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lunedì, Aprile 21, 2025
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Lei Lear e il gioco contemporaneo di Chiara Fenizi e Julieta Marocco

CHIARA AMATO / PAC LAB* | Nel 1605 William Shakespeare compose la tragedia in cinque atti Re Lear. Giorgio Strehler, a proposito della sua versione di Lear del 1972, disse “È una tragedia che si inteatra. Tutte le cose del testo che ho capito, le ho capite giorno per giorno sulla scena” perché la parola, nella sua intensità, è strettamente legata all’azione scenica.
Questo non accade, anzi viene capovolto in Lei Lear, di e con Chiara Fenizi e Julieta Marocco, andato in scena al Teatro della Contraddizione di Milano. Qui infatti l’azione è ridotta all’osso dando rilevanza all’interpretazione della parola più che al movimento e all’utilizzo dello spazio.
Le due artiste si sono occupate anche della regia, insieme ad André Casaca, e lo spettacolo è il risultato di una coproduzione internazionale tra SCARTI – Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, Muchas Gracias (fondato da Fenizi e Marocco nel 2018), e Teatro C’Art. L’opera, che nel 2021 vinse il Premio PimOFF per il teatro contemporaneo, è l’epilogo della trilogia Trittico Urbano, che affronta il tema dell’opposizione tra spazio pubblico e spazio privato.


Lo spettacolo si presenta come una strana forma di monologo, in quanto le due protagoniste, che interpretano Goneril e Reagan, due delle tre figlie di Lear, parlano e si muovono all’unisono, sovrapponendo le loro voci. “Quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono, l’animo può superare molte sofferenze”, diceva appunto Shakespeare, e le due malvagie figure, in questo caso, hanno portato all’estremo questa condivisione, trasformandola in simbiosi. Cordelia invece è una grande assente: il fulcro è la complicità di queste due colpevoli e tutto il resto è uno sfocato contorno.
Ma partiamo dall’inizio: non esiste una scenografia, c’è solo un fascio di luce basso e caldo che arriva dal lato sinistro, e le due attrici entrano in scena indossando lo stesso abito floreale, occhiali da sole scuri e un paio di scarpe con il tacco. Si accendono luci fisse dall’alto sulle due sagome: queste si aggirano per il palco e deridono il pubblico ghignando. Al grido di È lui il colpevole! inizia la parodia della vicenda shakespeariana e delle cospirazioni contro Lear. Le due donne non si assumono la responsabilità dell’uccisione del padre, ma parlano di come sia più difficile uccidere qualcuno che morire.

Il meccanismo dello spettacolo è subito chiaro: tutto ruota intorno alla loro ironia e alla mimica tipica della clowneria. Si muovono sempre a braccetto o tenendosi per mano o ponendosi una di fronte all’altra come davanti a uno specchio.
Si percepisce che la gestazione dello spettacolo è avvenuta durante la clausura pandemica, forse proprio per questa ossessiva prossimità di corpi che per lungo tempo abbiamo avuto solo con i familiari/conviventi.
Il riso, fragoroso in sala, è generato paradossalmente dalla loro diversità: i gesti sono gli stessi ma con ovvie differenze. Entrambe esprimono le stesse emozioni ma attraverso la personale singolarità di movimento ed espressione facciale. Non accade effettivamente nulla, ma si sente una beckettiana attesa che qualcosa accada.

Si gioca con la rottura della quarta parete: loro stanno interpretando un ruolo in quanto attrici e questo è svelato dal principio (parlano con il tecnico audio, commentano il pubblico come noioso, etc). Altro elemento della loro ricerca artistica è sicuramente il linguaggio verbale e i suoi singhiozzi: balbettii, lapsus ed errori di dislessia che generano il sorriso e fanno riferimenti continui ai classici shakespeariani (Padre sei tu o non sei tu?).
Si comportano come se avessero un solo corpo pur interpretando due personaggi diversi: chi è Goneril e chi Reagan non viene esplicitato e non interessa neanche più allo spettatore, che viene invece chiamato in causa in un dialogo surreale. Assistiamo così a una lezione di inglese buffa e paradossale che ha come unico fine la risata. Le parole scelte, anche in questo caso, non sono casuali brother and mother kill the father: it’s ok in Shakespeare. Ironizzano pesantemente sulle dinamiche tormentate e sui legami “tossici”, presenti negli intrecci di Shakespeare.
In due occasioni dialogano con il padre defunto e un cono di luce le incornicia dall’alto: ognuna delle due cerca di convincerlo che è stata l’altra a defraudarlo. Così si azzuffano e si punzecchiano richiamando alla memoria alcuni sketch di Stanlio e Ollio.
Il risultato è esilarante e fa tornare un po’ bambini. Il profilo tragico del testo ispiratore è totalmente rovesciato fino al paradosso e alla satira: le due interpreti si cannibalizzano, si parlano sopra creando un ritmo svelto e piacevole, lasciando solo sullo sfondo la vicenda del re inglese, che resta un pretesto per questa operazione di ricerca contemporanea.
Lear è solo un fantasma lontano.

LEI LEAR

di e con Chiara Fenizi e Julieta Marocco
regia André Casaca, Chiara Fenizi e Julieta Marocco
consulenza artistica Francesco Ferrieri
produzione SCARTI – Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, Muchas Gracias, Teatro C’Art

4 marzo 2025 | Teatro della Contraddizione, Milano

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Al cuore fa bene fare le scale: il Circolo Polare Arte abita i margini della vita teatrale di Patrizia Cavalli

GIORGIA VALERI / PAC LAB* | Circolo Polare Arte, un nome-manifesto, una metafora dichiarata del Nord polare che accomuna e distanzia, crea tensioni, polarità artistiche che si confrontano e convergono in una grande tela bianca. Marta Staffini, Marta Longo, Susanna Nuti, Eleonora Pace e Laura Zucchi – giovanissime che si dividono i ruoli di attrici, dramaturg e registe – sono sparse nel Nord Italia, sull’asse Torino-Milano-Bologna. In un tempo di “bandificazione”, in cui “i bandi sono il male assoluto, perché impediscono di pensare e costringono gli attori a essere provinomani” – come diceva Gabriele Vacis in un intervento di qualche anno fa – Circolo Polare Arte sceglie di costituirsi in proprio e di farlo sotto l’egida della poeta Patrizia Cavalli.
Poeta, come preferiva definirsi, anzi, come non voleva definirsi affatto, l’autrice di Todi che nel ‘68 si trasferì a Roma, dove conobbe Elsa Morante e, più tardi, la sua compagna/amante/amica di una vita, Diane Kelder, accademica e storica dell’arte inglese. Buffa, autoironica, spesso impenetrabile e dallo sguardo sottile, Cavalli è un serbatoio di quotidianità inattese, di correlativi oggettivi che si nutrono di immagini tangibili: dalle tasche troppo lunghe del cappotto, a una bottiglia di whiskey Benrinnes del ‘96, alla fluoxetina. Cavalli racconta un tempo, il suo, che si sottrae alla linearità e torna nella circolarità della percezione, all’andamento rotondo delle emozioni immutabili. Come i fiori della Signora Dalloway, che aprono e schiudono una vita nel respiro breve di una giornata, anche la poesia di Cavalli abita un tempo sospeso, dove ogni gesto si fa eco, ogni oggetto memoria, e la vita scorre in cerchi lievi, senza principio né fine.

E come si racconta una vita nell’arco di un’ora, nello spazio costretto di sei metri per cinque? Come si racconta e come si trova uno spazio in cui farlo? E il pubblico per ascoltarlo? Circolo Polare Arte ha trovato un primo rifugio nel quartiere Isola, in una casa di ringhiera chiamata Isolacasateatro, sede dell’omonima associazione no profit che dal 2004 ha trasformato un luogo quotidiano in una mostra permanente di arte che dialoga con le arti: teatro, musica, danza, letteratura e poesia raccolti in una cornice intima, che ha messo a disposizione la propria specificità soprattutto a giovani artisti e performer.

Al cuore fa bene fare le scale si legge sulla locandina appesa fuori dal portone d’ingresso al civico 16 di via Dal Verme: un palazzo labirintico, scalini d’epoca e l’ingresso in una casa culturale in cui le attrici si cambiano e si riscaldano a vista, insieme al pubblico entrante. Le luci si spengono e le attrici si dispongono a pochi metri dai piedi degli spettatori, appollaiati su sgabelli di fortuna o accovacciati di fronte alle ginocchia di chi è riuscito a trovare una sedia. L’ostilità spaziale non penalizza la drammaturgia performativa: le attrici si prendono il proprio tempo per convincere, per creare intimità con il pubblico. Passa una manciata di minuti prima che nella silhouette riccia e slanciata di Marta Staffini si riconosca la figura volatile e minuta di Patrizia Cavalli; nel tailleur azzurro e nei grandi occhiali tondi di Marta Longo c’è invece la sua amante Diane Kedler.
La biografia dell’autrice è pretesto per raccontare una storia non edulcorata, che dalle esperienze personali di Cavalli trae la forza per esplorare le origini di una poeticità lucida, schietta, amata dalla critica e dal pubblico. Così il primo incontro impacciato con Elsa Morante, una brava e puntuale Susanna Nuti che, forte di un’esperienza attoriale più estesa anche per età anagrafica, incarna il ruolo di leader, di mentore.

Molte sono le riprese al documentario scritto e diretto da Annalena Benini e Francesco Piccolo, presentato al Festival del Cinema di Venezia due anni fa: «La gelosia produce disprezzo e un senso di superiorità nell’altro» racconta Cavalli nell’intervista, e la regista Laura Zucchi traduce questa sentenza in dialoghi concreti, in battibecchi serrati tra le amanti, in gesti ed espressioni raffinate, pur se tradite qua e là da un velo di un pudore scenico che, più che indecisione, è cura. Evocativo, nel suo essere acerbo, il gioco teatrale tra Cavalli e Kedler: giocano, si tirano e si respingono, si legano attraverso un filo rosso, fino alla resa in ginocchio di Cavalli/Staffini. L’esercizio teatrale è dichiarato, quasi didascalico, ma non stona nel ritmo complessivo dello spettacolo, che rallenta e si ravviva anche grazie agli inserti comici affidati a Eleonora Pace nelle vesti di amica/psicologa con un forte accento toscano – trovata curiosa e piacevole che smorza il pathos romanzato e lo trascina in una dimensione quotidiana.
I faretti tremolanti, i cambi scena imprecisi e le luci da commento un po’ approssimative raccontano di un gruppo agli inizi, che si adatta e che si sta formando, non sono sintomo di trascuratezza.
E allora forse è proprio così che il teatro si fa spazio nell’era dei bandi: senza chiedere il permesso, senza aspettare un invito. Si entra in casa, letteralmente, e si abita il margine. Si prende in prestito una voce – quella di Cavalli – non per imitarla ma per sporcarla con la propria. Prendendosi cura di ciò che si racconta. Perché anche il teatro, come la poesia, ha smesso di chiedere di essere capito. Vuole solo essere vissuto. E se non c’è palco, si sale sul tappeto.

AL CUORE FA BENE FAR LE SCALE

con Marta Longo, Eleonora Pace, Susanna Nuti, Marta Staffini
regia e drammaturgia Circolo Polare Arte
luci e suono Andrea Formentini, Laura Zucchi, Anna Romanó

Isolacasateatro, Milano | 28 marzo 2025

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

L’ombra lunga di un trauma: l’Autoritratto collettivo di Davide Enia

EUGENIO MIRONE | Dal buio emergono due ombre che si proiettano lunghe sul fondo del palco, illuminate da un taglio laterale di luce calda. Nella lotta con le tenebre in cui è avvolta la scena quel poco di luce lascia intravedere uno spazio scarno: un paio di sedie, un chitarra. Nessuna scenografia, solo il fondale del palco lasciato a nudo con tutti quei segni che poco sanno di finzione scenica: uscite di sicurezza, prese a muro, i cartelli degli estintori.
Ora due voci si accavallano e impastano una cantilena di parole e suoni incomprensibili, sembra di stare in un sūq arabo ma ci troviamo a Palermo e quelle voci stanno simulando le abbaniate del mercato di Ballarò, le famose grida che i venditori intonano per attirare i clienti. Ma quella cantilena straziata ricorda anche U Lamentu siculo, l’inno di dolore alzato durante il rito pasquale per invocare la passione di Cristo. Non siamo fuori contesto, Autoritratto infatti è uno spettacolo doloroso. È doloroso perché parla del trauma più grande per i siciliani dopo la morte di Gesù: la mafia, Cosa Nostra.
Che poi, a proposito di lamenti, noi siamo un popolo a cui piace tanto lamentarsi, brontolare per noi è una sorta di autocompiacimento, si crea sempre tanto rumore attorno ai problemi, un miscuglio di chiacchiere e voci indistinte come le abbaniate del mercato di Ballarò, ma quando poi si tratta di “scannare il maiale”… tanto fumo e poco arrosto.

Foto di Masiar Pasquali

Ma se si riesce a scacciare via questa pesante nube di rumore rimane un palco semivuoto, un paesaggio dell’inconscio dove rivivere nel profondo il grande trauma della mafia.
Dopo quell’immensa macchina teatrale realizzata in Eleusi. Dittico sul Sacro, Davide Enia ritorna al linguaggio de L’abisso, quello di una narrazione, splendidamente accompagnata ancora una volta  dalle chitarre di Giulio Barocchieri, che ha le sue radici profonde nella tradizione del cunto siciliano.
Perché il teatro è anche questo: una storia potente, la prospettiva intima e autobiografica con cui si sceglie di raccontarla e un ritmo basato su una coinvolgente partitura di parole, suoni e gesti. «Il teatro serve anche a confrontarci con la realtà che abitiamo e noi abitiamo in un paese disgraziatissimo, il paese delle cosiddette mezze verità». È lo stesso Enia a ricordarlo. Ancora oggi, infatti non possediamo una chiarezza appurata sulla catena dei fatti che portò alle uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Quando la verità è innominabile ha bisogno della mediazione artistica per farne affiorare i contorni. Torniamo così a quel teatro sventrato che mostra tutti i suoi segni, sono i segni del nostro inconscio e sono necessari per intraprendere l’opera di cicatrizzazione.

Autoritratto è, allo stesso tempo, un rito personale e collettivo. È il viaggio intimo di un giovane neomaturato palermitano alla ricerca dell’apparizione del male; ma chi sta parlando è anche un’intera generazione che stava diventando maggiorenne e tutta una città che si confronta con la sua storia.
Una ricerca che poggia su una base di ricordi personali ma che si apre anche al dialogo con i propri coetanei e i compagni di allora e alle interviste agli abitanti di Palermo. Più che raccontare la grande Storia con le piccole storie, Enia tende verso la creazione di un rito all’interno del quale collocare l’apparizione del male che apra a una riflessione intima e comunitaria. Che poi è quello che accade in teatro.

Dunque il montaggio prosegue per episodi, tra ricordi di adolescenza e incontri nel presente: la prima volta che Davide ha visto un morto ammazzato aveva otto anni, lo ha trovato sul tragitto di scuola proprio all’altezza dell’abitazione del suo migliore amico, Peppe Malato, che dopo aver sentito gli spari non vuole più uscire di casa. Il male e il dolore fanno crescere in fretta, le parole che quel bimbo rivolge ai suoi genitori risuonano nette e taglienti: «la colpa è vostra che mi fate vivere in una città dove uccidono le persone sotto al nostro balcone». Di fianco a me in platea c’è seduta una mia amica siciliana, a fine spettacolo mi confida che quella è una frase che  le è risuonata in testa per tutta l’infanzia. Poi il racconto prosegue: ora sono tre funzionari della DIA in pensione a raccontare a Enia il passaggio dalla “mafia delle famiglie” al potere assoluto dei Corleonesi.
L’episodio più significativo è il racconto dell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, la cui unica colpa fu quella di essere il figlio di un collaboratore di giustizia. «Alliberateve de lu cagnuleddu», era stato l’ordine dato Giovanni Brusca al fratello Enzo Salvatore che l’11 dicembre 1996, insieme Giuseppe Monticciolo e Vincenzo Chiodo, prima strangolò Giuseppe e poi sciolse il corpo del ragazzino nell’acido, dopo 779 giorni dal suo rapimento. 779 giorni senza vedere la luce del sole, 779 giorni in cui molti lì intorno sapevano ma nessuno parlò.
Il racconto del tragico avvenimento coincide con la descrizione schematica delle azioni dei tre carnefici. Non serve aggiungere altro alla tragicità dell’evento. È una scelta narrativa assennata, oltre che pudica, perché quella sequenza di azione fa emergere la totale e disarmante mancanza di coscienza in quei soldati di morte: «erano ordini che ci venivano dati».
Sembra paradossale ma Enia non ha memoria di dove si trovava il 23 maggio 1992. La strage di Capaci lo ha trapassato con un carico di angoscia talmente grande da lasciare il vuoto dentro di lui. Più nitido è il ricordo della strage di via d’Amelio, quel 19 luglio disgraziato in cui le foglie caddero dagli alberi quando non dovevano.

Se si volge lo sguardo al passato si noterà che quasi mai nella storia le politiche proibizioniste hanno sortito gli effetti sperati. Il male, infatti, non si cancella ma lo si può erodere a poco a poco come l’acqua del mare che consuma gli scogli onda dopo onda. È questa la via intrapresa da Enia con Autoritratto per mezzo di una ritualizzazione collettiva del male che ci renda tutti più consapevoli: «bisogna capire che quando nella tua città ti trovi di fronte una pozza di sangue, l’immagine riflessa è il tuo autoritratto».
Di pozze di sangue il nostro paese è pieno, è inutile girarci intorno. Quello che infonde coraggio è sapere che il proprio vicino di seduta condivide con me un po’ di quel male e che insieme contribuiamo a frantumarlo, un pezzetto alla volta. In questa occasione, più del solito fa rabbia vedere una platea mediamente avanti con l’età e le ultime due file vuote. C’era posto almeno per una classe di liceo. Fa rabbia perché i programmi scolastici trascurano completamente la storia del secondo Novecento italiano, un periodo cruciale per capire come affrontare il presente. Fa rabbia perché questa generazione di giovani così fragile e spaurita avrebbe tanto bisogno di esporsi al potere terapeutico del teatro.
Per superare un trauma occorre tempo, e la mafia è uno delle ferite più recenti del nostro Paese. Per questo è indispensabile lavorare costantemente nell’ottica di un passaggio generazionale, affinché il rito non si trasformi solo in una danza attorno a un fuoco spento.

AUTORITRATTO

di e con Davide Enia
musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri 
luci Paolo Casati 
suono Francesco Vitaliti 
luci e fonica Francesco Vitaliti/Paolo Casati
si ringrazia Antonio Marras per gli abiti di scena
coproduzione CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia GiuliaPiccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Accademia Perduta Romagna Teatri, Spoleto Festival dei Due Mondi 

Piccolo Teatro Grassi, Milano | 6 aprile 2025

Leonor Fini: teatralizzare la vita, ritualizzare la pittura

Io sono Leonor Fini Palazzo Reale Milano

ENRICO PASTORE | L’avanguardia artistica irruppe sulla scena del Novecento non con il vestito buono della domenica ma en travesti. Gli artisti alla ricerca di nuovi fondamenti per le arti si mostravano in maschera al mondo ancora ottocentesco, e quindi vittoriano, puritano e benpensante. Se la verità come aletheia solo velando disvela, l’identità, non solo artistica, veniva scoprendosi nel travestimento.
A Parigi Colette e la marchesa Mathilde de Morny davano scandalo con la loro relazione saffica e monogama dissimulando il loro sesso biologico. Detrattori e ammiratori andavano letteralmente in ebollizione di fronte a queste dee ambigue. Perfino nella licenziosa e perversa Ville Lumière fece scalpore nel 1907 quel Rêve d’Égypte all’Olympia dove Colette, mummia in cerca d’un palpito d’amore che la risvegliasse alla vita, baciò appassionatamente la Marchesa Missy vestita come un archeologo.

Colette et Missy in Rêve d’Égypte (1907)

Ma non erano solo le donne a mischiare le carte dei generi sessuali, pensiamo a Rrose Sélavy, alter ego e readymade autorappresentativo di Marcel Duchamp. E questo mescolamento e mascheramento delle identità, è bene ricordarlo, non avveniva solo sui palcoscenici o nei salotti più alla moda ma anche nei locali frequentati dalla media e bassa borghesia. Durante la Belle Epoque tutti cercavano di immaginare e costruire una nuova umanità.
A Mosca e a San Pietroburgo i cubofuturisti russi davano il via al loro scalcinato e festante carnevale; Majakovskij, l’arcangelo carrettiere di Marina Cvetaeva, giallo-rosso vestito cantava: «vi mostreremo quotidianamente che sotto le gialle bluse di pagliacci erano corpi di atleti robusti»; Velimir Chlébnikov vagava per le Russie vestito di stracci con una federa di cuscino piena di versi immaginifici; Michail Larionov e Natal’ja Goncharova passeggiavano per Mosca con il viso scarabocchiato di strani simboli mentre Vasilij Kamenskij si aggirava sul Kuzneckij Most con mestoli di legno all’occhiello.
Dada a Zurigo, in esilio da un Europa in guerra, dava spettacolo con i costumi argentei e vescovili che imbozzolavano Hugo Ball nella recitazione di Gadji beri bimba, mentre a Berlino e a Weimar le casacche alla russa e i pantaloni svasati identificavano la divisa dei Bauhaus e gareggiavano in stravaganze geometriche con i costumi del balletto triadico di Oscar Schlemmer. A New York la baronessa Elsa Von Freytag-Loringhoven fu tra le prime a fare del proprio corpo un’opera d’arte ornandosi con posate ricurve, latte di tonno aperte, molle deformi e strani oggetti rotti e ammaccati trovati nelle immondizie di Manhattan.

Balletto triadico

In Italia tra Venezia e Capri la diva assoluta del travestimento era la Marchesa Luisa Casati Stampa, erede legittima delle stravaganze della contessa Virginia Oldoini di Castiglione, eroina espulsa dal nostro Risorgimento che non poteva certo essere ravvivato da avventure licenziose in costume e vestaglie di seta. Luisa Casati fu esaltata da Filippo Tomaso Marinetti e dai Futuristi tutti come simbolo della donna ardita, coraggiosa, futura. I suoi balli in maschera a Ca’ Venier dei Leoni (oggi sede della Fondazione Guggenheim) riportarono in laguna i fasti carnevaleschi della Serenissima, mentre i suoi costumi con piume di pavone o di struzzo nero a disegnarla maga oscura, insieme ai suoi comportamenti sessualmente anomali, scandalizzarono la pur permissiva Capri, che in quel tempo accoglieva stravaganti di tutta Europa. Perfino D’Annunzio rimase stregato dal fascino demoniaco della divina marchesa, ritraendola in Isabella Inghirami, versione nostrana della femme fatale, in Forse che sì, forse che no. Tra i molti ritratti che ci consegnano la sua immagine inimitabile, il più affascinante è quello di Giovanni Boldini, forse suo amante, sicuramente suo ammiratore, in cui Luisa è raffigurata su sfondo di color perso in una mise total black floreale, dove il levriero nero si confonde con le pieghe delle gonne. Lo sguardo è intenso, ammaliante, ipnotico.

Giovanni Boldini – La Marchesa Luisa Casati con un levriero (1908)

Ed ecco infine la triestina Leonor Fini, l’italiana a Parigi, che fin da bambina fu travestita da maschio per sfuggire ai tentativi di rapimento del padre. Leonor, artista d’avanguardia della seconda ondata, ebbe modo di imparare e mettere a frutto le esperienze bizzarre di chi l’aveva preceduta e affermare così le sue strategie di travestimento in una Parigi ora dominata da Josephine Baker, che dai palchi alle Follies Bergères, con il suo gonnellino fatto di sedici banane e ballando indiavolati charleston provava a mettere in crisi i pregiudizi misogini e razziali.
Le feste di Leonor a Parigi, come quelle di Casati prima di lei al Palais Rose, erano una sorta di rito sciamanico in cui chi partecipava nascondendo la propria identità andava alla ricerca del vero sé nascosto. Come notano Montesarchio e Varriale, la sua casa in rue Payenne al numero 11 diventava «un palcoscenico dove ogni attore può interpretare diversi personaggi, ognuno di essi però è fedele all’unica regista della rappresentazione, che fa leva sull’illuminazione usata ad arte per rendere più misteriosi gli ambienti e più semplice l’atto di “purificazione” di se stessi attraverso la recitazione di un ruolo ogni giorno diverso».
Leonor, quando le chiedevano di definire la sua attività artistica, negava l’appartenenza a un’arte o a un movimento e affermava semplicemente: «io sono». In questo non fu la prima e nemmeno l’unica. Far di se stessi un’opera d’arte era pratica già di fine Ottocento, così come confondere se stessi con i propri personaggi. Qualcosa stava però cambiando: la ricerca artistica diveniva ricerca di sé e, in quanto tale, abbatteva i confini entro i quali manifestarsi. Se Sperelli è l’alter ego di D’Annunzio, vita e arte restano ancora separate e distinte ma in Leonor la vita stessa diventa baroccamente teatro, una performance attraverso cui costruire la sua propria identità e manifestarla al mondo. Non vi è più quindi separazione tra un dipinto, una festa in maschera, una fotografia in posa o un romanzo scritto; non c’è differenza tra attore, maschera e personaggio. Ogni tassello è Leonor e per avere idea di lei bisogna ricomporre la sua identità come in un mosaico.

Leonor Fini – Autoritratto con scorpione (1938)

Lei stessa definì così il processo: «fra il teatro e me c’è un malinteso perché ho sempre amato e vissuto il mio teatro personale. Da bambina, fu come una rivelazione dell’attrattiva magica quando, per la prima volta, ebbi la possibilità di indossare maschere e costumi […]. Indossare un costume è come muoversi in un’altra dimensione, in un’altra specie e spazio nel quale chiunque può crescere gigante, scendere nel mondo delle piante, diventare qualunque sorta di animale, sentirsi invulnerabile e fuori dal tempo. Travestirsi è un atto di creatività […]. È una rappresentazione di sé e dei fantasmi che si portano con sé».
Non siamo solo nel campo della teatralizzazione della vita, ma entriamo nel regno ovidiano della metamorfosi, dell’eterna trasformazione di sé, un processo alchemico di raffinazione in cui l’anima brucia, abbandona dei pezzi, ne forgia altri, nella speranza di giungere a una perfezione, per quanto instabile e precaria.
I dipinti di Leonor, in questo senso, non sono semplici immagini ma rituali che a ogni sguardo si rinnovano e i cui esiti sono di volta in volta diversi sia per l’autrice che per l’osservatore. Sono testimonianza di una generatio aequivoca, una venuta al mondo di esseri e spiriti viventi da una materia inanimata. Sono imagines agentes, quelle amate dai rinascimentali maghi neoplatonici: rappresentazioni pittoriche capaci di aver effetto sul reale e modificarlo.

Leonor Fini – Comme tous les soirs (1977)

Il dipinto è qualcosa di vivo che crea materia organica ed effetti nel mondo e in questo si apparenta al teatro. Artaud aveva compreso il fenomeno quando parlava di Van Gogh e della capacità della sua pittura di far apparire la realtà e i suoi doppi.
E benché Artaud lodasse in Van Gogh l’assenza di mistica, ritualità o liturgia, fenomeni invece ben presenti in Leonor, in comune con la pittrice triestina vi era la capacità di scatenare forze che non paiono presenti in natura: «Sotto la rappresentazione, ha fatto scaturire un’aria e ha racchiuso in essa un nerbo, che non sono nella natura, che sono di una natura e di un’aria più vere dell’aria e del nerbo della natura vera». Inoltre Artaud non disegnava forse splendidi e terribili esorcismi i quali avrebbero dovuto proteggerlo dagli affatturamenti?
Quando Leonor si lascia ritrarre in fotografia a fianco del suo Mephisto dipinto su una porta o quando dipinge Comme tous les soirs (1977) rappresenta la propria lotta nel bilanciare l’attrazione della terra e la vertigine del cielo. Chiede insomma alle immagini, usando le parole di D’Annunzio, di porre «contro la mia maschera il tuo viso raggiante di musa o il tuo viso mortifero di Medusa».
Questa ambiguità è riscontrabile nelle sfingi che vegliano giovani uomini dormienti e inermi. In Sfinge nera che veglia sul sonno di un giovane (1946) l’uomo nudo dormiente è vegliato da una nera donna-leonessa con le fattezze di Leonor. Il cielo è scuro e il paesaggio pare abbandonato dalla vita: le foglie e le piante sono secche, la terra è arida. La sfinge guarda verso l’uomo ma dal suo volto non traspare alcun sentimento. Potrebbe proteggerlo come custodirlo in quanto preda.

Leonor Fini – Stryges Amouri (1947)

In Stryges Amaouri (1947) l’uomo è sempre beatamente dormiente ma questa volta avvolto da un’edera. Uno steccato di fragili bambù lo divide da due esseri: a sinistra una specie di gatto nero e peloso, a destra una fanciulla dai lunghi capelli ricci e neri, sulla testa un teschio di animale e una corona di rami d’alloro. La ragazza non guarda l’uomo ma direttamente l’osservatore. Anche qui gli esseri animali e femminili non sembrano minacciosi ma tutto può accadere, sotto quel cielo plumbeo.

Leonor Fini – Le bout du monde (1948)

L’evocazione di energie ctonie, potenze ambivalenti al di là di ogni morale come le forze della natura, pervadono i dipinti di Leonor Fini, quadri che hanno in comune con la scena teatrale la possibilità che sulla loro superficie tutto possa accadere, dalla più magnificente e gloriosa epifania al più turpe delitto. In Le bout du monde (1948) una fanciulla dai lunghi e voluminosi capelli bianchi sorge da uno stagno scuro, sullo sfondo un cielo che cattura l’ultima luce di un tramonto, niente ci assicura che quella luce possa riapparire. Nello stagno insieme alla ragazza galleggiano teschi di animali, animati da occhi vivissimi. La giovane donna si specchia sulla superficie lucida e immota color petrolio, non guarda la propria immagine riflessa, come Narciso, ma guarda verso di noi insieme al suo doppio ombra. È uno sguardo senza emozioni eppure non si può sfuggire alla sensazione che in quegli occhi azzurri vi sia una domanda a cui sia necessario rispondere.

Leonor Fini – La guardiana delle fenici (1954)

In La guardiana delle fenici (1954) una giovane donna sotto un cielo rosso come d’incendio è seduta di profilo e figge lo sguardo nel vuoto. Un lungo manto avorio con sfumature mandarino le copre le spalle, un morbido e voluminoso abito arancione le veste il corpo ma le lascia scoperti i seni. In mano la ragazza regge un candido uovo di struzzo. Attorno a lei le fenici. In primo piano i mitici uccelli hanno le piume bianche al contrario di quelle sullo sfondo, nere come la pece. La donna è bellissima, intangibile, e nella sua immota inviolabilità potrebbe generare la vita come scatenare un’apocalisse che potrebbe essere già avvenuta, a giudicare dalle rovine sullo sfondo.
La forza delle immagini di Leonor Fini risiede dunque in questa capacità di produrre in chi osserva emozioni discordanti e diversissime. Esse agiscono in base all’animo di chi guarda e lo cambiano. Non gli danno scelta. Una volta viste non possono essere dimenticate. In questo sono simili al grande teatro. La teatralità infatti è la cifra stilistica di Leonor, nella sua opera il teatro è ovunque e in tutti i suoi dipinti, i disegni, le immagini, le foto, i suoi romanzi, i suoi costumi sono maschere dietro cui scoprire il reale. Anche il teatro finge e nella finzione dice la verità, quella verità che in purezza sarebbe impossibile guardare negli occhi.

Leonor Fini – La tenebrosa (1978)

È come nel racconto del vecchio soldato nel romanzo di Murakami La città e le sue mura incerte: il militare in convalescenza vede apparire una donna di notte nella sua stanza, è bellissima ma ne vede solo il profilo. L’uomo a quel punto desidera vedere anche l’altra metà di questa donna incantevole e misteriosa, esce dalla sua stanza e la ammira dall’altro lato della finestra. Non sappiamo cosa vede, ma rimane sconvolto, per sempre segnato dalla visione. E questo che ci capita quando i nostri occhi si posano sui dipinti di Leonor, e per chi volesse provare l’ebbrezza dell’esperienza, a Palazzo Reale a Milano, la mostra curata da Tere Arcq e Carlos Martin è aperta fino al 22 giugno.
A volte per trovare il teatro, occorre uscire dal teatro.

L’esercito dei matti di Caraboa Teatro: la follia della guerra

ph_Paolo Blocar

ELVIRA SESSA/ PAC LAB*| L’esercito dei matti – regia di Gioia Battista e Nicola Ciaffoni, produzione Caraboa teatro – torna a Roma, al Teatro Argot, dopo il debutto al Festival Inventaria nel 2023.
Il potente monologo a più voci, scritto da Battista e interpretato da Ciaffoni, frutto di una lunga ricerca tra cartelle cliniche, fonti inedite e censurate, immerge il pubblico in un viaggio allucinato dal ritmo serrato, scandito da metronomi, canti, effetti sonori e luci.
Un’ora nelle  trincee della Grande Guerra, labirinti di sangue, fango, dove corpi straziati di ragazzi poco più che adolescenti si dimenano tra bombe, granate, grida, smarrimento e incredulità per tanto orrore.

Protagonista è Riccardo, che invano si finge matto per non andare in guerra e, sul fronte, perde davvero la ragione. Diventa uno «scemo di guerra», internato in manicomio insieme ad altri soldati che scontano la pena di essere rimasti umani a dispetto di ogni bandiera.

Ph. Paolo Blocar

Al centro della scena un mixer audio e alcuni strumenti musicali; intorno alcuni fantocci che a mano a mano vengono animati dall’attore.
Immaginazione, ironia e poesia smontano ogni retorica. Anzi, la irridono. Come suggerisce la scelta di Alberto Rocca – autore delle sculture – e di Chiara Barichello – alla scena e ai costumi – di rappresentare i comandanti e un medico, boriosi personaggi che riempiono i ricordi e gli incubi del protagonista, come spaventapasseri in divisa e con teste fatte dalle povere suppellettili dei soldati: una vuota scodella di latta, uno scolapasta sormontato da uno sturalavandino, un pallone, una testa di scopa . Il generale Luigi Cadorna, che senza aver trascorso un solo giorno in trincea «accompagna allegramente le truppe italiane alla disfatta di Caporetto», ci appare così come un misero vessillo, senza corpo né anima.

ph_Paolo Blocar

Il ritmo è mantenuto incalzante, grazie anche al movimento continuo dell’attore che cammina sul posto e lungo tutto il palcoscenico, seguendo l’incedere tumultuoso dei pensieri di Riccardo.
Con disinvoltura e maestrìa, Ciaffoni dà vita, pur da solo, a un’opera polifonica: cambia all’occorrenza registro di voce; esegue dal vivo, con tromba e chitarra, canzoni recuperate dalla tradizione alpina e riadattate dagli arrangiamenti di Walter Giacopini, come Il Testamento del Capitano, Stelutis Alpinis, Monte Nero; dà voce ad angosce e speranze dei giovani militari facendoli parlare nei dialetti di varie parti d’Italia; gioca con gli effetti sonori del mixer audio che si fanno lamenti, mitragliate, sassolini pestati durante le marce estenuanti tra le doline del Carso.
Molto efficaci le luci di Veronica Penzo, ora tenui e soffuse come quelle delle lampadine appese adun filo che piovono dall’alto, ora rosse avvolgenti, ora blu e sinistre a enfatizzare l’ansimare dei soldati con le maschere antigas.

La folle vanità della guerra è condensata nella scena finale. Cala il silenzio e dei fantocci che inneggiano ad eroiche imprese, spogliati della testa e della divisa, resta solo uno scheletro a forma di croce, a ricordo dei tanti che, dal fronte, non sono tornati più.

L’ESERCITO DEI MATTI

di Gioia Battista
con Nicola Ciaffoni
regia Battista/Ciaffoni
arrangiamenti Walter Giacopini
consulenza disegno sonoro Giulio Ragno Favero
consulenza disegno luci Veronica Penzo
scene e costumi Chiara Barichello
sculture Alberto Rocca
con le voci di Riccardo Maranzana, Angelo Campolo e Mirko Soldano
e di Luigi CerpelloniWalter GiacopiniEnrico MorelloFrancesco Morello
con l’amichevole contributo al violoncello del M° Luca Franzetti
Scene realizzate da Delta Studios – Udine
Produzione Caraboa Teatro

Teatro Argot, Roma, 29 marzo 2025

*PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica

 

Il lamento e il rancore: le Troiane di Cerciello da Euripide a Gaza

OLINDO RAMPIN | A pochi passi dalla prima fila di spettatori, al centro di una scena povera d’oggetti, Imma Villa è la regina di una città che non esiste più. Accasciata a terra, in antichi abiti luttuosi, Ecuba rivendica con regale fierezza il diritto a piangere. Non sarà il silenzio, ma il thrênos, il canto funebre, ad accompagnare il dolore di questa sovrana dýsdaimon, «infelice». Nelle Troiane, nella versione del greco Euripide ma anche nel vario mosaico di testi, da Seneca a Sartre, che ne sono derivati, e dai quali Carlo Cerciello ha elaborato adattamento e regia aggiungendo il sottotitolo Ovvero in guerra per un fantasma, è l’infelicità umana, prima ancora che la disumanità della guerra, il centro del discorso tragico.
È la «filosofia dolorosa ma vera» che più di duemila anni dopo il Leopardi delle Operette morali, nei panni di Tristano, rivendicherà coraggiosamente, replicando ai suoi detrattori che quella filosofia non era affatto una invenzione sua, ma dei poeti e filosofi antichi «i quali tutti sono pieni pienissimi di favole, di sentenze, di figure significanti l’estrema infelicità umana». Ed Euripide è certamente un nobile antenato di questa illustre prosàpia.

Imma Villa è Ecuba

Al centro delle sue Troiane c’è dunque il pianto. C’è, più ancora, l’affermazione del diritto al lamento, il piacere delle lacrime, rifugio degli infelici. Dice Ecuba, con parole programmatiche: «Anche questa è musica per i disgraziati: gridare le loro sciagure». Il Coro esprime ancor meglio questo concetto, centrale nell’opera: «Come sono dolci le lacrime, per quelli che stanno male, e i gemiti delle lamentazioni, e la musica che contiene i dolori». Ne deriva così, a dispetto di facili attualizzazioni, la meravigliosa inattualità delle Troiane euripidee, il presente essendo un tempo che condanna il piangere, dileggia il lamento e celebra l’obbligo alla felicità, quandanche fittizia.

Alla sinistra della dolente vedova di Priamo vediamo alzarsi e prendere la parola Mariachiara Falcone, grintosa e combattiva Cassandra, profetessa invasata ma lucida. Destinata ad Agamennone come concubina, è follemente felice perché ne profetizza la morte, la vendetta essendo l’unica giustizia in un mondo in cui la forza ha preso il posto della legge. Alla destra di Ecuba si solleva Serena Mazzei, un’Andromaca che del dolore è l’espressione più pura, avvolta in un peplo e in un mantello neri che le coprono la testa, funebre maschera di un lutto atroce che segue l’uccisione del marito Ettore: l’assassinio del figlioletto Astianatte, gettato dalle rovine di Troia su crudele proposta di Ulisse.

Mariachiara Falcone è Cassandra

Le Troiane disegnano un epos capovolto, in cui i grandi eroi greci sono rappresentati come dei mostri. Ulisse, che ha scelto come preda di guerra la vecchia regina, è nelle parole di lei «un essere immondo, subdolo, nemico della giustizia, un mostro senza legge. La sua lingua bifida rivolta le cose, capovolge il qui e il là e rende odioso a tutti ciò che prima era caro». E non è forse una perversione sessuale quella che ha reso Agamennone infatuato di Cassandra, essendo la giovane una “religiosa”, destinata da Apollo a restar vergine? Neottolemo, il figlio di Achille, ha straziato il corpo del re Priamo mentre questi pregava sull’altare: un’azione sacrilega che gli frutterà l’ostilità divina.
La versione di Cerciello, con l’ostensione finale della bandiera palestinese, additando nella crudeltà del presente governo israeliano un’analogia con la brutalità greca nella distruzione di Troia, chiude il triangolo di allusioni iniziato dalle due versioni maggiori: di Euripide all’imperialismo ateniese del suo tempo, di Sartre alla feroce repressione francese del movimento di liberazione algerino negli anni ‘50-‘60 del Novecento.

Serena Mazzei è Andromaca

L’atmosfera che si respira in quest’opera, di crudeltà e catastrofe per la fine di una città e di una civiltà, riguarda Troia ma sovrasterà anche i greci, che per rancorosa volontà divina affronteranno un disastroso rientro in patria. Qualcosa risuona con la temperie raccapricciante del brechtiano Terrore e miseria del Terzo Reich. Non è forse un caso che Cerciello abbia messo in scena anche quell’opera, forse percependo torbidi echi tra i sinistri crepuscoli di imperialismi antichi e moderni.
Non sfugge alla sua interpretazione la cognizione di una sorte ugualmente distruttrice che unisce vittime e carnefici. Il regista sfronda e cancella ogni presenza maschile in scena, rendendo l’azione drammatica un perfetto gineceo. Soppressi l’araldo Taltibio e il marito di Elena, Menelao, il Coro stesso è tradotto in voci registrate fuori campo. Assenti anche le divinità: il prologo, che nell’originale contiene il dialogo tra Poseidone e la rancorosa e umorale Atena, che dopo aver voluto la distruzione di Troia decide di «rendere amaro il ritorno della flotta argiva», viene “ridotto” a una serie di scritte luminose che scorrono all’inizio della rappresentazione. Lo spettatore è fatto subito consapevole che la devastazione colpirà anche i carnefici.

Cecilia Lupoli è Elena

Ma la contiguità tra oppressi e oppressori utilizza una ulteriore chiave interpretativa. Quel che emerge dal testo di Euripide è la cruda realtà della condizione femminile nel mondo antico. Assoggettata alla concezione maschile patriarcale della donna come strumento riproduttivo, lodata in quanto sa essere esempio di pudicizia e riserbo. Ecuba vede in Priamo un “fecondatore”, padre di cinquanta figli, Andromaca si racconta fiera della sua ritrosia alle relazioni, custode della quiete domestica e del letto dove svolge la sua funzione di generatrice di discendenza.
Cerciello vede come in Euripide le donne troiane, inasprite dalla brutalizzazione, non rivendicano una visione altra, diversa da quella maschile, individuando erroneamente in Elena la causa della guerra.

È lei, Elena, il fantasma a cui allude il sottotitolo. Cecilia Lupoli, desituata rispetto alla scena dove agiscono le tre donne troiane, vestita d’abiti novecenteschi e glamour, è collocata su un piano elevato e in un altrove spazio-temporale, una sorta di Miami Beach anni ’60, accanto un cavallino a dondolo, giocattolo di guerra con cui Troia è stata espugnata. È Elena ed è Marylin Monroe: come Elena ostaggio della sua bellezza, come Elena vittima sacrificale dell’uomo di potere, se Menelao o Paride rivivono in JFK e nel celebre Happy Birthday Mr. President, canto di gioia triste, che risuona così non troppo diverso dal thrênos, il canto funebre delle donne troiane.

LE TROIANE
Ovvero in guerra per un fantasma

Da Troiane di Euripide, riscrittura di Seneca, adattamento di Sartre
Da Ecuba e Elena di Euripide
Da La guerra di Troia non si farà di Giraudoux

con Imma Villa, Mariachiara Falcone, Cecilia Lupoli, Serena Mazzei
costumi Antonella Mancuso
musiche originali Paolo Coletta
foto di scena Anna Camerlingo
realizzazione scene Andrea Iacopino
video editing Fabiana Fazio
realizzazione costumi LAB.DONADIO e DANZA CREATA
aiuto regia Aniello Mallardo
adattamento e regia Carlo Cerciello
produzione Fondazione Teatro Due, Anonima Romanzi Teatro Elicantropo

Teatro Due, Parma | 5 febbraio 2025

Una polifonia per l’Inferno: gli esercizi danteschi di Chiara Guidi

ESTER FORMATO | Inferno, primo segmento di Esercizi per la voce e violoncello sulla Divina Commedia di Chiara Guidi è andato in scena a Milano, al Teatro Fontana in una sola data. Il titolo, che potrebbe presagire un prodotto tecnico e sterile, di solo appannaggio per addetti ai lavori, sta invece a indicare un lungo studio sugli endecasillabi danteschi a cui da anni s’interessano Chiara Guidi ed il violoncellista Francesco Guerri.
Chi conosce la storia della Societas, nonché il percorso artistico dell’interprete, sa che materia e strumento d’indagine corrispondono perfettamente, trattandosi della voce e di tutte le sue possibilità espressive. Ne derivano, quindi, spettacoli in cui la voce acquisisce una consistenza solida, in grado, da sola, di creare una dimensione precisa e definita sulla scena.
Qualche anno fa abbiamo visto, tra gli altri lavori, come Chiara Guidi avesse dato vita ad un suo particolarissimo Edipo Re, articolato in quattro voci atte a dar forma a un mondo arcaico, pre-verbale, nell’intento di riportare in vita, attraverso il teatro, uno stadio quasi pascoliano del linguaggio, corrispondente a quello di inconsapevolezza del protagonista, colto appena prima di incominciare il suo percorso di conoscenza.


Se però in La fiaba di magia dell’Edipo il suono prodotto dalla voce subisce una distillazione, fino a raggiungere un certo livello di astrazione che ci riporta a fasi ancestrali del nostro essere, per la Commedia di Dante la questione si fa più articolata.
In primo luogo, il progetto di Chiara Guidi e Francesco Guerri si articola in tre livelli corrispondenti a un diverso lavoro per ognuna delle tre Cantiche. Il primo, quello al quale abbiamo assistito, si concentra sull’Inferno e viene concepito come impianto apparentemente monodico, ma attraverso la sola voce di Guidi si compie una vera e propria polifonia; polifonico è l’Inferno nel quale la presenza di Virgilio e di Dante (che qui ritrovano una precisa identità vocale) è accompagnata da una sequela di anime che si affastellano durante la loro discesa e che marcano, con le loro barocche individualità, il mondo caotico e senza speranza del primo regno. Si tratta di concepire la polifonia come pluralità di voci disorganiche che non convergono in un’armonizzazione, per la condizione ontologica dell’Inferno laddove ogni anima vive in solitudine la propria eterna disperazione.

Ciò non si può dire per il Purgatorio, dove, invece, esse si riconoscono parte di un unico cammino di penitenza che porta alla redenzione collettiva, la cui salvifica attesa si incarna in un assetto corale armonico. Così la Guidi ha vocalmente immaginato il secondo regno. Si tratta di una visione più ampia e meno semplificatoria di quella applicata all’Inferno: infatti, questo secondo segmento del progetto vede la propria realizzazione in un site specific dove un coro costituito da persone comuni, afferenti a ogni ambito possibile o contesto sociale, trasferisce al pubblico il senso di comunione d’anime che si fa così tangibile nella seconda cantica.

Per il Paradiso, invece, ancora in fase di maturazione per una buona parte, ci si sta concentrando su un’esperienza sonora e vocale totalmente diversa, avente come fine quello della dematerializzazione progressiva della voce, coerentemente alla rarefazione della materia stessa che si compie nei cieli divini.

Tornando alla polifonia infernale, a differenza dell’Edipo in cui il singolo fonema appariva distillato, qui invece Chiara Guidi tende a restituire la concretezza della singola parola e del contorno in cui essa viene agìta. Difatti, la collaborazione con Guerri non è finalizzata soltanto a ricostruire sugli endecasillabi danteschi una partitura musicale, ma soprattutto è volta a ricreare l’ambiente sonoro in cui si situa la figura dantesca. Per questo. in alcuni punti, le parole pronunciate sono accompagnate da un’eco che dà corpo al vuoto dello spazio si che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso ed alla relativa profondità che, per lo meno all’inizio, separa il novello pellegrino dal fondo assoluto del Male.
Nel frequente echeggiare di suoni, si muovono attraverso la voce e il suono del violoncello, Dante e Virgilio, le variazioni maggiori, accompagnati da alcune celebri anime come Francesca da Rimini, la cui parola compensa il pianto del suo Paolo e il terribile Minosse, posto all’ingresso del primo cerchio. Si arriva così alle Malebolge dove le anime sono tutte conficcate a testa in giù nella lordura (che Dante non esita a chiamare merda).
S’interrompe qui questo segmento artistico dedicato alla Commedia, preambolo di una costruzione più complessa che esplora una selezione precisa di canti, come se ciascuno di essi fosse vero e proprio spazio vocale e sonoro, vivo e concreto. Un percorso senza dubbio arduo, come del resto quello dantesco, ma che, com’è stato concepito nella sua interezza potrebbe proporre una lettura stimolante e profonda delle terzine. Difatti, è proprio l’idea complessiva del progetto a sollecitare suggestioni che vanno oltre il compimento di un esercizio tecnico della porzione cui abbiamo assistito. È auspicabile, per questo, che presto potremo vedere anche gli altri segmenti, così da poterci immergere negli endecasillabi della Commedia, compenetrandoci nel viaggio che il Poeta compie dentro di sé.

INFERNO
Esercizi per voce e violoncello sulla Divina Commedia di Dante

voce Chiara Guidi
violoncello Francesco Guerri
cura del suono Andrea Scardovi
cura Irene Rossini

produzione Societas

Teatro Fontana, Milano | 27 marzo 2025

 

Non ho nulla da dire, con le vostre parole. Sei personaggi in cerca d’autore di Valerio Binasco

LEONARDO CHIAVENTI / PAC LAB *| Valerio Binasco, che ha già avuto modo di confrontarsi con il teatro pirandelliano mettendo in scena Il piacere dell’Onestà, propone in questa stagione del Teatro Argentina la sua versione di Sei personaggi in cerca d’autore.
L’opera di Pirandello debuttò il 9 maggio 1921 al Teatro Valle di Roma, suscitando orrore e sconcerto nel pubblico presente in sala per la sua trama complessa, inaudita a quel tempo. Il dramma appartiene alla trilogia del teatro nel teatro, insieme a Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto, e gioca con i temi più cari a Pirandello, come la percezione soggettiva della realtà e la complessità dell’interiorità umana. Esso racconta l’incontro tra una compagnia di attori, guidata dal loro capocomico, e sei personaggi che si definiscono “in cerca d’autore”, desiderosi di rappresentare la loro storia, ma che lo Scrittore non ha mai terminato.

Il lavoro di Binasco si concentra sulla frammentarietà della rappresentazione, popolata da personaggi distrutti dalla penna esitante dello Scrittore il quale ha composto figure incapaci di trovare un modo per uscire dal loro racconto o di viverlo fino in fondo. Il vero protagonista dell’adattamento, perciò, è il vuoto: una sospensione che, nella sua veste di solitudine e angoscia, persiste nello spazio che divide due parole, ma soprattutto, è incarnata dai personaggi, che sono costretti ad abitare in un limbo da cui vorrebbero solo fuggire.

Greta Petronillo, Sara Bertelà, Martina Montini, Valerio Binasco, Ilaria Campani, Alessandro Ambrosi, Christian Gaglione. Ph. di Virginia Mingolla

Sono le parole a creare lo spazio in cui si svolge questo allestimento. Ogni volta che i personaggi rievocano un dialogo avvenuto, i giovani membri della compagnia, alunni della Scuola del Teatro Stabile di Torino, compongono la scenografia: spostano una porta per consentire al Padre di entrare nella stanza dove si trova la Figliastra o creano una vasca in giardino per la drammatica scena che conclude il racconto. Seguendo le didascalie dell’opera originale, si configura una scenografia scarna, minimalista e grigia, quasi a voler suggerire che la percezione di un unico spazio scenico sia solo un’illusione. Un piccolo letto viene posizionato al centro palco per rievocare un momento decisivo della storia e una casa borghese prende forma, attraverso la realizzazione di alcuni suoi spazi, senza mai però dare l’impressione di raccontare una realtà altra che né la compagnia e né i personaggi intendono di mostrare. Ogni oggetto è trattato solo per quello che è realmente: un oggetto di scena.
Tutti i personaggi sono ben riconoscibili grazie ad abiti in stile anni ’20 e ad un trucco che dona loro un innaturale; tranne i due bambini: scelti tra i giovani attori della compagnia, che pur cambiandosi poi con dei costumi simili a quelli dei personaggi, mantengono il viso pulito, privo di trucco. Un richiamo all’innocenza dell’infanzia e, pare, alla difficoltà di coinvolgere dei bambini all’interno di un dramma di bugie e segreti, con un dolore così inteso che li circonda.

Ph. di Virginia Mingolla

Valerio Binasco si ritaglia il ruolo del Padre, incarnando un’umanità corrotta e viziata dai propri privilegi. Il desiderio incessante di raccontare il dramma che la sua famiglia è stata costretta a vivere lo rende il nucleo attorno a cui si snoda la costante ricerca dei personaggi di sottrarsi alla sospensione in cui sono intrappolati. Così come Giordana Faggiano, che restituisce il ruolo della Figliastra con una notevole prova attoriale, delineando il percorso del suo personaggio nel tentativo di sfuggire a quel limbo, talvolta anche attraverso il delirio, in un costante equilibrio tra estrema follia e puntuale lucidità. Giovanni Drago è il secondo perno della rappresentazione. Superata la prima parte dell’opera, in cui i due gruppi si incontrano, il personaggio del Figlio assume un ruolo sempre più centrale, diventando il simbolo di quella mancanza di parole che avvolge la storia. Fin dall’inizio, Drago appare distante dagli altri personaggi, quasi infastidito e imprigionato nella sua rigida fisicità. L’invalidità alla gamba rende ogni suo passo un momento rilevante nella trama, e ogni sua frase segna un frangente in cui la realtà dell’opera si incrina ulteriormente. Eppure egli non prova mai a convincere la compagnia a mettere in scena il suo dramma, non lotta per la sua storia: ha già ceduto alla sospensione che lo tormenta. Drago riesce a sostenere con efficacia questo ruolo, anche durante il finale, che Binasco ha scelto di modificare, facendo suicidare proprio il Figlio, il personaggio che pensava di non avere più nulla da dire. La questione che naturalmente può sorgere è: come mai chi non ha mai voluto resistere alla condizione che lo affliggeva cerca di sfuggire alla narrazione della propria opera? La risposta, forse, può risiedere nella convinzione che il Figlio quasi desiderasse quella sospensione e nel momento in cui ha visto la sua famiglia in procinto di uscirne, ha scelto di compiere un gesto estremo per evitare che accadesse anche a lui. Il personaggio di Drago rifiuta, cioè, di essere rappresentato attraverso parole che non gli appartengono e, del resto, poi il dramma di questi sei personaggi, che si definiscono in cerca d’autore, è tale che è meglio non sia mai raccontato. Tuttavia, ciò è irrealizzabile, poiché una storia, dopo essere stata scritta, diventa immortale. Infatti, come è morto, il Figlio si risveglia tra le braccia dei suoi cari, evidenziando quanto sia illusoria la certezza di poter abbandonare la storia in cui si è stati creati.

Nel complesso, l’adattamento sarebbe risultato più completo se il personaggio della Madre (Sara Bertelà) fosse stato delineato con maggiore efficacia. Lo Scrittore non le ha affidato quasi alcuna battuta, ma le ha concesso il peso insostenibile di assistere alla morte di uno dei suoi figli. La Madre avrebbe dovuto essere l’espressione di un dolore che è incapace a esprimersi, ma che mostra la sua angoscia attraverso la sua presenza nel palco. Eppure l’interprete non sembra trovare il focus giusto per stare davvero in questo ruolo, emergendo come un’immagine che non restituisce la difficoltà di vivere nel limbo.
Anche Jurij Ferrini che interpreta il capocomico, a tratti fatica a sincronizzarsi con il tempo drammaturgico, interrompendo in alcuni momenti l’armonia della messa in scena. La sua interpretazione lo rende una figura più marginale, che esita a diventare quella controparte razionale che avrebbe dovuto aiutare gli spettatori a immergersi più profondamente nel racconto.

Ph. di Virginia Mingolla

Questo Sei personaggi in cerca d’autore si configura come una versione interessante dell’opera pirandelliana, in cui è la forza attoriale di alcuni interpreti a portare avanti l’intero adattamento. Seppur con tali dislivelli interpretativi, alcune scelte risultano coraggiose e riescono a trasmettere il messaggio dell’opera in modi differenti, mettendo in luce aspetti inusitati del testo e presentando così una pièce originale. Ma ciò che principalmente rende singolare il lavoro di Binasco è la capacità di aver reso tangibile il limbo in cui stanno personaggi, e nel quale cui ciascun individuo si può immedesimare.


SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE

da Luigi Pirandello
regia Valerio Binasco
con (in o.a.) Sara Bertelà, Valerio Binasco, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Jurij Ferrini
e con Alessandro Ambrosi, Cecilia Bramati, Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Alice Fazzi, Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone, Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo, Andrea Tartaglia, Maria Trenta
scene Guido Fiorato
costumi Alessio Rosati
luci Alessandro Verazzi
musiche Paolo Spaccamonti
suono Filippo Conti
aiuto regia Giulia Odetto
assistente regia e drammaturgia Micol Jalla
assistente scene Anna Varaldo
assistente luci Giuliano Almerighi
foto Virginia Mingolla
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Teatro Argentina, Roma| 27 marzo 2025

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

C’è un cinghiale sotto il sole di York: Riccardo III di Calderòn e Montanari

Screenshot

ELENA SCOLARI | Una vernice dorata sul viso, sul collo e sulle mani. È l’oro di cui sono ricoperti gli idoli? Se ti avvicini per toccarli il brillio ti resterà sulle dita. Oppure è l’oro della corona? L’agognato traguardo di potere del mostruoso Riccardo. O invece è il bagliore del sole di York che fa scintillare la spietatezza del feroce monarca? 
Francesco Montanari 
placca d’oro il suo personaggio, lo fa distrattamente ma con destrezza, attingendo a quella luce fasulla senza che noi ce ne accorgiamo, da una fonte nascosta. Può solo cercare di velare le sue nefandezze, le uniche cose che in lui brillano davvero sono la capacità diabolica di seduzione e l’abilità di tessere intrighi a proprio favore. Riesce addirittura a far innamorare di sè la donna cui ha da poco ucciso marito e padre, qualche numero fascinoso ce l’aveva. E questo nonostante la natura sia stata avara con lui: è nato prematuro e deforme, ha subíto un’ingiustizia di cui non aveva colpa e passa la vita a meritarselo, quel torto.

ph. Masiar Pasquali

La sua è una vita di menzogne, raggiri, inganni, falsità insinuate e disseminate per distruggere tutti quelli che si frappongono fra lui e il trono. E una vita di finzione è anche quella dell’attore, come il personaggio di Montanari che non è mai riuscito a ottenere una parte importante fino a questa occasione in cui gli è stato offerto il ruolo di Riccardo III nell’omonima tragedia di Shakespeare. Ed ecco il teatro nel teatro di Gabriel Calderón: nel centro del Piccolo Studio Melato – un Globe milanese secondo lo stile dell’architetto Zanuso – si solleva il tendone bianco sopra a un altro teatrino, fatto di tutti quegli elementi romantici che raramente si vedono in scena, oggidì: corde, tiri, carrucole, tanto legno, fondalini dipinti, contrappesi, zavorre, doppi fondi… Le luci di Manuel Frenda accendono morbidamente il calore del legno, quel teatrino è un focolare in cui si raccontano storie di ogni tipo, e c’è sempre qualcuno disposto ad ascoltarle.

Per Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III (in scena fino al 6 aprile), lo scenografo Paolo Di Benedetto ha costruito un secondo piccolo mondo dentro al quale Montanari/Riccardo vive, ed è bravissimo a muovere, arrotolare, sciogliere, nascondere, alzare e abbassare cose continuamente, mentre recita un testo difficile, abbondante, ricco, spesso in versi e che fa girar la testa. I capogiri li crea prima di tutti il Bardo, con la sua sempre mirabile inventiva verbale, ma anche la scrittura di Calderòn (entrambe tradotte benissimo da Teresa Vila) e l’impetuosa recitazione di Montanari, mai domo, che ora è Riccardo, ora l’attore che lamenta la mediocrità del cast, ora Lady Anna, ora la regina Elisabetta Woodville. Tutti interpretati con una veemenza irresistibile, con la quale l’interprete unico gioca, invitando il pubblico a respirare, qua e là, a riposare il cervello da un ascolto tanto ininterrotto.

ph. Masiar Pasquali

Il cinghiale del titolo è nello stemma araldico dei Gloucester ed è l’animale che Shakespeare sceglie come gemello zoologico di Riccardo, compare nei sogni di Stanley Conte di Derby mentre gli strappa l’elmo e nella tragedia la sua storia è quella di un nobile storpio che di sè dice “Il mio corpo asimmetrico è una canzone stonata. Il ricordo di me sarà piccolo e storto”. Rivoltando – con effetto sorpresa – il costume della madre Elisabetta (costumi di Gianluca Sbicca), dopo il monologo in cui ripudia il frutto delle proprie viscere, Montanari riappare, come espulso dal ventre della regina, in forma di cinghiale, ed è bianco, come la conoscenza che simboleggia.
La vicenda di Riccardo non è sempre centrale, la drammaturgia privilegia spesso le meta-questioni parallele, infatti anche la postura sgraziata che ricorda la deformità del reale è accennata solo brevemente; questo rende un po’ più pallida la ragione di aver scelto proprio Riccardo III per dare corpo (sbilenco) all’idea teatrale espressa.

La scatola teatrale inserita dentro alla scatola del Teatro Studio ha poi anche un terzo livello: l’attore protagonista ha la sua da dire anche sul mondo delle scene di oggi, e qui ci sono alcuni paradossi insiti nel testo. Per esempio le critiche ai registi, quelli che scelgono le attrici in base all’avvenenza e quelli che non rispettano il ritmo del verso shakespeariano perché lo traducono (come avviene anche qui, del resto), la presa in giro dei light designer, i finanziamenti dati in maniera iniqua… Invettive un po’ convenzionali, no? Il contrasto con la sede prestigiosa in cui si pronunciano è ormai  privo di mordente. E, nella fattispecie, qualcosa non gira anche perché, nel gioco drammaturgico, Montanari combatte proprio per ottenere “la corona” di regista.
E quando sarà sua, Calderon gli regala una bellissima tirata sul coraggio di fare teatro: forse che Shakespeare si scoraggiò davanti al pubblico che gozzovigliava durante le rappresentazioni dei suoi spettacoli? O forse si fermò dopo due anni di chiusura dei teatri londinesi per la peste? O quando era senza soldi? No. E allora avanti! Il personaggio si ribella alle sue stesse lamentele e, con vigore, incita gli spettatori a sposare la sua causa. Dopo un’arringa così la tentazione di alzarsi e unirsi alla lotta per il fuoco del teatro è forte, ma è chiaro che l’attore chiama senza aspettarsi risposta, offre il suo regno “per uno spettatore intelligente” e il tendone cala su di lui, ricostituendo quella forma scenica primigenia: un circo bianco di uomini e animali, di attori e personaggi, di funamboli e spettatori. Così, da millenni, tutti insieme combattiamo gli inverni del nostro scontento.

STORIA DI UN CINGHIALE. QUALCOSA SU RICCARDO III

liberamente ispirato a Riccardo III di William Shakespeare
scritto e diretto da Gabriel Calderón
traduzione Teresa Vila
scene Paolo Di Benedetto
costumi Gianluca Sbicca
luci Manuel Frenda
con Francesco Montanari
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Carnezzeria
foto di scena Masiar Pasquali

Teatro Studio Melato, Milano | 29 marzo 2025

Tu non mi perderai mai di Raffaella Giordano respira ancora nell’interpretazione di Stefania Tansini

CHIARA AMATO / PAC LAB* | La trama dei gesti porta con sé il tema dell’amore / la percezione è viva di un rapporto esistente / l’amore spinge e manca di un tu e di un me non trovati / lo spazio e il tempo sanno cose che non possiamo sapere.
Con queste parole, vent’anni fa Raffaella Giordano introduceva il suo spettacolo Tu non mi perderai mai liberamente inspirato al Cantico dei Cantici, del quale era interprete e ideatrice e che aveva presentato durante Uovo Performing Arts Festival. L’artista è tutt’oggi una delle firme più importanti della danza contemporanea, allieva della scuola Carolyn Carlson/Pina Bausch, e dal 1985 è co-fondatrice del collettivo Sosta Palmizi.
Il sottotitolo dell’opera va preso con le giuste cautele, in quanto con il testo biblico è un incontro, un indizio non casuale, ha cioè fornito respiro e sacralità al gesto nel lavoro di ricerca.
Proprio in questi giorni, in occasione dell’ottava edizione di Fog Festival, è andato in scena in prima assoluta al Teatro OutOff di Milano una seconda versione di quello spettacolo, reinterpretato dalla giovane coreografa e autrice Stefania Tansini.
Resta indubbio che l’operazione di trasmissione e passaggio di un’opera può risultare molto complessa, a maggior ragione nell’ambito della danza. Un’eredità che rende necessario un incontro reale delle personalità e una immersione nel respiro dell’opera, che resta una delle più ermetiche e inafferrabili tra le creazioni di Giordano.

Tu non mi perderai mai 2005 – Raffaella Giordano – ph. Sottile

Tansini entra in scena alzandosi dalla platea con estrema grazia e indossa una gonna longuette nera, una camicia variopinta sulle tonalità del rosso, scarpe decolleté nere e una borsetta (costumi di Beatrice Giannini); sullo sfondo appare solo la pietra nuda del teatro e sul palco vi sono due punti luce fissi agli angoli opposti (luci curate da Gianni Staropoli, Maryse Gaultier) e un rettangolo di terra sulla sinistra.
Durante il breve assolo, l’artista si muove con una lentezza disarmante, lasciando spazio alla profondità di ogni singola azione e facendo diventare tutto un elemento poetico. Cerca qualcosa nella borsa, cammina in diagonale, si toglie lentamente le scarpe e le braccia si fanno abbraccio: si percepisce l’assenza e si percepisce la ricerca dell’altro, ancor più nei momenti di un silenzio che risulta rumorosissimo.
Durante la performance, ad accompagnarla ci sono suoni che per lo più richiamano l’ambiente naturale: un corso d’acqua, versi di uccelli, un temporale, il vento (suoni di Lorenzo Brusci, Jòhann Jòhannsson). Altre volte l’elemento sonoro si fa disturbo, diventa rumore, come il ronzio di un televisore guasto. Insieme a questi suoni il suo corpo si scioglie in una serie di movimenti che lo distendono, lo allungano e lo ripiegano: le altezze giocano un ruolo importante nella sua danza, rimandando l’occhio dello spettatore al divino e all’umano, al cielo e alla terra ogni qual volta le braccia tendono verso l’alto o la performer si abbassa strisciando al suolo. Le mani di Tansini, con estrema precisione e perfezione di movimento, si cercano tra di loro, incrociandosi in una stretta dietro la schiena e in abbraccio che la avvolge come un’onda.
Il suo sguardo è nel vuoto, nell’immenso, quasi mai rivolto al pubblico e non appare ancorato al qui e ora ma travolto da un’energia altra. È un’opera che fa dimenticare allo spettatore il presente per portarlo nei ricordi del passato: rallenta il pubblico nella stasi della contemplazione, nella naturalità e profondità del respiro.

Tu non mi perderai mai 2025 – Stefania Tansini – ph. Laura Farneti

L’elemento amoroso si fa spazio con tenerezza e nostalgia, nel modo in cui viene delicatamente sfiorato il pavimento con il corpo, nelle carezze che Tansini fa a se stessa, nelle mani che sembrano lanciare un bacio a qualcuno che non c’è (Mi baci egli dei baci della sua bocca, poiché le tue carezze sono migliori del vino, recitava il Cantico).
In questa performance si percepiscono una disarmante innocenza e un forte mistero: non c’è qualcosa da capire o una coreografia che appaia netta, ma una pulizia di movimento che lascia ammaliato il pubblico in sala. Tansini, Premio Ubu 2022 come Miglior performer Under35, è riuscita a fare una vera e propria indagine sulla mutazione dei sentimenti e dei corpi nel tempo, rispettando la promessa del titolo dell’opera: si sente fortemente la conferma di una presenza che aspetta e che accoglie l’amore, che ‘non si perderà mai’.
È un assolo evocativo, come lo è la promessa d’amore del testo biblico, e riempie quel voluto vuoto scenografico con l’intensità e le tensioni del corpo.
L’opera riecheggia di ricordi e di vita, che sono forse la cosa più difficile da far rivivere a un corpo danzante che non è il proprio e in questo le due artiste vincono la sfida, mantenendo contemporaneo uno spettacolo che compie vent’anni e allo stesso tempo rinasce con nuova pelle.

 

TU NON MI PERDERAI MAI – liberamente “inspirato” dal Cantico dei Cantici
PRIMA ASSOLUTA

coreografie Raffaella Giordano
danzate da Stefania Tansini
creazione luci Gianni Staropoli, Maryse Gaultier
disegno del suono e composizione elettroacustica Lorenzo Brusci
suono aggiunto Jòhann Jòhannsson
costumi Beatrice Giannini
esecuzione tecnica suono Andreas Froeba
luci Maria Virzì, Lucia Ferrero
produzione Sosta Palmizi (2025)
in coproduzione con Triennale Milano Teatro, Fuorimargine Centro di produzione di danza e arti performative della Sardegna
con il sostegno di Fondazione Teatro Grande di Brescia, Centro di Rilevante Interesse per la Danza Virgilio Sieni
in collaborazione con Teatro Out Off

Teatro Off Out, Milano| 29 marzo 2025

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.