti hanno avuto grande supporto – sicuramente maggiore di quello che potevano avere qui in Italia –, le cose stanno purtroppo cambiando.
Ad ogni buon conto: il duo era stato ospite in residenza a Ferrara anche l’anno scorso e aveva già presentato agli spettatori del festival un primo esito che si concentrava sulla parte più fisica, all’interno di una scenografia fatta di scatole. Le scatole ora sono completamente sparite per lasciare il posto ad un vuoto scenico interrotto, a destra, da un paio di sedute, di cui una a forma di poltrona, dove gli spettatori all’ingresso in sala trovano Manuel Kiros Paolini seduto in costume da bagno e occhiali balneari, a leggere il finale di alcuni libri, accatastati ai piedi della poltrona.

Disegno live di Renzo Francabandera

Lo spettacolo, prodotto con il supporto di AFK, Ferrara Off e Amsterdam Fringe Festival –dove ha debuttato–, si inserisce nel percorso del collettivo, che in questi anni ha cercato di coniugare le pratiche artistiche differenti di Loliva e Paolini, coniugando un teatro fisico e sperimentale che mescola performance, sound design e drammaturgia radicale; che accoglie, dunque, non solo il gesto ma anche la parola. Quello che è successo fra l’anno scorso e quest’anno è molto semplice e lo raccontano i due nell’incontro con il pubblico a fine performance: dopo aver enucleato una serie di riflessioni, sia testuali che fisiche, relative al concetto della fine, dell’apocalisse e della possibilità soggettiva di avvertire una possibilità di soccorso quantomeno emotivo in questo scenario così cupo come quello che stiamo vivendo, i due hanno affidato tutto questo materiale incandescente a una figura terza, un drammaturgo, affinché mettesse assieme e trovasse una sorta di filo logico capace di tenere assieme il tutto. La drammaturgia di Marcus Peter Tesch che, appunto, ha voluto costruire il suo collage partendo dall’idea della fine, struttura lo spettacolo come una sequenza di quadri che esplorano la distruzione non solo come evento catastrofico ma anche come possibilità di rinascita.
La dimensione recitata iniziale, così come le azioni fisiche, è fatta di spezzettamenti e di azioni interrotte che mantengono comunque una capacità fluida di confluire l’una nell’altra, senza che si avverta in modo drammatico alcun salto. Qui e lì, in questo debutto, affiora qualche piccola didascalia di gesto, di espressione o di parola, ammiccamenti da pulire; ma sono piccoli alleggerimenti, che nel complesso non cambiano l’intonazione acuta e piacevolissima, oltre che profonda, della performance.
Personalmente ho anche riso moltissimo, sebbene come hanno spiegato i due performer, l’intenzione ironica non fosse in origine la direzione in cui si erano mossi; anzi, quasi non la vedevano. Solo il riscontro del pubblico in sala ha fatto emergere il posizionarsi del fatto poetico in quell’interstiziale confine fra tragico e comico, confine che poi effettivamente, nella seconda e ultima parte del lavoro, viene in qualche modo esplorato, vuoi dalla autoconfessione drammatica ma anche goffa, a testa in giù, di uno dei due sul voler essere un croissant vuoto, mentre l’altro che lo tiene fa le faccine; vuoi perché frangenti espressivi di questa fatta che indagano la fine, finiscono sempre per essere anche comici, in qualche misura.

La composizione musicale di Jonathan Bonny, tra elettronica e rumore, interagisce in modo felice con i corpi degli interpreti rimanendo l’unico elemento fluido e continuo dei segni scenici, mentre le luci di Grace Morales Suso contribuiscono a creare un’atmosfera immersiva che, in alcune sequenze, si sposta su cromie verdi, totalmente disumane, proiettando a fondale un ambiente extraterrestre dentro il quale le due figure si muovono controluce. È un’opera che “cerca la speranza in visioni apocalittiche, l’amore nella scomparsa assoluta e un nuovo inizio nella fine”, confermando la cifra stilistica del collettivo, già emersa in lavori precedenti come The End (2021). La collaborazione con Setareh Nafisi aggiunge un ulteriore livello di ricerca sul movimento e sulla presenza scenica, in linea con le sperimentazioni performative che caratterizzano il duo.

Lo spettacolo ci è molto piaciuto: è un’esperienza intensa e fisica, coerente con l’estetica punk e post-teatrale di SuckerPunch e lo conferma come una  realtà assai interessante della scena underground. Bene ha fatto Giulio Costa con gli altri del gruppo di Ferrara Off, nel biennio corrente, a puntare su questo lavoro e su questo sodalizio artistico, poco conosciuto in Italia . Ma auguriamo a Ode alla distruzione di poter anche circolare molto in Italia, perché è davvero un lavoro capace di toccare con delicatezza temi drammatici, e in cui, a onor del vero, la partitura fisica in alcuni momenti raggiunge un livello di complessità esecutiva assai elevata, rara da vedere in Italia, senza che questo si trasformi in esibizione del gesto atletico, restando invece ancorata a un fare poetico estremamente delicato e fragile. Da vedere!

 

ODE ALLA DISTRUZIONE 

di e con Iacopo Loliva e Manuel Kiros Paolini
composizione musicale Jonathan Bonny
collaborazione con Setareh Nafisi
testo e drammaturgia Marcus Peter Tesch
disegno luci Grace Morales Suso
con il supporto di AFK, Ferrara Off, Amsterdam Fringe Festival
Bonsai Festival, Ferrara | 18 giugno 2025
PRIMA NAZIONALE

Dichiarazione di preoccupazione e richiesta di intervento sul caso delle dimissioni nella Commissione Consultiva Teatro del FNSV

In qualità di professionisti e professioniste attive negli ambiti dell’educazione teatrale, della comunicazione, del giornalismo e della critica, esprimiamo la nostra profonda preoccupazione per quanto avvenuto nella giornata di ieri, 19 giugno 2025, con le dimissioni di parte della Commissione Consultiva Teatro del Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo (FNSV), in particolare di tutti i componenti designati dalla Conferenza Unificata in rappresentanza della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, dell’UPI e dell’ANCI.

Le motivazioni che hanno condotto a queste dimissioni, come emerso dalle dichiarazioni pubbliche, non riguardano divergenze sul merito dei progetti o sulla qualità dei processi e dei percorsi valutati, ma sono connesse a questioni di metodo che appaiono determinate da logiche di appartenenza a schieramenti e rischiano di compromettere i meccanismi dialettici alla base del confronto politico.

Riteniamo che tali principi e tali modalità non possano e non debbano orientare scelte dalle quali dipendono la sopravvivenza di numerose organizzazioni e il destino professionale di centinaia di lavoratrici e lavoratori del settore.

Non possiamo dimenticare, infatti, che la notizia giunge a pochi giorni dalla pubblicazione dei Decreti di ammissione al triennio 2025-27 per il settore Danza, i cui esiti e i correlati impatti generano allarme e sconcerto per il metodo, oltre che per gli esiti.

Dal nostro osservatorio sottolineiamo con fermezza come ogni processo di valutazione in materia di politica culturale debba fondarsi prioritariamente sull’autonomia di giudizio, la trasparenza e la competenza, al di là della adesione a qualsiasi partito politico, nel rispetto tanto delle funzioni consultive delle Commissioni quanto del mandato di accordato alla rappresentanza politica.

In questo momento, la Commissione Teatro non dispone della totalità dei suoi componenti e in particolare della rappresentanza espressa dagli enti locali.

Chiediamo perciò un ripristino di metodi di lavoro sollevati da ogni appartenenza o pressione politica e di principi di valutazione liberi da ogni vincolo che non sia determinato altro che dalle specifiche competenze dei commissari, restituendo credibilità e serenità al processo di esame delle domande. Rivolgiamo un appello al Ministro affinché si adoperi in tal senso, respingendo le dimissioni dei commissari.

Altre Velocità, Ateatro, Il Tamburo di Kattrin, PAC Paneacquaculture, Stratagemmi, teatroecritica,Theatron 2.0

Adesioni
Graziano Graziani (Stati d’eccezione), Massimo Marino e Rossella Menna (Doppiozero)

Aggiungi la tua firma: https://forms.gle/PdQQ2J56g6o4vLRq7



Inquieta e superba, la voce di Ortese chiude i Racconti Romani al Torlonia

LAURA NOVELLI | Quanta inquietudine nelle straordinarie pagine in cui Anna Maria Ortese racconta i suoi viaggi. Quanta acutezza di sguardo. Quanta capacità di comprensione e, insieme, quanta amarezza nei giudizi, nelle riflessioni di carattere socio-politico, nei ritratti umani riservati a un’Italia post-bellica così tanto ferita, dolorante, contraddittoria. Non è una lettura scontata né facile né comoda. Eppure, ogni nuovo avvicinamento al mondo della scrittrice, ne schiude di inesplorati; diventa un viaggio dentro di noi, dentro la nostra Storia patria, dentro i nostri luoghi, dentro la modernità. 

Lo dimostrano le tante sensazioni vitali che scaturiscono dalla visione de La lente scura, spettacolo con cui il Teatro Torlonia – elegante sala all’italiana edificata a metà ‘800 nel parco dell’omonima villa e gestita dal Teatro di Roma – ha chiuso la sua felice stagione 2024-2025 (fatta eccezione per l’evento Me Myself and AI/A Broad svoltosi il 15 giugno), sugellando il successo di una linea programmatica costruita proprio sulla parola letteraria e poetica, sulla visione illuminata di alcuni grandi autori, sul vigore di una lingua che sappia ancora e ancora e ancora parlare all’oggi e sappia, tanto più, nutrirne lo spirito.  

Ph. Claudia Pajewski

Inserito nella rassegna Racconti romani – ciclo di eventi dedicati a indagare Roma e le sue trasformazioni attraverso la voce di celebri scrittori quali, oltre Ortese, Flaiano, Debenedetti, Ginzburg, Parise, Moravia – e diretto dalla sensibilità registica di Lucia Rocco, il lavoro è, a nostro avviso, un piccolo gioiello di sintesi letterario-teatrale. Quarantacinque minuti di spettacolo dove la materia scenica, pur se copiosamente ispirata ad alcuni degli articoli di viaggio redatti da Ortese nell’arco di oltre un decennio (e poi confluiti nel volume La lente scura, edito da Adelphi con curatela di Luca Clerici), riesce a condensare l’intero “pellegrinaggio” interiore che la protagonista compie dal suo arrivo a Roma fino al giorno della sua partenza: «La prima sensazione che si prova arrivando a Roma dal Nord con un treno della mattina – scrive in La diligenza della capitale – è quella di una straordinaria euforia. Sul primo momento, questa città non sembra neppure vera. […]».  E la protagonista non potrebbe essere altri che la scrittrice stessa, qui affidata alla matura espressività della brava Francesca Piccolo, sempre misurata e incisiva, cui si affianca l’eclettica presenza di un giovane uomo, Federico Gariglio, chiamato a ricoprire diversi ruoli. 

Il tema del viaggio è d’altronde ben chiaro sin dall’incipit della pièce, laddove vediamo gli interpreti seduti uno di fronte all’altra nel vagone di un treno dominato da un’ampia finestra dietro cui “scorrono” immagini di paesaggi familiari (contributi video di Alessandro Papa). Nulla è messo a fuoco chiaramente nella semplice, ma significativa, scenografia firmata da Marta Crisolini Malatesta: una sorta di spazio allusivo di molti spazi altri, pronto ad accogliere la narrazione intermittente di Ortese/Piccolo e di accompagnarne le diverse tappe, scandite anche dai puntuali intarsi musicali di Ran Bagno, senza mai cedere al descrittivismo o al didascalico. 

Ph. Claudia Pajewski

Nulla è messo a fuoco anche perché la concretezza dei luoghi e delle situazioni viene assorbita in una dimensione essenzialmente psicologica, dove esterno e interiorità si con-fondono e dove tutto è osservato attraverso una lente che apre al dettaglio, che scruta la profondità, che legge la bellezza ma che, essendo scura, restituisce, giocoforza, un mondo offuscato, torbido, duro, ingiusto, talvolta persino angosciante. E di questo mondo Roma – città alla quale, ci piace ricordare, diversi anni fa proprio il Teatro di Roma dedicò il corposo progetto Ritratto di una capitale – è una cartina di tornasole emblematica. Il desiderio di trascorrervi un’estate «silenziosa» cede presto il passo alle difficoltà legate all’alloggio, alla solitudine, alla mancanza di denaro, alla «debolezza delle creature ospiti», alla ricerca di vecchi amici con cui condividere una cena.

Lo sguardo attento dell’autrice di Corpo celeste e Il mare non bagna Napoli attraversa palazzi e rovine della capitale, indugia su piazze e strade celebri, arriva fino al mare di Ostia: «Lo spazio, la luce in cui sono immerse le piazze, le strade, i gialli palazzi umbertini; le prime deliziose rovine, le frescure delle fontane, pini improvvisi che si aprono nel cielo di cobalto preannunciano una tale libertà fantastica della natura, in cui giacciono storia e costume, da darvi il capogiro»  

Ph. Claudia Pajewski

Uno sguardo, il suo, che accarezza la magia della città eterna, notando però la «disattenzione perenne degli uomini che la abitano», denunciando i mali di una borghesia che non è vera borghesia quanto, piuttosto, un «grumo di sangue» formatosi grazie alla massiccia emigrazione dal Sud, «una gigantesca cucina per menù privati», una classe sociale alla quale mancano innocenza e spensieratezza e i cui unici ideali sono «mangiare e abbigliarsi». 

In questo sorprendente puzzle di memorie e suggestioni, irrompono poi i versi di una celebre poesia di Montale (La casa dei doganieri); irrompe un senso di terrore implacabile che riempie le notti insonni agganciandosi al ricordo di un libro di Kierkegaard sull’angoscia. Angoscia per chi non possiede un’abitazione, una terra, un luogo. Angoscia per chi si vede privato dei propri diritti fondamentali. Per chi non ha libertà perché è stato espropriato da un Paese che appartiene solo a pochi privilegiati. Angoscia per un’Italia che stenta a riprendersi dalle rovine di un conflitto disastroso. Un’angoscia di cui Ortese stessa era ben consapevole, tanto che nella postfazione a La lente scura leggiamo: «C’è stato un tempo, quello compreso tra la fine della guerra e gli ultimi anni del Cinquanta, in cui non ho fatto che viaggiare. Le cose viste – uomini e paesi – le ho viste sempre deformate dalla sofferenza, dall’ansia, come da veloci illusioni di tregue e riposi. Il mio problema di fondo era sempre il problema economico: un eufemismo per non dichiarare troppo apertamente la questione della sopravvivenza fisica. Dunque, dopo la guerra, ancora questioni di sopravvivenza fisica […]». 

Questo impegno politico attraversa gran parte della partitura drammaturgica della pièce, sposandosi ad un lirismo mai banale e mai enfatico (le “tregue”, appunto, i “riposi”) dentro al quale le voci dei personaggi evocati – tenuti costantemente in bilico tra immedesimazione e punte di straniamento dai due giovani interpreti, capaci di ottime modulazioni vocali – rimangono tuttavia in lontananza, distaccate, distanti, come se il desiderio di perdersi in ogni altrove e di perdersi, tanto più, nella lingua non avesse alcun senso senza una lucida consapevolezza della Storia e dei bisogni degli ultimi. 

Qui crediamo risieda uno dei maggiori pregi di questo lavoro prezioso, cui l’originale lettura scenica di Rocco (interessante regista che il prossimo anno, sempre al Teatro Torlonia, curerà un allestimento di Le notti bianche di Dostoevskij) regala compattezza di visione, ritmo e un avvolgente registro poetico, non scevro da note nostalgiche, non tanto per un tempo e un momento storico ormai passati quanto per la forza con cui questa scrittura ne ha saputo cogliere le pieghe più nascoste. Una nostalgia che, dunque, non guarda indietro quanto al presente e al futuro. Viene naturale, infatti, pensare a cosa avrebbe detto Anna Maria Ortese del nostro mondo sconquassato, delle angosce contemporanee, di questa Roma confusa che si dimena ogni giorno tra secolare bellezza e ingiustizia sociale. Di questa nostra Italia ancora oggi ombrosa, contraddittoria, di cui la scrittrice stessa, seduta nel treno che la riporta al Nord, osserva le grandi distese verdi, i boschi, e «i poveri che si coprono la fronte» sotto il manto della natura. Le sue parole arrivano forti alla platea, rivelandosi di un’attualità sconcertante. Impossibile, perciò, non uscire da teatro mossi da un irrefrenabile desiderio di leggerle. E rileggerle.      

LA LENTE SCURA

dai testi di Anna Maria Ortese
con Francesca Piccolo e Federico Gariglio
regia di Lucia Rocco
contributo sonoro Ran Bagno
contributo video Alessandro Papa
progetto scenico Marta Crisolini Malatesta
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale

Teatro Torlonia, Roma | 6 giugno 2025