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sabato, Luglio 27, 2024
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Metamorphosis: un festival in continuo mutamento. Intervista a Sabino Civilleri

RITA CIRRINCIONE | Per il terzo anno consecutivo, dal 29 giugno al 7 luglio scorsi, l’Orto Botanico dell’Università di Palermo – il più grande d’Europa, una sorta di iperluogo denso di storia e di memorie architettoniche, sede di sperimentazione scientifica e culturale, unico per biodiversità e per ricchezza di specie vegetali provenienti da tutto il mondo – ha accolto Metamorphosis, perfetta cornice per un festival che, tra danza, teatro, musica, video-installazioni, laboratori e talk, ha fatto della diversità e dell’integrazione di diverse discipline il suo tratto distintivo.
Organizzato da Genìa, con la direzione artistica di Sabino Civilleri, Metamorphosis Festival nasce nel 2022 dalla collaborazione tra il SiMuA, Sistema Museale di Ateneo, e CoopCulture, che cura i servizi aggiuntivi dell’Orto Botanico. Il festival ha il supporto dell’UNIPA con un programma di talk curato dal prof. Salvatore Tedesco e con il coinvolgimento degli studenti dell’Ateneo che svolgono attività di tirocinio nell’organizzazione della manifestazione.

Il regista argentino Claudio Tolcachir che ha tenuto una masterclass e ha curato la regia di Anna Cappelli di Annibale Ruccello; il Teatro Valdoca con il “rito sonoro” di Mariangela Gualtieri; Donatella Finocchiaro con il suo progetto su Rosa Balistreri; il cuntista palermitano Salvo Piparo e le sue Favole del mare; proveniente dall’Estonia, il Duo Ruut; Davide Livornese in concerto, accompagnato da sonorità afghane e turche; le polistrumentiste Giolì & Assia; Santamarea, la band siciliana che ha appena vinto la trentaquattresima edizione di Musicultura; la danza di Chiara Frigo e la performance site specific di Emilia Guarino; Gisella Vitrano, Stefania Ventura e l’artista ecuadoregno Santiago Baculima per la sezione Kids: questi alcuni degli spettacoli e degli artisti di Metamorphosis ’24 nel segno della multidisciplinarietà e dell’eterogeneità per appartenenza generazionale e per provenienza geografica.

Lo spostamento del calendario a inizio estate (lo scorso anno il festival si svolse tra la fine agosto e l’inizio di settembre), una maggiore diffusività nell’uso degli spazi all’interno dell’Orto Botanico, l’inserimento di una sezione dedicata al teatro per bambini, una significativa predominanza di spettacoli musicali con numerosi concerti di artisti nazionali e internazionali: tante le novità dell’edizione appena conclusa che fanno pensare a un processo metamorfico ancora in atto.

Sabino Civilleri

Incontriamo Sabino Civilleri per fare un bilancio della terza edizione appena conclusa, ma anche per capire in che direzione va Metamorphosis, un festival che nel proprio DNA ha inscritto il segno del cambiamento.

Sabino Civilleri, nel giro di pochissimi anni Metamorphosis si è conquistato un posto ben preciso tra i festival palermitani. In genere, quando una formula funziona si mantiene, ma nell’edizione appena conclusa abbiamo colto dei segnali di cambiamento che sembrano preludere a un “riposizionamento”. Anche per i festival vale la locuzione “nomen omen”?

In realtà non ho mai sentito la necessità di un posizionamento e ho anche trattato con irriverenza il concetto stesso di direzione artistica, per non cadere nell’ennesimo pacchetto ben costruito basato sulla coerenza delle scelte, sul fil rouge o sul tema comune. Ho piuttosto preferito ascoltare l’ambiente in cui il festival è nato, l’anima degli artisti che ha attratto, ospitato e curato. Il risultato è un festival in continuo movimento, trasversale, multidisciplinare, transgenerazionale, che si forma mentre si realizza per la capacità di accogliere la diversità e di legarla in una trama in cui tutti hanno un ruolo: Metamorphosis. Quello che in questa edizione si è creato non è l’idea di un futuro posizionamento, ma una vocazione che intendo ascoltare e accompagnare nei prossimi anni, anche con progetti speciali che dialoghino profondamente con l’Orto Botanico che io considero la cassa armonica della città.

Come immagini il futuro di Metamorphosis? C’è un modello di festival a cui ti ispiri?

Metamorphosis ha tutti i numeri per dare a Palermo un festival capace di confrontarsi, interagire e relazionarsi con esperienze nazionali storiche, penso al Festival dei Due Mondi di Spoleto, al Romaeuropa Festival o alla Biennale di Venezia, perché no? Nella creatività, guardare gli altri e osservare l’esistente sono azioni fondamentali per immaginarsi il proprio futuro. L’innovazione, per me, non ha niente a che fare con la novità, ma con la possibilità di legarsi a metodologie di creazione fondate sul rischio, sulla ricerca, e le esperienze che ho citato sono nate grazie a persone e istituzioni che hanno saputo rischiare investendo sulla ricerca.
L’Orto Botanico è all’interno di un Sistema Museale d’Ateneo che conta altri gioielli architettonici come Palazzo Steri o il Museo Gemellaro, con la possibilità, quindi, di diffondere la programmazione sul territorio cittadino senza per questo disperdersi. Una visione che ben si sposa con la Terza Missione di UNIPA.
Ad oggi il festival ha dimostrato di avere un comitato scientifico, una produzione e un’organizzazione capaci di gestire eventi internazionali con risorse proprie, con un pubblico eterogeneo che tende a crescere. Quello che sogno è un bel salto in avanti che potrebbe sembrare presuntuoso, ma penso che Metamorphosis possa ambire ad avere un ruolo cardine nel Sud Italia e le Istituzioni culturali pubbliche del nostro Paese potrebbero dare la giusta spinta per farlo.

Chiara Frigo e Laura Masotto in Matrioska

Facciamo un passo indietro: da dove parte la costruzione di una nuova edizione di un festival? Di questo in particolare? C’è un rituale, un “atto magico” iniziale?

Nelle mie esperienze degli ultimi anni ho portato con me 20 anni di lavoro al Collinarea Festival che si svolge da più di 35 edizioni a Lari, in provincia di Pisa, dove, come artista associato, ho avuto modo di partecipare alla fase che precede la programmazione. Passeggiando per i vicoli silenziosi e umidi del borgo, ho vissuto insieme ad altre persone un’esperienza creativa e generativa durante la quale, in una visione collettiva, abbiamo immaginato artisti, spettacoli, pubblico, cene, luci, incontri.
Ecco, con Metamorphosis metto in campo lo stesso percorso. Si parte con un incontro all’Orto con il comitato scientifico, la direzione del SiMuA, la direzione dell’Orto Botanico, la direzione organizzativa di CoopCulture, un incontro dedicato all’ascolto reciproco, dal quale non si esce con un piano da realizzare, ma in cui emergono idee e propositi dell’anno precedente e incominciano a prendere forma sfide e desideri da realizzare. In questa fase c’è un momento unico che amo moltissimo e che ormai è diventato quasi un rituale iniziale: una lunga passeggiata dentro l’Orto Botanico in compagnia del direttore Rosario Schicchi.
Ci sono altre due persone molto importanti con cui amo confrontarmi in questa fase: Paolo Inglese, professore di Scienze Agrarie, che considero il padre del festival – è sua l’idea dell’Orto Botanico palcoscenico delle arti performative, cosa che lo rende unico in Europa – e Salvatore Tedesco, professore di Estetica e curatore della parte teorica del festival, con il suo ciclo di talk incentrati proprio sulla parola-concetto Metamorphosis. Seguirli, per me, è importante, perché mi parlano del festival secondo vie inimmaginabili e straordinariamente inaspettate.

Per la costruzione di un programma così multiforme immagino che tu segua un “metodo” che nell’eterogeneità riesca a dare una tenuta e una coerenza interna al festival. Ce ne vuoi parlare?

Quando desideri una persona, un oggetto o qualsiasi altra cosa, ti ossessiona, la cerchi e la trovi ovunque. Ecco, per la programmazione del festival il mio “metodo” è ascoltare questa ossessione. È una presenza che mi parla, che mi spinge a incontrare persone, artisti, vedere spettacoli, chiedere consigli: quello che cerco può nascondersi dietro una forma artistica o tra le righe di un testo, nella biografia di un artista o nello sguardo del pubblico. Questo desiderio che mi ossessiona ha un origine precisa: nasce e prende forma mentre il festival precedente è in corso, come se contenesse in sé già l’edizione successiva.

Gioelì e Assia

Quanto un luogo come l’Orto Botanico di Palermo, oltre a contenere e accogliere gli spettacoli, finisce con il permearne la sostanza? Penso alla performance site specific di Emilia Guarino o allo stesso “rito sonoro” di Mariangela Gualtieri.

Di sicuro tutti gli spettacoli che vengono ospitati all’interno dell’Orto Botanico diventano un unicum sia per gli artisti in scena che per lo spettatore. Quest’anno i primi due giorni di programmazione, concepiti interamente senza palco, hanno condotto pubblico e artisti a immergersi negli ambienti che li ospitavano, in una narrazione del luogo attraverso la diversità dei linguaggi performativi. Conoscendo bene il loro percorso, ho chiesto a Emilia Guarino e a Mariangela Gualtieri di entrare in dialogo con le piante e con la natura circostante in modo ancora più intimo e immersivo.
Mi piacerebbe spingermi più in là, verso un rapporto sensoriale tra l’Orto Botanico, gli artisti e il pubblico. È forse questo il desiderio che mi ossessionerà fino alla quarta edizione? Molti pensano che a fidelizzare artisti e pubblico sia l’efficienza e l’efficacia dei servizi. Non sono d’accordo. Penso che conti moltissimo l’unicità dell’esperienza, la possibilità di mettere in campo coscientemente tutti i propri sensi.

Avere una partnership con l’Università significa avere un canale privilegiato con le nuove generazioni. Com’è andata la partecipazione studentesca sia a livello organizzativo sia come contributo di idee o di riflessioni critiche?

Questo è uno degli aspetti per me più deludenti e che mi fa soffrire: sia la proposta artistica che quella dei talk non è stata recepita come speravo dagli studenti. C’è stato poco coinvolgimento e scarsa partecipazione anche da parte di coloro che studiano le arti performative. Non voglio muovere critiche all’istituzione Università, ma qualcosa di certo non funziona nel rapporto con gli studenti, forse troppo concentrati sul sistema dei crediti e poco motivati e curiosi rispetto ai diversi linguaggi espressivi. Quando frequentavo l’Università si parlava di teatro, di danza, di musica, ma anche di artisti, e si faceva a gara su “chi aveva visto più spettacoli in un mese”.
Anche noi organizzatori dovremmo ragionare di più su questo aspetto, attuare politiche di engagement e usare risorse per la formazione del nuovo pubblico e degli artisti di questa città. L’Italia è piena di esperienze a cui guardare per generare una proposta che non si fermi allo sconto under 30. Servono pratiche di comunità, perché il teatro, la danza, la musica, la performance sono e rimarranno sempre azioni comunitarie.

Andiamo alla nostra specificità isolana rispetto all’organizzazione di un festival. Quanto è difficile per un territorio che si trova “ai confini dell’impero”?

Sinceramente non vedo difficoltà maggiori rispetto ad altri territori. Le difficoltà, per quanto mi riguarda, sono legate alla mancanza di fondi provenienti dalle fondazioni bancarie (vedi Cariplo in Lombardia o Sanpaolo in Piemonte) e alla quasi totale assenza del privato negli investimenti nell’arte. Ci sono festival nel resto d’Italia che riescono a crescere grazie all’Art bonus, strumento piuttosto recente che in Sicilia rimane alquanto sconosciuto. Il sostegno maggiore che ho potuto ricevere è arrivato dagli altri operatori, dagli artisti siciliani, ma anche nazionali, in una rete di solidarietà e amore per un’esperienza di cui sentivamo la necessità.

Santiago Baculima

La sezione loghi in fondo al programma risulta particolarmente “snella”: oltre a Genìa, all’Università, solo qualche sponsor privato come CoopCulture e il patrocinio della Regione. E i finanziamenti pubblici?

I contributi pubblici sono uno strumento importante e serio. Richiedono affidabilità, struttura amministrativa specializzata, uno storico invidiabile, insomma un percorso che richiede del tempo, scelte precise e soprattutto un forte rischio per l’investimento di risorse personali. Proseguiamo, un passo alla volta, mai un passo indietro, cercando di rispettare strategie, piani economici e senza dimenticare la dimensione del sogno e del desiderio che ogni atto artistico impone.
Il 2025 sarà importante sia nel rapporto con il Ministero della Cultura che con la Regione Siciliana e troverei molto interessante se anche la Città Metropolitana di Palermo potesse entrare in questo dialogo tra istituzioni pubbliche e privati. Mi auguro che i partner mi diano ancora tutta la fiducia che ho ricevuto in queste prime tre edizioni e che Genìa possa partecipare sempre più nella sua forma collettiva.

Politico per amore del teatro: intervista a Leonardo Lidi sul Progetto Čechov

ILENA AMBROSIO | In uno splendido saggio contenuto nella raccolta Letteratura come itinerario nel meraviglioso (Einaudi, Torino 1968) Angelo Maria Ripellino descrive il corpus di Anton Čechov come un universo unico fatto di continui ritorni di temi, dettagli, di tipi umani: ne discute, così, i singoli drammi passando dall’uno all’altro senza soluzione di continuità, in un flusso continuo.
Ad assistere alla trilogia che compone il Progetto Čechov di Leonardo Lidi – presentato per intero al Festival di Spoleto 67 – si ha la medesima impressione di continuità e organicità: gli allestimenti di Il Gabbiano, di Zio Vanja e del debuttante Il giardino dei ciliegi, pur nell’estetica precipua e specifica di ciascuno, rappresentano con evidenza un percorso unitario dentro l’opera di Čechov, ma anche e soprattutto dentro un intento etico ben definito: interrogarsi sul teatro, su cosa è oggi, su cosa potrebbe o dovrebbe essere; e farlo con la materia prima umana di cui il teatro si compone: gli attori. La Trilogia di Lidi è, attraverso la parola di Čechov, un grande omaggio al lavoro dell’attore e, insieme, un’analisi lucida e disincantata del teatro.
Abbiamo voluto confrontarci con il regista per farci dare le coordinate di questo percorso.

In primis, come è nato il Progetto?

L’idea è nata subito dopo il primo lockdown quando ci si domandava come ripartire e quando il Direttore dello Stabile dell’Umbria, Nino Marino, mi chiese di presentare un progetto triennale.
Alla base c’è stata da subito una mia specifica volontà, quella che il progetto si basasse sugli attori; volevo creare un’azione politica che dichiarasse questa intenzione. Da qui dodici attori, sempre gli stessi, per tre anni, per tre spettacoli. L’intento era di porre attenzione a una categoria che in quel momento veniva trascurata. In quel periodo molti attori si sono sentiti l’ultimo pensiero della società e della politica; c’è chi ha reagito con tavole rotonde, chi fondando Associazioni, chi cercando un confronto con le Istituzioni… io mi sono rintanato nello studio dei classici e ho pensato di reagire nella pratica teatrale.

Ecco, i classici. Perché proprio Čechov? E perché proprio questi tre titoli?

Čechov a mio avviso è l’autore che sottolinea di più la centralità degli attori, soprattutto se si pensa di lavorare in compagnia. Questo perché la sua scrittura non sviluppa protagonismi, regala all’attore una luce particolare, ma sempre all’interno di un pensiero di collettività: non c’è mai un protagonista, ma sempre una società, una struttura complessa. Ecco, mi interessava analizzare una società di attori.

Così, per prima cosa, ho messo insieme attori molto diversi per esperienza, per percorso ed età anagrafica: c’è chi viene dall’avanguardia, chi dalla scuola di Ronconi/Castri, chi da quella di Leo de Berardinis; ci sono i miei coetanei, nati nel precariato e che quindi hanno fatto un po’ di tutto per esserci e resistere; poi ci sono i più giovani che hanno iniziato adesso… Insomma ho voluto, con il teatro di Čechov, creare una società teatrale che fosse rappresentativa del sistema italiano dal punto di vista degli attori.

Per quanto riguarda i titoli, c’è stata, prima di tutto, una questione pratica ossia la possibilità per tutti e tre di fare un lavoro con la stessa compagnia.
Ma fondamentale è stata anche una questione di tipo teorico.
Il gabbiano è il primo: subito dopo la pandemia ritenevo necessario interrogarsi sulla forma: come rientriamo a teatro? Quale forma e quale vestito indossiamo per ripresentarci al pubblico? Quello della trama o il simbolismo? Un teatro più impattante, ma meno comprensibile come quello di Konstantìn o un teatro delle storie, che si avvicina più al cinema, come quello della scrittura di Trigòrin?
Zio Vanja, per me, è un testo che parla dell’ininfluenza, di persone che non impattano o sentono di non impattare sul proprio pianeta, sul proprio lavoro, sulla propria vita. Quindi, rispetto a una compagnia di attori, la questione da porre è: quanto ci sentiamo ininfluenti rispetto a un sistema teatrale che sembra poter fare a meno di noi? Esistiamo ancora per il teatro, per il pubblico?
Il giardino dei ciliegi, infine, è una grande metafora dell’inutilità di questo teatro che, come il giardino, non è più utile a livello produttivo perché i ciliegi non maturano più, perché maturano ogni due anni e allora la scorciatoia sembra privatizzare o vendere per utilizzare il luogo in modo usa e getta.

Ph. Andrea Veroni

Per ciascuno, dunque, una ben precisa motivazione politica che si traduce anche nelle scelte relative alla messa in scena.

Certo. La scena di Il Gabbiano è quasi classica: uno spazio vuoto, costumi di inizio secolo; poi Zio Vanja con tutti i personaggi, in abiti di metà secolo, fissi su una parete di legno grigio; per poi arrivare a Il giardino con costumi di fine secolo e scene di plastica, come se ci fosse un grande sacco per l’immondizia a racchiudere tutta la compagnia che si sente abbandonata da chi, invece, dovrebbe tutelarla.

Ci hai parlato del lato politico di questo progetto, ma il lavoro che hai fatto sugli attori sembra essere stato molto intenso anche dal punto di vista artistico. Gli interpreti sono portatori di una serie di inclinazioni della voce, di gesti, di movenze molto precise, che riescono a conservare o a lasciar andare di spettacolo in spettacolo. Come siete arrivati a questo tipo di completezza e complessità interpretative?

Il lavoro è stato molto faticoso, nel senso bello del termine: con gioia ciascuno di loro ha dato tutto dall’inizio alla fine, hanno preso sulle spalle la responsabilità dei ruoli e del progetto come un vero ensemble.
Ma tutti i dettagli che hai notato sono anche il frutto di una cosa e cioè delle repliche: gli interpreti, per tre anni, hanno avuto la possibilità di abitare il palcoscenico con costanza e di sentirsi davvero una compagnia. Questo deve farci riflettere sul fatto che non si può continuare la politica usa e getta per la quale fai uno spettacolo di due settimane e poi si vede. Bisogna prendersi la responsabilità di puntare su alcuni artisti, di fare delle scelte; questo è il motivo per il quale ci sono i direttori artistici.
Deve essere l’attore il tramite tra teatro e spettatore, ma non si può pensare che gli attori possano crescere in modo importante senza una palestra costante; lo stesso vale per i registi, per i drammaturghi… non è così che si coltiva un terreno fertile. Il terreno è arido e le cose non possono che svilupparsi a metà.
Allora il progetto Čechov deve raccontare anche questo: che, nonostante le difficoltà della politica del teatro italiano, si può costruire, basandosi sui bravi attori e non sulle trovate, sul nome di fama, non sfruttando l’occasione televisiva, il testo riconoscibile, perché tratto da un best seller. Bisogna costruire in maniera logica e con costanza e credendo nella forza del teatro. E questo si fa con gli attori.

Ho notato che la tua regia tende spesso a bloccare il trasporto dello spettatore, come a volergli impedire di mettersi troppo comodo. In relazione anche alla riflessione politica di cui si fa portatore il progetto, che tipo di ruolo ha, per te, il pubblico?

Fondamentale, tutto è pensato per lo spettatore, dal cast e dalla scelta dei testi in poi: scelgo sempre testi che in quel momento possono parlare allo spettatore. Il pubblico e la sua relazione con l’attore sono sempre la priorità, ma ciò non vuol dire essere accomodanti nei suoi confronti: il bene dello spettatore non si cerca rendendogli la vita troppo facile, ma cercando una connessione, cercando un dialogo e il dialogo, a volte, può essere anche spigoloso e fastidioso, ma deve essere sempre vivo.
Sono sempre più convinto che il pubblico venga trattato meno bene di come si merita, nel senso che si prendono decisioni per il pubblico come se non fosse in grado di leggere altri codici ed è assurdo, anche perché nella velocità della tecnologia scopriamo che le persone sono sempre più attente ai nuovi codici, anche complessi. In questo modo, d’altro canto, si crea un pubblico che chiede la semplificazione… sta diventando un cane che si morde la coda. Allora meglio qualche “no” in più, ma che siano “no” che hanno e creano un punto di vista. È importante non avere con lo spettatore un dialogo banale o “televisivo”; è importante che questo in teatro non avvenga, ma che ci sia sempre la volontà di fare un’esperienza di conoscenza.

Durante una delle ultime repliche ho detto ai miei attori: permettete allo spettatore di conoscere chi sta sul palcoscenico. Questo per dire che, se sei al bar con un amico e, con il cuore in mano, gli racconti un’esperienza, l’amico difficilmente guarderà il telefonino. Lo stesso bisogna fare con gli spettatori: se racconti un’esperienza con sincerità, difficilmente lo spettatore guarderà il telefonino. Noi non dobbiamo imporre di spegnere i telefoni, dobbiamo fare in modo che il dialogo sia sincero e che non si senta il bisogno di guardarli.

Ph. Gianluca Pantaleo

Come pensi che il sistema teatrale possa arrivare a creare una condizione così fruttuosa?

Dipende tanto dalla proposta culturale del teatro; il pubblico si crea con le scelte artistiche, essendo rigorosi, precisi e coerenti, per questo il ruolo dei direttori artistici è fondamentale ed è necessario interrogarsi su chi sono e su come svolgono il loro lavoro.
E in questo anche la critica deve tornare a essere più forte: non deve venir meno il racconto coerente e rigoroso anche se duro… Noi abbiamo molto bisogno della critica in questo momento. Io preferisco critiche negative, ma di forza e con un pensiero netto, rispetto una critica positiva, ma leggera e superficiale. Oggi la critica dovrebbe, secondo me, avere la forza e la capacità di dire se un teatro non sta facendo bene il suo lavoro, di dire cosa significa e di farlo con forza.
Chi ama ancora il teatro deve trattarlo come si fa con un innamorato: deve averne cura, ma se trattano male il tuo amore devi anche reagire.

IL GABBIANO

regia Leonardo Lidi
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
musiche e suono Franco Visioli
assistenti alla regia Noemi Grasso
produzione Teatro Stabile dell’Umbria, ERT / Teatro nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi

ZIO VANJA

regia Leonardo Lidi
con Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival Dei Due Mondi

IL GIARDINO DEI CILIEGI

regia Leonardo Lidi

Personaggi e interpreti
Ljubov’ Andreevna Francesca Mazza
Anja, sua figlia Giuliana Vigogna
Varja, sua figlia adottiva Ilaria Falini
Lenja Andreevna, sorella di Ljubov’ Orietta Notari
Ermolaj Alekseevic Lopachin Mario Pirrello
Peter Sergeevic Trofimov Christian La Rosa
Boris Borisovic Simeonov-Piscik Giordano Agrusta
Charlotta Ivanovna Maurizio Cardillo
Semen Panteleevic Epichodov Massimiliano Speziani
Dunja Angela Malfitano
Firs Tino Rossi
Jasa Alfonso De Vreese

‍scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi

Festival dei Due Mondi – Spoleto | 7 luglio 2024

Puccini al Castello di San Giusto: Turandot in una fortezza-museo testimone della Storia

Ph F. Parenzan

GIULIA BONGHI | L’estate triestina si arricchisce con la messa in scena dell’opera Turandot di Giacomo Puccini, allestita al Castello di San Giusto, nel Cortile delle milizie.

Questa storica fortezza-museo non è solo un luogo di rara bellezza, ma è anche un testimone silenzioso delle vicende storiche che hanno plasmato la città. Costruito nel XV secolo su una collina che domina il golfo, il Castello offre una cornice che esalta l’epicità e la maestosità di questa fiaba lirica. È stato riproposto e revisionato l’allestimento di Davide Garattini Raimondi, andato in scena al Teatro Verdi di Trieste nel 2019 con la co-regia di Katia Ricciarelli.

Il cortile delle milizie, con le sue possenti mura coperte di edera, ospita una scenografia, firmata da Paolo Vitale – che cura anche il disegno luci –, dall’atmosfera fredda e severa. Sei praticabili mobili raffigurano un mondo diviso in due: bianco e nero, bene e male. I costumi di Danilo Coppola, che riprendono vagamente un taglio tradizionale, separano anch’essi nettamente il popolo, in vesti nere e anonime, da chi detta le leggi di vita e di morte. Questi ultimi sono vestiti di bianco e le decorazioni degli abiti sono delle tessere che imitano dei pezzi di vasi in porcellana cinese blu e bianca, con motivi floreali e paesaggistici.

Ph F. Parenzan

Sul fondo, un telo bianco, stagliato contro il cielo che imbrunisce via via che l’opera avanza, accoglie le videoproiezioni che risultano di dubbia bellezza e utilità.

L’effetto affascinante di questa produzione è rintracciabile nella messa in rilievo di un potere mistico della Principessa di Ghiaccio e nel clima che emerge fortemente favolistico. Una fiaba cupa, che esalta l’oppressione e la crudeltà della sovrana, soprattutto nel primo atto, quando il popolo, l’eccellente Coro del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, viene persino collocato dietro le sbarre e sorvegliato dalle guardie mascherate che impugnano e ostentano i manganelli.

Il Coro di voci bianche, I Piccoli Cantori della città di Trieste, entra trascinato da un sorvegliante: tanti piccoli schiavi messi in fila e legati a un’unica corda.

Il popolo e i personaggi assumono, in seguito, una certa ieraticità. La tensione si profila nell’immobilità e diventa palpabile, nel secondo atto, durante il rito dei tre enigmi, in cui Calaf e Turandot svettano in cima ai praticabili.

Ph F. Parenzan

Il tenore americano Clay Hilley ha un bel timbro, limpido e spiegato, anche se il tentativo di un sovracuto, a circa metà dell’opera, viene soffocato, e la voce rimane fioca per tutto il terzo atto, esibendo un Nessun dorma un po’ grezzo. La soprano Rebeka Lokar è una Turandot dalla voce argentina, quantunque sgraziata: non convincono il vibrato largo e un canto poco articolato.

È efficace il canto di Caterina Marchesini, nel ruolo di Liù, pieno e sonoro, ben appoggiato, che si addolcisce intonando Tu che di gel sei cinta, aria in due parti che precede la sua morte. Robusto ed espressivo è il timbro di Abramo Rosalen che interpreta Timur, un padre vecchio, cieco e con tanto di stampella dal secondo atto in poi.

Ping, Pang e Pong – rispettivamente Marcello Rosiello, Enrico Casari e Aaron Mcinnis – regalano colore e carattere all’opera, mentre Gianluca Moro è apprezzabile nei panni dell’Imperatore Altoum. Funzionano pure Stefano Marchisio, Mandarino; Vida Matičič Malnaršič e Lucia Premerl, prima e seconda ancella; Francesco Cortese come principe di Persia.

Sul podio, il Direttore Musicale stabile Enrico Calesso guida l’Orchestra del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, inizialmente un po’ sfaldata, ma prontamente recuperata. Le mani affusolate del direttore disegnano nell’aria, ora carezzevoli sulle melodie degli archi, ora ricalcando il glissando delle arpe, ora vibranti come i piatti, i tam-tam, il glockenspiel e gli altri strumenti idiofoni previsti in partitura.

Ph F. Parenzan

In questo caso, è stato scelto di concludere l’opera con la morte di Liù. Com’è noto, la composizione di Turandot fu interrotta dalla morte del compositore nel 1924, lasciando incompleto il finale del terzo atto. Diversi epiloghi sono stati scritti postumi da altri compositori. Nel 1926, Franco Alfano, su commissione di Arturo Toscanini, completò l’opera, tentando di essere più fedele possibile alle bozze lasciate da Puccini, che prevedeva chiaramente una trasformazione emotiva della Principessa. Se inizialmente fredda e distaccata, avrebbe dovuto gradualmente scoprire l’amore, grazie alla determinazione e alla passione di Calaf. Alfano ha dunque composto un duetto cruciale tra i due protagonisti e un finale trionfale e risolutivo, in linea con la tradizione operistica del tempo.

Calaf confessa il suo amore e la bacia. Turandot, finalmente, prova sentimenti umani e ammette di essere stata sconfitta dall’amore. Si presentano davanti all’Imperatore e alla folla, e Turandot dichiara di conoscere il nome di Calaf: Amore. L’opera si conclude con un coro trionfale, che celebra la vittoria dell’amore.

È stato apprezzabile e d’impatto assistere al finale brusco e ricco di pathos, proposto in questo allestimento. Liù su taglia la gola e davanti a lei s’incontrano Turandot e Calaf, si guardano e si sfiorano le mani. Buio.

TURANDOT

Dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini

Turandot Rebeka Lokar
Calaf Clay Hilley
Liù Caterina Marchesini
Timur Abramo Rosalen
Ping Marcello Rosiello
Pang Enrico Casari
Pong Aaron Mcinnis
L’imperatore Altoum Gianluca Moro
Mandarino Stefano Marchisio
Prima ancella Vida Matičič Malnaršič
Seconda ancella Lucia Premerl
Il principe di Persia Francesco Cortese

Orchestra e Coro del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Maestro concertatore e Direttore Enrico Calesso
Maestro del coro Paolo Longo
Coro di voci bianche I Piccoli Cantori della città di Trieste
Maestro del coro di voci bianche Cristina Semeraro
Regia Davide Garattini Raimondi
Scene e disegno luci Paolo Vitale
Costumi Danilo Coppola
Assistente alla regia e movimenti scenici Anna Aiello
Allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste

Castello di San Giusto, Trieste | 10 luglio 2024

PAC LAB | L’allunaggio del Performare festival – Parte 1

Performare Festival 24
Performare Festival 24

SOFIA BORDIERI* | Serradifalco è un paese di poco più di cinquemila abitanti in provincia di Caltanissetta, nell’entroterra siculo, dove la vita sembra essere scandita da tempi regolari, appuntamenti precisi. La densità demografica è bassa, c’è una notevole escursione termica tra il giorno e la notte e non ci sono negozi d’abbigliamento per comprare eventualmente una felpa. È in questo “margine” che si inserisce l’esplosivo Performare Festival diretto da Simona Miraglia e Amalia Borsellino, in corso fino al 13 luglio. Giunto alla sesta edizione, il macro tema scelto per il secondo triennio concerne lo spazio cosmico e, dopo Ai confini dell’immaginazione del 2022 e Stargate del 2023, quest’anno si parla di Allunaggio, cioè dell’atterraggio sull’oggetto celeste che è la ricerca contemporanea. Abbiamo seguito la prima settimana, dal 2 al 7 luglio, ricca di spettacoli, performance, workshop e presenze di artisti che hanno vissuto il teatro De Curtis come una piccola comunità.

La prima giornata è aperta da Αλς – Forme di vita, una performance en plein air di Chiara Marolla e Cinzia Sità, prodotta da Sosta Palmizi. Punto di partenza e arrivo il Parco delle Rimembranze, capo e coda di una passeggiata guidata da Sità catalizzatrice di attenzione e veicolo di sguardi. Dallo zaino in spalla della drammaturga, contenente una cassa, viene fuori il suono della voce di Marolla narrante un brano di John Berger.
Attraversiamo le strade e tutto diventa segno scenico: le auto, i ragazzini in monopattino, le anziane sedute fuori dalla propria abitazione. In quel prolungamento del vivere privato nel pubblico che è la strada del paese, Marolla canta un brano in spagnolo soffice e profondo, come fosse un oracolo. La sua figura sembra un’apparizione norrena: vestita in beige tiene un fascio d’ulivo in mano, viso e dita sono striate di vernice bianca. I rintocchi delle campane della chiesa vicina graffiano e drammatizzano quel momento e accompagnano il passaggio dal vicolo stretto in cui stanziamo verso uno spiazzo dove è in corso il tramonto. La performer con una lunga canna di fratta si muove liberamente sul suono registrato di una fisarmonica, crea forme e visioni suggestive: un essere dal cordone ombelicale legato al cielo, un anziano saggio in cammino che poi sparisce lentamente in lontananza. Il corpo di Marolla, nella presenza e nell’assenza, riesce nell’intento di restituire un circostante mutevole, scopribile delicatamente con il movimento dello sguardo.

foto di Giovanna Mangiù

La prima giornata si è conclusa con un incontro sul rapporto cinema-danza intitolato Là dove la danza si manifesta omonimo del filmato realizzato da Nello Calabrò, regista e drammaturgo della Compagnia Zappalà Danza, che ha guidato un viaggio mosso dal movimento presente dal cinema delle origini ad oggi.

A proposito di corpi, presenza e restituzioni Se le api sono poche di Emilia Guarino è un piccolo gioiello della seconda giornata. Lo spettacolo ha portato in scena le relazioni intergenerazionali nell’ambito di un metodo di insegnamento orizzontale e non gerarchico che l’autrice sviluppa da anni nella sua scuola Diaria a Palermo.
Creato insieme alle danzatrici Federica Alovisio, Ludovica Messina Poerio, Gaia Calì e Bruna Di Figlia (due bambine di dieci anni), il lavoro pone al centro una coperta, oggetto dalle possibilità immaginative e creative inesauribili. Così le danzatrici, nascoste da tessuti all’uncinetto, diventano figure illusionistiche animate, dalle sembianze animali prima, forme dinamiche dopo (è sembrato di vedere il serpente che ha mangiato l’elefante de Il Piccolo Principe e quattro Loie Fuller vorticose). L’ispirazione del titolo viene da un componimento di Emily Dickinson che recita che, se le api sono poche, basta il sogno a creare un prato. Allora, al di fuori delle coperte, matrici di immaginazioni, composizioni musicali elettroniche hanno accompagnato danze, corse, sorrisi, capriole, pause per esplodere poi in una danza di corpi e corpicini liberi.

Foto di Giovanna Mangiù

Il pomeriggio seguente, a proposito di corpo libero, partecipiamo alla performance in versione site-specific di A corpo libero di Silvia Gribaudi. Partecipiamo perché non assistiamo semplicemente. Gribaudi ci parla come fossimo un coro, una compagnia canora andata in tournée. L’eclettica torinese in t-shirt nera e jeans, ci ringrazia, fa partire applausi che ricambiamo. Spostandoci poi dall’ingresso della Piazzetta San Lorenzo ci addentriamo nel verde, posizionandoci attorno a Gribaudi che condivide il suo spazio d’azione con due “installazioni”: una fontana e diversi cestini per la differenziata. Fa molto caldo (davvero) quindi si spoglia, e rimane con un vestitino colorato, «lo uso dal 2009 quindi è un po’ così».
Da qui il concept viene sviluppato all’estremo. Più cerca di coprirsi, su, giù, davanti, dietro, e più i suoi movimenti diventano ampi. Spaccate, relevé, “grand battements”, corse spostano, tirano sù il vestito sempre di più in maniera esilarante. Il suo sguardo verso noi spettatori è un perfetto mix di impotenza, menefreghismo, dispiacere, divertimento. Così si spoglia ancora in quella piazzetta curiosa e in reggiseno e mutanda verde-prato inizia la sua danza virtuosa del corpo morbido.

Foto di Giovanna Mangiù

La giornata si è conclusa con Lo splendore del barocco concerto curato dall’Associazione Musicale Etnea che con i musicisti Pietro Narese alla tromba e Carmelo Mantione all’organo ha proposto un vario repertorio da Benedetto Marcello a George Friedrich Händel passando tra gli altri per J. S. Bach e Domenico Zipoli.

 

PERFORMARE FESTIVAL, 2-13 LUGLIO, SERRADIFALCO (CL)

Αλς – FORME DI VITA
creazione e interpretazione Chiara Marolla
drammaturgia Chiara Marolla e Cinzia Sità
dramaturg e accompagnamento della performance Cinzia Sità
musica Donald Beteille
registrazioni di testi e suoni costume Chiara Marolla con l’aiuto di Thierry Bouffetteau
produzione Associazione Sosta Palmizi

SE LE API SONO POCHE
regia e coreografia Emilia Guarino
con Federica Aloisio, Gaia Calì, Bruna Di Figlia, Ludovica Messina Poerio
musiche Angelo Sicurella
luci Gabriele Gugliara
produzione Diaria/ Babel con il sostegno di Spazio Franco/ Piccolo Teatro Patafisico/Laboratorio Saperi Situati (Verona)

A CORPO LIBERO site-specific
di e con Silvia Gribaudi
elaborazioni musicali Mauro Fiorin
disegno Luci David Casagrande Napolin – Silvia Gribaudi
produzione Associazione Culturale Zebra
Vincitore Premio GDA Veneto 2009 e Premio del pubblico GDA Veneto 2009, Biennale di Venezia 2010 Aerowaves – Dance Across Europe 2010, Edinburgh Fringe Festival 2012, Do Disturb – Palais De Tokyo 2017

 

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Santarcangelo 2024: l’apertura del Festival spiega l’apertura del Festival

RENZO FRANCABANDERA | Basta il nome: Santarcangelo. E siamo già nella storia del teatro contemporaneo, delle arti performative. Una storia tutta italiana nata dalla magica combinazione dei moti di protesta libertari degli anni d’oro della seconda metà del secolo scorso. Un festival che ha fatto la storia del linguaggio in Italia e non solo, uno sguardo aperto da diversi decenni sul mondo dello spettacolo dal vivo.
Questo principio di internazionalità, di commistione e curiosità rimane con la direzione del curatore polacco Tomasz Kireńczuk, confermato alla guida di Santarcangelo Festival fino all’edizione 2026 compresa e che, rispetto alle più recenti direzioni artistiche, ha recuperato sotto molti aspetti il tema dell’integrità della forma spettacolare, che in alcune edizioni passate aveva lasciato il posto a una serie di azioni performative di breve durata e diffuse sul territorio comunale. Insomma c’è una bella energia intorno al festival.

Il borgo resta certamente il centro, con i suoi spazi storici, il lavatoio, la piazza, le grotte, il parco, ma si torna a una fruizione più organica, che inizia nel grande parco Baden Powell dove sono montati sia il grande tendone circo, dove tutte le sere c’è il dopo festival danzereccio, ma anche una gradinata che accoglie il pubblico per il debutto italiano dello spettacolo della performer e coreografə brasilianə, Catol Teixeira, classe 1993 e che attraversa con i suoi segni da alcuni anni anche il centro Europa fra Francia, Svizzera e Germania. È stata ospite del festival anche nelle due edizioni precedenti, con La peau entre les doigts e l’ultimo Clashes Licking. A Santarcangelo 24 propone zona de derrama coreografia composta per e con tre corpi danzanti ed è il primo lavoro di gruppo creato da Teixeira con un’estetica che rafforza l’intenzione di mettere a fuoco il tema della relazione intima riletta in interferenza con (dis)orientamenti queer. Con lei in scena ma a firmare anche la co-coreografia Auguste de Boursetty e Luara Raio, quest’ultima anche speaker e quasi padrona di casa all’arrivo del pubblico. Mentre Raio accoglie gli spettatori, alle sue spalle già lə altrə due protagonistə ci trasportano in un ambiente di seduzione ma anche di costrizione, con un secchio di quelli per umili lavori domestici che diventa trappola, rovesciato in testa.

Ph. Carlo Bertora

Il gesto è straripante, fra lotta, canto, armonia e violenza, in un continuum che profuma di happening contemporaneo. Il pubblico resta pubblico ma è costantemente ingaggiato da una chiamata d’attenzione. Loro in tute sportive, a compiere gesti ora di complicità ora di distanza ma sempre di continuo incastro e riavvolgimento. Non c’è una trama eppure, nel vorticare di un gesto quasi sportivo per vigoria, si è portati a una empatia verso la sofferenza e l’isolamento che si trovano dentro la geografia del corpo, esibito a fine performance in una quasi completa nudità che è racconto di un martirio, che si ricompone in una sorta di pietà, di sacra umanità.

Si muovono nell’oscurità, non come becchini ma più come topi i protagonisti di Lessons for Cadavers, della coreografa anche lei brasiliana e anche lei di ritorno a Santarcangelo dopo essere stata ospite nel 2018, Michelle Moura.
Tre performer in scena, per una danza macabra al confine fra rappresentazione e coreografia con gesti di humor dark, dove la danza in realtà è gesto espressionista portato allo stremo. Sotto lo sguardo del pubblico c’è la ridicola assurdità della condizione umana di cui i tre sono emblematica rappresentazione fra smorfie, fragilità e azione burattina, sospinti da forze che non controllano e da cui, anzi, paiono poter essere invisibilmente controllati senza poter opporre resistenza alcuna e anzi, facendosi complici di una azione tragicomicamente necrofila. La vita fa schifo, e la loro condizione alienata ne trasforma il sembiante in bestie che incorporano la repulsione per quello che l’uomo può arrivare a diventare. Sembra una denuncia del clima di terrore e paura diffusisi negli anni del governo di estrema destra in Brasile. Finiscono per scavare, dentro una ossessionante musichina che sa quasi di videogioco e nel buio della quale si dissolvono.

Ph. Carlo Bertora

Il tumulto degli spettacoli continua con HIT out composizione coreografico-musicale di Parini Secondo e Bienoise. La costruzione è, dal punto di vista del gesto, figlia di quel do-around-the-world di cui avevamo parlato nell’edizione 2023 di Danza Urbana, e sviluppata intorno al salto della corda. Allora in scena c’erano solo Sissj Bassani e Martina Piazzi, ma il progetto, felicemente evolutosi intorno alla corda, interpretata come strumento percussivo e ritmico oltre che coreografico, si è ampliato a un quartetto che comprende anche Camilla Neri e Francesca Pizzagalli.
Un anno di preparazione atletica, per arrivare a una composizione coreografica ambientata su una superficie microfonata che raccoglie il suono delle corde, e che sviluppa una partitura di gesto sincronico e suono via via sempre più complesso e polifonico, fatto di contrappunti e contrattempi, in cui single-unders, side-swings e double-unders sono sia elementi atletici che musicali. Il risultato è brillante, coinvolge il pubblico, fa riflettere su quanto il complesso si possa trovare anche nel semplice, ma anche di quanto lavoro occorra per passare dal semplice al complesso e per arrivare a una composizione atletico-ritmica assai pregevole, che trasforma il pop in iterazione e ne sviluppa la ricchezza.

Ph. Carlo Bertora

Conclude la serata un lavoro invero singolare e originale, pur nella sua insistita reiterazione.
Pas de deux vuole essere una celebrazione dell’amore ma, come scrive la coreografa Anna-Marija Adomaityte «credo che sia necessariamente anche la celebrazione della sofferenza» della relazione a due. E quindi questa danza, il duetto, che più di ogni altra, celebra la summa del romanticismo eteronormativo, diventa orologio inceppato dentro un movimento fatto di singulti, in cui lei, Romane Peytavin, sta davanti e lui, Victor Poltier le tiene le mani standole alle spalle e componendo una danza fatta di salti incastrati e mai liberi, una condanna a fare le lancette sincroniche che girano e si incagliano. Si fermano, poi riprendono, magari in direzione opposta, ma niente. Nulla evolve: si saltella strenuamente di qua, ora di là, ma il romanticismo sembra evaporare in un delirio a due più che in una coreografia libera. La coreografia è proprio una critica esplicita a quell’immaginario normativo dell’amore e del corpo che il passo a due di derivazione romantica ha ridicolmente sublimato.

Ph Carlo Bertora

La coreografa lituana di nascita e svizzera di adozione artistica di base a Ginevra, ha fondato la compagnia di danza contemporanea A M A ed è artista associata presso L’Abri – Genève. Pas de deux, seconda creazione dell’artista, è stata selezionata per far parte della rete europea di danza AEROWAVES nel 2022. Su un tappeto blu klein e sotto luci al neon da sala da biliardo più che da balera, i due, chissà, forse invecchiati dopo tanti giri di lancette, quasi tremanti, provano ad abbracciarsi, senza riuscire a toccarsi in un continuo tremore. Tornano alla loro antica “danza” nel finale in cui le luci della vita si abbassano. Un’idea coreografica sfiancante quanto originale, dove la dolorosa assurdità del legame racconta le sue più asfittiche pieghe.


ZONA DE DERRAMA – first chapter

concept, coreografia e performance Catol Teixeira
co-coreografia e performance Auguste de Boursetty, Luara Raio
performance sonora Ágatha Barbosa
creazione sonora Luisa Lemgruber
produzione e amministrazione Rabea Grand
distribuzione Jérôme Pique
produzione Association UÀ
coproduzione RESO – Swiss coproduction found
in collaborazione con far° festival, Gessnerallee Zurich, Pavillon ADC – Genève, Théâtre Vidy-Lausanne, Points Communs – Nouvelle Scène nationale of Cergy-Pontoise / Val d’Oise
in collaborazione con Santarcangelo Festival, Südpol Luzern as part of the Extra Time Plus programme

progetto realizzato con il supporto di Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia
in collaborazione con Zürcher Theater Spektakel (Zurigo) e New Baltic Dance (Vilnius) nell’ambito di European Festivals Fund for Emerging Artists – EFFEA, cofinanziato dall’Unione Europea

 

LESSONS FOR CADAVERS

ideazione, coreografia e direzione artistica Michelle Moura
performance Clarissa Rêgo, Jorge De Hoyos, Michelle Moura
drammaturgia e assistenza coreografia Maikon K
musica e suoni Kaj Duncan David
luci e scenografia Annegret Schalke
costumi e make-up Thelma Bonavita
collaborazione artistica Nina Krainer
sarta Luciana Imperiano
management produzione ehrliche arbeit – freies Kulturbüro
distribuzione internazionale Something Great
grazie a Mateusz Szymanówka, Atalya Tirosh, Elisabete Finger, Nics Kort, Annette David, Nina David
produzione Michelle Moura
coproduzione Sophiensæle, deSingel, Something Great
finanziato da Dipartimento per la Cultura e l’Europa del Senato di Berlino e Fonds Darstellende Künste – Federal Government Commissioner for Culture and the Media nell’ambito del programma Neustart Kultur
con il sostegno di fabrik Potsdam – Etape Danse network, French Institute of Germany – Theater and Dance Office, La Maison CDCN Uzès Gard Occitanie, Théâtre de Nîmes, Mosaico Danza – Interplay Festival Turin, Ministry of Culture – DGCA, Landeshauptstadt Potsdam, Fondazione Piemonte dal Vivo, Lavanderia a Vapore Torino e Koda Kultur
residenze artistiche PACT Zollverein, fabrik Potsdam e Théâtre de Nîmes
con il supporto di NATIONALES PERFORMANCE NETZ International Guest Performance Fund for Dance finanziato da Federal Government Commissioner for Culture and the Media

progetto realizzato con il supporto di Goethe-Institut Mailand e promosso dal Ministero Federale degli Affari Esteri della Repubblica Federale di Germania

 

HIT OUT

di Parini Secondo e Bienoise
con Sissj Bassani, Martina Piazzi, Camilla Neri, Francesca Pizzagalli
coreografia Parini Secondo
suono Alberto Ricca / Bienoise
costumi e intrecci Giulia Pastorelli
corde MarcRope Milano
organizzazione Margherita Alpini
produzione Parini Secondo, Nexus Factory
coproduzione Santarcangelo Festival, Bolzano Danza
con il sostegno del MiC e di SIAE nell’ambito del programma “Per Chi Crea” 2023/2024
con il supporto di Boarding Pass Plus, R.O.M Residencies On the Move, Nuovo Grand Tour 2024, BIT Theater garasjen, NID platform, Istituto Italiano di Cultura Oslo, Istituto Italiano di Cultura Parigi, Ufficio Italiano di promozione economica commerciale e culturale Taipei, Cantieri / Network Anticorpi XL, Magdalena Oettl, AMAT Marche

spettacolo offerto da Oleificio Pasquinoni
© Bianca Peruzzi

PAS DE DEUX

concept e coreografia Anna-Marija Adomaityte
con Romane Peytavin, Victor Poltier
sound e light design Gautier Teuscher
supporto tecnico Joël Corboz
sguardo esterno Pierre Piton
amministrazione Hugo Langlade
distribuzione Tristan Barani
grazie a Maud Blandel, Elie Grappe
produzione Cie A M A
coproduzione La Bâtie-Festival de Genève, L’Abri-Genève
con il sostegno di Swiss Arts Council Pro Helvetia, Bourses SSA – Société Suisse des Auteurs pour la création chorégraphique 2021
“Pas de deux” fa parte di European dance network Aerowaves

progetto realizzato con il supporto di Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia, Ambasciata della Repubblica di Lituania a Roma, Lithuanian Culture Institute, Lithuanian Council for Culture, Lithuanian Dance Information Centre

PAC LAB | Inequilibrio Festival e le indagini sul reale

MARIA FRANCESCA SACCO* | Inequilibrio, il festival vista mare della Fondazione Armunia, si snoda tra quattro location sul territorio livornese, proponendo i suoi spettacoli tra la storica sede di Castiglioncello, e i vicini comuni di Rosignano Marittimo, Rosignano Solvay e Vada. Ciò che caratterizza il festival, quest’ anno alla sua ventisettesima edizione, è la volontà di coinvolgere territorio e popolazione, connettendo artisti, spettatori e organizzatori. La direttrice Angela Fumarola sottolinea l’importanza riservata all’accoglienza e questa edizione, in cui ci si interroga su utopie e realtà, diventa una promessa di resistenza contro un presente che ha perso il suo senso comunitario e che va ridipinto attraverso le diverse forme d’arte che si vedono dialogare in questi giorni.

ph. dorin mihai

Il Teatro dell’Elce, gruppo fiorentino nato nel 2006 che quest’estate sarà in giro per il capoluogo toscano con il progetto di teatro diffuso Il teatro nelle città, propone a Castiglioncello uno studio intitolato L’anello che non tiene, messo qui per il Festival in scena nella Sala del Ricamo del Castello Pasquini.
Si vedono solo dei microfoni da call center sull’imponente tavolo, intorno al quale siedono il pubblico (più distante, sulle sedie) e i protagonisti, uno di fronte all’altro. Il sottotitolo Studio per un dialogo cyber-platonico preannuncia il taglio dello spettacolo che Marco di Costanzo e Stefano Parigi affrontano di petto attraverso un’immaginaria videochiamata.
La questione che viene posta a Socrates, giudice un po’ filosofo e un po’ influencer, è delicata: se nel metaverso (realtà virtuale) venisse commesso un reato di stupro sarebbe esso punibile?
Da qui si inizia a parlare di etica e a chiedersi cosa sia la realtà. Se questa, secondo le definizioni, è tutto ciò che è sensibile, il metaverso dove si colloca? Il dialogo si fa incalzante mentre Socrates conduce il ragionamento, maieuticamente alla ricerca di una risposta. Si arriva a interrogarsi sul digitale e se questo rappresenti la realtà o ne sia solo una copia. Gli esperti informatici sosterrebbero la seconda e allora il dubbio: la descrizione della realtà, contiene l’essenza del reale? Ricalcando il mito platonico della caverna si ragiona serratamente su questo tema in relazione alla tecnologia e l’atteggiamento da adottare di conseguenza.
La faccenda filosofica si consuma al buio, finché gli attori non aprono le finestre lasciando entrare la luce sullo spettatore che ritorna al mondo (reale?) continuando a interrogarsi, ormai impelagato. Una drammaturgia intelligente che porta il pubblico ad una duplice riflessione: in primis, che al progredire tecnologico sia necessario accompagnare anche una legislazione adeguata; in secondo luogo, su come il mezzo filosofico si confermi strumento applicabile in qualunque tipo di argomentazione, anche nell’epoca del digitale.

ph. dorin mihai

Al Teatro Solvay di Rosignano va in scena Lena il primo lavoro di Claudio Larena, incentrato sul peso delle responsabilità nella vita di ogni essere umano. Arena, da solo in scena, interagisce con diversi oggetti la cui presenza è utile anche a scandire i ritmi della narrazione. Infatti le sue parole, testo avvincente, ben scritto e mai ridondante, sono accompagnate da movimenti che occupano tutto lo spazio durante i diversi racconti: dalle vicenda del ragazzo che prende la macchina senza patente, distruggendola, alla storia della nascita di un figlio non desiderato in cui la conclusione è «sarebbe stato meglio fermarsi prima».
Prendersi carico delle proprie azioni è un atto che caratterizza l’età adulta, nonostante gli ostacoli che potrebbero arrivare addosso violenti sono innumerevoli, insieme ai rimpianti e i dubbi, forse qui rappresentati dalle altalene che l’attore cerca di evitare sul palco. La riflessione del giovanissimo performer descrive quell’incosciente tendenza alla leggerezza minata, al contempo, dalla consapevolezza che la vita adulta sia fatta di altro, ad esempio di scelte consapevoli.
In scena, i ritmi che Larena cadenza con gli oggetti risultano però, in alcuni punti, un po’ lenti e inceppati, traspaiono alcune ingenuità proprio nelle interazioni con gli elementi sul palco, il che riconsegna una sensazione su cui lavorare per le prossime repliche di coesione ancora da trovare e di insistita ripetizione. Tuttavia, il testo colpisce per la sua capacità di toccare quelle corde, cariche di incertezze e paure, che vanno accarezzate nel processo di maturazione.


L’anfiteatro Scabia, nel Castello Pasquini, è infine la perfetta location per I libri di Oz di Fanny & Alexander, bottega d’arte nata a Ravenna nel 1992, che vede in scena Chiara Lagani nei panni di narratrice e interprete di tutti i personaggi. I romanzi di Frank Baum sono circa quattordici, tutti ambientati a Oz, e l’attrice li ha tradotti e uniti per condurre lo spettatore in un tour tra le stramberie di Oz. La scenografia è semplice, un tavolo e pochi oggetti funzionali al racconto, un libro, le famose scarpette rosse e un grande disco di plastica trasparente che userà per deformare il suo volto. Il testo ha accompagnato gli esordi della compagnia con una serie di spettacoli ispirati alla figura di Dorothy: si tratta quindi di un ritorno al filo, anch’esso rosso, dell’immaginario della compagnia.
Dietro il piano dell’interpretazione, uno schermo sul quale corrono le illustrazioni di Mara Cerri che accompagnano la narrazione. Innumerevoli personaggi passano sulla scena, tutti interpretati da Lagani e dalla sua voce che, con l’aiuto della tecnologia, all’occorrenza diventa quella del robottino Tic Toc o del Leone senza coraggio, mantenendo così salda l’attenzione anche dei più piccini.
I movimenti sempre puntuali dell’attrice sono magnetici per chi osserva il susseguirsi di avventure, grazie al ritmo perfettamente calibrato che non lascia spazio a null’altro, se non allo stupore per la fantasia creatrice di Baum e per la potenza scenica di Lagani che sembra trasformarsi lei stessa nel mago di Oz, tenendo le fila della narrazione fino alla consegna della suggestione che da qualche parte, oltre l’arcobaleno, «il cielo è azzurro e i sogni diventano realtà».

 

L’ANELLO CHE NON TIENE

di Marco Di Costanzo
con Marco Di Costanzo, Stefano Parigi
suono Andrea Pistolesi
produzione Teatro dell’Elce
in coproduzione con Fondazione Armunia
con il sostegno di Regione Toscana, Fondazione CR Firenze

Catello Pasquini, Castiglioncello (LI) | 5 luglio 2024

LENA 

di e con Claudio Larena
luci Francesco Tasselli
realizzazione scene Elena Bastogi
suono Lorenzo Minozzi
consulenza artistica durante il processo di ricerca Giovanni Onorato, Mariella Celia, Elena Bastogi, Bruna Bonanno

produzione Chiasma 
con il supporto di Mic – Ministero della Culturacon il sostegno di Corte Ospitale; Teatro dimora Mondaino; Capotrave-Kilowatt & Armunia; A.ArtistiAssociati

Teatro Solvay, Rosignano Solvay (LI) | 5 luglio 2024

I LIBRI DI OZ

di e con Chiara Lagani
testi di Frank Lyman Baum
traduzione Chiara Lagani per I Millenni Di Einaudi
illustrazioni Mara Cerri
regia e animazioni video  Luigi De Angelis
paesaggio sonoro Mirto Baliani
cura del suono e supervisione tecnica Vincenzo Scorza
organizzazione Maria Donnoli, Martina Barison, Marco Molduzzi
comunicazione e promozione Maria Donnoli
amministrazione Stefano Toma, Marco Molduzzi 
produzione Elastica, E production/Fanny&Alexande

Anfiteatro Scabia, Castello Pasquini, Castiglioncello (LI) | 5 luglio 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Castiglioncello, la strana catarsi di Nikita e Manson

OLINDO RAMPIN | Siamo al Festival Inequilibrio di Fondazione Armunia, diretto da Angela Fumarola, e mentre ci trasferiamo in automobile da un teatro all’altro nei dintorni di Castiglioncello, l’occhio è catturato dall’insegna di un locale: Ristorante Catarsi. In auto i passeggeri ridono. Ma no, non è la cara vecchia catarsi aristotelica, la purificazione dell’anima attraverso la tragedia, abiurata da tempo, è solo il cognome dei proprietari, che non hanno pensato alla possibilità del malinteso. Se la catarsi greca antica è oggi irriproducibile, una qualche forma ambigua di purificazione la viviamo però in entrambi gli spettacoli a cui assistiamo: sia in Nikita, il nuovo lavoro di Francesca Sarteanesi e Tommaso Cheli presentato in prima nazionale, sia in Manson di Fanny & Alexander, nei quali in modi diversi siamo coinvolti nell’osservazione del male e dei vizi umani, se è ancora consentito oggi usare termini così netti appartenenti alla sfera morale.

Ph Dorin Mihai

Interpretata da Francesca Sarteanesi, Nikita è una donna persa nel suo soliloquio, ritmato come una inarginabile filastrocca in cui la fine di ogni frase è pronunciata con un’intonazione di gola, da borghesuccia presuntuosa. In un lungo e raggelante monologo, racconta alla sua pedicurista Nadia (Alessia Spinelli), da lei sottomessa e vilipesa, la sua quotidianità con esibito cinismo, gusto dell’orrido e dell’osceno, dando poi libero corso ai suoi deliri, in cui fantastica di ambienti elevati e avventure d’eccezione. L’iniziale flirt con un uomo rozzo e incolto prende via via la forma della narrazione mitomaniacale di un viaggio a Venezia. La tappa al Casinò e la cena sublime nella terrazza dell’Hotel Danieli di fronte al Bacino di San Marco sono lo scenario di cartapesta per la cronaca menzognera di un accoppiamento con Julio Iglesias, viscido e villoso sex-symbol che sfondò nell’Italia degli anni ’80, allora nella fase iniziale del suo inarrestabile declino. Nelle fantasie di Nikita, Iglesias la strappa dal tavolo in cui freme d’insoddisfazione, la trascina virilmente con sé in una suite dell’albergo, dove dirige e interpreta con benedetta intraprendenza un memorabile amplesso. La bullizzata pedicurista, muta di fronte alle smargiassate della sua cliente, solo alla fine troverà pochi istanti di diritto all’espressione, ma tra frasi smozzicate e segnali di sottomissione si mostrerà succube del carisma istrionico della sua interlocutrice. Sedute una di fronte all’altra, emergenti con il solo busto da un muretto sbrilluccicante da Luna Park, i cui rumori di fondo conferiscono all’ambiance un senso di ulteriore squallore, le due donne accentuano con questa postura di profilo e immobilizzata la natura senza sbocchi della loro relazione e condizione esistenziale. La costrizione fisica, oltre ad accrescere il tasso di difficoltà di una prova recitativa superata con vigore e tenacia dalla protagonista, oggettivizza la degradazione dei personaggi a monconi, quasi fossero enormi burattini a guanto a grandezza naturale manipolati da un animatore nascosto nella baracca, di cui il muretto argentato diventa il boccascena.

A qualcuno del pubblico è venuto in mente Beckett, ma è un Beckett di cui è filtrata la vaga eco di un alone di attesa, di un’incomunicabilità tra gli umani, passata però attraverso una radicale ristrutturazione dei contenuti in direzione pop e postmoderna, tutt’altro che assurda e sconnessa, anzi socialmente identificabile in un’ambiente definito pur se reinventato. La lingua e lo stile, a suo modo letterari, con una ricca aggettivazione e una sintassi a tratti sostenuta, per contrasto accentuano espressionisticamente il senso di straniamento e di alienazione dell’umanità rappresentata, integrandola però di un umorismo freddo, a labbra serrate, come se tutto fosse in realtà la rappresentazione di un sogno più che di un fatto reale.

Andrea Argentieri in una scena di Manson – ph Dorin Mihai

Manson di Fanny & Alexander si presenta invece come la singolare unione di un reportage in forma di drammaturgia sonora e di un processo di resurrezione esoterico. A risorgere è Charles Manson, leader carismatico della setta che nel 1969 trucidò orribilmente la moglie e gli amici del regista Roman Polanski. La prima parte di questo viaggio all’inferno è la lunga sequenza di una scrittura rumoristica, commento sonoro di un testo proiettato su uno schermo che ripercorre cronisticamente l’atroce fatto di cronaca, con perturbante carica emotiva. La scena illumina fiocamente una misera sedia impiegatizia con un sordido neon quadrato, che amplifica il disagio interiore ed estetico di chi guarda. Lo spettacolo sembra destinato a svilupparsi con questa raggelante benché suggestiva struttura narrativa, invece la scena e la sedia che sembrava vuota partoriscono a un certo punto con potente teatralità il “mostro”, risorto grazie alla possibilità generatrice della finzione scenica. Davanti a noi l’uomo, interpretato con abile e controllato istrionismo di sguardi, di accessi d’ira e di filosoferie psicopatologiche da Andrea Argentieri, si presenta in pigiama blu da detenuto, la chioma riccia, gli occhi e le sopracciglia scure, più simile a come immaginiamo gli assassini nichilisti dei romanzi di Dostoevskij, che all’istrionico figlio di una prostituta che si credeva Gesù Cristo, vissuto nell’America degli hippie e dei capelloni degli anni 60, gli anni e il mondo che dispiacevano a Pasolini. In effetti Manson è contemporaneo delle Lettere luterane e degli Scritti corsari, che denunciavano l’esistenza di masse di giovani infelici e criminaloidi, incapaci di distinguere il bene dal male, bruttati per sempre dal nuovo Potere neo-capitalistico, e Manson potrebbe sembrane un campione e un modello, una variante estrema che ha saputo per così dire distinguersi per statura criminale, sottomettendo con deliranti pseudo-concetti subculturali un gruppo di deboli e di disadattati, da lui incredibilmente chiamato Family.

Risorgendo per virtù taumaturgica-teatrale, questo livido manipolatore, questo affabulatore capace di infilare qualche frammento di idea che ha parvenza di senso per poi annegarla in un mare di deliri di onnipotenza e di megalomanie misantrope, riproduce in modo letteralmente mimetico il suo modo di rapportarsi agli altri, rispondendo alle domande del pubblico, preordinate dagli autori e consegnate al pubblico all’ingresso in sala. Più che ritrovarsi davanti a una giuria postuma, Manson può ricreare così la postura farlocca ma pericolosa del leader, del santone, del capo setta che ammannisce le sue scombinate teorie criminali a un’audience disposta per convezione teatrale a conversare con lui su un piano di civiltà, di buona educazione, di par condicio, quasi fosse l’uditorio di giornalisti di una aberrante conferenza stampa – show del Mostro. Con ciò lo spettacolo, più che irretirci nella posizione scomoda di chi problematizza e non giudica, come invitò a fare il vero Gesù Cristo, allestisce con la abbagliante chiarezza verificatrice della finzione teatrale, una perfetta ricostruzione della natura mistificatoria, manipolatoria, sfuggente, ambigua, crudele della personalità di Manson. Quel che inquieta maggiormente è che, pur differenziandosi per l’aspetto specificamente delittuoso e criminale, quel che accade sotto i nostri occhi rimanda, amplificandolo ed estremizzandolo come in un campione di laboratorio isolato a scopo scientifico, al nudo schema-base di molti rapporti umani, del rapporto impari che si instaura tra il leader e i follower, tra la personalità dominante e le personalità dominate. Se ben guardiamo, sembra suggerire Manson, certi aspetti di questo e di altri fatti di cronaca non ricordano, nella cruda e aspra verità, quel che capita, in una versione non illegale e anzi gratificata dal successo e dal plauso sociale, certi meccanismi, nei rapporti di oggi e forse di sempre, tra leader e gregari, tra il capo e i subalterni?

NIKITA

con Francesca Sarteanesi e Alessia Spinelli
drammaturgia e ideazione Francesca Sarteanesi e Tommaso Cheli
regia Francesca Sarteanesi
costumi Rebecca Ihle
scenografia Rebecca Ihle e Lorenzo Cianchi
disegno luci Marco Santambrogio
sonorizzazioni Francesco Baldi
produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione/Teatro Metastasio di Prato con il sostegno di Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale

 

MANSON

Uno spettacolo di Fanny & Alexander
Regia Luigi De Angelis
Drammaturgia Chiara Lagani
Con Andrea Argentieri
Produzione E Production / Fanny & Alexander

PAC LAB | Danza contemporanea e archivio. In dialogo con Enzo Cosimi  

ph. Marco Caselli Nirmal

SOFIA BORDIERI* | Quello sull’archivio è un interesse sempre più crescente, almeno dalla seconda metà del secolo scorso, nutrito da diversi contributi teorici e di ricerca. Negli ultimi anni si è infatti aperto un fertile dibattito sull’entità degli archivi d’artista in generale e su quelli della danza e della performance in particolare, in sintonia con approcci sociologici e antropologici che studiano la performance come strumento mediante il quale società e culture persistono e si tramandano. Contro la considerazione dell’effimero irredimibile (Marco De Marinis, 2013) molte posizioni hanno ribaltato la prospettiva spostandosi dall’idea di memoria della performance verso quella di performance come memoria. Un assunto possibile dell’archiviazione di uno spettacolo è raccogliere tutti i documenti satelliti che testimoniano non solo l’esistenza dello spettacolo ma la sua storia, dalla genesi all’ultima messa in scena, ripresa e ritorno, e quindi il suo contesto storico di riferimento.

Nell’ambito del Convegno Anarchivio curato da Stefano Tomassini e Roberto Zappalà, interno al programma del Catania Contemporanea/FIC Fest 2024, abbiamo incontrato Enzo Cosimi con cui abbiamo parlato di rimesse in azione, trasmissione e memoria.

In generale, qual è la tua esperienza con la rimessa in azione coreografica?

Il tema è interessante. Credo molto nel valore del repertorio avendo già fatto esperienza concreta e diretta con lo spettacolo Calore (1982) ripreso grazie al progetto RIC.CI di Marinella Guatterini nel 2012. Rimettere in scena il mio primo lavoro del 1982 è stata un’esperienza assolutamente positiva, come anche il fatto di rivolgersi a un pubblico diverso dopo tanti anni. Inoltre per me è stato anche qualcosa di molto intimo, il fatto di potermi rivedere allo specchio trent’anni dopo. E’ stato chiaro sin da subito che Calore poteva funzionare anche oggi.

ph. Serena Nicoletti

Bastard Sunday, in programma durante il FIC Fest, è una tua creazione legata alla figura di Pasolini. Come hai ripreso questo spettacolo nato all’inizio degli anni duemila?

Non ho mai lasciato questo spettacolo in realtà. Il primo step è stato nel 2003 quando feci un’installazione performativa per Dissonanze a Roma, un festival fondamentale per l’universo tecnologico nelle arti di quegli anni. Lì presentai Real good time, evento da cui nasce Bastard Sunday. Altra fonte per la realizzazione del lavoro è stato il secondo atto di un’importante produzione, I need more, divisa in due parti: la prima era una coreografia interpretata da cinque uomini, la seconda era già Bastard Sunday però in una versione interpretata da Paola Lattanzi insieme a un coro di quattro uomini. Dopo questa esperienza ho sviluppato Bastard Sunday nella versione odierna, sempre con Lattanzi e un interprete maschile che all’epoca ero io.
Dal 2005 lo spettacolo continua ad avere la sua vita e, nonostante piccoli bui e stop di uno o due anni, è stato sempre ripreso. L’anno scorso, grazie al centenario di Pasolini è ritornato in scena con Alice Raffaelli che ha sostituito Paola. Le loro due performance sono molto diverse e intense, entrambe però riescono a restituire l’anima del lavoro.  Sono felice che questo ruolo sia intercambiabile tra loro due.
Anche il disegno luci ha avuto un iter particolare: la prima versione è stata firmata da Stefano Pirandello, light designer con cui ho collaborato per molto tempo. Poi in varie riprese è stato modificato da Gianni Staropoli, sino ad arrivare all’ultima versione curata insieme a me da Giulia Belardi, mia nuova collaboratrice.
Rispetto al lavoro musicale è stata molto interessante la collaborazione con Robert Lippok, uno dei musicisti tedeschi più importanti nella scena elettronica conosciuto grazie a Giorgio Mortari. In quella occasione è nato Real good time rappresentato, allora, in un luogo molto singolare a Roma: la cappa Mazzoniana della stazione Termini, oggi sede del Mercato Centrale. Prima era uno spazio vuoto, bellissimo, arricchito da una scultura di Angiolo Mazzoni realizzata negli anni ’30.

Bastard Sunday. ph. Serena Nicoletti

Ritornando a Calore, quali scarti ha prodotto la sua ripresa dopo trent’anni?

Riprendere un lavoro dopo trent’anni è stata un’esperienza molto diversa rispetto alla ripresa di un lavoro più recente. Lì si trattava di trasmettere un universo e naturalmente i giovani con cui mi approcciavo erano totalmente diversi da quelli degli anni Ottanta. Per fortuna c’era un video, una camera fissa laterale, altrimenti sarebbe stato difficile anche per me ricordare puntualmente la partitura. L’unica cosa che dissi ai nuovi interpreti del 2012 è stata di andare a vedere i video dei Sex Pistols per cercare di agguantare lo spirito del lavoro.
Il primo Calore veniva fuori dopo gli anni Settanta, nell’82 per esattezza, e nasceva dopo la mia permanenza negli Stati Uniti e quindi un periodo subito successivo agli anni di piombo. C’era una grande voglia di aprirsi al “caldo’’, Calore, per questo, è un titolo molto significativo. Calore, nel 1982, l’ho realizzato con dei miei amici, non danzatori, con cui condividevo il quotidiano. La nuova versione è stata trasmessa invece a giovani studenti di danza della Scuola Civica Paolo Grassi di Milano.
Lo spettacolo, richiesto ancora oggi, è un’indagine sulla giovinezza, una sorta di regressione all’infanzia. Un aneddoto che mi piace ricordare è che durante la preparazione del lavoro in Paolo Grassi, per avvicinare la Compagnia a quello che era la mia idea, ho mandato i danzatori a osservare un gruppo di bambini che giocavano durante la ricreazione nel giardino della scuola elementare lì accanto. Dopo quella visione le prove cambiarono radicalmente.

Come è cambiato il tuo modus operandi creativo? Pensi che il tuo lavoro possa essere trasmesso dai tuoi danzatori?

Negli anni il mio approccio alla creazione è cambiato molto: per vent’anni ho lavorato solo su di me e ogni singolo movimento nasceva dal mio corpo. Per questo è stato molto importante avere la stessa Compagnia Stabile per lungo tempo, dove ho potuto costruire un mio patrimonio segnico. Questo aspetto oggi è molto raro e la mancanza si percepisce nella difficoltà dei giovani autori di oggi che faticano nella costruzione di un loro linguaggio specifico.
In particolare, ricordo bene il primo lavoro senza me in scena, Hallo Kitty, una creazione per cinque donne, presentato alla Biennale di Venezia, dove avevo il timore che il mio linguaggio non venisse fuori ma mi sbagliavo completamente. Oggi, invece, cerco molto la condivisione con i miei danzatori, modalità di lavoro abbastanza diffusa tra i coreografi odierni. In particolare, cerco di trovare danzatori che abbiano anche la capacità di comporre, però come coreografo penso sia molto importante saper leggere e modificare il linguaggio dei corpi con cui si lavora. E questo succede solo se hai una formazione di danza importante.
Oggi a volte vengono presentati lavori basati soltanto sulla forza “dell’idea” e il lavoro sul corpo risulta secondario. In questo senso rivendico il termine danzatore. Oggi sembra esserci un pregiudizio sulle parole coreografo e danzatore sostituiti dal termine performer che ha invece un senso storico diverso.

Secondo te la memoria è sufficiente per archiviare uno spettacolo oppure può esistere una costellazione di possibili documenti contestualizzanti?

Per almeno quindici o vent’anni ho avuto un quadernino dove scrivevo appunti e riflessioni per ogni spettacolo. Ogni quadernino era una sorta di feticcio, ne compravo di particolari in luoghi diversi come in India e in America. Però più passa il tempo e più non scrivo nulla. Oggi credo molto nell’importanza della memoria. I quaderni sono stati importanti, ma fondamentali sono state anche due pubblicazioni sul mio lavoro. Il primo è scritto da Stefano Tomassini e pubblicato nel 2002, un testo più “filologico” che segue il mio processo creativo dall’inizio fino ad Hallo Kitty. L’altro libro, Una conversazione quasi angelica, pubblicato recentemente, è un’intervista/riflessione/saggio scritto da Mariapaola Zedda, da anni mia collaboratrice e drammaturga. Insieme abbiamo lavorato su due lavori dell’Orestea e recentemente stiamo collaborando alla nuova produzione Venere vs Adone che debutterà  il 20 luglio al Festival Civitanova Danza.

 

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Opera Prima: il festival totale tra performance, danza e teatro di strada

RENZO FRANCABANDERA | Torniamo a Rovigo per l’ultima tappa di narrazione dell’edizione numero XX del Festival Opera Prima, che Teatro del Lemming, con la direzione artistica di Massimo Munaro, propone da trent’anni in questa città; un festival emblematico della tenacia e della volontà artistica di voler seminare senza sosta, anche fra tante difficoltà organizzative e, a volte, anche miopia di chi dovrebbe sostenere il fare pensiero nell’ambiente urbano, per evitare che le città si spopolino di occasioni di incontro e socialità sana, e abbiano solo l’ora dello spritz come forma di socialità.

Ad addensare di senso e anche di simbolica complessità sulla forma che viviamo è la proposta di Masque Teatro, ospitata all’interno del Chiostro delle Carmelitane, con cui ha avuto inizio la serata di venerdì 28 luglio, dove la compagnia ha proposto Voodoo.
Masque è una storica compagnia romagnola fondata da Lorenzo Bazzocchi che, oltre che regista e attore, è da sempre studioso di architetture sceniche che egli stesso definisce totalizzanti, ovvero che hanno la caratteristica per cui gli interpreti si inseriscono come ingranaggi anomali per dispositivi destinati a un numero ridotto di testimoni.

foto M. Carluccio

La formazione scientifica di Bazzocchi, unita alla forza iconica e rappresentativa di un’interprete storica e pressoché unica di queste creazioni, Eleonora Sedioli, hanno dato vita, negli anni, a creazioni di matrice simbolico concettuale, dove lo stare performativo del corpo dell’interprete, spesso tinto di un colore o sembiante mimetizzante, si fa forza trascendente e dichiaratamente filosofica.
È una ricerca talvolta anche criptica, che trova la sua ragion d’essere nella volontà artistica di produrre simulacri, eventi dove materiale e virtuale si fondono per dar vita a originali creazioni e in cui lo spettatore non entra in maniera banale. Nei dispositivi di Masque occorre volerci entrare, occorre volercisi abbandonare.
La forza visionaria ha queste caratteristiche anche in Voodoo: Sedioli è davanti ai nostri occhi, ma quasi mimetizzata sotto un albero, seduta a uno sgabello di legno. La performance inizia con una musica industrial, una frase sonora ossessiva allo svilupparsi della quale l’interprete, levando un braccio verso l’alto, cerca di guadagnare posizione eretta, senza effettivamente mai raggiungere questo stato, se non venendone poi rigettata, per ripiombare nella sua posizione originaria.
Questa tensione all’altezza, che è insistita per diversi minuti, si rompe nel momento in cui la donna pare simbolicamente trovare affrancamento dalla condizione originaria, fino a potersi muovere, nella direzione di un albero distante pochi metri, e che viene quasi raggiunto non senza fatica, prima che forze oscure riportino la performer nella condizione originaria.
Una seconda volta la donna riuscirà finalmente a raggiungere l’albero dove -proprio in omaggio a quella ritualità sciamanica e trasportante, Voodoo appunto, e che Masque definisce come necessità di una lucida trance -, liberatasi dell’ingombro delle vesti, arriva a compiere il suo percorso e a completare il gesto performativo che si spegne sotto l’albero, accasciata in uno stato esanime, in corrispondenza del quale il pubblico lascia lo spazio, senza che l’interprete raccolga gli applausi, ma restando organicamente parte di quell’intenzione semica costruita nel tempo precedente. «È solo attraverso l’alterazione indotta che si può sperare di essere catapultati nella verità del proprio essere. L’alterazione produce simulacri. A questi ci affidiamo per recuperare le forze necessarie ad imbastire la costruzione di un altro mondo nel quale sopravvivere».

Torna a Opera Prima il coreografo italiano Fabio Liberti da anni residente all’estero. Laureatosi alla Codarts Rotterdam Dance Academy nel 2004, da allora è stato impegnato a tempo pieno in diverse compagnie di danza in Olanda, Germania, Svizzera, Italia e Danimarca (Danish Dance Theatre). Nel 2020 ha fondato la sua compagnia MUOVI/Fabio Liberti con base a Copenhagen, per la quale ha prodotto diversi lavori indipendenti. What did I just do? è l’ultimo di questa serie, un viaggio nel tempo e nello spazio, di cui è particolarissima interprete la performer Maud Karlsson Lima de Faria.

foto M. Carluccio

Lo spettacolo della durata di 50 minuti si compone di due elementi fondamentali: quello sonoro, che è una voce off, registrata, della stessa donna che con una velocità assai spinta, quasi difficile da seguire, descrive per tappe la sua vita. È un racconto che sembra quasi un commento di un album dell’esistenza: siamo nel 1979, sono qui, sto facendo questo… ora siamo nel 1987, mi trovo a New York, cerco casa…
I ricordi, le esperienze (invero non certo lineari) della donna, che viaggia senza sosta fra Europa e America, cercando di coronare il suo sogno di diventare danzatrice, diventano colonna sonora, sfondo, contesto, allo stesso tempo fondamentali e inutili.
Mentre la colonna sonora si dipana, 
mescolando una ridda di eventi in un caos travolgente di immagini e velocità, lei stessa regala allo sguardo un altro tempo scenico, esponendo l’inscindibile relazione tra tempo, memoria, identità e contesto sociale attraverso la costruzione di una struttura simbolica, fatta di oggetti lignei, dei Kapla di grandi dimensioni che si immagina arriveranno a realizzare una qualche costruzione architettonica solida. La donna si aggira equilibrista fra questi pezzi di legno disposti in verticale, facendo in modo che non cadano, per poi sedercisi su, in precario equilibrio, e poi legarli simbolicamente, come pezzi di un puzzle incompleto, che ci verrà restituito come rappresentazione della vita stessa.
La performer, dopo averli legati con un filo trasparente, inizierà a trascinare i pezzi sconnessi, ma legati, lentamente, fuori scena, dichiarando proprio questo suo personale sentire sul senso della vita, un’unione di pezzi scomposti, un filo che li lega tutti, ma di cui forse il senso ci è invisibile.
Liberti conferma una cifra creativa peculiare, fatta di allestimenti mai banali, sempre sfidanti, mai drammaturgicamente accomodanti, ma sempre in continua ricerca di formule creative nuove, attraverso le quali arrivare a dare un senso specifico alla storia che si vuole raccontare.

Oltre 400 repliche dal 1990 al 2008 in 3 continenti. Chisciotte e Sancho tornano quest’anno a nuova vita in occasione dei cinquanta anni di attività di Teatro Nucleo, fondato  in Argentina da Cora Herrendorf e Horacio Czertok. Per celebrare questo anniversario la compagnia, che ora ha sede a Pontelagoscuro, a pochi chilometri da Ferrara sulle sponde del Po, ha voluto riportare in scena un suo spettacolo storico, il Quijote!.

La nuova versione ha debuttato a maggio nel Rabicano Festival Internazionale di Teatro per gli Spazi Aperti, ed è ora in tournée sia come spettacolo di piazza che come spettacolo itinerante.
L’antieroe di Cervantes e il suo scudiero, in sella a improbabili destrieri meccanici, tornano qui a Rovigo per Opera Prima, in un Festival che fonda la sua poetica sull’accostamento fra storia del teatro contemporaneo e nuovi linguaggi del presente.
Quijote! è un lavoro nato nel 1990, allora con la regia di Cora Herrendorf su drammaturgia di Horacio Czertok, uno spettacolo cult per la scelta di portare in strada il classico di Cervantes, dentro un sistema scenografico ardito, immaginato da Remi Boinot, cui collaborarono per la realizzazione delle scenografie e delle macchine sceniche Christophe Cardoen e Michael Beyermannun.
Chiunque arrivi a Pontelagoscuro, presso la casa di Teatro Nucleo, troverà nel parco davanti alla meravigliosa facciata di questo luogo dedicato a Cortazar le macchine sceniche originali di quell’allestimento, omaggio alla fantasia e all’immaginazione.
Horacio Czertok pare vivere una seconda giovinezza con Quijote!, che riporta oggi in scena riprendendo la regia insieme alla figlia Natasha, anche lei donna di teatro. La scenografia del riallestimento viene realizzata con il decisivo inserto collaborativo del Laboratorio Scenografia Pesaro di Lidia Trecento sui progetti originari, e così pure i costumi che vedono la collaborazione fra Remi Boinot e Maria Ziosi.

foto M. Carluccio

Qui l’interprete è anziano, sì, ma con una vigoria scenica che davvero dà la misura di quanto il teatro possa mantenere giovane lo spirito. Giovani anagraficamente sono gli altri interpreti che con lui hanno condiviso l’esibizione in Piazza Vittorio Emanuele II, dove arriva la grande macchina del mulino con cui il cavaliere errante e il suo maleodorante scudiero combatteranno, in una scena pirotecnica che ancora oggi sorprende il variegato pubblico, multietnico e di ogni età, che affolla divertito la piazza. Ragioniamo su cosa significhi essere oggi accessibili e aperti, in una società così complessa e stratificata; su cosa si possa ancora fare, da parte di chi vive dall’interno questo medium, per aprirsi alle istanze della società ineludibilmente globale, senza arroccarsi in castelli autoreferenziali.
Teatro Nucleo dà una lezione di umiltà, cercando di fare del teatro uno strumento di evoluzione sia per lo spettatore che per l’attore, e degli allestimenti di strada una cifra specifica, con la precisa volontà di renderli accessibili: una storia di impegno non elitario. Perché la libertà è bella quando la si pratica per sé, ma quella che resta indimenticabile è quella che si regala agli altri.
Quijote! ci parla anche di questo nel dolceamaro ritratto di quest’anima piena di spirito d’avventura, schiacciata da un mondo volgare e antiromantico, dove viene scambiato e fatto passare per folle.
La Storia ci dirà poi chi erano i folli, e chi quelli a posto.

VOODOO

con Eleonora Sedioli
ideazione Lorenzo Bazzocchi
tecnica Angelo Generali
foto Lorenzo Crovetto

WHAT DID I JUST DO?

un lavoro di Fabio Liberti
con Maud Karlsson Lima de Faria
scenografia Fredrik Borg – luci David Nicolás Abad – drammaturga Sara Živkovič Kranjc
produzione MUOVI/Fabio Liberti – produttore Carlos Calvo
con il supporto di Statens Kunstfond (DK), Augustinus Fonden (DK), Fondet for Dansk-Svensk Samarbejde (DK), Bora Bora Residency Centre (DK), Théâtre Sévelin 36 (CH), Centro per la Scena Contemporanea (IT), Zavod Flota (SI), Riksteatern-production residency (SE), Swedish Arts Grant Committee (SE), Konstnärsnämnden (SE), Uppsala Kommun (SE)

QUIJOTE!

regia Horacio Czertok, Natasha Czertok
con Lisa Bonini, Francesca Caselli, Horacio Czertok, Stefano Del Biondo, Giovanna Latella, Martina Mastroviti, Giovanni Simiele
scenografia Laboratorio Scenografia Pesaro di Lidia Trecento, Remi Boinot – costumi Remi Boinot, Maria Ziosi

Visti a Rovigo il 28/6/2024

Inequilibrio Festival, il silenzio e le parole che ricostruiscono il mondo

MONUMENTUM DA con Cristina Kristal Rizzo, Diana Anselmo, Inequilibrio 2024, Fondazione Armunia Castello Pasquini, Teatro Solvay, Rosignano Solvay (LI) 29/06/2024 Ph DORIN MIHAI

MATTEO BRIGHENTI | Definire è dichiarare un limite. Dividere caratteri, distinguere esperienze, determinare confini. Si stabilisce una regola: da un lato ciò che è comune, normale, naturale e, dall’altro, ciò che è anomalo, diverso, innaturale.
Così, è accettato che per vedere servono gli occhi. E, ugualmente, per sentire servono le orecchie. Se pensi di poter (far) “sentire” con gli occhi, significa che la regola per te non vale. Perché definisce, appunto, un mondo che non è il tuo.
Quel mondo, allora, te lo ricostruisci come vuoi. E non ti fermi a quello che puoi o non puoi fare. Lo ri-definisci comunque: trovi una sua nuova definizione, che parli la tua stessa lingua. Proprio come fa Monumentum DA di Cristina Kristal Rizzo e Diana Anselmo.

L’esterno del Castello Pasquini di Castiglioncello allestito quest’anno come una Pop Agorà. Foto di Dorin Mihai

È il primo spettacolo che ho visto nel primo fine settimana (29 – 30 giugno) di Inequilibrio Festival di Fondazione Armunia, giunto quest’anno alla ventisettesima edizione, la seconda con la direzione unica di Angela Fumarola. Mi è rimasto così impresso nello sguardo e nell’animo, che mi ha spinto a ricercare e a riportarvi questo dai tanti teatri tra Castiglioncello, Rosignano Marittimo e la Costa degli Etruschi (Livorno): la capacità di ridefinire il mondo. Sia nella parola del silenzio, come Chamber Music di Habillé d’Eau e CRE_PA di Sara Sguotti e Arianna Ulian, sia nel silenzio della parola, come Giulietta e Romeo di Roberto Latini. Una pratica di reimmaginazione della realtà che non ha paura di ritenere possibile l’impossibile e che sta alla base, peraltro, della traiettoria artistica del festival di quest’anno.

“Monumentum” è latino e sta per “memoria”, ma anche per “testimonianza”. DA sono le iniziali di Diana Anselmo. Monumentum DA è la testimonianza della singolarità di Anselmo. Performer sordǝ bilingue in italiano e LIS e attivista/co-founder dell’associazione Al.Di.Qua.Artists porta quindi in scena la memoria di quanto tutto accada e cominci con il corpo, dal corpo e nel corpo. Per una persona sorda, ma anche per tutte le altre.
Il suono è una vibrazione, un’onda. Ha una forma. Per questo, può essere restituito danzando. La musica qui è nei movimenti, prima ancora che nelle registrazioni in audio, mentre sul fondo scorrono frasi come “io sono qui, non c’è nulla da dire” oppure “non ho nulla da dire e lo sto dicendo, questa è la poesia che mi serve” (il testo è a cura di Rizzo e Anselmo stessɜ insieme a Laura Pante su scritture di Yvonne Rainer, John Cage, Simone Weil, Ilya Kaminsky e CKR).

“Monumentum DA” di e con Cristina Kristal Rizzo, Diana Anselmo. Foto di Dorin Mihai

Due sono i piani: la danza e la parola. Tenuti insieme dal gesto, dalla presenza sulla scena del Teatro Solvay di Rosignano Solvay. È la chiave che ci permette di entrare nella testa di chi non è udente come noi e di cercare di abitarla, di provare, anche solo per un attimo, a “vedere” come non sentono le sue orecchie e come, di conseguenza, ci si sente. Del resto, sostiene Diana Anselmo nel momento intervista con Cristina Kristal Rizzo, c’è stato un tempo in cui non avevamo sviluppato le corde vocali, e per parlare usavamo le mani. Prova ne sono le pitture rupestri.
Allora, l’uso in scena della lingua dei segni fa di Monumentum DA una creazione di lingua viva, una partitura corporea che non parla di margini, ma di nuove possibilità, che riconnettono memoria, politica e storia. Accessibile a tuttɜ per davvero, è la dimostrazione che il silenzio che conosciamo è «un’invenzione deglɜ udentɜ». Il silenzio vero è l’assenza del corpo, quel corpo in grado di tradurre l’inaudito nella realtà concreta di gambe, testa e cuore.

Il corpo suona e si fa racconto nel silenzio anche in Chamber Music di Habillé d’Eau, il progetto di ricerca performativa fondato nel 2002 da Silvia Rampelli e di cui fanno parte Alessandra Cristiani, Eleonora Chiocchini, Valerio Sirna e, nel tempo, Gianni Staropoli. La “musica da camera” richiamata nel titolo, infatti, segnala un’indicazione puramente compositiva: la ridotta dimensione dell’ensemble e il ruolo delǝ singolǝ danzatorǝ, al pari di uno strumento, sempre individuale. È raro che due diversɜ procedano insieme, eccetto il momento in cui l’unǝ lascia lo spazio nella disponibilità dell’altrǝ.
Con il pubblico al buio e la scena illuminata dalla luce naturale che proviene da due bifore, poi ridotte a una sola, assistiamo a tre dialoghi muti nella Sala del Ricamo del Castello Pasquini di Castiglioncello, raccoglimenti per preparazioni solitarie davanti a specchi invisibili, concepite inizialmente come episodio unico per Buffalo 2022.
Sirna inizia steso come una statua a cui manchi il basamento, come un prete il giorno dell’ordinazione, contro un treno che fischia il suo passaggio dalla vicina stazione, poco al di là delle mura del castello. Si alza in piedi per scatti, per lampi, per pensieri che lo portano via, lo portano alla finestra, lo mettono nell’angolo. Ci invita a restare dentro, ma a guardare, ogni tanto, anche fuori.
È un passo agitato come un sonno senza riposo, che Chiocchini raccoglie e rilancia disegnando trame con i suoi capelli sugli occhi. Pare di spalle, pur stando di fronte, e si orienta seguendo le fughe del pavimento in cotto.
Finché il nudo lucente di Cristiani non sprigiona la sua straordinaria potenza trasfigurativa. Ci guarda e sta nel sentire lo spazio con il corpo. Si avvita, si contorce, si distorce. È un corpo che custodisce e, a un tempo, trascende sé stesso, nell’instabilità di un oltre mai conquistato una volta per tutte.

La semplice forza dell’esserci è il cammino di Sara Sguotti e Arianna Ulian nell’ambiente sonoro composto per loro da Spartaco Cortesi. CRE_PA è la scomposizione della forma nel costante incontro di sguardi e movimenti. Un montaggio di gesti, suoni e parole che interpretano la crepa come cedimento, ma anche resistenza, come ferita eppure varco per due presenze che si accostano, differenti, ma fatte della stessa sostanza della volontà. Ognuna sostenendo e attraversando l’ampiezza e la consistenza possibili del proprio corpo: la coreografa e danzatrice Sguotti, come lo scrittore e performer Ulian (suoi i testi), dancer con Parkinson di Dance Well – Movement Research for Parkinson, il progetto vincitore del Premio Rete Critica 2023.

Sara Sguotti e Arianna Ulian in CRE_PA. Foto di Dorin Mihai

Si inseguono, si sfiorano, si compenetrano, eseguendo lungo un corridoio del Castello Pasquini una promenade di piccoli tocchi. Paiono dire e dirsi: “io ci sono per te”, “io non ti lascio andare, perché ovunque tu andrai io andrò, ovunque tu sarai, io sarò”. È un essere o, meglio, uno stare nel divenire, senza mai perdere il contatto.
Si scambiano continuamente un’accoglienza che passa dalla porta del respiro, una gioia controllata dall’attenzione. Alla fine del percorso, dalla parte opposta dell’inizio, e dunque dall’altra parte in tutti i sensi, Sara Sguotti prende in braccio Arianna Ulian. La culla, la accompagna, la depone, la salva – e si salva. «Per avere luce – scrive la poeta Chandra Livia Candiani ne La bambina pugile ovvero La precisione dell’amore – bisogna farsi crepa, / spaccarsi, / sminuzzarsi, / offrire».

Offrirsi alla pienezza dell’essere due è la misura a cui si vota Giulietta e Romeo di Roberto Latini, anche interprete con Federica Carra. Due, il primo numero che apre all’altrǝ, due come le mani che pregano e le labbra che ne esaudiscono la preghiera. Due come l’amore che si fa. Due è insieme. E qui, sul palco del Teatro Nardini di Rosignano Marittimo, ci sono solo Romeo e Giulietta. Non c’è nessun altrǝ del dramma di William Shakespeare. Soltanto loro e le loro parole in cinque quadri suonati con un “concerto scenico”, nato l’autunno scorso come dittico, tra abbandono e furore, ripetizione e perdizione.
A sinistra, sotto una natura morta, sta Latini al microfono: è camuffato da Elvis Presley, il ciuffo vertiginoso e la chitarra elettrica a tracolla. A destra, sotto un’insegna con la scritta al neon “Rose”, sta Carra al microfono: è vestita casual, prima di indossare, anche lei, i panni di una musicista, diciamo Amy Winehouse. In mezzo a loro, un vecchio registratore a bobine. Il set da studio di registrazione non deve trarre in inganno: né l’uno né l’altra propriamente suona o canta. È un trucco o, meglio, un gioco sensuale di maschere, che prolunga il momento dell’incontro tra Romeo e Giulietta: la festa in casa Capuleti.

Roberto Latini e Federica Carra in Giulietta e Romeo. Foto di Dorin Mihai

Tenendo dietro a una simile interpretazione, il loro amore, e forse l’Amore, è sempre nell’inizio, continua la forza e lo slancio dell’inizio. Perciò, è sempre giovane. Di più: è adolescente. Perfino da adulti, quali sono Roberto Latini e Federica Carra. Un’unione, la loro, che dal palcoscenico è tracimata nella vita, tanto che in Giulietta e Romeo non si può non vedere, almeno in controluce, pure la celebrazione del loro incontro.
L’incedere da spoken word riporta la parola di Shakespeare nel corpo teso dell’azione. La lingua poetica ritrova il contatto con il parlato della realtà. Merito anche delle testimonianze in primo e primissimo piano raccolte da L’amore ist nicht une chose for everybody (loving kills). I volti, gli occhi, le lacrime nel video del Collettivo Treppenwitz fanno da commento e contraltare alla costruzione dell’amore di Romeo e Giulietta e alla sua (auto)distruzione.
È una moltiplicazione di prospettive che rende effettivamente universale, di tutte e tutti, questa storia delle storie. Consuma chi brucia per lui, l’amore. Ma Giulietta e Romeo dà «aria all’aria» che a morire è chi non l’ha mai provato. E che muore non un giorno solo: per una vita intera.

MONUMENTUM DA

di Cristina Kristal Rizzo e Diana Anselmo
coreografia Cristina Kristal Rizzo
performance Diana Anselmo e Cristina Kristal Rizzo
testo a cura di Cristina Kristal Rizzo, Diana Anselmo e Laura Pante su scritture di Yvonne Rainer, John Cage, Simone Weil, Ilya Kaminsky e CKR
accompagnamento teorico Laura PanteSergio Lo Gatto
produzione Fuorimargine Centro di Produzione di danza e Arti Performative della Sardegna TIR Danza
con il sostegno di MilanOltre Festival e Oriente Occidente
residenze artistiche PARC – Performing Arts Research Centre, Kilowatt, Armunia

Teatro Solvay, Rosignano Solvay (Livorno) | 29 giugno 2024

CHAMBER MUSIC

ideazione e regia Silvia Rampelli
danza Alessandra Cristiani, Eleonora Chiocchini, Valerio Sirna
luce Marco Guarrera
accompagnamento Gianni Staropoli
produzione Tir Danza
sostegno alla produzione Armunia/Festival Inequilibrio
azienda speciale Palaexpo – Mattatoio | Progetto Prender-si cura
con il supporto di Vera Stasi/Progetti per la Scena
azione per Buffalo 2022, Macro – Museo per l’Immaginazione Preventiva, Roma

Castello Pasquini, Castiglioncello (Livorno) | 29 giugno 2024

CRE_PA (Short Version)

di e con Sara Sguotti e Arianna Ulian
testi Arianna Ulian
ambiente sonoro Spartaco Cortesi
accompagnamento drammaturgico Giovanni Sabelli Fioretti
PR e media relations Giuseppe Esposito
produzione Perypezye Urbane
co-produzione OperaEstateFestival \ CSC centro per la scena contemporanea di Bassano del Grappa, MilanoOltre
con il supporto di Santarcangelo Festival, IIC Zurigo, Tanzhaus Zurich, Passages Transfestival, IIC Strasburgo, Centro di Rilevante Interesse per la Danza Virgilio Sieni, Théâtre Sévelin 36, Fondazione Armunia
un ringraziamento speciale a Simona Bertozzi per il suo sguardo

Castello Pasquini, Castiglioncello (Livorno) | 29 giugno 2024

GIULIETTA E ROMEO

drammaturgia e regia Roberto Latini
con Roberto Latini e Federica Carra
musiche e suono Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
costumi Daria Latini
video Collettivo Treppenwitz da L’amore ist nicht une chose for everybody (loving kills)
produzione Compagnia Lombardi Tiezzi
Prima Nazionale

Teatro Nardini, Rosignano Marittimo (Livorno) | 30 giugno 2024