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mercoledì, Ottobre 9, 2024
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Mercurio Festival: A different present in queerness

Foto di Nayeli Salas

SOFIA BORDIERI* | Siamo a Palermo in occasione del Mercurio Festival, un evento premiato anche, dopo l’edizione dello scorso anno, dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro. L’esperimento della direzione partecipata da artistə continua e evolve anche nella sesta edizione con una programmazione che si sviluppa dal 21 settembre al 5 ottobre tra gli spazi dei Cantieri Culturali alla Zisa. Lo sguardo cui diamo seguito sarà posto, nello specifico, sull’ultimo week end di settembre, con spettacoli visti particolarmente connessi al titolo di questa edizione: A different present.

Un presente diverso è quello che si vive con The present is not enough di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo, autrici e performer insieme a Giacomo Ag, Tony Allotta, Gabriele Lepera, Fedra Morini e Ondina Quadri. Entriamo nel grande salone dello ZAC_Zisa Arti Contemporanee dove all’ingresso, durante lo sbigliettamento, osserviamo una serie di fotografie, proiettate su una parete, che ritraggono New York e la zona portuale di Chelsea degli anni Settanta: inquadrature laterali, squarci o campi lunghi immortalano diversi corpi di una comunità che si mostra, emancipandosi dal “buio”.
Circoscriviamo poi lo spazio scenico abitato da fari montati su aste a rotelle, una striscia di cartone con scritto il titolo dell’opera, un baule su cui un corpo seduto succhia l’alluce di un proprio piede. La suzione intenzionalmente e delicatamente erotica dà avvio all’azione.
Dopo il buio sei performer sedutə e sdraiatə in un unico gruppo ci osservano. I corpi non binari completamente nudi o seminudi sono vicinissimi a noi.  Ci fissano a lungo, i loro occhi non tentennano, creando un disagio mosso personalmente dalla domanda: non vorrei fissare o non vorrei essere fissata? Le presenze emanano così tanta energia che solo in seconda battuta faccio caso all’ambiente sonoro gestito da Ilenia Caleo in una regia posizionata a lato, accanto alle sedute.
L’agire complessivo si sviluppa in vari attraversamenti in cui tuttə si spogliano, si vestono, camminano, spostano le luci, si sdraiano per poi fermarsi in gruppo e fissarci e ancora, piangere, ridere e tornare impassibili. Alcuni cartoncini in scena vengono spostati per creare conformazioni spaziali diverse dove poter stanziare; in più momenti appare chiaro il collegamento all’immagine dei bagni pubblici, luogo simbolo di battuage cioè della vita sessuale libera nella comunità gay. Con gli stessi vengono costruite e disfatte divisioni o semplici coperture parziali. Ogni componente del pubblico, infatti, ha un punto di vista che cambia in base alla propria collocazione fisica. The present is not enough è poco descrivibile perché flusso centrifugo di energie che diventano plastiche nello spazio.

Foto di Nayeli Salas

La performance, messa in azione delle fotografie viste in apertura, fa riferimento a diverse autorialità artistiche e teoriche queer (tra cui David Wojnarowicz, José Esteban Muñoz, Samuel R. Delany, Olivia Laing, Peter Hujar, Jonathan Weinberg, Jack Halberstam, Douglas Crimp, Shelley Seccombe, Alvin Balltrop, Leonard Fink, Tava) provenienti, alcune, da quel momento storico. Mi appare particolarmente utile fare riferimento a Cruising Utopia un “classico del pensiero deviante” di Muñoz per cui «il queer è un modo di desiderare strutturante e colto che ci permette di vedere e sentire oltre il pantano del presente» che, non essendo pregnante di pensiero critico, è anti-utopico. Il presente che naturalizza capitalismo e eteronormatività è, in altre parole, un tempo che promette futuro solo a chi nel qui e ora aderisce alla struttura sociale, economica, culturale dominante. Nel presente che quindi non è abbastanza, il queer è un salto al di fuori dallo straight verso una diversa appartenenza collettiva. Calderoni/Caleo hanno reso questi concetti fenomenologici ricerca performativa, con presenze e azioni attraversanti e occupanti densamente la scena.

Sull’ondata della queerness la serata continua con Esercizi di equilibrio sull’asse di genere di e con Élan D’Orphium. La figura nuda, per tutta la durata in penombra, esegue su un tavolo una sequenza di esercizi fisici ripetuta quattro volte. Una camminata lungo il contenuto perimetro di legno è come una ricognizione d’apertura, anticipatoria della serie di affondi laterali, squat, equilibri.
L’avvio è a piedi nudi con l’accompagnamento di un metronomo che scandisce il tempo. Ogni nuova serie poi viene svolta dopo aver indossato scarpe decolleté, dai tacchi sempre più vertiginosi, arrivando (ad occhio) ai trenta centimetri. Il beat ticchettante è soffocato e sostituito da espirazioni e traballii dei tacchi che segnano un tempo più fluido seppur sempre rigoroso. L’impressione è quella di assistere a un fenomeno spettacolare da fiere universali del primo Novecento, una dimensione questa accentuata dall’aspetto androgino di D’Orphium che sul proprio corpo mostra quadri disegnati da carte da gioco, una capigliatura che ricorda il Jolly e una parrucca-ponytail protesi pelosa attaccata sul pube. I movimenti delle braccia equilibrano l’asse del corpo sempre più sottoposto all’estremo. Sono misurati e sviluppati in avanti e indietro, con una particolare articolazione delle dita che ricorda il flamenco. L’atmosfera carica di tensione e di empatia del pubblico è palpabile, ma i movimenti di D’Orphium nell’elevazione estrema sembrano più sicuri, determinati. Una performance semplice nell’idea ma forte e chiara, capace di farci chiedere: quanto è più scomodo stare lì con noi che stiamo a guardare?

Foto di Nayeli Salas

Si cambia tono con Premonition di e con Giorgia Ohanesian Nardin, un lavoro che intreccia danza e scrittura. Entrata in scena completamente nuda, si veste, indossa anfibi e due cinture da danza del ventre, una in vita e una sotto al seno, con l’aiuto di F. De Isabella che dirige il disegno sonoro su un tappeto persiano. La danza d’inizio, il cui suono viene registrato dalla danzatrice stessa, si sviluppa nello spazio con movimenti direzionati da segmenti precisi del corpo – mani, gomito, testa, tronco – con focus saltuari sulle oscillazioni del bacino. Si aggiungono via via espirazioni silenti e rumorose che producono talvolta sonorità erotiche, gemiti e stridi acuti accompagnati da movimenti della bocca e della lingua. Cesura di questo momento è la lettura di un testo scritto da Ohanesian Nardin che dà voce a molteplici riflessioni legate al tema dell’ardore mescolate a domande esistenziali. Il testo è una creazione molto interessante, una coraggiosa esposizione del sé in cui è possibile talvolta proiettarsi, immergersi e perdersi. Una serie di azioni, tuttavia, inizia a creare scollamenti strutturali.
Nonostante l’incipit sia esso stesso ambiguo con la vestizione in scena, azioni come intrecciarsi i capelli, cantare sottovoce Believe di Cher, salutarci con un “buonasera, grazie di essere qui” per poi tornare nel proprio flusso riflessivo, si configurano come distrattori. Il testo, sul volgere della fine, si compone sempre più di termini ermetici e sintassi criptiche che insieme all’agire costruiscono una chiusura progressiva verso chi assiste. In quella “camera” privata, allora, chi è davvero l’interlocutore? Proprio poco dopo quel saluto diretto, ci si sente un po’ persi davanti a un acting centripeto.

Foto di Marco Ernani

Il week end è stato ricchissimo di performance musicali con Riad Nassar e Camilla Pisani che hanno costruito propri viaggi fluttuanti e ambient e con Nava e Silvia Calderoni protagoniste di dj-set coinvolgenti ed entusiasmanti. Per i più piccoli è stato portato in scena Scherzo a tre mani di Dario Moretti con Saya Namikawa al pianoforte, uno spettacolo divertente di pittura e musica.
Un appuntamento da porre in luce è stato quello con il cinema, il primo per il Mercurio Festival, con la proiezione di Lisca Bianca diretto da Giuseppe Galante e Giorgia Sciabbicca. Un film documentario toccante sulla storia dei coniugi Albeggiani che, dopo aver deciso di vivere in mare, nel 1984 hanno intrapreso un viaggio attraversato l’Atlantico a bordo della loro barca a vela “Lisca Bianca”. Una barca che oggi scrive nuove storie in quanto luogo attivo e mobile di progetti sociali e turismo sostenibile promossi dall’omonima associazione.

 

LISCA BIANCA
regia e fotografia Giuseppe Galante e Giorgia Chiara Luna Sciabbica
suono Francesco Vitaliti
montaggio Beatrice Perego, Giuseppe Galante
supervisione al montaggio Chiara Andrich
musiche originali Sergio Beercock
produttori Chiara Andrich, Andrea Mura, Giovanni Pellegrini
Una produzione Ginko Film
Realizzato nell’ambito del Patto per lo Sviluppo della Regione Siciliana (Patto per il Sud) FSC 2014-2020
Con la collaborazione di Associazione Lisca Bianca; USSM – Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Palermo con annesso centro diurno polifunzionale del Ministero della Giustizia – Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità; CRicd – Centro Regionale per l’Inventario, la Catalogazione e la Documentazione grafica, fotografica, aerofotogrammetrica, audiovisiva.

THE PRESENT IS NOT ENOUGH
un progetto di Silvia Calderoni / Ilenia Caleo
con Giacomo AG, Tony Allotta, Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Gabriele Lepera, Fedra Morini, Ondina Quadri
suono Gabor + SC
cura e produzione Elisa Bartolucci
consulenza drammaturgica Antonia Ferrante, e moltx amicx* praticanti
co-produzioni Azienda Speciale Palaexpo – Mattatoio | Progetto Prender-si Cura, Kampnagel (Hamburg), Kunstencentrum Vooruit vzw (Ghent), Motus Vague
con il supporto del progetto residenze coreografiche Lavanderia a Vapore (Torino)

 ESERCIZI DI EQUILIBRIO SULL’ASSE DI GENERE
un’opera di Élan d’Orphium

SCHERZO A TRE MANI
ideazione di Dario Moretti
con Dario Moretti e Saya Namikawa
musiche di Béla Bartòk 

PREMONITION
testo e movimento Giorgia Ohanesian Nardin
disegno del suono F. De Isabella
prodotto e sostenuto da Associazione Culturale VAN, Ministero della cultura, Regione Emilia-Romagna, Casa Testori Milano
cura, management e produzione Giulia Traversi

MERCURIO FESTIVAL | Cantieri Culturali alla Zisa, Palermo | 28 e 29 settembre 2024

 

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

 

Castel dei Mondi 2024: un festival di sperimentazione tra memoria, immaginazione e ricerca

SARA PERNIOLA | Ogni anno, tra agosto e settembre, la città di Andria si trasforma in un palcoscenico vivo, ospitando il Festival Internazionale Castel dei Mondi, rassegna teatrale di arti performative dalla natura profondamente trasversale, organizzata grazie al sostegno della Regione Puglia e del Teatro Pubblico Pugliese.                                    Giunto quest’anno alla sua ventottesima edizione (dal 30 agosto al 12 settembre), il festival – guidato anche quest’anno da Riccardo Carbutti – si pone da sempre l’obiettivo di modellarsi come un laboratorio creativo di stampo internazionale dove sperimentare nuove forme di relazione tra arte, pubblico e territorio, invitando il pubblico a partecipare attivamente e a scoprire nuove forme di espressione artistica.
Ispirato nel logo alla maestosa fortezza federiciana che si trova poco distante e con cui gioca sul nome, il festival Castel dei Mondi offre un ricco e variegato programma dove teatro, musica, danza, workshop e installazioni, si intrecciano tra loro, affrontando temi di grande attualità come l’identità, la sostenibilità e soprattutto la memoria, individuale e collettiva.

Raccontiamo di uno degli ultimi giorni del festival, partendo dalla mostra Exodus del celebre artista cubano Michel Mirabal. Militante e con 50 mostre personali alle spalle e circa 70 mostre collettive, già ospite della Biennale di Venezia nel 2013, stimato da personaggi come Fidel Castro e lo scrittore Gabriel Garcia, Mirabal approfondisce in questa occasione una vicenda politica ed umana – quella della migrazione – particolarmente intensa e urgente.  Il progetto Exodus – patrocinato dall’Ambasciata di Cuba in Italia – viene accolto nel prestigioso ed elegante Palazzo Spagnoletti in Piazza Catuma, adibito per l’occasione a contenitore culturale: l’insieme delle opere – quadri, sculture, video, grandi installazioni – riempie, così, gli spazi in stile tardo rinascimentale dell’edificio, esplorando l’interconnessione tra le opere d’arte e l’esperienza quotidiana.   

ph. Vincenzo Fasanella

Ciò che abbiamo di fronte sono frammenti di un puzzle esistenziale, dove il tema del distacco e della morte è affrontato con una drammaticità struggente: le centinaia di passaporti l’uno accanto all’altro testimoniano il passaggio da diverse realtà di vita; i fantocci paurosi, seduti come un pubblico in platea, che guardano un video sulla migrazione, sono identità fantasmatiche e lacrimanti, lacerate dal passato; la serie con le bandiere cubane, i fiori e il filo spinato rappresentano «le cose che ci fanno male, che sono irrisolte, le persone che lasciano», come ha affermato l’artista stesso.
Mirabal unisce, così, la forza del segno pittorico alla passione per le grandi e indimenticabili cause sociali, creando opere coerenti e coraggiose all’interno di un’esperienza estetica profondamente impattante. Un percorso che enfatizza i simboli di Cuba e che si direziona, poi, dappertutto, facendo comprendere come il fenomeno delle migrazioni interessi in modo crescente ogni regione del mondo e ogni individuo. 

ph. Vincenzo Fasanella

Assistiamo all’ultimo spettacolo del programma del festival – Quijote – della compagnia teatrale valenciana Bambalina, in scena presso l’auditorium della Biblioteca Comunale Giuseppe Ceci e riproposto in occasione della commemorazione del quarto centenario della pubblicazione della seconda parte del Don Quijote e della morte di Miguel de Cervantes.
Qui il capolavoro letterario viene reinterpretato in maniera metaforica e criptica, attraverso una lingua inventata ma profondamente espressiva, condensando i valori universali del romanzo in un’atmosfera suggestiva che mischia il gotico con l’espressionismo. Durante questa densissima ora di teatro di figura osserviamo le due marionette – che rappresentano Don Chisciotte e il fido servitore Sancho Panza – agitarsi sulla scena come se fossero vive, animate da un’intensità passionale, quasi esagerata, da parte dei performers manovratori: è come se costoro riuscissero a raggiungere la perfetta padronanza di sé, l’equilibrio tra tutte le loro emozioni e la capacità di rispondere con il loro corpo a tutti gli impulsi della mente e del linguaggio dei personaggi cui danno vita.

ph. Vincenzo Fasanella

Questa stretta e paradossale relazione tra le marionette e i corpi umani degli attori si risolve, dunque, nel constatare come l’aspetto organico (il corpo) e quello inorganico (la marionetta) non risultino in opposizione, ma, al contrario, inscindibilmente e intimamente connessi. Una logica correlativa determinata dalla bravura degli attori Pau Gregori e Jorge Valle, i quali, vestiti di nero, creano un gioco di luci e di ombre in una costante tensione tra due polarità che si sviluppa con gesti precisi, netti e travolgenti, e con una musica decisa e ricca di sfumature.
All’interno di questo meccanismo di perenne trasformazione – poiché marionette e attori vibrano, agiscono, pensano, entrano in relazione tra di loro in modalità sempre differenti – viene rappresentata l’immagine di un cavaliere errante in cerca di sé stesso, un personaggio complesso e sfaccettato che intraprende un viaggio interiore che lo porta a confrontarsi con i limiti della propria immaginazione.                                                                                                             
Una pièce, in conclusione, che nella sua totalità intriga moltissimo lo spettatore, e che ha come maggiore punto di forza l’espressività vocale degli attori, i quali, attraverso una lingua puramente inventata fatta di un grammelot di parole, urletti e sospiri dalla diversa tonalità, veicolano il contenuto e il messaggio di una rappresentazione sorprendente. 

ph. Vincenzo Fasanella

In questo squarcio finale dell’edizione 2024, il Festival Castel dei Mondi si conferma essere un incubatore di idee, un laboratorio di sperimentazione artistica, un luogo dove artisti e pubblico si incontrano per esplorare nuovi linguaggi e confrontarsi sulle costanti sfide del nostro tempo. Un evento ormai storico, che continua ad interessare un vasto pubblico, vestendosi di sempre maggiore interdisciplinarietà e arricchendo il panorama culturale non soltanto di Andria, ma di tutto il territorio. 

EXODUS 

di Michel Mirabal
curatore della mostra Nelson Herrera Ysla 
curatori associati Quique Alvarez, Gustavo Vilariño, Riccardo Carbutti 
video Alejandro Perez 
musica Frank Fernandez
produzione Ingenieria del Arte 
progetto di allestimento Ricardo Sánchez Cuerda 

QUIJOTE 

direzione Carlos Alfaro                                                                                          sceneggiatura Jaume Policarpo
musica Joan Cerverò
attori Pau Gregori e Jorge Valle 
costruzione delle marionette a cura di Miguel Angelo Camacho 
vestiario delle marionette ADAME  
fotografia Vicente A. Jiménez                                                                                  produzione esecutiva Ruth Atienza                                                                              video Sergio Serrano                                                                                              distribuzione Marisol Liminana

Castel dei Mondi, Andria – 10 settembre 2024

Voci dell’anima XXII: a Rimini il festival che accoglie e promuove la scena contemporanea

RENZO FRANCABANDERA | Il Festival Voci dell’Anima è uno di quei festival che nei decenni ha visto passare tutte le generazioni del palcoscenico italiano: giunto alla sua XXII edizione, l’evento si è svolto dal 24 al 30 settembre al Teatro degli Atti di Rimini, consolidando il suo ruolo per la scena emergente del teatro contemporaneo e della danza. Diretto da Maurizio Argan e Alessandro Carli, e promosso dal Teatro della Centena in collaborazione con ResExtensa e il Comune di Rimini, offre un palcoscenico a produzioni emergenti, intenzionate a esplorare con il linguaggio performativo le molteplici sfumature della condizione umana. Anzi, verrebbe da considerare che la sua importanza risieda non solo e non tanto nel suo valore artistico, perché di festival così ce ne sono tanti, ma anche e proprio nel suo impegno nel creare una piattaforma per la promozione, la condivisione e la circolazione delle idee.

La squadra di Voci dell’Anima nello scatto di fine festival (ph. Dino Morri)

Come sottolineato dall’assessore comunale alla Cultura Michele Lari, Voci dell’Anima risponde alle esigenze delle compagnie teatrali emergenti, offrendo loro opportunità di visibilità e di dialogo con un pubblico sempre più diversificato. Il Teatro degli Atti e la Sala Balletto del Teatro Galli sono stati messi a disposizione per accogliere le molteplici attività della manifestazione, diventata ormai un appuntamento fondamentale nel calendario culturale della città, anticipando, per certi versi, la stagione di prosa, e portando il pubblico a confrontarsi con linguaggi nuovi e contemporanei.
Peraltro, il tema scelto per questa edizione, intitolata Gli Altri, riflette l’intenzione profonda di aprire uno spazio per quelle voci spesso trascurate o ignorate, ma che rappresentano una necessità creativa imprescindibile. Attraverso 15 spettacoli, selezionati tra oltre 80 candidature, il festival ha offerto una proposta ricca e variegata, che spazia dal teatro alla danza, passando per reading di poesia e incontri culturali.

Ogni serata del festival è iniziata alle ore 20:30 con la programmazione di Animali da Palco, una serie di interventi curati da Loredana Scianna e Teresio Troll con il contributo di altri artisti e musicisti come Adriano Engelbrecht, Michele La Paglia e Mattia Pancrazi. Questi interventi, collocati prima degli spettacoli principali, hanno offerto un’introduzione letteraria e poetica che ha spaziato dalla poesia dialettale alla canzone di protesta, interpretando autori “ribelli” e isolati della letteratura mondiale, una formula che permette di creare un ponte tra la parola scritta e il linguaggio performativo, preparando il pubblico all’esperienza teatrale vera e propria.

disegno eseguito dal vivo da Renzo Francabandera

La serata del 26 settembre ha portato sul palco tre spettacoli di danza che, pur differenti tra loro per stile e approccio, hanno condiviso un filo conduttore: l’indagine dell’essere umano dietro la maschera sociale e le convenzioni che regolano il nostro vivere quotidiano. Nell’ordine, hanno occupato il palcoscenico del Teatro Galli Splendore di Spazio Continuum, Pink Lady di Rosalie Wanka e Sale Q.B. di Templetheater.

Splendore è una suggestiva interpretazione di Kea Tonetti che si fonda sui canoni espressivi della danza Butoh di cui è esperta interprete, fra le poche in Italia, accompagnata dalla musica dal vivo di Tivitavi. Il musicista è posizionato in fondo sulla destra, seduto con i suoi diversi strumenti digitali e analogici, e apre con i suoni l’accadimento artistico, mentre uno spot illumina con luce fredda la performer distesa sotto un velo. La vedremo poi pian piano prendere vita e mostrarsi a noi, con un sembiante composto da una veste larga nella parte inferiore, color petrolio, che lascia nude le gambe e la spalla, mentre il velo diventerà esso stesso parte del vestito in cui la donna si avviluppa, non meno di quanto provi a separarsi.
La danza Butoh, nota per la sua intensità emotiva e per il suo legame con la spiritualità, tema assai caro alla danzatrice che ne ha fatto ragione dei suoi studi più profondi fra istinto, ragione, governo del sé e intenzione spirituale, è stata qui utilizzata per esplorare il tema della condizione umana e dell’illusione della realtà. Il titolo, infatti, allude all’idea di una bellezza dimenticata, di un’essenza perduta, che si cela dietro il velo di Maya, il concetto orientale che descrive l’illusione del mondo sensibile e che rimanda alle creazioni mistico simboliche e agli archetipi di un altro dei maestri incontrati dalla Tonetti, Jodorowsky.
Anche in questo assolo le tracce di alcune posizioni del Butoh più canonizzate (la tigre, il tempio, il Buddha) si mescolano, per esaltarsi nella lettura che gli artisti intendono portare in scena del bello da cui l’umanità è distante. Ma come noto nel Butoh – pratica artistica nata in Giappone meno di un secolo fa, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, grazie agli sforzi di Tatsumi Hijikata e Kazuo Ohno, caratterizzandosi per il suo aspetto provocatorio – bello e brutto confluiscono in un’indistinguibile mescolanza: mettendo in scena tabù sessuali, la rappresentazione grottesca, decadente, sarcastica della vicenda umana, condensate in pose di cifra espressionistica che si collegano per creare una drammaturgia psicosomatica, il niktuai, corpo inteso come ammasso di carne, si porta al confine e supera il dualismo del bello e del brutto, incarnandoli entrambi nel volgere di poche posture, trasformando, come fa la Tonetti, pose leggiadre in smorfie breugheliane. È proprio l’incarnazione del wabi-sabi, l’estetica giapponese, fondata sull’accettazione della transitorietà e dell’imperfezione delle cose.

disegno eseguito dal vivo da Renzo Francabandera

L’idea platonica della caverna, da cui l’individuo percepisce solo le ombre della verità senza mai afferrarne l’intima natura, è qui rappresentata dall’artista che portando la sua carnale fisicità dentro un complesso di gesti delicati, ma estremi, espressivi, che corrompono pose leggiadre per renderle grottesche, porta l’umano a conoscere la sua condizione misera diventando ella stessa luogo della rappresentazione drammatica. Proprio il desiderio di vivere senza direzioni, senza conoscersi, intrappola l’individuo nel velo di Maya, il dominio delle illusioni. Sul palco, un cigno bianco, simbolo di purezza e bellezza, lotta contro il suo destino, ferito e incapace di riconoscere il proprio splendore.
La performance si propone, quindi, come un viaggio nel subconscio, un grido di ricerca dell’essenza nascosta dietro le illusioni della vita, e come tale non tutti i nessi estetico-filosofici sono leggibilmente consequenziali, pregio, ma anche voluto limite di questo genere di sperimentazioni che vuole dialogare con l’irrazionale. Sebbene il meccanismo coreografico talvolta indugi in schemi di rappresentazione che tornano indietro nel tempo ai nuclei di performatività fisica degli anni Settanta e Ottanta, la danza lenta e a tratti inquietante di Tonetti, così come pure i cenni ora erotici, ora inquietanti affidati al suo corpo esperto, che oscillano fra la copula e la gestazione, fra il volo e il drammatico atterraggio della vita umana, hanno trasportato il pubblico in una dimensione ultrareale.
La danza è sospinta dalla musica dal vivo, che amplifica l’atmosfera evocativa dello spettacolo fra insistenze, stridori e loop sonori, e queste note, pur ammantate di armonia, creano un mindscape complesso e raffinato, che contribuisce a creare un’esperienza di cui rimane a distanza di giorni una certa piacevole e inquietante persistenza retinica.

(ph. Dino Morri)

Di ben diversa fisicità, più libera e ginnico acrobatica, è il successivo Pink Lady della artista tedesca Rosalie Wanka, già vincitrice del Premio Theater Schwere Reiter 2021 di Monaco di Baviera e che ha avuto replica in Italia nel 2022 al Solocoreografico Festival, dove era anche risultato vincitore. Si tratta di una coreografia composta da un dittico che non si limita a essere una pura espressione corporea, ondeggiando come gioco ironico e tagliente tra identità e ruolo sociale. Wanka, attraverso un linguaggio fisico che mescola elementi di danza contemporanea e improvvisazione, vuole portare in scena l’interazione tra l’avatar sociale che ciascuno di noi rappresenta e ciò che si cela dietro questa facciata. L’assolo, nelle due parti in cui è nettamente diviso, dà compiutamente corpo all’intenzione dell’artista che ha dichiarato di aver sempre voluto fare un assolo vestita come una dama del tango, unendoli all’eleganza dei movimenti contemporanei a terra, e quindi effettivamente il gesto oscilla tra la sensualità del tango e la concretezza di un lavoro a terra contemporaneo semi-acrobatico.
Il gesto è pop, a tratti hip-hop, ma si risolve anche in un languido tango, in cui l’artista offre la sua intima corporeità allo sguardo del pubblico. Fra spaccate, breaking e waves che si armonizzano con un gesto quasi da danza urbana, dopo un buio che porta la donna quasi in un camerino a liberarsi delle costrizioni dei vestiti, si arriva a una seconda parte più sensuale, quasi erotica, dove il seno nudo della donna si offre a un vouyeuristico e seducente atto danzato.

I due pezzi hanno codice stilistico diverso ed è proprio la loro giustapposizione l’elemento forse più critico, per la difficoltà di trovare un nesso concettuale organico fra due piccoli assoli con caratteristiche espressive così differenti, pur legati dalla prestanza atletica della artista, il cui gesto rimane sempre spinto a cercare un’intima fatica, uno spasmo capace di sfiancare, un’energia capace di accumularsi e di consumarsi. È comunque proprio la preponderanza di questa energia che sopravanza nello sguardo degli spettatori il tema dell’armonia delle parti, così tanto da permettere al lavoro, a fine Festival, di vincere il Premio Voci dell’Anima, assegnato il 30 settembre con la seguente motivazione: «Un fiore che si presenta monocromatico, ma che sul palco fa volare petali colorati: un lavoro nel cuore, per il cuore, dal cuore, che si compie in un’attenzione certosina al dettaglio, al corpo, al gesto, alle figure, al messaggio. Ma soprattutto all’anima».

Concludiamo con l’ultima proposta della serata, Sale Q.B., un viaggio intimo e delicato, interpretato da Martina Monaco su un’idea di Eva Raguzzoni. L’azione scenica si svolge in un ambiente domestico, a cucina, dove una donna prepara un tiramisù. Sebbene l’allestimento scenico sia qui ridotto all’essenziale rispetto alla dotazione ordinaria, che consiste in un interno domestico molto ricco di dettagli, quanto vede lo spettatore qui a Rimini a noi pare più che sufficiente a definire lo spazio emotivo. A sinistra in fondo un frigorifero, a destra, sempre in fondo, un tavolo di legno di quelli quasi da giardino, al centro, più in avanti, un tavolo da cucina riempito oltremodo di oggetti ed elettrodomestici per la cucina. In fondo, a parete, un orologio, illuminato con un preciso puntatore.
Il tavolaccio a destra da cui inizia l’azione scenica vede il completamento faticoso di una vestizione, con la donna che mette le scarpe in una posizione innaturale, e pare fare una masochistica ginnastica più che un saluto al sole. Una volta vestitasi elegante (per uscire? no, per preparare un tiramisù) l’azione si sposta al centro della scena in un crescendo emotivo che trasforma l’atto di cucinare in una riflessione esistenziale. Le azioni sono quelle della preparazione del famoso dolce, ma pian piano fra spasmi, micro deliri posizionali, esaltazioni gestuali della disperata solitudine, gli “ingredienti” dell’impasto coreografico diventano metafora di qualcosa di più complesso.
Mentre la protagonista esegue dal vivo, fra macchinetta del caffè, frusta, uova, farina, i vari passaggi della ricetta – e qui qualcosa si può compattare per dare priorità alla continuità dell’atto coreutico sul montare degli albumi – si innesca un flusso di coscienza da “desperate housewife” che rivela pensieri ed emozioni inespresse e a tratti incoerenti, che culminano nell’azione finale, che la vede cospargersi di cacao in un tutt’uno con il dolce (in cromatico pendant con i toni del bellissimo vestito dalla fantasia damascata, preziosa combinazione armonica di cui si deve il riconoscimento al lavoro sartoriale di Natalia Korolkova).

disegno eseguito dal vivo da Renzo Francabandera
disegno eseguito dal vivo da Renzo Francabandera

La cucina, luogo di sicurezza e comfort, si trasforma in uno spazio di introspezione, dove l’ordine quotidiano cede il passo al caos interiore. La forza dello spettacolo risiede proprio in questo contrasto tra la precisione dei gesti e la crescente disorganizzazione dei pensieri, fino a culminare in un finale in cui la protagonista è lasciata sola, in balia delle sue emozioni, a soffiare su questo tiramisù diventato torta di un triste e solitario non-compleanno, ma l’empatia travolge il pubblico presente in teatro che, mentre le luci calano su questa epifania di rara solitudine, inizia a cantarle in coro “Tanti auguri”.
Sale Q.B. colpisce per la sua delicatezza, ma anche per la sua capacità di guardare dentro la solitudine e il senso di vuoto con una poetica sottile e toccante. Ha colpito così tanto da ricevere ex aequo con a La luna e i falò -Time never dies di INTI/Luigi D’Elia il Premio della Critica con la seguente motivazione: «Originale, e a tratti piacevolmente anomalo, lo spettacolo si compie in ogni dettaglio: le luci, il movimento e il gesto (che non sono la stessa cosa) cuciono e cuociono una ricetta scenica che fa bene agli occhi, al cuore e al teatro stesso» e anche il Premio Confine Corpo:«Una manciata di ingredienti apparentemente semplici sono il pre-testo che apre la porta dell’intimità: intimità di spazi, di movimenti sempre controllati, di voragini che si aprono su una solitudine profondamente attuale, fatta anche di momenti inconsapevolmente comici».

Una serata di emozioni, riflessioni e arte, in cui la danza è stata utilizzata come mezzo per esplorare le profondità dell’umano, sia nelle sue manifestazioni più quotidiane che in quelle più spirituali e trascendenti. Tre visioni differenti, ma complementari, e tutte al femminile: dall’ironia più algida e fisica di Pink Lady, all’introspezione esistenziale di Sale Q.B., fino alla profondità mistica di Splendore. Voci dell’Anima si conferma così un appuntamento capace di giustapporre linguaggi artistici che invitano il pubblico a riflettere, emozionarsi e, soprattutto, a lasciarsi sorprendere.

SPLENDORE

di e con Kea Tonetti
musica dal vivo Tivitavi
produzione Spazio Continuum

PINK LADY

concept e interpretazione Rosalie Wanka
musica Don Alfredo Gobbi/Eduardo Rovira BangBang/Nancy Sinatra
costumi Fabian Kipp
fotografia Mehmet Vanli

SALE Q.B.

con Martina Monaco
da un’idea di Eva Raguzzoni
costumi Natalia Korolkova
luci Antonio Santangelo

Teatro degli Atti, Rimini | 26 settembre 2024

In comune di Ambra Senatore: variazione e sorpresa

Ambra Senatore In Comune Courtesy Laurent Philippe

ENRICO PASTORE | L’oggetto di riflessione nell’ultima coreografia di Ambra Senatore In Comune, in cartellone a Torinodanza Festival, è la dinamica attraverso cui si costituisce una piccola comunità. Dodici danzatori, tra cui la stessa Senatore, illuminano i gesti minuti, variati e ripetuti, che costituiscono il nostro vivere in comune. Variazione e ripetizione sono le parole chiave che governano quest’opera.
I danzatori occupano la scena all’entrata del pubblico. Compiono piccolo gesti, come leggere un libro, e mostrano le conseguenze che tali atti singoli riverberano sugli altri. Chi sbircia, chi domanda quale libro si stia leggendo, chi disturba la lettura. È solo il preambolo dell’intricata tessitura da cui emergerà il disegno.
Ambra Senatore è un’artista cui piace l’ironia, la leggerezza e la meraviglia con un leggero tocco di disorientamento, anche di fronte a ciò che più ci spaventa. Il gesto di mangiare un biscotto da un barattolo di vetro, ripetuto più e più volte, si sviluppa in ramificazioni sempre sorprendenti: è offerto e rifiutato, sia da chi prende, sia da chi dona; genera affetto, amicizia, tenerezza, ricordo, ma anche conflitto. Persino una semplice camminata lungo lo spazio, nella ripetizione, coglie sempre lo sguardo impreparato. Succede come nella famosa performance di Nam June Paik con il violino. C’è Paik con in mano un violino davanti a un tavolo. Lo alza sopra la testa e con violenza lo scaglia verso il tavolo, fermandosi un attimo prima di distruggerlo. Questa azione si ripete un numero infinito di volte, tanto che alla fine ci si accoccola nell’iterazione senza aspettarsi più nulla, ed è allora che l’artista spacca il violino, quando l’azione ripetuta all’infinito rende l’esito atteso non più scontato. Lo sappiamo fin dall’inizio che quel violino finirà in pezzi, ma quando avviene ne siamo sorpresi. Sono la tensione e l’aspettativa che vengono dilatate, disattese e poi risolte con violenza.
Ambra Senatore usa lo stesso procedimento, ma con maggior gentilezza e grazia.

Ambra Senatore In Comune Courtesy Bastien Capela

I danzatori continuano a intrecciare gruppi di gesti tra loro, come dei tessitori di tappeti, par far emergere nuove configurazioni del gruppo. E questo lavorio da piccolo sciame di insetti operosi viene contrappuntato dal racconto della vita animale: di formiche appartenenti alla stessa specie che negli opposti versanti delle Alpi, sviluppano dinamiche differenti di interazione e comportamento, di orche e felini che torturano le proprie prede prima di cibarsene, di fiori e piante che usano colori sgargianti a volte per attirare, altre per respingere, dell’eucalipto che trae pagliuzze d’oro dalla terra attraverso la linfe e le cui foglie morte sono offerte al pubblico. L’infinita trama della natura risulta composta da ripetizione e variazione, e sempre il processo porta meraviglia e tenerezza anche nell’orrore.
Se c’è una cosa che Ambra Senatore ha imparato da Carolyn Carlson, di cui è stata allieva alla Biennale di Venezia, è la gestione dei ritmi e degli insiemi dei danzatori. Sapienti tessiture ritmiche animano l’azione sulla scena, anche quando non si danza, quando semplicemente si propone un gesto comune. È la coreografia che regna sulla danza e sul teatro, perché alcune scene o passaggi sono puramente teatrali. Come il finale, dove i danzatori si prendono per mano e invitano gli spettatori a unirsi con loro in una catena che li unisce fino all’ultima fila. Poi rimangono così, congelati, ciascuno con una differente espressione sul viso, come in un bassorilievo.

Ambra Senatore Courtesy Bastien Capela

In comune è racchiuso in una bellissima poesia della poetessa iraniana Forugh Farrokhzad recitata e offerta agli spettatori dalla stessa Ambra Senatore, di cui, in conclusione, riportiamo alcuni versi che ben raccontano l’intero spettacolo:
«Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio,
e aveva il volto della mia vecchiaia
E saluterò la terra, il suo desiderio ardente
di ripetermi e di riempire di semi versi il suo ventre infiammato
Sì, la saluterò,
la saluterò di nuovo».

 

IN COMUNE

coreografia Ambra Senatore
in collaborazione con gli interpreti in scena Youness Aboulakoul/ Philippe Lebhar, Pauline Bigot, Pieradolfo Ciulli, Matthieu Coulon Faudemer / Louis Chevalier, Lee Davern, Olimpia Fortuni, Chandra Grangean, Romual Kabore, Alice Lada, Antoine Roux-Briffaud, Marie Rual, Ambra Senatore
musiche originali Jonathan Seilman
luci Fausto Bonvini
produzione CCN de Nantes

Visto alle Fonderie Limone di Moncalieri | 26 settembre 2024

Milano Off Fringe Festival: fra network e territorio, una full immersion dentro lo spirito fringe

RENZO FRANCABANDERA | Il Milano Off Fringe Festival rappresenta un’importante vetrina per il teatro indipendente e le arti performative a Milano, inserendosi nella tradizione dei Fringe Festivals che, a partire da quello di Edimburgo dal 1947, hanno rivoluzionato il panorama teatrale internazionale. La sua natura itinerante e partecipativa è un elemento distintivo che valorizza non solo le compagnie provenienti dall’Italia ma anche il rapporto con il territorio e la comunità milanese. Quest’anno, dal 26 settembre al 6 ottobre, il festival offre una programmazione variegata con 44 compagnie partecipanti che si esibiscono in spazi non convenzionali sparsi per la città. L’intento è creare una mappa culturale vivente, che coinvolga attivamente diversi quartieri di Milano e proponga un’esperienza inclusiva e accessibile a tutti, grazie anche a iniziative come il biglietto sospeso che consente alle fasce più svantaggiate di accedere gratuitamente agli spettacoli.

Il Milano Off è parte di un vasto network internazionale di festival Fringe, collabora con realtà come l’Avignon Off, il Fringe di Stoccolma e lo Hollywood Fringe, tra gli altri. Questa rete nazionale e internazionale che il festival ha costruito negli anni, offre agli artisti l’opportunità di espandere i propri orizzonti e di esibirsi in festival di tutto il mondo, contribuendo alla crescita e allo scambio culturale a livello globale.
La connessione con il territorio è anche rafforzata dall’iniziativa “Ospita un artista”, che invita i cittadini milanesi ad accogliere artisti da fuori città, creando un legame diretto tra artisti e comunità locale. Questo non solo facilita l’inclusione ma promuove un dialogo culturale che arricchisce tanto i residenti quanto gli artisti, confermando Milano come un polo importante per le arti indipendenti e sperimentali.

Raccontiamo qui di alcuni spettacoli in scena a Milano e che saranno in alcuni casi anche nel Catania Off, il fringe che, come quello milanese, vede alla direzione artistica Francesca Romana Vitale e Renato Lombardo.

Iniziamo dallo spettacolo Futti, Futtitinni, ma non ti fari futtiri della Morfeo Company, giovane compagnia teatrale under 30 nata a Roma nel 2020, un quasi monologo/recital che intreccia ironia e dramma. La compagnia, formata da Valerio Castriziani, Melania Maria Codella e Tommaso D’Alia, tutti diplomati all’Accademia STAP Brancaccio, affronta con sensibilità la complessità della Sicilia, mescolando una tranquilla vicenda familiare con il tragico racconto della realtà contaminata dalla presenza mafiosa. Con riferimenti a eventi reali lo spettacolo esplora la dualità della Sicilia, terra ricca di bellezze e contraddizioni, con un forte impatto emotivo. Dopo lo spettacolo Mezzasala, questo Futti, Futtitinni rappresenta il secondo progetto della compagnia. La pièce, vincitrice del festival “Strade diverse” nel 2023, getta uno sguardo sugli ultimi cinquant’anni di storia siciliana, con particolare attenzione alle vicende criminali che ne hanno segnato il recente passato, sfogliando epoche e memorie e oscillando in senso stretto (quindi anche scenicamente) fra memorie familiari e memorie criminali.

La visione del cibo, come nell’analogia dell’arancino che nello spettacolo diventa emblema della struttura piramidale delle associazioni criminali, diventa una metafora per raccontare la complessità della terra siciliana, un luogo dove convivono bellezza e violenza. In scena ci sono il polistrumentista e attore Valerio Castriziani e il vero e proprio interprete del monologo Tommaso D’Alia: recitano un testo scritto da entrambi insieme a Giovanna Malaponti. Il gioco fra i due è quello del musicista un po’ autistico e dell’attore dalla cifra popolare che si accinge al cunto. Fra momenti ironici e drammatici, lo spettacolo ondeggia in modo giusto sul delicato equilibrio tra denuncia sociale e teatralità finto-cabarettistica, facendo della cifra ironica il contraltare della narrazione di alcuni momenti drammatici. I punti di forza della creazione sono proprio nella verve scenica dei due, capaci di coinvolgere gli spettatori e di creare pathos nella narrazione. Possono far crescere la parte della mimica gestuale, depurandola di alcune didascalie, così come pure introdurre un’idea per un finale meno circolare e da narrazione, per cercare un’uscita più esplosiva, come si addice allo spettacolo, giusto per restare in tema.
La creazione è stata vista e apprezzata sia dal pubblico che dagli operatori, una delle migliori proposte del Fringe in questo segmento artistico del teatro di narrazione con musica, e ha buone prospettive di circuitazione e programmazione. Lo segnaliamo.

Sempre negli spazi dell’hub Imbonati11 che da anni è partner del Fringe nell’ospitalità degli spettacoli, abbiamo assistito anche alla nuova creazione della Piccola Compagnia Impertinente (PCI) realtà teatrale nata a Foggia e conosciuta per il suo impegno in produzioni innovative e provocatorie e impegnata non solo nel portare avanti il proprio repertorio artistico ma anche nel creare uno spazio formativo per giovani artisti e attori, offrendo corsi e laboratori nel capoluogo dauno.
Avevamo commentato il precedente lavoro, Frichigno, che era stato ospite del Fringe l’anno scorso, creazione che ha giustamente continuato a circuitare. La compagnia si caratterizza per il desiderio di affrontare temi difficili, spesso attraverso un linguaggio teatrale irriverente e non convenzionale. Uno dei principi cardine della compagnia è non evitare le domande scomode e l’esplorazione delle ferite sociali.
Al Fringe 2024 propongono La Milite Ignota, monologo interpretato da Ramona Genna, scritto da Enrico Cibelli. Lo spettacolo esplora il percorso interiore di una donna che affronta il provino più importante della sua vita, mettendo in luce (come fa in scena accendendo e spegnendo i fari per gli shooting fotografici) insicurezze e traumi. Al centro della narrazione c’è una vicenda dolorosa, ispirata a un fatto di cronaca reale: la vicenda cui il testo di Cibelli si ispira avviene il 26 luglio 2008, alla Fortezza da Basso, a Firenze, una violenza di gruppo ai danni una ragazza poco più che ventenne. A un primo verdetto nel 2013 di colpevolezza a carico degli imputati, diversi dei quali noti alla ragazza, ne era seguito un altro, di due anni successivo, in cui la Corte ha ribaltato completamente la condanna: secondo i giudici, la ragazza, bisessuale dichiarata, voleva con la sua denuncia “rimuovere” quello che considerava un suo «discutibile momento di debolezza e fragilità» ma “l’iniziativa di gruppo” non venne da lei “ostacolata”. Scaduti i termini per il ricorso in Cassazione, la sentenza è diventata definitiva.
La scena ricorda un set fotografico, ma è anche la stanza della ragazza, che racconta la sua vita da attrice provinante fra ambizioni e frustrazioni. Lo spettacolo mescola elementi onirici e narrazione, rappresentando la lotta della protagonista per riconciliare se stessa con il suo talento, in un contesto dove il confine tra realtà e sogno è piuttosto sfumato. Entriamo nel suo spazio intimo, fatto di bevande depurative e fissazioni. Una prima parte, di tono quasi post-drammatico, vede l’interprete raccontare il suo quotidiano, non realizzato ma popolato di sogni e ambizioni, che si scontreranno con la tragedia nella seconda parte, di tono ovviamente drammatico, in cui la violenza si consuma.

Il testo mette assieme molte cose, forse troppe, e la regia di Pierluigi Bevilacqua sceglie un registro di recitazione frontale per quasi tutto il tempo, con l’interprete seduta pressoché continuamente al centro della scena, in dialogo con un interlocutore immaginario che è poi il pubblico, cui di tanto in tanto si rivolge, quasi a rompere la quarta parete. Genna appare più a suo agio con la cifra della seconda parte, ma il lavoro abbisogna di un compattamento su diversi fronti, sia drammaturgico che registico-attorale, cui si può utilmente lavorare nel prossimo futuro.

Ci spostiamo a Isolacasateatro, uno degli esperimenti milanesi di spazio domestico che diventa luogo per la scena, e che attualmente vede la direzione artistica di Tiziana Bergamaschi, per Creaturamia… di e con Marianna Esposito. Lo spettacolo è un monologo, caratterizzato da un tono poetico e drammatico. Il tema centrale è la lotta di una madre per salvare il figlio tossicodipendente, che ha “perso l’amore per la vita”.
La vicenda è quella di una famiglia che subisce due traumi ravvicinati, ovvero la perdita del padre/marito e l’inizio del percorso di tossicodipendenza del ragazzo. Attraverso un susseguirsi di emozioni inizialmente grottesche e comiche con cui la madre prova a reagire all’evolvere dei fatti, Esposito incarna il personaggio vibrante e determinato di una madre che vuole raccontarsi attraverso la sofferenza e la forza di chi ama profondamente. Lo spazio scenico è connotato da un tavolo e due sedie e una serie di piccoli oggetti che diventeranno poi funzionali alla narrazione. Gli elementi sono ridotti al minimo lasciando quindi agio alla parola e all’interpretazione di dipanarsi: un minimalismo che vuole rafforzare il senso di solitudine della protagonista ma allo stesso tempo esaltare la forza di una performance attoriale dalla cifra espressionista e performativa, centrata sulla voce e sul corpo dell’interprete.
Lo spettacolo, dunque, diventa una sorta di confessione intima, con la donna che finisce imprigionata dentro la rete del dolore da cui non riesce più a liberarsi: il pubblico non può fare a meno di sentirsi partecipe del dramma e delle speranze quasi irrazionali che animano la madre protagonista.

Meno interessanti ed emendabili sono una certa didascalia testuale che schiaccia il racconto su un immaginario piuttosto standardizzato e anche un po’ datato (il cattivo con i tatuaggi, i locali della periferia malfamata, che più che alle droghe sintetiche e alle discoteche di oggi, rimandano a un contesto di qualche decennio fa) e una recitazione di tono sempre piuttosto spinto, anche quando ironico. Con meno, si potrebbe raggiungere anche un pathos più alto, lasciando più spazio al vuoto.
Poco utili alla profondità narrativa il ricorso episodico ai muppet e il fatto che la drammaturgia evolva in maniera piuttosto prevedibile fin dall’inizio, con una serie di battute che di fatto anticipano l’esito tragico.
Lo spettacolo potrebbe stare in piedi anche con meno azione fisica, ma pur considerando queste osservazioni che pertengono allo sguardo di chi scrive, va registrato che il pubblico accoglie con favore la recita e la sua onesta generosità.

Concludiamo questo primo racconto del weekend del 27-29 settembre con un altro lavoro per interprete solista, visto ancora negli spazi di Isolacasateatro: The Sensemaker, di e con Elsa Couvreur, che vuole affrontare in modo provocatorio e ironico la relazione tra esseri umani e tecnologia. In scena, quasi in proscenio, una piccola etager con un telefono anni Settanta, a fondo scena una sedia. L’interprete belga sembra entrare in un ambiente come chi deve visitare una casa per acquistarla, spaesata, fuori posto.
Elegante e ben truccata, la performer dapprima gioca a mimare con i gesti che sembrano provenire dal linguaggio dei segni una serie di tracce sonore di tono piuttosto vario, per entrare poi in dialogo con un risponditore automatico che darà il via alla vera e propria vicenda narrata nello spettacolo e che vuole concentrarsi sulla crescente disumanizzazione che emerge nel contesto di un mondo sempre più dominato dalla burocrazia digitale e dalle intelligenze artificiali, in cui le persone si ritrovano inesorabilmente intrappolate in processi alienanti e frustranti.

La donna, dicevamo, si confronta per tutta la seconda parte della creazione con una voce automatizzata, una sorta di “assistente virtuale” che le detta una serie di istruzioni, come se la protagonista stesse partecipando a una sorta di selezione del personale. La protagonista tenta di soddisfare le richieste burocratiche della voce robotica, eseguendo compiti apparentemente semplici ma che diventano via via più complessi e assurdi.
Quello che all’inizio sembra un normale processo di interazione con un sistema automatizzato – come quelli che usiamo per prenotare appuntamenti o ricevere assistenza tecnica – si trasforma lentamente in un incubo kafkiano, affidato alla gestione mimica (invero notevolissima) dell’attrice, che fa diventare il personaggio, via via, emblema dell’individuo contemporaneo, costretto a sottomettersi a un mondo in cui la tecnologia assume un ruolo opprimente e orwelliano.
Ogni tentativo di eseguire i compiti diventa una sfida impossibile: la tecnologia diventa una trappola e per inseguirla l’essere umano perde il controllo sulla propria vita. Ben si apprezzano, nella recitazione, le radici di Couvreur nel teatro fisico e nella performance, che le permettono di costruire lo spettacolo attraverso un linguaggio corporeo estremamente ricco, preciso e disciplinato.
Una delle caratteristiche distintive di The Sensemaker è infatti l’assenza di dialoghi umani. Tutta la comunicazione avviene tra la protagonista, che non parla, e la voce automatizzata. Il silenzio della protagonista è compensato da una grande abilità nei movimenti, nei gesti e nelle espressioni facciali, che raccontano e coinvolgono più di qualsiasi testo possibile, fino a un culmine drammatico che mette la donna di fronte al conflitto con la propria morale. The Sensemaker è senza dubbio uno spettacolo accessibile a un pubblico internazionale, ed è già stato applaudito in molti festival, per l’uso appropriato di linguaggi diversi, che spaziano dal teatro fisico alla danza, dalla mimica quasi clownesca alla performance drammatica, coinvolgendo pubblico e critica, come è accaduto anche in queste repliche milanesi.
Pur allungandosi in una sorta di doppio finale che invero nulla aggiunge a quanto detto (ed è quindi superfluo ai fini della resa scenica), lo spettacolo resta comunque una delle visioni più interessanti del Milano Off Fringe 24 e ci sentiamo di consigliarne la visione (ed eventualmente anche la programmazione).


FUTTITI FUTTITINNI MA NON TI FARI FUTTERE

Di Tommaso D’Alia Giovanna Malaponti Valerio Castriziani
Regia, luci e costumi Tommaso D’Alia
Interpreti Tommaso D’Alia Valerio Castriziani
Musiche Valerio Castriziani
Produzione Morfeo Company
LA MILITE IGNOTA

Di Enrico Cibelli
Regia Pierluigi Bevilacqua
Interpreti Ramona Genna
Luci Arturo Severo
Musiche Edita
Costumi Monica Raponi
Produzione Piccola Compagnia Impertinente

 

CREATURAMIA…

Di e con Marianna Esposito
Regia Marianna Esposito
Luci Francesco Collinelli
Musiche AAVV
Costumi +39 Manifatture
Produzione Compagnia TeatRing
THE SENSE MAKER

Di e con Elsa Couvreur
Produzione Woman’s Move

“Oresteia” di Terzopoulos a Vicenza: coro, sangue e politica

GILDA TENTORIO | “Un oceano che rischia di sommergerti”, così il regista greco Theodoros Terzopoulos ha definito la sfida di mettere in scena l’intera trilogia di Eschilo. Ma naturalmente è riuscito a domare le onde di questo caposaldo del teatro antico. Il Teatro Nazionale di Grecia gli ha dato carta bianca e dopo sei mesi di prove estenuanti la sua Oresteia con trenta interpreti è stata l’evento dell’estate teatrale: sold out nelle due serate di esordio a Epidauro e poi in tutte le tappe della lunga tournée nei teatri all’aperto in Grecia e a Cipro. Pubblico commosso, lunghi applausi, entusiasmo di critica.
C’era chi già lo aveva previsto con lungimiranza: Ermanna Montanari e Marco Martinelli alla direzione artistica del 77° e 78° Ciclo di Spettacoli Classici Promosso dal Comune di Vicenza, rassegna in collaborazione con l’Accademia Olimpica e la Biblioteca Bertoliana, hanno fortemente voluto la presenza del regista greco nell’edizione di quest’anno, intitolata “Coro” (nelle date del 20-21 settembre), omaggiando un gigante della regia contemporanea (la sua ultima presenza nel nostro Paese fu l’anno scorso con una rilettura particolare di Aspettando Godot di Beckett).
Al centro dei suoi lavori Terzopoulos pone il corpo e la ricerca di energie ancestrali che sondano la verticalità viscerale, per far riemergere il respiro del sacro, il respiro di Dioniso (si veda il libro di Andrea Porcheddu). Assistere a uno dei suoi spettacoli, soprattutto quando si tratta di tragedia antica, è un’esperienza perturbante, iniziatica, che dona il brivido del sacro e riempie di interrogativi.

ph. Johanna Weber

Eravamo abituati a prove dense e concentrate, di altissima finitura estetica e simbolica all’insegna della sottrazione, dove la parola si spezzava in schegge che diventavano corpi (come mi diceva tempo fa in un’intervista). Questa volta Terzopoulos sceglie l’orizzonte lungo di tre ore e mezza e accanto ai suoi riconoscibili codici visivi, la sonorità del logos si dispiega in respiri più ampi e avvolgenti. All’inizio il pubblico italiano si sforza di seguire il flusso verbale del greco moderno (i sovratitoli scorrono in alto) ma è chiaro che il regista ci invita a una postura diversa. Dobbiamo deporre la razionalità testo-centrica che passa attraverso il tentativo di comprendere il logos. L’astrazione simbolica di ciò che vediamo in scena è il filtro per “sentire” l’evento teatrale oltre e al di là delle parole.

ph. Daniel Bertacche

Lo spazio più adatto per la creazione teatrale, ha affermato più volte Terzopoulos, è il teatro all’aperto e senza alcun ausilio di tecnologia (salvo luci e sobrio commento musicale). Tutto cambia nello scenario ristretto del Teatro Olimpico di Vicenza, così ricco di marmi, orpelli, effetti visivi e spettacolari. La scena, leggermente rialzata per l’occasione, è occupata da un cerchio dove sono ben delineati alcuni diametri, linee su cui si muoveranno i personaggi: un cerchio-orchestra, che era lo spazio privilegiato del coro antico, perimetro del sacro e del rito. Geometria asettica e inquietante (tutt’intorno ci sono stracci macchiati di sangue) quella di Terzopoulos, che duetta per antifrasi con la fuga prospettica della città di Tebe ideata dall’architetto Scamozzi: il fronte razionale apollineo e rinascimentale assiste con stupore al caos dionisiaco che esplode nel cerchio magico dell’orchestra. Caos e ordine sono forze che coesistono.

Terzopoulos lamenta che l’Occidente ha razionalizzato il mito, riducendone la potenza oscura. Il suo teatro invece ricerca proprio quell’essenza, scava verso gli archetipi, che non sono mai pacificanti. Per non ridurre la storia degli Atridi a dramma borghese – la moglie uccide il marito per vendicare la figlia da lui uccisa e il figlio Oreste compie il matricidio per vendicare l’assassinio del padre – occorre recuperare il suo nucleo tragico, che Terzòpoulos fa emergere attraverso il Coro, protagonista assoluto. I ventidue giovani, gruppo coeso e allenato al “metodo”, sono sempre in scena, cittadini di quella polis arcaica ma con uno sguardo penetrante verso il futuro, un “noi” carico di una consapevolezza gravida di necessità. Lo si capisce fin dall’entrata: con passo solenne che batte la terra per evocarne l’energia ancestrale, sembrano emergere da antiche profondità, sono lì eppure sono protesi verso un altrove insondabile al quale ci guidano, occhi sbarrati che guardano oltre il presente, bocche aperte in uno spasmo di terrore e anche canale conduttore del respiro di Dioniso, coltello alla gola che è segnale di una morte onnipresente.
In un’intervista Terzopoulos ha infatti parlato di questo Coro come di inquietanti presenze di un mondo ctonio: sono i morti, i fantasmi dell’età antica riattivati dal rito teatrale. Saltano, strisciano, si dondolano ritmicamente, palpitano in scosse e vibrazioni, si piegano in contorsioni o si allungano in tensione, in coreografie che sfruttano la geometria, l’accordo coeso, l’ossessività della ripetizione: sono corpi che parlano un linguaggio ipnotico e “altro”, sprigionano un’energia solenne e terrificante.
Ad esempio torna più volte, scandito da una musica di sonorità sotterranee, la sequenza di gesti ripetitivi fino al parossismo, con cui i coreuti cercano di lavare via da viso, mani e braccia, tracce invisibili ma lancinanti del sangue versato nei passati delitti. Oppure il Guardiano (Tasos Dimas), inchiodato in un’attesa beckettiana del fuoco che annunci il ritorno dell’eroe, si colpisce ripetutamente nel tentativo di allontanare le mosche (citazione da Sartre), ossessione che rinvia all’orrore di ogni guerra inutile. È così che, spezzando la scorza di una riproduzione realistica, si penetra nel rito e nel sacro.

ph. Daniel Bertacche

Forte è infatti la differenza con gli altri caratteri, ad esempio Agamennone (Savvas Stroumbos), Clitemnestra (Sophia Hill), Egisto (David Malteze): arrogante il re, rigido come un soldatino di piombo assetato di sangue – di grande effetto la sua camminata sul tappeto di porpora, qui costituito dai corpi riversi del Coro: il potere avanza alla cieca (procede all’indietro) schiacciando la collettività dei cittadini o dei soldati; ironica e subdola la regina, nei gesti e soprattutto nelle variazioni tonali della voce; vanesio e sardonico il suo amante. Il pubblico greco ha amato molto il personaggio di Cassandra (Evelyn Assouad, di origini greco-siriane), la prigioniera asiatica che resta a lungo sdraiata su una pedana a testa in giù (per indicare il suo sguardo diverso, da straniera) e canta una straziante nenia in arabo, dolente richiamo dall’Oriente martoriato di ieri e di oggi.
Gli oggetti sono ridotti al minimo: coltelli e scuri, elastici rossi che legano mani e piedi (le pastoie della violenza), un velo-rete in cui la moglie avvolge il marito, un ventaglio rosso simbolo della civetteria della scalata al potere, gli anfibi che Cassandra porta appesi al suo corpo come carcasse vuote di profughi che non ci sono più, due secchi come un giogo di necessità.

ph. Johanna Weber

In un climax di tensione, si giunge all’ultima tragedia, Eumenidi, il perno di questo lavoro. Le Erinni non sono cagne invasate, scosse da isterismi epilettici, come abbiamo visto talvolta in altre riduzioni teatrali, sono sempre i ragazzi del Coro, che in un vortice inquieto si stringono fino ad avvinghiare Oreste, un’unità vibrante e policefala che rappresenta l’assedio dei rimorsi. Rivendicano una giustizia antica e terribile contro i crimini di sangue ma questa è l’epoca della svolta e a trionfare sono gli dèi giovani (olimpici, appunto, come il teatro che ci ospita) e soprattutto Atena, che manovra anche il burattino Apollo e presiede al processo dell’eroe: decide di assolvere Oreste dal matricidio e di trasformare le furiose Erinni in divinità benefiche, Eumenidi.

Oresteia Terzopooulos

La dea, una statuaria Aglaia Pappà, è dispotica, usa una persuasione incantatoria e ingannevole: le sue parole piombano come macigni sulle Erinni, che crollano a terra, procedono sulle mani e si ritirano “nelle antiche cavità della terra”. L’insistenza è su quel kato (giù), che per Terzopoulos si connota in senso politico. Proprio mentre “dice” la democrazia, Atena esercita un potere violento su chi sta sotto. Nessun happy end, anzi: “Welcome to the new world”, tuona una voce registrata, che continua poi come in un telegiornale a sciorinare le cifre dei morti (in Ucraina, a Gaza, i migranti del mare) e degli utili in Borsa. Intanto il Coro è rifluito via; in scena resta un solo componente, figura dell’individuo, solo, smarrito, che si avvoltola in panni macchiati di sangue, vittima e complice lui stesso del macello. Lui come noi.

L’Atene di Eschilo con le sue nuove istituzioni suggellate dalla potenza della dea non è il miglior mondo possibile. È solo una fragile utopia di parole, perché segna invece l’inizio di una democrazia dell’élite, imperfetta già al suo nascere, gravida di ambiguità e che fornisce l’alibi per i massacri antichi e contemporanei. Eschilo lo aveva capito, e Terzopoulos potenzia la sua inquietudine, sollecitando lo spettatore a interrogarsi in senso “politico” sul ruolo di individuo e collettività. E il respiro di Dioniso si fa urlo.

ORESTEIA

di Eschilo
regia e adattamento Theodoros Terzopoulos
produzione National Theatre of Greece
regista associato Savvas Stroumpos
traduzione in greco moderno Eleni Varopoulou
scenografie, costumi, illuminazione Theodoros Terzopoulos
musiche originali Panayiotis Velianitis
consulente drammaturgico Maria Scicchitano
drammaturgo Irene Moundraki
assistente alla regia Theodora Patiti
scenografo associato Sokratis Papadopoulos
costumista associato Panagiota Kokkorou
designer associato per le luci Konstantinos Bethanis
collaboratore artistico  Maria Vogiatzi
interpreti: Cassandra  Evelyn Assouad, profeta Anna Marka Bonissel, Elettra Niovi Charalambous, Apollo Nikos Dasis, Guardiano/cittadino ateniese Tasos Dimas, Clitemnestra  Sophia Hill, Nutrice Ellie Iggliz, Oreste Kostas Kontogeorgopoulos, Egisto David Malteze, Araldo Dinos Papageorgiou, Atena Aglaia Pappa, Agamennone Savvas Stroumpos, Supplice Alexandros Tountas, Pilade Konstantinos Zografos

Coro Babis Alefantis, Aspasia Batatoli, Nikos Dasis, Katerina Dimati, Natalia Georgosopoulou, Katerina Hill, Ellie Iggliz, Vasilina Katerini, Thanos Magklaras, Elpiniki Marapidi, Anna Marka Bonissel, Lygeri Mitropoulou, Rosy Monaki, Stavros Papadopoulos, Vangelis Papagiannopoulos, Michalis Psalidas, Myrto Rozaki, Yannis Sanidas, Alexandros Tountas, Pyrros Theofanopoulos, Konstantinos Zografos

Vicenza, Teatro Olimpico, 21 settembre 2024 – prima nazionale

PAC LAB | Scienza, filosofia, letteratura, musica: è la nuova stagione di Pacta dei Teatri

MARIA FRANCESCA SACCO * | L’autunno riconsegna tutti ai propri doveri, all’abitudinarietà, alle agende da riempire, ma anche alle nuove stagioni teatrali che attendono il proprio pubblico. Quella di Pacta dei Teatri, quest’anno, si presenta ricca e dinamica: dal 2 ottobre il calendario comprende sessantuno spettacoli, tra cui venti prime assolute, tre progetti speciali e ben due festival internazionali.
Abbiamo parlato con Annig Raimondi, direttrice artistica del Pacta dei Teatri, associazione sempre alla ricerca di nuovi linguaggi che Raimondi fonda nel 2008 e che, dal Teatro Oscar di Milano in cui stanziava dal 20210, arriva nel 2016 al Salone di via Dini nel bel quartiere di Ticinello (Milano) dove oggi si assiste agli spettacoli.


Questa ricca stagione è alle porte e ha come filo conduttore ciò che voi avete trovato nel concetto di affordance. Cosa si intende?

Mi interessava sviluppare l’idea di quel filo che ci lega agli spettatori, noi come ambiente e come azione all’interno di un ambiente. Questa parola, affordance, viene usata in psicologia, ma anche nel design per intendere opportunità di azione: la traduzione in italiano sarebbe “permettere, donare una possibilità”. Non si parla del soggetto o dell’oggetto, nel senso attore e spettatore come entità separate, ma della relazione che si crea tra i due durante gli spettacoli e tutti i nostri progetti.

Avete in programma una serie di progetti che abbracciano tematiche molto varie, dalla scienza alla filosofia, passando per i diritti delle donne.

Si, questo ci permette di spaziare e allargare le proposte, ma d’altra parte dà la possibilità al pubblico di orientarsi su più proposte, seguendo lo sviluppo dei diversi progetti. Ad esempio, c’è quello della musica sperimentale, Pactasoundzone, in cui la scena si fonde con le sperimentazioni musicali dal jazz all’elettronica. Per quanto riguarda la danza, c’è Apriamo le gabbie che si sta allargando a livello internazionale con compagnie giovani che hanno collegamenti fuori dal nostro Paese. Del resto, il nostro è un palco adattissimo alla danza ed io ne vorrei sviluppare sempre di più questa potenzialità: c’è, infatti, nello spazio del Pacta Salone, questo livello che accomuna e fonde spettatore e ballerino, dando una levatura diversa alla danza e permettendo al pubblico di sentirsi dentro a quel momento. Anche per il teatro è cosi, ma la danza è un diverso fluire e fruire, e ha bisogno di questi respiri che il palcoscenico all’italiana non riesce a dare.

Come tutti gli anni proponete molte attività didattiche.

Si, infatti, sia nelle scuole, ma anche a livello più professionale, come ad esempio il Master di Regia. Questo è fondamentale perché ci permette di sviluppare progetti come la Vetrina contemporanea e La Crême de La Crême che è la rassegna che presenta giovani compagnie che hanno, qui con noi, l’opportunità di mettere in scena le loro ideazioni. Diamo, insomma, gli strumenti a chi ha talento per iniziare una strada in modo consistente.

Con tutti questi progetti accogliete sicuramente tanti pubblici diversi: qual è l’idea di teatro che perseguite?

Penso che il teatro sia un luogo di ritrovo in cui avviene una fusione delle conoscenze e dei saperi, dove si discute di problemi: per questo, per noi, una linea importante è quella delle reti internazionali con cui confrontarsi. Presentiamo, infatti, un festival biennale, Clashing Classics, vincitore di un progetto europeo che vede Francia, Germania e Italia come protagoniste, ciascuna con una reinterpretazione di un grande classico nazionale che poi viene seguito in streaming, in contemporanea nei tre Paesi: tre pubblici uniti in uno solo grazie alla tecnologia. Quello che noi abbiamo scelto di portare in scena è Il gioco delle parti di Pirandello che è la firma filosofica del pensiero dello scrittore e che non è altro che la commedia che rappresentano i sei personaggi ne I sei personaggi in cerca d’autore, quando appunto entrano in scena.

E poi ci sono gli altri progetti, per esempio quello sulla scienza.

Nell’ambito della scienza, è importante per noi ScienzaInScena – Teatro Matematica che unisce il linguaggio del teatro a quello scientifico facendole dialogare, raccontando anche alcune personalità di spicco in materia.
All’interno della rassegna DonneTeatroDiritti, invece, vorrei ricordare lo spettacolo Dalser La Mussolina con Michela Embriaco che racconta della prima moglie di Mussolini che lui rinchiude in un ospedale psichiatrico in quanto un po’ scomoda.
Nella stessa rassegna presentiamo una riscrittura di Dorian Gray di Oscar Wild, Il ritratto di Dorian Gray, ovvero la moda dell’eccesso, in cui si indaga su come il protagonista abbia fatto della sua bellezza una malattia. Tema attualissimo basti pensare a quello che ritroviamo nei social, divenuti specchio attraverso i quali il narcisismo si riconosce.
Per quanto riguarda la categoria New classic avremo Progetto Kafka: quattro giorni dedicati a Kafka, per celebrarne il centenario dalla morte. Ci sarà la presentazione del libro Kafka: “fino al nervo scoperto” di Patrizia Crippa e Pietro Andujar e due proiezioni di Lorenza Mazzetti, restaurate di recente. Ci saranno anche due spettacoli teatrali, La passeggiata improvvisa con la regia di Giovanni Battista Storti e Il cane, presentato dall’allievo di Grotowsky, François Kahn. Insomma, una serie di stimoli per riflettere sulla scrittura di Kafka e per omaggiarne l’ecletticità.

Witch is

E qual è il primo appuntamento della stagione?

La stagione parte con Witch is, nel progetto Vetrina Contemporanea, il 2 ottobre. Questo spettacolo è realizzato da una giovane compagnia di Firenze che vuole riflettere sulla figura della strega e il modo di percepire la sessualità femminile durante lo sviluppo della società capitalistica. La drammaturgia è di Francesca Mignemi per un cast tutto femminile ma soprattutto giovane, che è una scelta non casuale per noi che apprezziamo e valorizziamo il punto di vista dei più giovani.

Associazione culturale Pacta.dei Teatri

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Una “cresciuta capacità vitale”: gruppo nanou, Sarteanesi e Bluemotion a perAspera festival

Agnese Gabrielli in Moto perpetuo. Visioni in Guercino" del gruppo nnanou alla Pinacoteca Nazionale di Bologna - ph Fabio Fiandrini

OLINDO RAMPIN e RENZO FRANCABANDERA | OR: Perdersi nelle sale di una pinacoteca deserta. Perdersi nel senso di abbandonarsi a una osservazione dei quadri errante, sensuale, libera dagli abbecedari storico-artistici. Basterebbe questo piacere non previsto per salutare con favore l’operazione con cui perAspera Festival, diretto da Maria Donnoli, ha invitato gli artisti del gruppo nanou a mettersi, in occasione dei loro vent’anni, in una relazione aperta con la pittura barocca, grazie alla collaborazione con la Pinacoteca Nazionale di Bologna e il Mar di Ravenna. Nell’attesa, capita però di attardarsi troppo nella sala prediletta, dove è conservata la Natività di Vitale da Bologna. Di farsi coinvolgere e confortare dalla sublime gioia delle schiere angeliche attorno al Bambino, dall’umanità della Madonna che tasta con le dita l’acqua del catino per sentire se la temperatura è adatta al divino infante, fino a perder di vista l’orario.

RF: E invece, insieme a una serie di altri fortunati appassionati di arte performativa e grazie a perAspera, rassegna storica a Bologna di linguaggi intermediari, ce l’abbiamo fatta! Devo dire che quella passeggiata in solitaria fra i corridoi carracceschi della Pinacoteca e la contemplazione degli affreschi di Vitale, resteranno a lungo come sensazione e non mi sono sentito affatto d’antan. Anzi. L’installazione coreografata proposta in due sale da nanou, rispettivamente quella di Guercino e quella più grande dedicata alle pale di Guido Reni, aveva una preziosità dell’essere. Torniamo quindi indietro rispetto al corridoio dove ci eravamo spostati a fare gli ottocenteschi…

Guercino, “La vestizione di San Guglielmo”, Pinacoteca Nazionale di Bologna

OR: Ci si rende conto che la sala dove ha luogo la performance è nell’altra ala della estesa quadreria. E allora bisogna camminare trafelati, aprire le porte delle sale, correre per i lunghi corridoi pieni su entrambe le pareti di piccole e grandi tavole gotiche ricoperte di Madonne, di Bambini e di vite dei Santi, come in un film, per arrivare in tempo.
Eccoci di fronte a Moto perpetuo. Visioni in Guercino, installazione coreografica curata dal gruppo nanou con Giorgia Salerno, curatrice del MAR. L’intervento coreografico di Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci è lieve. L’interprete, Agnese Gabrielli, semisepolta da morbidissimi drappi dorati e rossi, disegna pochi e delicati gesti. Ricade sulle stoffe mollemente, come presa da una inaspettata stanchezza. Qualcosa fa pensare, più che al guerciniano San Guglielmo d’Acquitania che ci sta di fronte, a certe estenuazioni femminili nell’arte inglese preraffaellita. Oppure, nella più vasta sala dove ci spostiamo per vedere Carolina Amoretti e Andrea Dionisi interpretare il viaggio pittorico di Guido Reni, a qualche sequenza di un barocco contemporaneo, con quel tanto di una romanità passata attraverso i peplum, ma meno vistosa, più sottile. Il viso di non conforme disegno di Carolina Amoretti è in tutto degno delle dolentissime figure femminili di un artista di ottant’anni più vecchio di Reni: il Pontormo. Appaiono più tridimensionali, in un certo senso, le figure di Guercino e di Guido Reni di quelle dei movimenti rallentati e avvolti nella nuvola rosso-rosa dei drappi del moto orchestrato dal gruppo nanou.
Bernard Berenson nel suo fondamentale The Italian Painters of the Renaissance scrive che le arti, quando sono tali, producono un effetto di «cresciuta capacità vitale». Ecco, il lieve intervento del gruppo nanou può aver rafforzato questo effetto tonificante, spingendomi a sostare ancora per incontrare, in compagnia di un nuovo amico, i quadri più amati della Pinacoteca.

Ph. Fabio Fiandrini

RF: Il tuo aggettivo circa la levità mi pare icastico e rispondente. Personalmente ho trovato più messo a fuoco il duetto, fra i due interventi, forse per la logica spaziale e l’ampiezza dell’ambiente che permetteva di più. Poteva considerarsi magari un’ipotesi itinerante, ma certo sarebbe stata complessa data la dotazione materica delle stoffe granata e dorata lunghe diversi metri e che di fatto assumevano da sole una rilevanza installativa: dentro a essa i corpi si avviluppavano e si liberavano, un po’ come nella Vestizione di San Guglielmo, cui certamente si ispira in generale l’azione coreografica.
Personalmente ne è derivato in me un sentimento dello stare. Un tempo sospeso, assoluto. Tanto che alla fine, quando il gruppo è stato invitato a uscire, sia tu che io abbiamo poi preferito fermarci e rubane ancora un po’. E non solo per la Pinacoteca di per sè, che magari è possibile visitare in alcuni orari con poco pubblico, ma per quel mistero del museo in serale, con le emozioni dei gesti vivi che accompagnano le staticità secolari. Insomma è un mescolare sensazioni che lascia piacevolezza.

OR: Pochi giorni dopo, nella sala di ingresso della Raccolta Lercaro, in Via Riva di Reno, mettiamo le cuffie per ascoltare Nata vicino ai fantasmi. Nata tempesta, il diario che Bluemotion, ideazione e regia di Giorgina Pi, ha ricostruito sulla sua scoperta di Tiresia nei versi di Kae Tempest, che l’ha portata allo spettacolo Tiresias. Ed è radicalmente diverso il processo di cresciuta capacità vitale prodotto dall’interazione tra la proteiforme collezione qui conservata, estranea al purismo monodisciplinare e storicistico della pinacoteca nazionale e le voci di Gabriele Portoghese, Aurora Peres, Maria Vittoria Tessitore, Vasilis Dramountanis, Christos Stergioglu, Monica Demuru.

Ph. Fabio Fiandrini

Qui siamo di fronte a un collezionismo plurilinguistico, da principe rinascimentale, che accosta senza timidezze la Forma quasi sferica di metacrilato combusto di Marcello Mondazzi con il sarcofago antico; oppure Straws Wall, l’installazione optical di cannucce monouso colorate di Francesca Pasquali con gli elegantissimi fossili di pesci e piante. E che ci invita infine a una bella passeggiata nel Novecento italiano, da Balla a Manzù, fino al maggiore di tutti, Morandi, con la sua eterna Via Fondazza osservata e riletta per l’ennesima, felicissima volta.
Diverso è anche il ruolo dello spettatore, chiamato a una relazione di condivisione di stimoli meno agilmente gestibili emotivamente, tra meravigliose canzoni greche, di una calma tristezza omerica, gli incatalogabili “carmina” di Kae Tempest e la voce di Monica Demuru, che ci mette in relazione con la natura misteriosa di Tiresia, la sua doppia identità, che ci ricorda il dramma e al tempo stesso la superiore e più piena esistenza di Orlando, il viaggio spazio-temporale nel maschile e nel femminile di un’altra grande inglese, Virginia Woolf.

RF: Anche io, pochi giorni dopo la Pinacoteca, ho seguito un altro degli eventi in programma. Si è trattato di Nikita di e con Francesca Sarteanesi (e con Alessia Spinelli). Lo avevi già visto e ce ne avevi parlato, raccontando la replica a Castiglioncello di inizio estate.
L’innesco drammaturgico è presto detto: una donna matura, indurita dalle delusioni di una vita – agiata materialmente ma disagiata per densità umana delle relazioni– è dentro un patio, a distanza di qualche metro da un’altra donna che capiremo solo dopo qualche minuto essere intenta a farle la pedicure. In realtà la cosa di suo appare e resta fino alla fine di certo improbabile, perchè la distanza fra le due è di gran lunga superiore a quella di un consueto corpo umano. Ma cosa si frappone fra noi e la visione del corpo delle due donne? Un separèe sbrilluccicante di tessuto a paillette nel tono del verde, dal quale sbucano solo le parti alte dei due busti. E qui, oltre all’assurdità della distanza fra le due, il tema dell’assurdo inizia a rimbombare. In primis perché è un non dialogo, quello che occorre fra le due, visto che parla solo la riccastra inacidita dalla vita e dal nulla in cui la protrae e di cui ci racconta in un dettagliatissimo e morboso monologo. Ma anche perchè anche lei è immobile, come la Winnie di Giorni Felici, il personaggio principale, una donna sulla cinquantina, sepolta fino alla parte alta del busto in un cumulo di sabbia. Anche lei, tirando fuori oggetti dalla sua sporta, delira sul nulla, raccontando aneddoti su come trascini avanti l’esistenza, mentre il marito Willie, così come la donna della pedicure in Nikita, resta muto, finto interlocutore di un dialogo che non s’ha da fare.

LabOratorio San Filippo Neri, “Nikita” di Francesca Sarteanesi – ph Fabio Fiandrini

Come in Giorni Felici, un istinto omicida ammanta i gesti e le battute finali, e come in Giorni Felici, la donna continua a proclamare il suo benessere, la soddisfazione per un’esistenza che in realtà a tutti appare miserabile, esattamente come i vestiti di casa che sfodererà al momento degli applausi, e che, come una rivelazione ex post, completano nello sguardo dello spettatore l’esatta portata e l’esatto portato del personaggio (geniale l’idea del completamento del quadretto umano a fine spettacolo, con i costumi di Rebecca Ihle, cui si devono anche la scenografia paillettosa, ideata insieme Lorenzo Cianchi).

Si ride e si sorride: ci attraversa il sarcasmo di questo racconto sull’età della disillusione, quel tempo della vita in cui il grosso pensi di averlo già fatto, in cui pare non esserci più nulla a cui appigliarsi per provare qualche brivido, se non quella feroce e sadica misantropia che di solito attecchisce nell’età della senescenza, quando la paura della morte diventa più tangibile. Qui invece, in questo quasi-monologo sulla contemporaneità disagiata della classe cafonal-arricchita, il senso mortifero affiora prima, trovando come contraltare la pochezza ingenua e proletaria della limatrice di unghie, che nell’unico momento in cui viene chiamata a poter parlare, effettivamente pare dar ragione del fatto che fosse meglio tacesse. Insomma, a me pare che Beckett c’entri, e che sia ancora possibile scrivere un testo (di Sarteanesi e Tommaso Cheli) e fare uno spettacolo di teatro dell’assurdo oggi.

MOTO PERPETUO. VISIONI IN GUERCINO

cura Giorgia Salerno e gruppo nanou
coreografie Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci
con Carolina Amoretti, Andrea Dionisi, Agnese Gabrielli
interventi Mirella Cavalli, Giorgia Salerno
produzione Nanou Associazione Culturale
contributo MIC, Regione Emilia-Romagna, Comune di Ravenna | collaborazione MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna, Pinacoteca Nazionale di Bologna

NATA VICINO AI FANTASMI. NATA TEMPESTA. Un diario da ascoltare in cuffia 
[una tappa di TIRESIAS B SIDE
un progetto di Bluemotion sul mito di Tiresia e Kae Tempest]

ideazione e regia: Giorgina Pi
cura del suono: Cristiano De Fabritiis, Andrea Pesce
voci di: Gabriele Portoghese, Aurora Peres, Maria Vittoria Tessitore, Vasilis Dramountanis, Christos Stergioglu, Monica Demuru
accompagnamento al lavoro: Benedetta Boggio, Rossella Granata, Camilla Vespa
produzione: Angelo Mai, Bluemotion, Granducato
Si ringrazia l’Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Bologna

 

NIKITA

interpretazione e regia Francesca Sarteanesi
e con Alessia Spinelli
ideazione e drammaturgia Francesca Sarteanesi, Tommaso Cheli
produzione Scarti Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, Teatro Metastasio di Prato
con il sostegno di Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale
costumi Rebecca Ihle
scene Rebecca Ihle e Lorenzo Cianchi
realizzazione scene Alessandro Ratti
luci Marco Santambrogio
sonorizzazioni Francesco Baldi
tecnica Carolina Agostini
si ringraziano Nikita, Luna park di Pistoia, Francesca Saturnino

I 25 anni di Teatro Magro tra rivoluzioni ed evoluzioni – intervista a Flavio Cortellazzi

RENZO FRANCABANDERA |  Teatro Magro,  compagnia teatrale mantovana di lunga militanza artistica, arriva, proprio in questi giorni, al venticinquesimo anniversario dall’inizio delle attività: la cooperativa ha celebrato il 21 settembre scorso, con una festa, le proprie nozze d’argento con il palcoscenico, spalancando le porte della sua sede, nella prima periferia di Mantova. Lo spazio che accoglie i visitatori è un autentico gioiello di riconversione urbana: un’ex officina trasformata in uno scrigno drammaturgico. La sala prove, interamente avvolta in un nero profondo, si presenta come un ambiente austero ma versatile, emblema di una periferia che rinasce attraverso l’alchimia dell’arte.
A fare gli onori di casa, guidandoci attraverso questo tempio della creatività, è Flavio Cortellazzi, regista e cuore pulsante di Teatro Magro sin dalla sua nascita, fautore di una personale visione artistica che ambisce da sempre a sfidare le convenzioni e a ridefinire, spostandoli, i propri confini artistici all’interno del linguaggio della performatività contemporanea.

Com’è nato Teatro Magro?

Teatro Magro si è formato nel terreno culturale nel 1988, quando un gruppo di sei giovani, me incluso, diede vita a un’associazione: ciò che iniziò come un laboratorio teatrale sperimentale si è evoluto, nel 1999, in una cooperativa sociale, di cui oggi celebriamo il quarto di secolo. Il tempo ha portato a un fisiologico cambiamento nell’assetto societario: dei pionieri originari, solo due persistono. Gli altri hanno continuato a orbitare nel cosmo della cultura; tra loro spicca Andrea Caprini, ora assessore al Welfare del Comune di Mantova.

Qual è l’essenza di Teatro Magro e quali sono le vostre aspirazioni artistiche?

La nostra cifra stilistica, come suggerisce il nostro nome, è la ricerca dell’essenzialità. Teatro Magro rifugge il ridondante, gli stereotipi, l’archeologia teatrale. Le nostre produzioni sgorgano da concezioni originali e la nostra drammaturgia si radica nell’individuo, prima ancora che nel personaggio. Esploriamo il labile confine tra persona e personaggio, un territorio fertile per la creazione artistica. In questa dialettica, ogni individuo plasma un personaggio e, a sua volta, ogni personaggio trae vita dall’essenza di chi lo incarna.

Quali modifiche nel linguaggio dello spettacolo dal vivo ritieni importanti ai fini della vostra pratica?

Il teatro contemporaneo si è necessariamente sintonizzato sulle frequenze dell’attualità, scrutando le profondità dell’animo umano nel complesso scenario odierno. Teatro Magro incarna questa nuova direzione, portando la sua arte in luoghi non convenzionali: dalle aule scolastiche alle case di riposo, fino alle carceri. I protagonisti stessi si sono evoluti: da anni collaboriamo con rifugiati, amplificando le loro voci e narrazioni. Nonostante i mutamenti, il teatro non è in declino. Al contrario, la sua essenza rimane inossidabile. A differenza del cinema, la presenza fisica dell’attore teatrale è eterna, immune alle incursioni dell’Intelligenza Artificiale. Se il cinema potrebbe un giorno dissolversi, il teatro resterà sempre un baluardo dell’espressione umana.

Quale filosofia c’è dietro il vostro radicamento territoriale?

Il nostro legame con il territorio mantovano è viscerale. Non ci concepiamo come una compagnia nomade, bensì come un ensemble stanziale. Il nostro fine ultimo non è l’itineranza nazionale, ma la creazione di un dialogo vivido con la nostra comunità. Ciò non preclude collaborazioni con marchi di prestigio, anche internazionali, o performance aziendali. Tuttavia, Mantova rimane il nostro baricentro creativo. Ne è esempio il recente Walkie Talkie, parte della rassegna Virgilio Me Genuit, preludio all’apertura del museo virgiliano nel Palazzo del Podestà. Questo evento, che fonde performance e passeggiata urbana, mira a tessere un filo tra il pubblico, l’arte teatrale e il patrimonio culturale mantovano.

Quali sono le prossime tappe di Teatro Magro?

Ottobre sarà un mese particolarmente denso: oltre alla ripresa delle attività laboratoriali presso la nostra sede, ospiteremo un meeting europeo, nell’ambito del progetto Erasmus + Ex.tre.m., incentrato sullo scambio di buone pratiche nell’utilizzo del teatro come strumento di espressione e di emancipazione per persone con background migratorio. È un lavoro che si sta radicando e per noi è grande motivo di orgoglio ospitare partner dal Belgio, dalla Germania, dalla Grecia.
Un’altra progettualità fondamentale è della relazione con la rete 4D teatro, che vede collaborare quattro realtà mantovane del teatro contemporaneo. Presenteremo una rassegna dedicata nella seconda parte dell’anno, con artisti ospitati e nuove produzioni nostre tra cui Hit Parade, uno spettacolo per parlare della musica come linguaggio universale dell’umanità.

Come è stata la vostra festa di compleanno? Ci racconti come è andata la serata del 21 Settembre “D’ARGENTO”?

Il 21 Settembre è stata una serata evento nella nostra sede, per celebrare il quarto di secolo di Teatro Magro, una festa con il nostro stile particolare, con convivialità e musica. L’evento è stato impreziosito da un’installazione retrospettiva che cattura l’essenza dei nostri 25 anni di attività. Abbiamo esteso l’invito a personalità da tutta Italia, e abbiamo avuto un’affluenza significativa.

Qual è il frutto più prezioso di questo percorso venticinquennale?

La metamorfosi di una passione in una realtà imprenditoriale solida, capace di generare opportunità lavorative,09 è la nostra più grande conquista. Poter vivere della propria arte è un privilegio inestimabile. Siamo un’entità ibrida: gruppo teatrale e azienda, con le sue dinamiche economiche e creative. Ormai radicati nel tessuto culturale del territorio, perseguiamo un costante perfezionamento. Il nostro centro è l’ascolto attivo del tempo attuale, mantenendo un dialogo ininterrotto con la società. Questa osmosi tra vita e arte permea le nostre produzioni, è la sinergia tra il mondo e il teatro.

PAC LAB | Hystrio Festival #4: Witch is, le streghe sono tornate

Witch is

FRANCESCA POZZO* | Scarpe a punta, gonne ampie e una retina per capelli abbassata fino agli occhi: ecco la rappresentazione delle streghe operata nello spettacolo Witch is, andato in scena il 18 settembre all’Hystrio Festival del teatro Elfo Puccini di Milano. Nella sala dedicata a Pina Bausch, tre donne,  altrettanti microfoni e una chitarra elettrica ci portano in un tempo sospeso, a cavallo fra il Seicento e i tempi odierni usando questa figura archetipica come trait d’union.

Chi sull’orlo dei vestiti, chi sopra la giacca in jeans, Giorgia Iolanda Barsotti, Eleonora Paris e Cristiana Tramparulo hanno tutte un tratto comune: le fiamme, quelle che bruciano dentro di loro e quelle che le condannano al rogo. L’azione infatti inizia con la testa di Paris cinta da una tiara papale: siamo nel 1484, momento in cui Innocenzo VIII emanò la bolla Summis desiderantes affectibus, dando ai domenicani Heinrich Kramer e Jacob Sprenger l’autorità per esercitare il potere dell’Inquisizione in alcune regioni della Germania. Da questa circostanza nacque il famoso Malleus maleficarum, il martello delle malefiche, un libro che ha fatto storia nel triste capitolo della caccia alle streghe. Guaritrici, consigliere, esperte del corpo femminile e dei suoi cicli, le fattucchiere sono le diverse, coloro che vengono relegate ai margini della società e temute da chi dall’alto la manovra; sia nel passato che ai giorni nostri.

Hystrio Festival

Come per sottolineare la sovrapposizione tematica dei piani temporali, le tre attrici si dispongono nello spazio: Barsotti e Tramparulo in proscenio e Paris sul fondo. Inizia così l’interrogatorio. Si consuma sotto i nostri occhi una scena potentissima, un momento in cui si contrappone un processo di inquisizione all’iter che una donna del ventunesimo secolo può dover seguire quando decide di abortire. Le domande sono le stesse, ugualmente martellanti e avvilenti: vengono messi sotto una lente d’ingrandimento le abitudini, i trascorsi e soprattutto il rapporto con gli uomini. Anzi, il rapporto con Lui, da una parte Satana, dall’altra un probabile rapporto occasionale. Le risposte sono a tratti dimesse, a tratti irritate ma ugualmente impotenti e si annientano nel momento in cui il potere costituito arriva a invadere lo spazio delle donne, togliendo loro i microfoni e facendo crollare i loro corpi a terra.

Hystrio Festival

Quando si reimpossessano della propria voce, cantano, e con le rime di un rap riportano lo spettatore ad alcuni anni fa, al caso di cronaca che ha denunciato l’esistenza dei cimiteri per feti; distese di croci e peluche che portavano però il nome della madre, in modo da generare un imperituro senso di colpa. E loro – tre come le sorelle fatali del Macbeth, tre come le età della donna – sottostanno a questo meccanismo, tornano a puntarsi il dito contro, l’un l’altra. Da qui però lo spettacolo che prima manteneva una sua unità, inizia a sfaldarsi.

Barsotti si spoglia, rimane in un body bianco e scintillante, diventa uno specchio, sottomette le altre con grazia, inducendole a essere qualcosa che non sono. Alla fine le vittime tolgono con un gesto la trama di tessuto che oscura loro lo sguardo, in una sorta di epifania e liberazione. Viene così inserito un altro tema fiabesco, quello del rapporto con il corpo, con la bellezza che per secoli è stata strumento di controllo, ma che con lo studio dell’archetipo ha poco a che fare. In questo modo la scrittura devia dal nucleo pulsante della storia e ci presenta delle scene che, benché abbiano una loro coesione interna, non si sposano con ciò che abbiamo visto precedentemente. Un tentativo interessante e colto, nei suoi echi infatti riprende alcuni studi storici e di genere – fra i quali quelli di Silvia Federici –, ma che manca dell’integrità di una narrazione più strutturata che potrebbe accompagnare meglio il pubblico e portarlo a una comprensione più approfondita di queste tematiche.

WITCH IS

progetto di LANDI/MIGNEMI/PARIS
drammaturgia di Francesca Mignemi
regia di Virginia Landi
costumi di Rossana Gea Cavallo
musiche e sound design di Andrea Centonz
con Giorgia Iolanda Barsotti, Eleonora Paris, Cristiana Tramparulo

Produzione IL TEATRO DELLE DONNE, Firenze
Con il sostegno del Centro di Residenza della Toscana Armunia-Capotrave/Kilowatt e Z.I.A. – Zona Indipendente Artistica
Progetto finalista al bando Regist* Under 35 della Biennale Teatro di Venezia 2022
Progetto titolare di residenza Capotrave/Kilowatt 2023
Debutto Avamposti Teatro Festival settembre 2023 – Firenze

Hystrio Festival – Teatro Elfo Puccini, Milano | 18 settembre 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.