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mercoledì, Ottobre 4, 2023
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Falstaff al Festival Verdi – il sorriso sardonico del cavaliere vanitoso e rubicondo

Ph Roberto Ricci

GIULIA BONGHI | Il vecchio cavaliere, pingue etilista del XV secolo, Sir John Falstaff, passa dall’Enrico IV e da Le allegre comari di Windsor, nelle abili mani di Arrigo Boito e Giuseppe Verdi. Lo spirito del protagonista è più simile a quello del secondo dramma shakespeariano, dove vanità e presunzione prendono il sopravvento ed espongono il personaggio allo scorno. Falstaff. Tutto nel mondo è burla andò in scena il 9 febbraio 1893 al Teatro alla Scala di Milano, quando il compositore era alle soglie degli ottant’anni, e chiude il catalogo verdiano rappresentando un unicum nella sua produzione.

Al Teatro Verdi di Busseto, all’interno del FESTIVAL VERDI di Parma, viene presentato in una dimensione cameristica, nell’arrangiamento del M° Alessandro Palumbo, che ha diretto il Quintetto d’Archi Kyiv Virtuosi e l’Ensamble di fiati La Toscanini. È chiaramente arduo, con un organico ridotto, restituire l’infinità di colori della partitura. Tuttavia, è stato positivamente ricreato il mondo sonoro immaginato da Verdi: sempre in accordo con la drammaturgia; dalle risonanze ritmiche e melodiche, vere e proprie rime musicali e logiche di tutto il declamato; dai momenti perfettamente descrittivi, come il disegno cromatico a terzine, che apre la seconda parte del primo atto, e disegna il passo svelto e leggero delle gaie comari di Windsor; o i gesti vocali iconici, come il “Reverenza!” di Mrs. Quickly – Adriana Di Paola.

Ph Roberto Ricci

La piccola sala teatrale, riccamente decorata, ospita una scatola scenica spoglia e una pedana che esce dal boccascena, arrivando davanti alla barcaccia sul lato destro rispetto al palcoscenico.
Lo scenografo Aurelio Colombo, che firma anche i costumi, prevede nel primo atto una serie di tavoli in legno, uno accostato all’altro, e boccali di birra. Sono i pochi oggetti rimasti dell’Osteria della Giarrettiera, dove Falstaff – il baritono Franco Vassallo che si destreggia abilmente nel comico, senza perdere l’afflato aristocratico – progetta di conquistare Alice Ford – Ilaria Alida Quilico, soprano irresistibile, di chiarissima emissione – e Meg Page – la chiara e dinamica voce di Shaked Bar. Ad ascoltarlo ci sono i suoi servi: Pistola – Andrea Pellegrini – e Bardolfo – Roberto Covatta – “dal naso color malvasia”. Scoperto il fatuo inganno del protagonista, le donne organizzano una burla a suo danno. Pure gli uomini decidono di prendersi gioco di lui e, com’è noto, da qui hanno inizio gli equivoci che fanno progredire la storia.
Nel secondo atto vengono portati in scena la cesta del bucato e il paravento, oggetti previsti da libretto, l’uno per nascondere Falstaff e l’altro per svelare a Ford – Andrea Borghini – sua figlia Nannetta – Veronica Marini – che si scambia tenerezze con Fenton – Vasyl Solodkyy. Nell’ultimo atto la scena si svuota ulteriormente: solo qualche lampada a terra, tre lampadari a soffitto e dei quadri appesi sulla parete di fondo rivestita con carta da parati, uno dei quali raffigurante la grande quercia, luogo di ritrovo per l’ultima spettacolare burla che tutti – uomini e donne coalizzati – pianificano per Falstaff. Ford vorrebbe approfittare della situazione per sposare di nascosto sua figlia con il Dr. Cajus – Gregory Bonfatti – che si ritrova però maritato a Bardolfo, mentre Nannetta e Fenton riescono felicemente a convolare a nozze gabbandolo.

L’amore dei due giovani, che non ha l’uguale nella commedia di Shakespeare, dà una contropartita alla figura centrale di Falstaff, costituendo l’unica, autentica speranza in un mondo fatto di beffe. La loro parte è estremamente efficace, tanto da non necessitare nemmeno di un vero e proprio duetto. Emblematico è invece il loro distico amoroso “Bocca baciata non perde ventura / Anzi rinnova come fa la luna”, citazione del proverbio finale di Alatiel, protagonista della settima novella della seconda giornata del Decameron di Boccaccio.

L’ultimo concertato, in questo caso cantato a pubblico in proscenio, è uno scoppio d’ilarità. Falstaff pure, dopo essere stato deriso, umiliato, giudicato, percosso, tanto da commuoverci quando si butta faccia a terra sul pavimento tenendo alti i palchi di cervo sulla testa, finisce vittorioso. Lo stesso Verdi, nella sua corrispondenza con Boito, scrisse: “un sorriso aggiunge un filo alla trama della vita”. Se nel tragico l’interesse aumenta notevolmente avvicinandosi alla conclusione, poiché si va incontro alla catastrofe, nella commedia i nodi si sciolgono e il fine è lieto, perciò tendenzialmente meno appassionante. Eppure, la mano sapiente del compositore ha costruito un’ultima scena avvincente, collocandola in un ambiente fantastico, mai toccato nel resto dell’opera, e musicando momenti comici che non fanno abbandonare il riso allo spettatore fino alla fine. Conclude la spettacolare fuga accompagnata a otto voci, il celebre Tutto nel mondo è burla.

Ph Roberto Ricci

L’idea registica di Manuel Renga colloca la vicenda non più nel XV secolo ma nell’Inghilterra elisabettiana di un passato prossimo, quella in cui ancora regna Elisabetta II Windsor. Falstaff è un personaggio fuori dal suo tempo, in “un mondo che si sgretola, con il futuro che si vuole sbarazzare del passato” – scrive lo stesso regista. Il suo tempo è ormai finito e lo vediamo relegato in quello spazio che oltrepassa il boccascena, con un tappeto polveroso sul pavimento nero e una vecchia sedia a dondolo di legno. Lo spazio degli altri, della borghesia rampante, è invece una scatola rosa, illuminata con tinte molto sature da Giorgio Morelli. Questa desolazione è evidente, data anche l’assenza del vecchio oste e del paggio, come se nessuno avesse più intenzione di servire Sir John, e soprattutto del coro nel finale.

I costumi oscillano in un intervallo temporale tra l’inizio del Novecento e gli anni Cinquanta. Fantasiosi e colorati; per lo più spezzate le vesti delle donne, mentre i completi degli uomini sono più uniformi. L’aspetto è quello tipico della borghesia della City: nell’ultimo atto, anziché travestirsi da elfi e fate, le donne indossano piume e payette come in una festa a tema anni Venti, gli uomini barbe finte, lunghe e rosse in stile irlandese, mentre Falstaff indossa un kilt scozzese.
La féerie, il mondo delle fate, è qui una festa borghese, mentre unico spazio onirico rimane una piccola stanza con sipario dorato, che si palesa nel secondo atto sfruttando la semichiusura del sipario alla francese. La regia è animata e frizzante, e sfrutta a pieno lo spazio – attorno, sopra, sotto il labirinto di tavoli e nei diversi luoghi deputati – e la recitazione è vivace e spontanea. Meno efficaci i movimenti scenici coreografati da Giorgio Azzone.

In conclusione a quest’opera, che inizia e finisce in do maggiore, ovvero nella tonalità elementare per eccellenza, la più pulita e brillante, mi chiedo se sia possibile prendere le parti di qualcuno: di quella borghesia londinese, snob e insolente; o di Falstaff, il cavaliere tronfio e seduttore, panciuto edonista? L’apoteosi finale è spiacevole per lui, come per Ford e per Cajus, mentre domina l’arguzia delle donne, ma solo a seguito di una certa ferocia. In questo allestimento l’aspetto sadico di questa commedia amara è edulcorato, mentre prende il sopravvento l’atteggiamento superficiale, fresco e ilare, di una borghesia d’assalto.

Festival Verdi 2023 

FALSTAFF. TUTTO NEL MONDO È BURLA
Commedia lirica in tre atti, libretto di Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Casa Ricordi, Milano
Arrangiamento per ensemble a cura di ALESSANDRO PALUMBO

Sir John Falstaff Franco Vassallo
                           Elia Fabbian (14)
Ford, marito di Alice Andrea Borghini
Fenton Vasyl Solodkyy
Dott. Cajus Gregory Bonfatti
Bardolfo, seguace di Fastaff Roberto Covatta
Pistola, seguace di Fastaff Andrea Pellegrini
Mrs. Alice Ford Ilaria Alida Quilico
Nannetta, figlia di Alice e Ford Veronica Marini
Mrs. Quickly Adriana Di Paola
Mrs. Meg Page Shaked Bar
Maestro concertatore e direttore Alessandro Palumbo
Quintetto d’archi Kyiv Virtuosi e Ensamble di fiati La Toscanini
Regia Manuel Renga
Scene e costumi Aurelio Colombo
Luci Giorgio Morelli
Movimenti scenici Giorgio Azzone

Teatro Giuseppe Verdi di Busseto
Venerdì 22 settembre 2023, ore 20.00
Sabato 30 settembre 2023, ore 20.00
Domenica 8 ottobre 2023, ore 15.30
Sabato 14 ottobre 2023, ore 20.00

A Genova si fondono Corpo e Anima della danza nel focus Resistere e Creare – intervista alla direzione artistica

RENZO FRANCABANDERA | Dopo un’estate intensa che ci ha visti presenti in borghi, città e festival, in Liguria e non solo, con spettacoli che hanno incontrato lo sguardo di oltre 15000 spettatori, l’autunno riparte a Genova dai Teatri di S. Agostino, che riapriranno il 4 ottobre con un programma caratterizzato, ancora una volta, dalla multidisciplinarietà e dagli spettacoli tout publique.
Lavori internazionali di teatro fisico tra la danza e Nouveau cirque, drammaturgia contemporanea, esplorazione dei nuovi linguaggi della scena, teatro per le famiglie, esperimenti di teatro sociale e una nuova produzione dedicata a Italo Calvino – nell’anno del centenario della sua nascita e di Genova Capitale del Libro.

L’autunno prende il via a passo di danza con il focus Resistere e Creare, dal titolo Corpo e Anima con eventi in calendario fra il 4 e il 15 ottobre e un evento in programma a Dicembre: la rassegna di danza internazionale giunta alla sua IX edizione è diventata in questi anni un incubatore di forme artistiche e di pensiero, residenza creativa, nucleo promotore di circuitazione di artisti internazionali, sostegno produttivo, attività di scouting, formazione, innovazione di linguaggi, con l’intento di farsi mediatore culturale tra vecchie e nuove generazioni.

Da sempre aperta al contemporaneo e ai linguaggi innovativi della danza internazionale, la rassegna, nata nel 2015 da un progetto di Michela Lucenti (Balletto Civile) e Marina Petrillo (Teatro della Tosse), dal 2022 ha affidato la direzione artistica al duo Linda Kapetanea e Jozef Fruĉek, fondatori della compagnia greca di danza RootlessRoot e creatori del metodo Fighting Monkey; una scelta nata in una sorta di ideale continuità sul pensiero artistico e sulla creazione estetica, e con l’obiettivo di diffondere l’eccellenza della danza italiana contemporanea sul mercato europeo ed extra europeo.

Nel programma si abbina la presenza dei lavori di “maestri” della scena contemporanea agli spettacoli degli young coreographers e agli appuntamenti performativi e di approfondimento fuori dalle sale, per favorire e avvicinare un pubblico sempre più ampio: fra gli spettacoli internazionali si segnalano SIOPE/SILENCE, nuovo lavoro di RootlessRoot, compagnia guidata dagli stessi Kapetanea e Fruĉek in prima nazionale, MAZUT, della compagnia franco catalana Baro D’Evel/Blaï Mateu Trias and Camille Decourtye, SONOMA, di La Veronal/Marcos Morau ispirato alle opere e alla vita del regista Luis Buñuel, CULTUS, di Zappalà Danza e il ritorno di Abbondanza e Bertoni, Fattoria Vittadini, Compagnia Sanpapié, oltre ai giovani di del collettivo Poetic Punkers e FUNA Performing Arts con un calendario che interseca tutta la stagione.

Abbiamo incontrato Linda Kapetanea, Jozef Fruĉek e Marina Petrillo per un’intervista.

Come si inizia a programmare un festival? È un po’ come creare un lavoro artistico?

LK –  È un’opera d’arte.
Come danzatrice, coreografa e spettatrice, il mio interesse è fermamente rivolto alla danza al servizio dell’impulso creativo, in risonanza con la nostra scoperta non verbale del mondo.

Creare un programma di festival È come una raccolta di idee di diversi artisti e, successivamente, è una composizione creativa. La verità è che non mettiamo insieme un programma basato solo sui creatori. Di solito ci sono due assi. Il tema più ampio dell’anno o della stagione e il caso speciale di ogni opera. Sempre con i limiti delle nostre capacità tecniche e dei costi. Tuttavia, il lavoro gioca il ruolo principale. Quando scegliamo pensiamo più all’opera e meno al nome dell’autore. Vogliamo vedere la ricerca sul corpo.

It s an artwork. As a dancer, choreographer, and viewer, my interest is firmly on dance in the service of the creative urge, resonating with our non-verbal discovery of the world. Creating a festival program  It s like a collection of ideas of different artists and after that, its a creative composition. The truth is, that we don’t put together a program just based on creators. There are usually two axes. The wider theme of the year or season and the special case of each work. Always with the limitations of our technical capabilities and costs. However, the work plays the main role. When we choose we think more about the work and less about the name of the creator. We want to see the research on the body

Intorno a quali idee si è condensata l’edizione di quest’anno e perché sono stati scelti proprio questi artisti?

LK – L’idea è quella di aprire il confronto attraverso i progetti che ospitiamo, affinché attraverso le storie che prendono vita sul palco possiamo prendere coscienza, ispirarci, sognare, immaginare le cose in modo diverso.
Per quanto riguarda gli spettacoli, il programma è strutturato in modo tale che ognuno possa trovare lo spettacolo che più lo tocca o che lo riguarda di più. Non iniziamo la progettazione del programma con la logica che tutto piacerà a tutti. E uno spettacolo vale la pena di essere visto per farci riflettere e magari capire qualcosa di diverso da quello che ci aspettiamo o abbiamo pre-deciso. Con gli spettacoli si pongono le domande e ognuno definisce le proprie risposte. Ogni performance è unica nella sua interezza.
Sentendo il bisogno di dimostrare che la danza ha il potere di ispirare, quest’anno abbiamo cercato di portare al centro della scena maestri di danza e artisti straordinari.

The idea is to  open the discussion through the projects we host, so that through the stories that come to life on stage we can become aware, be inspired, dream, imagine things differently.
As far as the shows are concerned, the program is structured in such a way that everyone will be able to find the show that will touch them the most or that concerns them the most. We don’t start program design with the logic that everything will please everyone. And a show is worth seeing to make us think and maybe understand something other than what we expect or have pre-decided. With the shows, we pose the questions and everyone defines their answers. Every performance is unique in its entirety.
Feeling a need to demonstrate that dance has the power to inspire, this year we sought to bring centrestage dance masters and extraordinary performers.

Ci sono rapporti di vicinanza e/o di accompagnamento di medio periodo con alcuni di loro? Come si sceglie qualcuno da seguire per un po’ di tempo?

LK- La verità è che negli anni conosciamo tanti artisti. Ne seguiamo molti e discutiamo con loro anche dei loro progetti. Segui un artista perché senti i progressi e trovi ispirazione.

The truth is that throughout the years we know many artists. We follow many of them and also discuss with them their concepts. You follow one artist  becauseyou feel the progress and you get inspired. Linda

In che modo il festival interseca Genova? Che tipo di territorio è oggi la città e quanto determina delle scelte artistiche?

MP – Genova è una città che sfugge alle definizioni. C’è chi la definisce “la superba”, città regale e bellissima, e chi “un imbuto”.  Verticale e labirintica, popolare e altera, indomabile e sconfitta. Un territorio che ha pagato molto caro il prezzo della deindustrializzazione e l’assenza di un progetto reale di sviluppo sostenibile e che ha ferite aperte difficili da curare.

La vita artistica e culturale della città riflette puntualmente l’insufficienza delle risorse e soprattutto la resistenza a condividere.  Genovesi diffidenti: ognuno per sé ma senza un Dio per tutti.
I salotti culturali, come nell’Ottocento, sono spazi riservati agli eletti riconosciuti dai vecchi poteri delle famiglie. Luoghi non permeabili che non dialogano con il resto della popolazione che affolla le strade nella movida notturna e che a volte, con grande fatica e grande merito, riesce a produrre perle di controcultura che ridanno momenti di speranza.
La  programmazione di Resistere e Creare, riflette la città e le sue dinamiche socio-culturali e scende in campo portando il racconto attraverso il corpo che è strumento performativo eccellente in grado di raccontare oltre la barriera della lingua, ritornando alla natura prima delle cose, a quello che rende i racconti universali.
Questa intenzione del “raccontare” “condividere” è centrale nel lavoro, lo accende e ne è motore e da questa intenzione discende quello che stiamo cercando di fare per dare continuità e struttura ad alcuni aspetti fondamentali del lavoro quali l’internazionalizzazione il sostegno alle giovani compagnie e la formazione.

Un tempo il teatro aveva l’ambizione di modificare la società. Pensate ci riesca o è invece la società che modifica e plasma il medium?

JF – La relazione è sempre stata bidirezionale: il teatro influenza la società e la società influenza il teatro.
Coesistono: è un organismo vivente.
Finché saremo creature umane, ci esprimeremo, creeremo mondi che nessuno ha mai visto prima. E continueremo a farlo indipendentemente dal fatto che la società sia interessata o meno. Indipendentemente se cambierà una persona o un’intera generazione.
Il teatro va creato solo e soltanto se siamo bruciati dal desiderio di condivisione. Perché se non lo manifestassimo, ci mangerebbe vivi. Questo è il teatro che può cambiare il pubblico. Non perché si tratta di cambiare la società, ma perché si tratta di cambiare noi stessi per dare un senso alla vita folle e assurda che viviamo e amiamo.

 This relation was always both directional: theater influence society and society influence the theater.
They coexist, it is one living organism.
For as long as we are human creatures, we will express ourselves, we will create worlds that no one have ever seen before. And we will keep on doing it regardless if society is interested or not. Regardless if it will change one person or whole generation.
Theatre should be created only and only if we are burned by desire to share. For if we would not manifest it, it would eat us alive. That is the theatre that can change audience. Not because it is about changing society, but because it is about changing ourselves to make sense of the crazy and absurd life’s we live and love   

In che modo il linguaggio coreografico è cambiato con la tecnologia? È una presenza ingombrante?

La lingua è la nostra prima grande invenzione tecnologica
Essere in grado di usare le parole per alterare la mente di altre persone
Da lì tutto si è evoluto, tutte le altre innovazioni tecnologiche.
Quindi sì, la tecnologia cambia ed espande il modo in cui possiamo condividere le nostre storie, idee, visione. Solo espansione espansioneespansione, niente di cui preoccuparsi

Language is our first great technological invention
Being able to use words to alter the mind of other people
Everything evolved from there, all other technological innovations.

So yes technology changes and expands the way we can share our stories, ideas, vision. Just expansion expansionexpansion, nothing to worry about 

Come funziona il rapporto fra voi tre sul piano delle scelte?

Innanzitutto portiamo tutti sul tavolo tante e diverse idee. Tanti spettacoli, tanti nomi e tante performance a cui abbiamo assistito. Seguiamo anche cosa succede alle altre città e festival.
Successivamente iniziamo a vedere queste idee in modo più pratico. Iniziamo a fare il puzzle e cerchiamo di capire cosa possiamo permetterci, tecnicamente, budget, disponibilità, tema artistico.
Marina è aperta a qualsiasi idea e alla fine è lei a dare l’ultima risposta perché conosce meglio le condizioni del teatro e della città. La cosa bella di questa collaborazione è che siamo 3 persone con gusti e opinioni diversi per la danza e attraverso la discussione scegliamo quella che risalta di più e sappiamo che sarà preziosa per il pubblico.

First of all we all bring many and different ideas on the table.
Many shows, many names and many performances that we have seen.
We also follow what is happening to the other cities and festivals. After that we start to see these ideas more practically.
We start to make the puzzle and try to understand what we can afford, technically, budget, availability, artistic theme.
Marina is open to any idea and at the end she is the one to give the last answer because she knows the best the conditions in the theater and in the city.
The nice thing in this collaboration is that we are 3 people with different tastes and opinions for dance and through discussion we choose the one that stands the most and we know is going to be valuable for the audiences. 

Oona Doherty con Navy Blue a Torinodanza: danzare nell’immensità del cosmo

Navy Blue, Oona Doherty, PH Dajana Lothert

GIANNA VALENTI | Navy Blue della coreografa nord irlandese Oona Doherty è uno sguardo sulla presenza umana nell’immensità dell’universo, una visione sul senso della nostra incarnazione, sul nostro essere corpo come presenza sensoriale e animica, sul senso del nostro procedere e operare sul pianeta come corpi singoli e come razza umana.
Un lavoro per “fare arte e pensare al cosmo” narra il testo scritto da Doherty insieme a Bush Moukarzel (attore, regista e autore irlandese) come parte del soundtrack dello spettacolo. La Terra un “pallido puntino blu”, così come “un pallido puntino blu su un pallido puntino blu” ogni singolo corpo che la abita. Eppure, ci racconta questa coreografa così attenta all’umanità e alla realtà dei corpi e delle relazioni che osserva con grandi capacità intuitive nel suo quotidiano e nella strada, è in ogni singolo corpo che danza, in ogni pallido puntino blu, che si manifesta il noi e il tutto: “… guardate ancora. C’è un mondo intero in quella ballerina.” (Qui il testo integrale usato nello spettacolo)
Doherty si è ispirata al libro degli anni Novanta dell’astronomo Carl Sagan, Pale Blue Dot: a Vision of the Human Future In Space, scritto dopo che nel 1990 la sonda Voyager manda sulla Terra Pale Blue Dot, la prima famosissima e iconica foto del nostro pianeta visto dall’immensità del cosmo.

Navy Blue in prova, in primo piano Oona Doherty, PH Sinje Hasheider

Navy Blue, ospitato quest’anno a Biennale Danza, dove Doherty ha ricevuto il Leone d’Argento nel 2021, è il secondo appuntamento di Torinodanza visto alle Fonderie Limone il 22 settembre.
In scena un largo gruppo di danzatori con i corpi coperti da tute blu di memoria operaia novecentesca. Undici corpi, nella serata vista, che sciamano senza sosta nello spazio completamente aperto della scena, in un rincorrersi di forme coreografiche spaziali classiche: dal gruppo come linea compatta che taglia la scena orizzontalmente, al gruppo come linea in profondità che si apre e si ricompone in un gioco di simmetrie a specchio; dal gruppo che si compatta al centro o che si fa cerchio sul perimetro, ai corpi che si dispongono in modo ordinato e uniforme sull’intera scena; dal gruppo che si sposta sulla scena da destra a sinistra sino ai corpi che scivolano sulla diagonale intrecciando i percorsi in un gioco regolare di scambi.
Strutture spaziali classiche e moderne lontane dal linguaggio del contemporaneo e della performance europea di fine Novecento e che funzionano non come momenti singoli, distinti e di affermazione di un’area compositiva all’interno della coreografia, ma come una sorta di struttura leggera, flessibile e semitrasparente che sostiene il flusso ininterrotto dei corpi negli spostamenti sulla scena, nei passi di danza e nei gesti. 

Navy Blue in prova, PH Sinje Hasheider

Nulla sembra avere un posto fisso. I corpi viaggiano nello spazio e danzano rincorrendo un’impossibile sincronicità tra la danza come codice stilistico del classico e del contemporaneo e la danza come gesto e come presenza del quotidiano. Senza aderire alle soluzioni compositive del Physical Theatre inglese o del Teatro Danza tedesco, i corpi  dei danzatori fanno coesistere nel loro linguaggio il codice tecnico e il gesto senza più la necessità di esibirne una linearità e una codificazione, ma abitandoli come elementi che appartengono alla memoria, smussandoli e lasciandoli fluire quali fossero delle presenze smaterializzabili di un codice professionale appreso o di un codice assorbito nel quotidiano.

Questo flusso inarrestabile del movimento e delle sue trasformazioni avvicina la modalità compositiva di Doherty al channeling creativo e alla scrittura automatica e crea un’urgenza negli spostamenti spaziali, negli sguardi e nell’accavallarsi degli elementi del movimento danzato. Gli sguardi conducono, spostano, avvicinano, allontanano, aprono spazi, portano altrove. È così che scorre tutta la prima parte sulle note del concerto n.2 per pianoforte e orchestra di Sergej Rachmaninov. La seconda parte, abitata dalla partitura musicale elettronica originale di Jamie XX e dal testo di Doherty-Moukarzel, compatta i corpi in una linea orizzontale sulla scena, così come compatta il movimento danzato e  alchimizza le modalità compositive della prima parte. I corpi dei danzatori, ognuno nella propria singolarità, si fanno presenze totemiche che rilasciano una danza di movimenti e gesti non più distinguibili e riconoscibili, una danza come assorbimento e compressione di un linguaggio più ampio che si fa flusso ininterrotto di micropartiture che scorrono sui corpi nella loro costruzione frontale e bidimensionale verso il pubblico.

Navy Blue in prova, PH Sinje Hasheider

C’è molta densità in questo sviluppo del lavoro. La danza così compressa, così trattenuta e con l’altissima necessità di incanalare l’energia negli spazi interni del corpo diventa linguaggio urgente per comunicare la natura infinitesimale del manifestarsi fisico sul pianeta: la Terra come piccolo punto nell’universo che chiede ai corpi di accettare e dare un senso all’immensità, senza perdersi nel pericolo e nella follia di sentirsi un nulla; la Terra che chiede ai corpi che danzano di manifestarsi fisicamente e sensorialmente portando memorie personali e collettive, emozioni e forme pensiero senza perdersi nel confronto con la vastità della materia che li circonda.
La linea compressa dei corpi si disperde in percorsi singoli e un solo corpo rimane sul fondo della scena in uno spazio ristretto. La sua danza esplode in un flusso inarrestabile di elementi non più riconoscibili, il suo corpo danza l’impossibilità a posarsi e la ricerca dell’istantaneità all’essere nel tutto, qui e altrove. Solo un altro corpo, in un abbraccio che comprende, riconosce e accoglie, gli offre la possibilità di ascoltarsi e stare. Doherty, con un abbraccio che diventa azione di gruppo, ha il coraggio di mettere in scena la semplicità dell’amore incondizionato: i suoi danzatori sono unici, ognuno con un corpo, uno sguardo, un’età e un modo di vivere il movimento che li identifica come singolarità certe all’interno del gruppo — singolarità che scelgono di collaborare, di sostenersi e di procedere insieme in un atto di danza che si fa modello e promessa per il destino umano sul pianeta.

 


NAVY BLUE

coreografia Oona Doherty
in collaborazione coi danzatori Amancio Gonzalez Miñon, Andréa Moufounda, Arno Brys, Hilde Ingeborg Sandvold, Joseph Simon, Kevin Coquelard, Mohamed Makhlouf, Mathilde Roussin, Sati Veyrunes, Thibaut Eiferman, Tomer Pistiner e Zoé Lecorgne
partitura musicale originale Jamie XX © da Universal Music Publishing LTD
produzione musicale William Smith
musiche aggiuntive Sergej Rachmaninov
ideazione video Nadir Bouassria
disegno luci e direzione tecnica John Gunning
ideazione costumi Oona Doherty e Lisa Marie Barry
produzione Od Works – Oona Doherty | Torinodanza Festival | Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale | Big Pulse Dance Alliance
con il sostegno del Programma Creative Europe dell’Unione Europea e con il sostegno di Culture Ireland

Fonderie Limone Moncalieri – Sala Grande – Torinodanza
22 e 23 settembre, ore 20.45

Le foto di questo articolo sono di  Sinje Hasheider, qui l’articolo scritto dalla fotografa sull’esperienza di lavoro con Doherty in sala prove.

Celebrare Calvino fra teatro e scienza: a Reggio Calabria la VII edizione del Ragazzi MedFest

PAOLA ABENAVOLI | Un incontro tra teatro e scienza, celebrando il centenario della nascita di Italo Calvino: torna, da domenica 24 settembre e fino all’8 ottobre, a Reggio Calabria, il Ragazzi MedFest. Il festival, promosso dalla Compagnia SpazioTeatro e giunto alla VII edizione, si propone ancora una volta come punto di riferimento, non solo per la Calabria, per il teatro dedicato ai ragazzi e alle ragazze. Una rassegna che ha avuto, fin dall’inizio, la capacità di coinvolgere il pubblico, di giovani e meno giovani, offrendo spettacoli, ma anche incontri letterari, laboratori riguardanti la musica o l’illustrazione, che hanno visto importanti nomi giungere a Reggio Calabria. Un percorso all’insegna della ricerca, frutto dell’impegno di una delle compagnie che opera da più tempo – oltre 20 anni – in città: un percorso che è cresciuto sempre più e che ha portato il Festival ad ottenere, per il 2023, il riconoscimento del Ministero della Cultura come Progetto speciale.

Quest’anno, come si diceva, a caratterizzare la nuova edizione sarà la celebrazione del centenario delle nascita di Italo Calvino e, allo stesso tempo, l’incontro tra teatro e scienza: “Abbiamo pensato di unire il riferimento a Calvino – afferma Gaetano Tramontana, direttore artistico di SpazioTeatro e del Ragazzi MedFest – a qualcosa che stiamo sperimentando nelle ultime edizioni del festival, ovvero dedicare una sezione alle contaminazioni tra teatro e scienza. Quindi, un teatro non necessariamente divulgativo, ma che è ispiratore di contatti con la scienza. Abbiamo pensato che il cosmo fosse un elemento che ha ispirato anche una parte della letteratura di Calvino, oltre le Cosmicomiche naturalmente, e quindi abbiamo dato al Festival il titolo Cosmo & comiche, sottolineando la nostra idea”.

Un’immagine di una performance della Compagnia Accademia creativa

Queste le premesse del festival, che prevede una serie di spettacoli, incontri dedicati alla letteratura, laboratori e una mostra di grande rilievo, che si svolgeranno durante le prossime due settimane, partendo dalla grande festa che, domenica 24 settembre, dalle ore 18, sul Corso Garibaldi, principale arteria del centro storico, aprirà il Ragazzi MedFest: “Trattandosi di un importante compleanno dell’autore, l’idea di partenza è la festa, attitudine spesso presente in molte opere di Calvino, prima fra tutte le Cosmicomiche”. Ad animare questo momento teatrale e musicale saranno numerosi artisti, come Compagnia Accademia Creativa, I Gatti Ostinati, Patuncha, Renata Falcone, Anna Calarco, Tekhla De Marco.

Tornando alle linee guida, dunque, all’unione tra gli elementi principali del Festival, Tramontana sottolinea come si realizzi “un cammino parallelo tra i riferimenti a Calvino, con gli spettacoli come la nostra nuova produzione, Tre Cosmicomiche (di scena il 6 settembre, alle 20, ma proposta anche in matinée per le scuole il 26 e 27 settembre), lo spettacolo di Mario Perrotta, Come una specie di vertigine – Calvino, la libertà (che chiuderà il festival, l’8 ottobre, alle 20), la lettura di Marcovaldo con Peppe Servillo (l’1 ottobre, alle 20), e l’altra linea parallela, del Cosmo, con lo spettacolo Costellazioni. Pronti, partenza…spazio!, dell’ Associazione Sosta Palmizi (il 29 settembre), e gli incontri letterari, con Filippo Bonaventura (1 ottobre), uno degli animatori del gruppo Chi ha paura del buio, che presenta anche il suo ultimo libro, Storia di un protone, e poi con Domenico Scarpa (3 ottobre), autore di Calvino fa la conchiglia e con Veronica Giuffrè”, curatrice del percorso di lettura Signor Palomar, il 30 settembre.

Mario Perrotta in “Come una specie di vertigine” (Foto Luigi Burroni)

Appuntamenti che si aggiungono alle letture ad alta voce del gruppo Nati per leggere di Reggio Calabria (il 2 ottobre) e che evidenziano l’impegno che SpazioTeatro ha dedicato in questi anni alla diffusione della lettura e della letteratura per ragazzi, testimoniata anche dall’attività della Biblioteca dei ragazzi e delle ragazze, che ha sede presso la sala SpazioTeatro.
Sempre in merito al programma del Festival, “un posto privilegiato – sottolinea il direttore artistico – lo riserverei alla mostra di illustrazioni Eccellenze Italiane – Figure per Italo Calvino, che ha debuttato alla Bologna Children’s Book Fair, prodotta da Accademia Drosselmeier, Fondazione Giannino Stoppani e dalla stessa Bologna Children’s Book Fair. Una mostra di 60 illustrazioni su testi di Calvino, 30 di famosissimi illustratori a livello europeo, altre 30 nate da un concorso che la Fiera del libro per ragazzi di Bologna ha indetto tra giovanissimi illustratori. E’ una iniziativa a cui teniamo molto, che prosegue questo interesse per l’illustrazione per ragazzi che contraddistingue il festival fin dalla sua prima edizione”. L’esposizione – che sarà visibile per tutta la durata del Ragazzi MedFest – sarà inaugurata il 25 settembre, alle 18, presso l’Urban Center, preceduta da un workshop su Calvino e il suo immaginario, condotto dalla curatrice della mostra, Grazia Gotti. Inoltre, il 5 ottobre, una delle illustratrici, Giulia Tomai, incontrerà le scolaresche.

Un programma, dunque, molto vasto e ricco di appuntamenti; e tra gli obiettivi, anche quest’anno sembra esserci quello di unire sia il pubblico di giovani che quello degli adulti, come ci conferma Tramontana: “Quest’anno, in una forma molto più decisa, l’intento è sicuramente quello di unire pubblici diversi: resta un festival di teatro e letteratura per i più giovani, festival mediterraneo dei ragazzi e delle ragazze, ma sempre di più vogliamo unire i pubblici, fare qualcosa di trasversale, perchè sempre di più, in questi ultimi anni, ci siamo accorti della vivacità del teatro per ragazzi, della sperimentazione che il teatro per ragazzi porta con sè. Una sperimentazione che, inevitabilmente, per chi vuole incontrare il teatro contemporaneo, per chi vuole incontrare degli spettacoli che facciano pensare, ma che – perchè no – divertano anche, sicuramente il teatro ragazzi può fare e fa. Noi vogliamo seguire questa linea e le scelte che abbiamo fatto, sugli spettacoli e sugli ospiti, vanno in questa direzione”.

www.ragazzimedfest.it

PRIMAVERA PAC: Abbiati incanta Cagliari con il suo speciale Moby Dick

Una tazza di mare in tempesta, Abbiati, Teatro Massimo
Una tazza di mare in tempesta, Abbiati, Teatro Massimo

ELEONORA MELIS D’ORAZZI | Una piccola installazione di legno che profuma di antico, di vissuto, posta al centro di una sala buia al piano superiore del Teatro Massimo di Cagliari, come fosse la stiva della baleniera “Pequod”. Al suo interno sgabelli di vari colori con qualche residuo di vernice, riservati a soli dieci spettatori; posti nei lati superiori delle pareti legnose, in rilievo, si affacciano otto finestre, dalle quali si intravedono piccoli oggetti che prendono vita come per magia, tutti materiali di riciclo: tre vecchie grucce che un tempo stavano in un elegante negozio o in un armadio, sventolano pezzi di tela bianchi induriti dalla salsedine, fili di ferro diventano balene e pinze per stendere i panni sono piccolissimi vascelli, una pipa con vetrini azzurri sfida le onde del mare e naviga sull’orizzonte, un vecchio pezzo di legno rettangolare e un coltello arrugginito danzano nell’oceano leggiadri come cetacei.

Roberto-Abbiati-in-Una-tazza-di-mare-in-tempesta-
Roberto-Abbiati-in-Una-tazza-di-mare-in-tempesta-

Tutto questo è solo l’involucro di Una tazza di mare in tempesta, spettacolo che Roberto Abbiati porta in scena da anni, affiancato da Johannes Schlosser, ispirato al grande classico della letteratura Moby Dick di Herman Melville, pubblicato nel 1851.
Superate le 1756 repliche, Abbiati porta sul palcoscenico la straordinarietà di questo romanzo e la passione che lo lega ad esso, entusiasmando il pubblico replica dopo replica senza mai disperdere quel briciolo di mistero che lo contraddistingue. Curiosità, stupore e sorpresa si respirano nell’aria; dal momento in cui le luci si spengono, tutti gli spettatori si sono accomodati sul loro sgabello, la voce narrante dell’attore si palesa e accompagna la performance, accostata alle musiche originali di Fabio Besana.
Tutto è studiato nei minimi dettagli, nessun particolare è lasciato al caso, tutti gli oggetti presenti in quella stanza di legno (misura 4 m. per 2,70 m. e alta 2,40) stuzzicano la fantasia dal primo istante, al centro della parete frontale si apre e si chiude una finestra azzurra, tramite la quale l’attore interagisce con il pubblico. Un violino che da anni non emette più alcun suono rinasce lampadario, rilasciando nell’atmosfera cupa e malinconica una luce calda che fuoriesce dai due fori di risonanza sulla tavola armonica della sua pancia; uno spettacolo di grande impatto scenografico, della durata di soli 20 minuti.
Poco prima dell’inizio dello spettacolo, Abbiati si presenta al pubblico stando all’esterno dell’installazione, spiegando in breve ciò a cui si sta per assistere, senza svelare troppi dettagli, lasciando un alone di curiosità. Riesce a creare in breve tempo un confronto diretto con le persone, d’altronde non capita spesso che l’interprete principale e creatore dell’opera prenda per mano un bambino e lo accompagni al suo posto prima di iniziare lo spettacolo.

Una tazza di mare in tempesta, Abbiati al Teatro Massimo di Cagliari

Questa è la storia di un uomo, Ismaele, il quale decide di intraprendere un  viaggio e salpa a bordo della baleniera Pequod. Al comando dell’imbarcazione c’è il capitano Achab, uomo tutto d’un pezzo che a causa di un incontro ravvicinato con una balena ha perso una gamba e si ritrova costretto a vivere con una protesi d’osso ricavata dallo scheletro di un capodoglio. I passi del capitano sono riprodotti tramite un piedistallo di legno, quelli utilizzati nei negozi di abbigliamento, che viene ripetutamente sbattuto sulle pareti dell’installazione, creando un effetto sonoro talmente veritiero che quasi pare di sentire avvicinarsi Achab da un momento all’altro.
L’ossessione del capitano per Moby Dick, la balena bianca che l’ha mutilato, lo spinge a salpare per i sette mari e sfogare la sua sete di vendetta contro di essa. Da anni i balenieri di tutto il mondo parlano di lei, Moby Dick è astuta e feroce, le altre navi la temono e fuggono quando la incontrano sulla loro rotta, tranne quella di Achab.

Ismaele è il personaggio chiave di questo spettacolo, è il narratore che interagisce con la materia, con le forme, con le persone, si muove nello spazio dall’esterno, dando la sensazione di essere suoi compagni di avventura all’interno della baleniera e di condividere le sue stesse paure. La nave sarà colpita da una tempesta, tutto d’un tratto anche il più coraggioso degli spettatori si sentirà insicuro tra quelle onde, perso nell’oceano, come Ismaele che cerca in ogni modo di uscirne vivo.

La tempesta, il mare agitato, l’essere in balia delle onde sono metafore con le quali Abbiati ribalta il punto di vista del romanzo; Il tema é il viaggio, ma a quale viaggio si riferisce? la metafora é sottile, nascosta tra quelle pareti di legno. Il mondo è la vita, il viaggio è la vita, una vita fatta di imprevisti ai quali possiamo solo reagire, ma sta ad ognuno di noi scegliere il modo.

Tutti gli oggetti scelti da Abbiati rimandano simbolicamente al romanzo: Moby Dick è la sfida con il proprio demone interiore, l’imprevedibile destino che bussa da un momento all’altro nella vita di ogni essere umano, Achab è l’uomo che non accetta i limiti e le condizioni createsi nel corso della vita,  non si arrende e sfida le forze della natura ma si accorge troppo tardi che ormai non potrà più tornare indietro.

Una lettura che nella declinazione di Abbiati diventa surreale, attraverso una rappresentazione artigianale dal grande impatto scenico, dove la tristezza e il desiderio di rivalsa dell’essere umano emergono passo dopo passo. Un opera gigantesca racchiusa in un piccolo spazio di legno che accoglie gli eventi narrati tra colpi di scena e giochi di luci, frutto del prezioso lavoro che ha svolto Abbiati, che in un modo estremamente unico è riuscito a comprimere la potenza di un gigante della letteratura: Moby Dick.

Una tazza di mare in tempesta, Abbiati, Teatro Massimo

“Ogni volta che mi accorgo ad atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me… allora dico che è tempo di mettermi in mare al più presto, questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola […]”   

Moby Dick

UNA TAZZA DI MARE IN TEMPESTA

regia Roberto Abbiati
con Roberto Abbiati e Johannes Schlosser
musiche e registrazioni Fabio Besana
scenografie realizzate presso  Laboratori di scenotecnica di Armunia

Teatro Massimo, Cagliari | 20.09.2023

AB [INTRA] di Rafael Bonachela: la fluida semplicità della bellezza

Ab [intra] ph:@PedroGreig

ENRICO PASTORE | Torinodanza apre la nuova edizione del festival con la presentazione in prima italiana di Ab [intra] del coreografo catalano-australiano Rafael Bonachela con la Sidney Dance Company dal lui diretta dal 2008. Il lavoro di Bonachela si è sviluppato nel corso degli anni in un continuo melange tra cultura alta e pop, che in questo lavoro risalta alla massima potenza.
Ab [intra] in latino significa “da dentro”, “dall’interno” e tale locuzione è la chiave di lettura dell’intero balletto. I diciassette danzatori entrano in scena come se fossero in una sala prove, mentre stilettate di violoncello attraversano lo spazio come il battito di pulsazione di un cuore. Sul palcoscenico l’insieme dei danzatori abbozza frasi di movimento. Non siamo ancora al linguaggio, ma al balbettio di qualcosa che nasce da dentro e prova a estrinsecarsi verso l’esterno. Man mano si creano piccole formazioni, a due, a tre, che provano a formare frasi più complesse e compiute. Lo sguardo dello spettatore non può accoglierle tutte insieme, deve scegliere cosa guardare, operare un montaggio suo proprio, diverso da quello di qualsiasi altro.

Ab [Intra] di Rafael Bonachela ph:@PedroGre

Il tessuto sonoro amplia lo spettro emotivo di ciascuno, cattura l’attenzione verso una gamma di emozioni che cominciano a sorgere in un paesaggio costituito solo da corpi in movimento e luce. La struttura si viene via via a definire. I pezzi di insieme si sciolgono in commuoventi soli, pas de deux, e trii. Il movimento è sì atletico e virtuosistico, ma non stucchevole o fine a sé stesso. La componente emotiva, istintuale, è la chiave di volta che permette di trascendere la tecnica per colpire l’animo dell’osservatore e avvincerlo.

La struttura drammaturgica è un continuo, eterno ritorno di una pulsazione dal singolo all’insieme, passando per le formazioni a due e a tre. Si conforma come un costante dialogo tra l’individuo e la società, che si aggrega e disgrega, attraverso la fluidità di questa energia sorgente dal profondo dell’animo. Non vi sono traumi in questo comporsi e scomporsi, ma una naturale fluidità, un’aggregazione di molecole eternamente combinantesi fino a raggiungere uno scopo, per poi sciogliersi e incominciare nuovamente il processo. La luce e la musica sono il bagno di cultura di queste cellule singole pronte a combinarsi per formare sempre nuovi organismi.

Ab [Intra] di Rafael Bonachela ph:@PedroGreig

La tessitura sonora è composta dal secondo concerto per violoncello e orchestra Klâtbûtne del compositore lettone Peteris Vasks, nella versione eseguita dalla violoncellista argentina Sol Gabetta, e ai ritmi, viscerali, coinvolgenti della musica elettronica dell’australiano Nick Wales, che si sovrappone e si commistia con la composizione di Vasks.
Ab [intra], dunque, benché appaia semplice e riconoscibile nella sua forma, nasconde nella comprensibile tessitura il mistero di ogni disegno che appare sulla tela. Tutto è dosato, senza eccessi, senza ricercare la meraviglia, ma facendola semplicemente apparire come spontanea.

Ab [Intra] di Rafael Bonachela ph:@PedroGreig

Mallarmé scriveva nel suo saggio sul balletto che il danzatore sa esprimere attraverso il movimento «una poesia liberata da qualsiasi scrittura». Una danza non narrativa come quella di Rafael Bonachela esemplifica il pensiero del grande poeta francese. Tutto può essere visto e sentito in quei movimenti così ben concepiti da trascendere la tecnica che li ha generati. Ogni occhio che guarda può scoprirvi un mondo e riempire pagine per descrivere ciò che ha provato senza riuscirvi.
Per questo credo Ab [intra] abbia riscosso così tanto successo tra il pubblico di Torinodanza, perché è un vaso vuoto che ognuno può riempire con ciò che riesce a cogliere. Vi è un senso di libertà e di fluente emozione che libera dalla necessità razionalista e tutta occidentale di voler per forza comprendere un’opera d’arte. Lei è lì nel suo svolgersi qui e ora, e ci pone enigmi come la sfinge, possiamo risolverli oppure ignorarli e godere per qualche tempo la gioia della bellezza dei corpi in movimento.

AB [INTRA]
coreografia Rafael Bonachela
luci Damien Cooper
scene e costumi David Fleischer
partitura musicale originale Nick Wales con Klātbūtne di Pēteris Vasks
danzatori Lucy Angel, Naiara de Matos, Dean Elliott, Riley Fitzgerald, Jacopo Grabar, Liam Green, Madeline Harms, Luke Hayward, Morgan Hurrell, Sophie Jones, Connor McMahon, Jesse Scales, Piran Scott, Emily Seymour and Chloe Young
produttori Guy Harding, Simon Turner, Tony Mccoy, Annie Robinson, Jenn Ryan Sydney Dance Company
con il patrocinio dell’Ambasciata di Australia in Italia

Fonderie Limone di Moncalieri | 15 settembre 2023

Mercurio Festival, un altro “present” in arrivo: intervista a Giuseppe Provinzano

Mercurio Festival 2023

SOFIA BORDIERI | Dopo This is a present for you, il Mercurio Festival torna con An other present for you, titolo della quinta edizione in programma dal 20 al 30 settembre in vari spazi dei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo. Che sia un altro presente o un altro regalo, nella polisemia della parola present viene racchiusa la peculiarità principale di questo festival multidisciplinare palermitano che, dalla prima edizione, rinuncia a una direzione artistica unica e “centripeta”, con i relativi meccanismi tradizionali di selezione, per scommettere invece su una direzione plurale e partecipata.  Non solo. Dal primo anno gli artisti e le artiste, oltre a performare, sono le figure centrali delle programmazioni, scegliendo, dopo la conclusione del festival, a chi passare il testimone di edizione in edizione. Ideatori di questa trasmissione fluida sono Altro e lo Spazio Franco, produttori del Mercurio, dove è centrale la figura dell’attore Giuseppe Provinzano, curatore del festival più che direttore artistico, con cui abbiamo parlato pochi giorni prima dell’inizio di questa nuova edizione.

In cosa consiste il tuo lavoro da curatore piuttosto che da direttore artistico? Quali meccanismi si innescano, tra complessità e sorprese?
Ho vissuto e vivo tuttora le varie dinamiche che tutti noi artisti viviamo soprattutto rispetto ai festival, le cui programmazioni sono distanti da quelle delle stagioni teatrali o viceversa. Si è creato un mondo dei festival con propri meccanismi e dinamiche che noi proviamo a scardinare, non per contestazione ma per concentrarci sulla direzione. Il mio lavoro consta nel rapportarmi con i diversi artisti per capire cosa vogliono proporre. C’è chi vuole portare un inedito, chi un cavallo di battaglia, chi crea qualcosa site specific. Da lì inizia un processo di curatela che mette l’artista nelle migliori condizioni possibili, che è ciò che abbiamo sempre voluto fare senza seguire le regole canoniche da festival (cioè, di presentare un certo numero di anteprime, di spettacoli di teatro, danza o musica ecc). Questo comporta che, nello stesso programma, e mi riferisco in particolare a quello di quest’anno, è possibile trovare la Piccola Compagnia Dammaccodei premi Ubu Mariano Dammacco e Serena Balivo con un loro spettacolo “storico” e, due giorni dopo invece, l’anteprima di un nuovo spettacolo di Fanny&Alexander. Al quinto anno di edizione, tutti ci volgiamo a guardare indietro la direzione presa. Giorgina Pi l’anno scorso rifletteva sul fatto che fosse stata invitata da Michela Lucenti, chiamata da Gli Scarti, suggeriti da Babilonia. Si innesta una riflessione per gli artisti stessi che possono portare avanti la direzione entro cui sono inseriti oppure no, possono scardinarla. Gli artisti hanno questa responsabilità. Quest’anno è successa una cosa per la prima volta: si è proposta una compagnia che poi non è stata scelta, ma è un’operazione inaspettata quanto legittima. E ancora, due anni fa Giustina Testa, ad esempio, ha colto l’occasione dell’invito al Mercurio per esplicitare la propria stima per Gianfranco Berardi che non conosceva personalmente, ma solo artisticamente. Non avevo pensato a questa possibilità, e invece lei è uscita dalla “cerchia”, utilizzando in questo modo la sua occasione.

La curatela nell’ambito teatrale-tersicoreo non è una pratica diffusa e, quindi, ben assodata nel panorama nazionale. Nella cura c’è relazione, responsabilità, condivisione e anche sfida. Dunque, dietro a ogni invito, pensiero e motivazione quali sono gli spazi della riflessione?
Penso che debbano essere gli artisti con le loro scelte a dover essere curati, piuttosto che diretti. Il meccanismo funziona e, può non sembrarlo, ma è più difficile. Mi capita di avere a che fare con artisti che non conosco, nell’ambito della musica ad esempio. Questo mi ha portato a studiare i loro percorsi e i loro progetti e quindi ad approcciarmi a loro con attenzione ed è, chiaramente, un’esperienza che mi arricchisce continuamente e che apre sempre più i confini di Mercurio. La curatela avviene, laddove ogni artista si prenderà l’onere e l’onore di raccontare il motivo di una scelta e noi di tesserne le fila.  Durante le edizioni, tengo molto al fatto che gli artisti colgano lo spirito e la particolarità del festival, che non si sentano solo degli ospiti ma che rimangano coinvolti nell’esperienza. Cerchiamo di metterci in ascolto e di partecipare a una comunità che si riconosce nel ruolo degli artisti e nella loro direzione. Nel concreto avviene che dopo la fine del festival, una volta chiusa la parte amministrativa, tra ottobre e novembre chiediamo un feedback agli artisti che hanno tempo fino a Natale per individuare un artista a cui passare il testimone, a cui fare un regalo. C’è chi ha le idee chiare, chi propone più soggetti. A quel punto ricominciamo contattando gli artisti indicati e lì inizia un dialogo sui progetti in corso, le disponibilità eccetera. Il “nuovo” artista propone, allora, delle opere e lì mi occupo di farmi un’idea della programmazione da presentare. Con l’arrivo della primavera, poi, abbiamo le idee molto chiare.

Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, alcuni dei luoghi del Festival saranno Spazio Franco, Spazio Tre Navate, Arci Tavola Tonda, Spazio Marceau, Averna Spazio Open, NOZ, CreZi Plus e Botteghe

Oltre all’assetto multidisciplinare di base del festival è anche questo passaggio di testimone ad alimentare la multidisciplinarietà. Entrando nei processi creativi ci si accorge che, seppur con diversi linguaggi, il contemporaneo avvicina le arti. Qual è il tuo pensiero al riguardo? Credi siano un ostacolo le differenziazioni imposte a livello ministeriale?
Dal mio punto di vista artistico penso che noi della compagnia Babel siamo multidisciplinari, non usiamo mai solo teatro, solo danza, solo musica. Nel nostro modo di creare c’è sempre uno sguardo trasversale sui vari linguaggi che scegliamo di volta in volta. Il Mercurio, nato dalla nostra natura, non poteva che essere lo stesso. La differenza che trovo rispetto al resto del panorama nazionale è che c’è un grande equivoco: per molti multidisciplinare, soprattutto nelle programmazioni, significa proporre teatro, danza e musica. Nein! Quelle sono più discipline. Multidisciplinare è quello che avviene al Mercurio, dove possono esserci proposte più classiche ma la caratteristica delle creazioni del festival è che sono multidisciplinari al loro interno e, infatti, è spesso difficile definirle. L’istituzione non ha ancora capito questo aspetto, ha assodato che un festival univoco è molto difficile da pensare oggi, ma ancora non ha fatto i conti con il primo aspetto e bisogna invece fare questo scarto per chi si occupa di contemporaneo.

Riguardo, invece la collaborazione con il Goethe Institute di Palermo, il progetto speciale porta il nome Sasha Waltz & Guests. In un territorio in cui la danza contemporanea è presente, ma non abbastanza capillare, coinvolgere i danzatori nostrani nella ricostruzione di In C in versione site specific che significato ha? E che tipo di adesione c’è stata?
All’interno dei Cantieri esistono diverse realtà, tra cui il Goethe Institute che in questi anni ha più volte partecipato al festival anche se mai attivamente. Quest’anno, invece, ha voluto prendere parte per coltivare il filone tedesco che, nell’ambito della danza contemporanea, è rappresentato da Sasha Waltz. Quando l’abbiamo contattata abbiamo subito pensato al format del workshop già sperimentato in passato e mai questa cosa poteva essere più in linea con il percorso attuale della compagnia.  Dal 2021, infatti, la Sasha Waltz & Guests promuove il progetto In C, ovvero la diffusione di numerosi workshop in cui non si lavora su un metodo o un linguaggio ma su una creazione. La loro idea è quella di lavorare sullo stesso materiale coreografico con danzatori di tutto il mondo, creando quindi piccoli ensemble che perché no, in futuro, si possono mettere in contatto. È una forma laboratoriale diversa, continuativa, già sperimentata in Norvegia, Brasile, Taiwan, Israele, Bologna e adesso in Sicilia. In C è una creazione fatta di diverse partiture legate alla musica, che può essere montata e smontata in diverse maniere. Il disegno coreografico è fissato ma modulare, quindi i vari In C non sono mai uguali, come non lo è mai nemmeno la creazione originale della compagnia. Abbiamo ricevuto le candidature di molti giovani e questa cosa mi fa piacere. Mi ha colpito l’età giovanissima, ho apprezzato il coraggio di ventenni che si sono proposti per prendere parte alla proposta. Il che vuol dire che c’è attenzione verso il Mercurio e c’è tanta presenza artistica e giovane nel territorio.

#ogniluogoèunteatro: a Vercelli il festival di Teatro di Dioniso, IRAA Theatre/CuocoloBosetti e ArteinScacco

RENZO FRANCABANDERA | Roberta Bosetti e Renato Cuocolo sono due artisti ormai da anni in pianta stabile in Italia, a Vercelli, ma con un lungo trascorso in Australia, dove hanno dato vita ad un sodalizio umano e artistico che ha dato origine a un codice teatrale originale, fatto di azioni performative in luoghi aperti, case, uffici, di cui la Bosetti è sovente unica interprete.
I loro spettacoli sono fruiti da gruppi di spettatori o anche singoli partecipanti, dotati in diversi casi di una amplificazione sensoriale tecnologica, in grado di aumentare la percezione: cuffie, binocoli a infrarossi e altre piccole diavolerie, per introdurre una sorta di elemento magico che trova naturale commistione con un realismo dato sia dalle drammaturgia che dalle ambientazioni. Dal loro arrivo in Italia hanno poi tessuto relazioni efficaci con altre importanti realtà del teatro indipendente.
È in questa cornice di pensiero che nasce ed arriva quest’anno alla terza edizione #ogniluogoèunteatro, il festival che Teatro di Dioniso (con la direzione artistica di Michela Cescon), IRAA Theatre/CuocoloBosetti e l’altra compagnia vercellese ArteinScacco (Livio Ghisio e Annalisa Canetto) hanno organizzato dall’8 al 21 settembre a Vercelli. L’idea era venuta a margine delle chiusure dei teatri durante il lockdown. Poi si è consolidata con rinnovata forza, portandosi convintamente fuori dagli spazi tradizionalmente deputati alla rappresentazione.
Quest’anno il festival ha ospitato 12 spettacoli ‘messi in scena’ in luoghi che in ossequio al postulato creativo condiviso fra queste realtà sono rigorosamente non teatrali: in un salone di parrucchiere, in un parco, all’interno della Borsa Merci di Vercelli, nei chiostri di un ex chiesa, all’interno della casa vera e propria di CuocoloBosetti, in un locale, in un museo, all’interno di una sala espositiva di una fondazione.

Entrare in questo micro mondo di provincia crea un senso del fare scena assai diverso da quello tradizionale e fornisce peraltro al turista che arriva in città per l’occasione un piccolo approccio sistematico alla realtà territoriale, che viene non solo attraversata ma vissuta per il tramite dell’arte.
Passare qualche giorno immersi nel festival significa, anche per chi quella realtà la vive quotidianamente, osservare la propria società da un altro punto di vista.
In questa prospettiva, le tre realtà che hanno dato vita a questo pregevole sforzo organizzativo, si sono avvalse di compagnie di calibro nazionale, a cui hanno chiesto di portare nella provincia piemontese le loro creazioni, allagando lo spazio abitato, un po’ come si fa con le risaie per far germogliare.
Le compagnie invitate sono state in questa edizione: Il Mulino di Amleto, Frosini/Timpano, Matteo Curatella, Carlo Infante e Gaia Riposati, Massimo Di Leo, Beppe Casales, Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur, Babilonia Teatri, Cuocolo/Bosetti e Carlot-ta, Gianluca Mercadante e la Banda Putiferio, Marotta&Cafiero, Vodisca Scampia Teatro e Andrea Cosentino.

C’è anche un ulteriore elemento che contraddistingue la scelta artistica, ovvero quello di non inseguire le frenesie delle prime, dei debutti, preferendo invece rivitalizzare e e dare ulteriore possibilità di espressione al repertorio, uscendo quindi dalla logica consumistico-produttiva che il legislatore nazionale ha forzatamente indotto negli ultimi anni nel sistema teatrale, trasformandolo in uno spettacolificio che sforna merce (è sovente il caso di utilizzare questo termine, purtroppo) a getto continuo.
Questo festival, delicato e ben pensato, ha proprio un altro approccio.
Unica prima del programma è stata OPERA 3.0/ SOLDI di CuocoloBosetti insieme alla musicista e performer Carlot-ta: è lei che funge da alterità dialogica sonora alla partitura testuale, scavata dentro il classico di Bertolt Brecht L’opera da tre soldi, di cui viene ricavata una versione agile, a tratti fiabesca per il modo in cui viene offerta allo spettatore.
È la prima volta che i Cuocoli mettono in scena un ‘classico’: il regista dice che il tutto è nato quasi come un divertissement. Eppure la creazione ha le caratteristiche di un piccolo ma pregevole adattamento del celebre testo del grande drammaturgo tedesco che mantiene sia lo stretto rapporto con la musica che Brecht e Weill vollero, sia il velato ma continuo gioco brechtiano a rompere la quarta parete, a giocare al dentro e fuori la vicenda, pratica a cui IRAA si dedica da anni.
L’ambientazione cittadina prescelta è quella dell’atrio interno della Borsa Merci del capoluogo di provincia, un edificio di stile razionalista dalla imponente architettura dove tutte le settimane, al martedi e venerdi, viene definito il prezzo delle varie qualità di riso, vero tesoro della zona. Nel grande salone dalla volta prossima ai 10 m di altezza, cosa che se per un verso non facilita un’acustica perfetta, per altro dona alla creazione una algida immanenza sacrale, arrivano le vicende del furfante Macheath (Mackie Messer, o Mack the Knife) che sposa Polly Peachum, figlia dell’uomo che gestisce il racket dei mendicanti e che, avendo preso male il matrimonio, vuol far fuori lo sposo.
Le due donne sono vestite di nero, lo spazio dell’azione scenica è delimitato per tre quarti dalle sedie degli spettatori che hanno alla sinistra il pianoforte e la postazione sonora della musicista, e sulla destra un leggio, quasi che si tratti di un reading; una sedia è l’unica ulteriore dotazione, in questa versione iniziale, per la Bosetti, che inizia proprio andando al leggio, quasi a voler principiare un racconto.

Alla sua abilità interpretativa e vocale viene affidato il compito di dare corpo e voce a otto dei personaggi che Brecht volle in questa celebre drammaturgia che come noto in Italia ha conosciuto particolare e grandissimo successo anche grazie a Giorgio Strehler, che ne fece uno degli spettacoli simbolo del Piccolo Teatro di Milano negli anni d’oro.
Nell’ora e 15 minuti di recita, al centro di tutto c’è solo il teatro, perché anche la icastica componente sonora di Carlot-ta, coerentemente con l’originale, ha una sua densità che si fa drammaturgia, fatta di gesti, suoni e rumori che accompagnano e intervallano la precisa scansione del testo.
L’operazione di adattamento ha una sua fedeltà composta di amorevoli tradimenti, in grado di creare un’atmosfera specifica, di favolistica drammaticità dentro uno spazio ora algido ora intimo, fruito dagli spettatori all’imbrunire, così che lo spettacolo nasce con la luce naturale e si chiude con la luce artificiale delle lampade della Sala Merci. Arriverà la grazia per il malvivente condannato all’impiccagione in questo riadattamento?
Il risultato finale è apprezzabile e ha il potenziale per essere proposto non solo in spazi non convenzionali ma anche nella programmazione teatrale in sala.
Nel pomeriggio di domenica, invece, in un piccolo salone da parrucchiere, insieme a una decina di altri spettatori, abbiamo assistito e ad una creazione in forma di narrazione cabaret, proposta da Gianluca Mercadante e la Banda Putiferio.
L’ambientazione non è casuale perché il testo offerto agli spettatori da Mercadante ha come protagonista proprio un parrucchiere che, con la sua attività chiusa ai clienti dai celebri decreti Conte, deve attraversare i duri mesi del COVID.

Lo spettacolo è una parodia del clima dei divieti e delle chiusure, della nevrosi sociale e personale che fiorí in quei mesi per un verso drammatici per altro tragicomici. È proprio su questa cifra che insiste il narr-attore che anche in questo caso intervalla la sua recita con la proposta musicale della piccola banda, di chiara ispirazione cabarettistico-popolare, ma che non disdegna il cantautorato impegnato, con cover che riportano filologicamente a Gaber e al suo Lo Shampoo, ma anche a una esilarante versione in dialetto di Psycho Killer, il grandissimo successo dei Talking Heads, riadattato in chiave umoristica: un tradimento, ma anche in questo caso fedele.
Da questa considerazione, forse è possibile desumere che esistono moltissimi modi di declinare la fedeltà, e che la libertà di pensiero resta un motore straordinario per riuscire a innovare, anche utilizzando il classico, o a rinverdire la tradizione e il codice popolare con la nuova drammaturgia. Farlo poi in una provincia dove prima d’ora non si è mai esplorata la strada del festival teatrale ha un che di pionieristico e affascinante.
La rassegna vale, ha visto partecipe la città, con le sue intelligenze: artisti, docenti e drammaturghi del territorio, impegnati a dare vita in modo tumultuoso all’opportunità di gettare un seme e farlo davvero germogliare: vale la pena tenerla d’occhio.

Le Alleanze dei corpi: i racconti di Cosimi, Benassi e Milani sui corpi e sullo spazio

CHIARA AMATO | La Fabbrica del Vapore ha aperto i propri spazi alla nuova edizione del festival Le Alleanze dei Corpi, che svoltasi dal 14 settembre al 18 ottobre.
La programmazione quest’anno si moltiplica in una pluralità di formati e di pari passo  le location scelte (Parco Trotter, Boscoincitta, Parco Lambro, Kinlab, Cascina Biblioteca).
Occupandosi della relazione tra corpi e spazio pubblico, due sono le principali linee di riflessione, l’Extrabodies e lo Spazio Comune: si parla di corpi che eccedono, che sono fuori dalla “norma”; e il loro rapporto nello spazio, sempre in costruzione, della comunità. 
Le Alleanze dei corpi come pretesto e contesto di ideazione e interrogazione sul presente, sull’importanza che il tema della corporeità ha nella nostra società, in modalità differenti.

La giornata del 16 si è aperta con l’installazione performativa di Enzo Cosimi intitolata OFF label, che trae spunto dallo spettacolo I love my sister, terzo capitolo della trilogia Ode alla bellezza, tre creazioni sulla diversità. Cosimi, nella sua carriera di coreografo ha firmato coreografie rappresentate nei maggiori Teatri italiani e stranieri e per questa performance l’artista scelto in scena è Egon Botteghi, accompagnato dai video di Stefano Galanti. Pochi oggetti (una parrucca, dei trucchi, un microfono e due monitor) in una scena piccola: sembra uno spazio in cui il corpo dell’artista è rilegato in solitudine. Si accenna, con una voce fuoricampo, che stiamo assistendo ad una storia di transizione di genere. Forte il senso di tristezza e di difficoltà di questo corpo che cerca una nuova vita: non esistono parole ma solo arie di opera che Botteghi canticchia, ballando/barcollando nel suo quadrato ristretto di movimento.

Segue la stessa sera, Jacopo Benassi e Lady Maru che presentano Brutal Casual Magazine, il progetto live del fotografo e della dj e producer post punk. Il duo, attivo dal 2020, si scatena in un’ora di live set con influenze ebm, industrial, synthpunk e noise, dove gli strumenti musicali vengono battuti, logorati, distrutti. Durante l’esibizione i suoni sono accompagnati da una forte presenza di maschere di cartone, angoscianti e cupe, e dalla fotografia: in tempo reale infatti, molti spettatori vengono forniti di macchine fotografiche per documentare in maniera casuale. Il pubblico è coinvolto in piedi intorno agli artisti creando uno spazio intimo di condivisione collettiva: si ha l’impressione di assistere ad un rito tribale, e la foga della creazione ammalia fino alla conclusione.

Il 17 settembre invece la Fabbrica ospita il nuovo lavoro di Jacopo Miliani, Flowerflexion, incentrato sugli stereotipi collegati alla figura del corpo umano dei BodyBuilder. Il fenomeno aveva attratto una forte attenzione negli anni ‘80 e ‘90, sia nel dibattito sociale sia in diversi autori.
In uno spazio scenico bianco, un atleta ci accoglie in fase di riscaldamento dei muscoli, mentre al centro troneggia un vaso di crisantemi, presagio di morte e di fine. L’artista durante la performance svolge in maniera rapida, impeccabile e maniacale un allenamento durissimo, quasi tutto dandoci le spalle. Ammira la sua ombra riflessa sul muro, grazie ad un gioco di luci del faretto posto in basso e quello centrale in alto: si specchia innamorato e disperato nella sua immagine. Questa corsa forsennata ha una prima battuta di sosta quando pone lo spettatore davanti a delle sagome geometriche specchiate, in cui il suo volto si incupisce, si fa denso di tensione. Successivamente il crollo definitivo, mentre la voce di Whitney Huston continua a cantare It’s Not Right But It’s Okay, e il corpo che rinuncia a continuare a tendersi per stare li, a riposo, a cantare, libero da quella ossessione della perfezione atletica.
Le tre creazioni, molto diverse per approccio al tema e per le intenzioni artistiche messe in campo, restano oltretutto accomunate dalla mancanza della parola in scena: si odono versi, rare voci fuori campo, ma davanti all’occhio attento dello spettatore parlano i movimenti, il sudore, la costruzione/distruzione degli spazi.

 

 

La Fabbrica del Vapore, 16 e 17 settembre, Milano

Istantanee da Hystrio Festival nr. 2: una panchina salva il mondo dalla deriva

ELENA SCOLARI La panchina è un oggetto perfetto per creare una situazione teatrale: un personaggio si siede, un secondo si siede accanto, entrambi guardano avanti, verso la platea; sono generalmente in un parco, magari uno legge il giornale, l’altro estrae il lavoro a maglia dalla borsa. Cercano un modo per far passare il tempo, osservano gli altri passare e andare verso mete ignote mentre loro hanno sospeso per un po’ il loro moto.
La panchina è un invito alla conversazione, al contatto: si attacca bottone, su una panchina; ci si innamora e ci si lascia. Spesso a Central Park. Si parla, dalle sciocchezze alle notizie di attualità, dal clima alle confidenze/confessioni fino – talvolta – a riflessioni profonde, giacché non guardarsi in faccia e guardare invece avanti, verso l’orizzonte, facilita il pensiero e il distacco.
Su una panchina, soprattutto –
 e in teatro specialmente – si aspetta.


L’attesa per eccellenza è quella di Vladimiro ed Estragone ma aspettano e osservano passare la loro vita anche i personaggi del Gabbiano di Čecov mentre guardano il lago, così come i giocatori in panchina aspettano di entrare in campo e i passeggeri di un autobus attendono di salirci sopra. La panchina è attesa. Mentre lei sta lì, ferma, accoglie il tempo degli altri, non avendo una misura del proprio, se non per una doga che si imbarca o un bullone che si arrugginisce per la tanta pioggia sopportata.
Nella sala Bausch del Teatro Elfo Puccini, nella penultima serata di Hystrio FestivalNicola Lorusso e Giulio Macrì aspettano il loro destino su una panchina bianca. Memorispettacolo vincitore del Bando CURA, Indòmati Fest e Radici Festival 2022 vede due uomini vestiti di nero, giacca maglietta pantaloni e scarpe (ah, le scarpe in scena! Che bellezza), con la faccia bianca di biacca e piccoli segni neri clowneschi, una simil lacrima qui, un sopracciglio accentuato là.
I due personaggi – senza nome, va da sé – cercano (senza riuscirci, anche questo va da sé) di ricordare cosa sia successo, perché si trovano lì, su quella panchina? Niente da fare, affiorano brandelli di memoria, qualche immagine che poi si interrompe, uno dei due sembra vagamente più presente dell’altro ma no, chi li ha portati lì non si sa. “E come ne usciamo? Quando ne usciamo? Perché se siamo entrati ci deve essere anche una via di uscita”.
Già.



Ma la via d’uscita è tutta nella testa di queste due creature, di questi due attori che non hanno che l’altro per sentirsi vivi, ognuno esiste per contrappunto. Entrambi si possono solo aggrappare all’altro, in balletti assurdi e perfetti oppure in ragionamenti altrettanto farlocchi sul progettare di impiccarsi, sì perché dicono che sia il metodo migliore per farselo venir duro (citazione esplicita di Aspettando Godot). Peccato che poi si sia morti ma, data la situazione, chi se ne importa!
La sintonia e la precisione di tempi di Lorusso e Macrì sono sorprendenti, come si vede raramente. Una geometria di pesi e contrappesi dati dal ritmo di una sillaba che improvvisamente esplode in un ballo da cabaret berlinese, un avanspettacolo dell’assurdo, rapinoso quanto angosciante. Due attori e due uomini che lottano con l’assurdità dell’esistenza in scena e sul palcoscenico della vita, in omaggio al grande padre Samuel Beckett ma con cifra personale ben calibrata ed espressa particolarmente tramite il dialogo fisico tra le due figure e il continuo rapporto di causa-effetto nei tempi recitativi. Una memoria che c’è e non c’è, un presente che si ripete in tondo, in un cerchio di relazione.

In chiusura di serata abbiamo poi assistito alla lettura scenica, a cura di Associazione Situazione Drammatica/Progetto Il Copione (format ideato da Tindaro Granata) di Dittico della deriva di Niccolò Matcovich. Composto di due quadri speculari e complementari: “O mi ami o ti odio – LUI” e “O ti amo o mi odi – LEI”, il testo è scritto in versi (o meglio frasi brevi spezzettate con gli a capo) numerati, i due monologhi hanno infatti una corrispondenza matematica e tematica tra le battute di Lei e di Lui. Possono essere letti uno di seguito all’altro oppure essere intrecciati costruendo una struttura plasmabile nelle mani dell’eventuale regista. 


Granata ha scelto di far leggere il testo mantenendo la separazione dei due blocchi da quattro attori (Michele Di Giacomo, Francesca Porrini, Gabriele Brunelli, Emilia Tiburzi) mescolando però i generi maschile e femminile e appartenenza delle battute, creando un piano ulteriore che ha reso la comprensione del tutto un poco difficoltosa. Il pezzo gira intorno a una gita in barca durante la quale si consuma un atto di natura sessuale tra lo skipper e Lei; il fatto è raccontato secondo lenti differenti dai due personaggi, un banale tradimento per Lui, una violenza per Lei. Non sapremo se la ricostruzione sia reale oppure frutto di una proiezione nei ricordi forse distorti di entrambi, ma non è questo il punto. Il punto non è chiarissimo, in effetti, anche perché il drammaturgo stesso inscrive questa storia torbida, sgradevole, narrata senza quasi interazione tra le due figure, in una scatola formale pretenziosa che rischia di far prevalere la cornice a discapito dei contenuti. È la natura dei fatti, l’opposizione distonica di coppia che si vuole far emergere oppure il gioco drammaturgico di un meccano fatto di regoli da incastrare? Se un/una regista deciderà di mettere in scena questo Dittico (“un vomito poetico”, secondo Matcovich) vedremo quale strada percorrerà.
La sezione Situazione Drammatica nell’ambito di Hystrio festival è comunque un interessante modo di presentare nuovi testi e di indagare quali siano temi e linguaggi affrontati e sperimentati da drammaturghi under 35, per chi è curioso un’occasione di scoperta preziosa.

MEMORI
di e con Nicola Lorusso e Giulio Macrì
spettacolo vincitore del Bando CURA, Indòmati Fest e Radici Festival 2022

DITTICO DELLA DERIVA
di Niccolò Matcovich
lettura scenica a cura di Associazione Situazione Drammatica/Progetto Il copione
con Michele Di Giacomo, Francesca Porrini, Gabriele Brunelli, Emilia Tiburzi

Hystrio festival 2023, Teatro Elfo Puccini, Milano | 16 settembre 2023