fbpx
mercoledì, Aprile 24, 2024
Home Blog Page 2

Una certa idea di Scaldati: Indovina Ventura tra passato e contemporaneità

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

RITA CIRRINCIONE | Nato nell’ambito del programma dedicato al decennale della scomparsa di Franco Scaldati come progetto laboratoriale con la finalità di esplorarne in chiave contemporanea le potenzialità drammaturgiche e musicali, Indovina Ventura, uno dei testi più importanti del drammaturgo palermitano, è stato riproposto recentemente allo Spazio Franco per Scena Nostra ’24 nella riscrittura che ne è scaturita e che ha visto in scena 24 performer selezionati tra gli oltre 40 partecipanti al laboratorio.

Nell’articolo su Dicembre Scaldati – il primo di un mio “involontario” trittico dedicato al poeta-sarto – oltre a scrivere di questo testo-scrigno rappresentato per la prima volta nel 1983, avevo introdotto l’originale lavoro di studio e di ricerca condotto dai registi Massa, Ortolani, Provinzano e dai musicisti Ganci, Mangiaracina, Sicurella, riservandomi di scriverne più specificatamente in questa occasione.
Seppur contraddistinti da un linguaggio scenico contemporaneo e da inedite soluzioni drammaturgiche, i tre episodi indipendenti l’uno dall’altro in cui è articolata questa performance multiforme, portano tutti il segno dell’inconfondibile sigillo scaldatiano ora nelle presenze reali o immaginarie di fantasmi, santi e angeli che si mescolano in una comunità di vivi e di morti; ora nei nomi dal suono antico che riecheggiano qua e là – Siroru, Gelsomina, Opalina  – che solo lui poteva inventare; ora nei riferimenti alla fame e alle distruzioni causate dalla guerra o nel grido Indovina ventura! declinato in tutte le sue sfumature a esprimere la disperazione, la speranza e il senso di mistero e di imponderabilità dell’esistenza umana.

…passat’a porta Siemu un Filu i Fumu… Regia di Margherita Ortolani – Musica di Angelo Sicurella – ph. Alessandra Leone

Indovina ventura! Indovina ventura! Indovina ventura! L’invocazione con cui  si apre la prima pièce – …passat’a porta Siemu un Filu i Fumu… con la  regia di Margherita Ortolani e la musica di Angelo Sicurella – è un grido lacerante che squarcia l’aria e che sembra stridere con il personaggio al centro della scena: una figura femminile angelicata con tanto di ali, coroncina e tunica virginale che, cedendo alla richiesta di un adorante corteggiatore, evolve in sposa con velo e bouquet di fiori.
A far da sfondo al quadretto romantico, una schiera di donne in atteggiamento sfrontatamente seduttivo disposta in fondo alla scena. Ben presto, in un crescendo di sopraffazioni, l’idillio tra la coppia degenera in vera e propria violenza da parte della figura maschile e la giovane sposa luminosa cade a terra straziata dalle urla:
Tocca, u me corpu tocca, tocca, tocca/ Tocca, u me corpu tocca, tocca, tocca/ Tocca, u me corpu tocca, tocca, tocca/Senza i to manu u corpu miu unn’ esisti.
Il mantra reiterato dalla schiera di donne che avanzano sulla scena sembra implorare il contatto con l’altro, in un bisogno di alterità senza la quale l’Io-corpo non esiste, ma alla fine il loro resta solo un richiamo inascoltato, disperato e sterile.

La città è crollata! La nostra terra sparisce! Tolta la benda che per l’intera durata della performance Ortolani (testimone prima, Tiresia profeta di sventure, dopo) in un angolo della scena ha tenuto sugli occhi, fa risuonare il suo urlo. L’immagine dolorosa della donna, reificata e amputata trova un’altra eco che sembra propagare la sofferenza della condizione femminile (e in ultima analisi umana) nella dimensione più ampia di una terra devastata da una logica maschile di sopraffazione, di guerra e di morte.

Va’ Va’ luci di Giuseppe Provinzano – Musiche di Serena Ganci – ph. Alessandra Leone

Se Margherita Ortolani, regista e attrice, mette in luce la parte oscura di un mondo patriarcale a cui Scaldati in qualche modo apparteneva (fondamentale l’ausilio della voce e dei suoni di Angelo Sicurella), l’altro apporto femminile del progetto – quello musicale di Serena Ganci nella seconda pièce Va’ Va’ luci, con la regia di Giuseppe Provinzano – prende una direzione più leggera e giocosa già a partire dal titolo che, separando in sillabe il termine siciliano di lumache, vavaluci,  diventa un poetico Va’ va’ luci!
L’episodio, una sorta di musical nostrano, inizialmente racconta quasi come un mito fondativo la storia di una comunità di uomini-lumache in una remota età dell’oro quando vivevano lenti, spensierati e bavosi a contatto con la terra: quannu l’omini strisciavanu eranu lenti, erano vavusi e li chiamavano vavaluci, per virare poi sulla cronaca di una scampagnata domenicale a Monte Pellegrino tanto cara ai palermitani: Acchianamu acchianamu c’u pitittu e a stanchizza acchianamu, acchianamu.

Per raccontare l’epica acchianata (salita) di questa colorita famiglia allargata di vavaluci, la coppia Provinzano/Ganci attinge alla componente più popolare della drammaturgia scaldatiana dove non mancano i risvolti comici come il continuo sfottò sulle loro antenne cornute o l’insistenza ossessiva sul cibo da procacciare, retaggio di una fame atavica. L’avanzata in schiera orizzontale di questa singolare brigata che procede a passo di lumaca, nell’alternarsi dei giorni e delle notti – e agghiurnava e scurava! – sembra la rappresentazione di una umanità imperfetta con i propri tic e le proprie paure, in cui ogni tanto qualcuno cade e poi si rialza, sotto lo sguardo benevolo di Serena Ganci nelle vesti dorate di Santa Rosalia.

Si l’àncili cantàssiru cà luci e no cà vuci – Regia di Giuseppe Massa – Musiche di Dario Mangiaracina

Si l’àncili cantàssiru cà luci e no cà vuci con la regia di Giuseppe Massa e le musiche di Dario Mangiaracina, rappresenta forse il più ardito esperimento di attualizzazione  di Indovina Ventura con una band di musicisti dal vivo – in schiera diagonale con gli attori, tutti in total black –  che riprende in chiave punk frammenti di testi scaldatiani come le classiche abbanniate dei mercati palermitani e i coloriti epiteti in uso in certi ambienti popolari o l’alternarsi del giorno e della notte, del buio e della luce – È notti ancora e canta l’usignolu… L’allòdola canta e annuncia ‘a fini da notti… s’un minni vaju moru –  come nel poetico brano L’usignolo di ispirazione shakespeariana.

Dopo un prologo scandito da una “punteggiatura” martellante che aggiunge pathos a un testo in cui ritornano gli angosciosi ricordi della miseria, della fame, dei pidocchi in tempo di guerra, entra in scena con la sua bici sgangherata, come arrivando da un altro tempo, Indovina VenturaGiuseppe La Licata un po’ barbone, un po’ veggente  – che, accolto dalle risate e dagli sghignazzi del gruppo di ragazzi impegnato nel rito dell’aperitivo, prova invano ad annunciare le sue predizioni.
Quando avvolti dal buio si abbandonano nudi a un disperato erotico amplesso collettivo, sembrano la rappresentazione vivente  di una generazione dominata dalle “passioni tristi” in attesa che giunga l’apocalisse in una oscurità rischiarata dai palloncini illuminati che Indovina Ventura distribuisce a ciascuno di loro e che dopo un po’, uno dopo l’altro, si spengono.

 

INDOVINA VENTURA
performance multiformi

…passat’a porta Siemu un Filu i Fumu…
regia di Margherita Ortolani
musiche di Angelo Sicurella
con Tea Bruno, Angelica Di Pace, Alessandra Falanga, Chiara Gambino, Dario Muratore, Joy Smith

Va’ va’ luci
regia di Giuseppe Provinzano
musiche di Serena Ganci
con Julia Jedlikowska, Giancarlo Latìna,  Daniela Macaluso, Oriana Martucci, Alessia Quattrocchi, Luigi Maria Rausa, Riccardo Rizzo, Esdra Sciortino Nobile

Si l’àncili cantàssiru cà luci e no cà vuci
regia di Giuseppe Massa
musiche di Dario Mangiaracina
con Ibrahima Deme, Paolo Di Piazza, Giuseppe La Licata, Sofia Lalicata, Valeria Sara Lo Bue, Simona Sciarabba, Nancy Trabona
e con Roberto Calabrese e Carmelo Drag

Palermo, Spazio Franco
22 marzo 2024

Arlecchino? Baliani, attento traditore del più classico dei testi di Goldoni

RENZO FRANCABANDERA | Per il teatro italiano contemporaneo Il servitore di due padroni è il confronto con due figure mitiche: quella di Goldoni ma anche quella di Strehler, che ha trasformato l’opera del maestro della Commedia dell’arte in un’icona della scena italiana nel secolo scorso, andare a metterci mano è sempre un gioco d’azzardo.
All’apertura del sipario ci troviamo dentro un altro teatro, con un altro palcoscenico delimitato da tendaggi che sembrano quasi pezzi di biancheria stesi al sole ad asciugare.
Gi attori sono i membri di una compagnia che sta per portare in scena uno spettacolo con premesse assai malferme: interpreti che mancano, situazione scenografica caotica e l’impresario che impreca cercando di gestire alla meno peggio il verosimile fallimento.
Gli attori in scena fingono di accorgersi solo allora di trovarsi già il pubblico davanti, guardando noi spettatori, la sala piena; in questo rapporto con l’equivoco sottile fra finto e falso prende le mosse la riscrittura goldoniana che Marco Baliani ha portato in scena con successo in questo scorcio di stagione in una produzione de Gli Ipocriti Melina Balsamo in coproduzione con lo Stabile del Veneto, che ha permesso alla creazione diverse date, molte delle quali andate sold out.
Sicuramente c’è un ritorno di interesse per il codice della Commedia dell’arte e per una sua riattualizzazione. Questo testo (perché il regista ha anche lavorato a una riscrittura) è un tentativo, invero equilibrato e riuscito, di portare i canovacci e le prime schematizzazioni del teatro contemporaneo di cui Goldoni fu artefice alla freschezza di battute e alla satira sociale dell’arco tempo presente.

foto Serena Pea

A farsi interprete del lavoro in scena è un gruppo di attori che mescola gioventù ed esperienza (Marco Artusi, Federica Girardello, Miguel Gobbo Diaz, Margherita Mannino, Valerio Mazzucato, Andrea Pennacchi e Anna Tringali) con un affiatamento di squadra che, complice una regia equilibrata e attenta ai tempi scenici, permette alle figure naturali di esprimersi senza primadonnismi, in una orizzontalità che mira, a nostro parere giustamente, a esaltare il collettivo.
Ovvio che poi il pensiero e l’attenzione vadano alla figura di Arlecchino, enfaticamente evocata già dal titolo dello spettacolo e che ricordiamo è diventato tale non per volontà di Goldoni – che aveva battezzato il suo personaggio Truffaldino – ma per la furbizia di Giorgio Strehler, che dovendo proporre un allestimento che avesse un respiro internazionale immaginò come più accattivante l’intitolazione del ruolo di servitore di due padroni ad Arlecchino.
Il paragone con quell’allestimento, che resta capitale per la memoria della scena italiana degli ultimi 100 anni, grazie anche alla indimenticabile interpretazione di Ferruccio Soleri, è in un certo qual modo ineludibile. E se la scenografia, con l’idea del teatro nel teatro, un po’ evoca il grande allestimento storico del Piccolo Teatro di Milano ma con un canone di povertà di mezzi voluto e scherzosamente irridente in Baliani, il confronto sul tema della maschera protagonista gioca proprio alla smitizzazione.
Questo Arlecchino di Andrea Pennacchi, con il costume dai colori nemmeno tanto accesi se confrontati con quelli di piena vividezza degli altri personaggi in scena (scene e costumi sono di Carlo Sala) è imbolsito, «gonfio», come dice lui stesso, per quella alimentazione da artista di giro, costretto a mangiare economiche pizze a tarda sera nei pochi punti di ristoro che restano aperti per chi va in scena cambiando città dopo città.

foto Serena Pea

Pennacchi, che ha il cruciale merito di fare senza strafare e senza volersi prendere la scena, incorpora una maschera segnata dal passare del tempo, ben lontana da quella tutta frizzi lazzi e capriole cui per decenni ha dato corpo Soleri nel mondo. Questa maschera è soverchiata dal peso degli anni, quasi dal peso di un teatro che l’ha consumata. Il recitato si fa quindi umanamente espressionista e lo avvicina allo spettatore, scegliendo una parlata dialettale ma comprensibile, un veneto “internescional”, ma che gioca anche con i temi della società multiculturale. La trama resta quella ma l’occhio scivola all’oggi, senza che però la cosa cambi la sostanza. In questo gioco bene riesce nel complesso tutta la squadra di attori, impegnati in una recita dai tempi scenici intensi.
Resta grande, comunque, nel movimento, preciso e curato, lo sguardo rivolto all’antica tecnica della Commedia dell’arte, con i corpi snodati, il busto in avanti, le innaturalezze che anticipavano quasi la lezione della biomeccanica.
È presente anche una sezione musicale che agisce dal vivo, visibile allo spettatore e posta alla sinistra del palco del teatro posticcio su cui prende vita la vicenda, un duo chitarra e batteria (Giorgio Gobbo, Riccardo Nicolin), con il chitarrista a fare anche da voce: è una musica contemporanea, dai ritmi rock, che muove le danze in scena, ma che non disturba perché dialoga con la satira verso il tempo presente che di tanto in tanto fa capolino, ma in modo equilibrato nella sostanza.

foto Serena Pea

L’esperimento è curato, sta nella giustezza dell’accessibile, cerca e trova un’onestà senza intellettualismi. Lo spettacolo si nutre di sé stesso, gioca e si prende gioco della tradizione in modo sincero senza lasciare nulla al caso, ma, al contempo, permettendo all’eredità secolare di tornare in una dimensione accessibile ma non oleografica.

Di recente, sfogliando talune traduzioni disponibili del Don Chisciotte, al di là della prosa volutamente e ironicamente aulica di Cervantes, riflettevo su come i traduttori che si sono accinti a restituire in italiano l’opera si siano spesso messi quasi davanti all’autore stesso, sforzandosi di ricercare una parola così poetica, a volte anche forzatamente, da rendere il testo a conti fatti illeggibile da un lettore contemporaneo.
Qui la cura artigianale della versione di Baliani, che comunque resta su Goldoni, sui suoi tempi e sulle sue invenzioni, sta proprio nel porgere l’opera nel rispetto prioritario dei due elementi che a teatro la compongono, ovvero chi la realizza e chi ne deve fruire.
Il traduttore/drammaturgo/regista, come mediatore, in casi come questi in cui si sceglie di restare aderenti a una generale fedeltà d’impianto, ha dunque, forse, il dovere morale di esserci, ma senza la velleità di apparire.
In questa operazione di adattamento del Servitore di due padroni per l’oggi,  pare di poter dire che Baliani sul punto specifico riesca. Lo testimonia il riscontro di pubblico che ha riempito le sale da Padova, a Roma, a Firenze fino ad Ancona al Teatro delle Muse dove abbiamo visto una delle ultime repliche prima della chiusura della tournée 2024, ospitato nell’ambito della stagione di Marche Teatro. Alla domanda proposta dal punto interrogativo presente nel titolo Arlecchino? la risposta che viene da dare è “Sì”.


ARLECCHINO?

scritto e diretto da Marco Baliani
con Marco Artusi, Federica Girardello, Miguel Gobbo Diaz, Margherita Mannino, Valerio Mazzucato, Anna Tringali
musiche eseguite dal vivo da Giorgio Gobbo, Riccardo Nicolin
scene e costumi Carlo Sala
luci Luca Barbati
aiuto regista Maria Celeste Carbone
Produzione Gli Ipocriti Melina Balsamo in coproduzione con TSV – Teatro Nazionale

Teatro delle Muse, Ancona | 6 aprile 2024

PAC LAB* L’Avversario di Carrère in libertà tra le mura del Teatro Gerolamo

GIORGIA VALERI* | Nello sfarzo della sala all’italiana del Teatro Gerolamo, si consuma nella penombra blu il processo alle intenzioni, o a una qualsivoglia coscienza, di Jean-Claude Romand. L’Avversario di Emanuele Carrère è il grande assente della messinscena: Mattia Fabris e Arianna Scommegna, rigorosamente in nero e dietro due leggii, ne declamano la vita attraverso le parole dello scrittore e sceneggiatore francese. La raccontano al pubblico, che dalla platea e dagli spalti pone silenziosamente domande cui prontamente gli attori prestano voce. «Come non ce ne siamo mai accorti?» è il leitmotiv dell’intero reading, che Fabris e Scommegna conducono concitati, leggendo e interpretando, entrando e uscendo dai ruoli di parenti, amici, conoscenti, da Romand stesso.

ph. Chiara Scordamaglia

La narrazione degli eventi si srotola lenta: Fabris e Scommegna tessono una tela tenendo i due capi di un bandolo intricato, prestando attento orecchio alle parole del testo di Carrère. Commentano con il corpo, la gestualità, lo sguardo, la quotidianità dell’adolescente in erba, ancora lontano dal personaggio che sconvolgerà la cronaca mondiale a fine anni Novanta. Jean-Claude Romand era infatti un uomo che «non lasciava intendere il male»: figlio di una qualunque famiglia borghese, condusse un’infanzia dedita al nascondimento delle emozioni e alla preservazione delle apparenze. Un solo e unico insegnamento: non dire bugie. Ed effettivamente Jean-Claude di bugie non ne disse mai, almeno fino alla fine del secondo anno di medicina, quando per comodità raccontò di aver sostenuto degli esami per accedere al terzo anno. Da quella bugia, diciotto anni di vita inventata. Dalla carriera come medico e come ricercatore dell’OMS a Ginevra, alle conferenze, le riunioni di lavoro, lo stipendio. Finché le menzogne non reggono più, i soldi finiscono, l’impalcatura fatiscente cede alle sferzate del tempo: non potendo sopportare il peso della delusione negli occhi dei suoi cari, Romand decide di uccidere genitori, moglie, figli e persino l’amante in un raptus omicida, tentando infine il suicidio. Dal 2019, dopo 26 anni in massima sicurezza, è in libertà vigilata.

Fabris e Scommegna leggono il testo attoniti, si fermano ogni tanto, si guardano perplessi come farebbe chiunque, in cerca di storie dark crime, capiti per la prima volta sul trafiletto Wikipedia che racconta la vicenda. Si incontrano tra i due amboni: Fabris entra in Romand e Scommegna nella moglie, si cercano con le mani, senza mai toccarsi. L’amore è tangibile, non c’è traccia di menzogna tra i due. Il riff della chitarra di Massimo Betti scandisce il ritmo delle loro parole: non produce melodia, racconta con la frase musicale l’assurdità di un’esistenza non vissuta, riempie il vuoto che lasciano le parole.
I tre interpreti hanno una coordinazione magnetica: tra musica, voce e narrazione non c’è confine, è una partitura di più strumenti il cui direttore d’orchestra è Romand stesso. Sembra di assistere a una partita di tennis dove la pallina viene raccolta da una racchetta e accolta dall’altro lato del campo con una morbidezza naturale, finché non viene stoppata al volo, tra le mani: Fabris e Scommegna, alternatamente, prendono l’intera scena. Il controluce blu si fa intenso, asettico, sottolinea la drammaticità della declamazione, i due interpreti escono dai personaggi che raccontano per rientrare nell’universalità della vicenda: guardano il pubblico, si soffermano su ciascuno spettatore, chiedendo di compartecipare a un dolore ancestrale, all’empatia verso una condizione che potrebbe appartenere a chiunque ma che non viene scelta da nessuno. 

ph. Chiara Scordamaglia

L’inginocchiatoio che è anteposto ai leggi, rivolto verso il palcoscenico, diventa quindi sede di una confessione intima, il banco del tribunale sul quale lo stesso Romand si è seduto per rimettersi davanti a se stesso e al mondo intero. Davanti all’”avversario”, Satana, come l’aveva inteso Carrère. Sulle ultime, stringatissime note di chitarra, Fabris e Scommegna si siedono sul ciglio del palcoscenico, per godersi il silenzio chiamato dalla morte. Fabris tira quindi fuori una candela dall’inginocchiatoio, versa la cera su una lastra di ferro e ci riappoggia la candela sopra. Giunte le mani, i due soffiano sul mozzicone di cera: 

Per i credenti l’ora della morte è l’ora in cui si vede Dio, non più in modo oscuro, come dentro uno specchio, ma faccia a faccia. Perfino i non credenti credono in qualcosa di simile: che nel momento del trapasso si veda scorrere in un lampo la pellicola della propria vita, finalmente intelligibile. Per i vecchi Romand, questa visione, anziché rappresentare il pieno coronamento, aveva segnato il trionfo della menzogna e del male. Avrebbero dovuto vedere Dio e al suo posto avevano visto, sotto le sembianze dell’amato figlio, colui che la Bibbia chiama Satana: l’Avversario.

 

L’AVVERSARIO

dal romanzo di Emanuel Carrère
con Mattia Fabris, Arianna Scommegna
alla chitarra Massimo Betti
produzione ATIR

Teatro Gerolamo, Milano | 06 aprile 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

PAC LAB | Alla continua ricerca del ricordo. Intervista a Rosario Palazzolo

CHIARA AMATO* | Dopo molti anni dal suo debutto, torna a Milano, sul palco del Teatro della Contraddizione, lo spettacolo ‘A Cirimonia, drammaturgia di Rosario Palazzolo.
In scena due personaggi indefiniti, ‘U masculu (interpretato inizialmente da Palazzolo stesso) e ‘A fimmina (Anton Giulio Pandolfo), sono immersi in un u-topos senza tempo: in mutande rovistano in una pila di abiti abbandonati, quegli stessi abiti da indossare per rivivere la cerimonia per l’appunto, che avviene uguale tutti gli anni lo stesso giorno. ‘Ma quale è questa cirimonia?’ Ossessivamente i protagonisti si domandano e si sforzano, attraverso il gioco ‘u Mi ricordu, di giungere a verità: chi siamo, cosa festeggiamo, perché dovremmo essere festosi? I loro volti coperti di cerone e logorati dalla stanchezza della vita, ricordano due vecchi clown che cercano un tempo che non esiste più (richiamano alla memoria i felliniani Ginger e Fred), ripetendo convulsamente un rituale nel rituale, che però è senza uscita.
Ulteriore elemento che detta il ritmo di questo spettacolo, è il progetto musicale, di Gianluca Misiti: la reiterazione della canzoncina infantile -nel buio di una scena illuminata solo da tre punti luce blu-, la loro canzone d’amore e le voci fuoricampo (Alberto Pandolfo e Viola Palazzolo), che annunciano accadimenti nefasti, creando angoscia in sala, come solo i vecchi carillon sanno fare.
Non si arriva alla verità che inseguono, perché inafferrabile, ma la poesia è nella loro ricerca cieca, come cieco è il personaggio interpretato dal drammaturgo. E’ la fimmina che pone dubbi, perché devastata dal non riuscire a ricordare nulla ed esprime questa sua frustrazione alternando nevroticamente sorrisi placidi, pianti e canti di compleanno.
La loro comunicazione ricorda lo stile di Beckett: i dialoghi sono apparentemente assurdi, i due non sanno neanche di preciso che rapporto c’è fra di loro e sono sospesi nell’attesa che arrivi il momento di essere finalmente ‘contenti e festosi’ per mangiare la torta.
I corpi degli interpreti vibrano di tic, di nevrosi e di incagli, nei quali lo sguardo dello spettatore inciampa, passando dalle iniziali risate fragorose fino al silenzio raccolto.
Abbiamo incontrato il drammaturgo, quindi anche regista e interprete per capire il rapporto con quest’opera, dopo il tempo passato dal debutto, per un testo attraversato anche negli anni dalle interpretazioni di Enzo Vetrano e Stefano Randisi.

ph. Davide Aiello

‘A Cirimonia compie quindici anni. Cosa ha significato riprendere questo lavoro, sviluppandolo in un’altra fase della vita di voi interpreti e della tua scrittura? Se e come si è trasformato?

Le trasformazioni sono sicuramente più che altro quelle imponderabili e che non possono essere analizzate, perché sono quelle che hanno a che fare con il nostro corpo, con il nostro pensiero. Per cui non abbiamo una capacità di determinare esattamente cosa sia variato. Tecnicamente e scenicamente quasi nulla, anche perché lo spettacolo è uno scrigno e non da grandi possibilità di interpretazioni nuove, o per lo meno non da parte mia, né necessarie. Sarebbero state cose nuove da aggiungere, ma così tanto per farle non valeva la pena. Le variazioni sono più che altro emotive, esistenziali, personali, anche nella relazione con Anton Giulio perché in questi anni sono cambiate delle cose e siamo cambiati noi stessi, perché abbiamo fatto altri tipi di esperienze. Per cui credo che sia molto cambiato, però non so dire come e se in meglio. Non lo so.

Prima parlavi di un lavoro sul corpo che si è trasformato anche se in maniera impercettibile e indefinibile. Che cosa intendi?

Intendo più che altro la nostra consapevolezza da attori. Una cosa è fare uno spettacolo a trent’anni, un’altra a cinquanta. Cambia tutto perché fisicamente tu hai un’altra cognizione di te e hai anche un’altra furbizia. Ti manca una certa energia, però la compensi con uno sguardo più consapevole. Questo non è detto che sia un fatto necessariamente positivo.

Non sempre si migliora…

Esatto! (ride, ndr)

Spesso hai utilizzato la dimensione narrativa del dittico/trittico come un gioco, oltre che per l’ampiezza maggiore e la continuità tematica. Hai creato spettacoli che possono essere visti separatamente, insieme, e invertendosi nell’ordine cronologico di fruizione. Anche ‘A Cirimonia fa parte di una trilogia.

La trilogia dell’impossibilità dove il primo atto è Ouminicch, con l’impossibilità della scelta, il secondo ‘A Cirimonia, con l’impossibilità della verità, il terzo Manichini con l’impossibilità dell’essere.

Sono mai stati presentati tutti e tre insieme?

No perché parliamo di un periodo storico lontano, in cui non c’era questo agio (economico) per essere mostrati tutti insieme, e non nascono per questo. C’è un legame più che altro concettuale, non di storie in sé, ma di personaggi rinchiusi da qualche parte o ostruiti, fondamentalmente da sé stessi, seppure guardassero oltre e immaginassero che da oltre venisse questa chiusura, invece era un’autochiusura.

Hai attraversato, in tempo più recente, un’altro polittico drammaturgico.

Sì, per quanto riguarda me, vengo da un bellissimo viaggio con la conclusione di questo dittico del sabotaggio. Ora ti dico una cosa segreta: è stato molto bello, appassionante, viscerale e adesso dovrei iniziare a scrivere una cosa nuova, ma sono sempre più colto da una pigrizia incredibile. Purtroppo, e faccio una nota a margine, viviamo in un ambiente creativo dove bisogna sempre produrre, sempre produrre.. Noi, io e Anton Giulio, facciamo in modo che gli spettacoli abbiano più vita possibile, e ‘A Cirimonia lo decreta. In generale ci piace avere un serbatoio. Però è chiaro che specialmente i teatri istituzionali ti chiedano ogni anno una cosa diversa, nuova. Ed è una ghigliottina incredibile.

E la tua prossima ghigliottina quale sarà?

Debutteremo in Liguria, a Ottobre prossimo, per uno spettacolo che è già in cartellone da un pò, ma che io devo ancora scrivere e non ho un’idea di cosa sarà. Sarà un monologo dove i produttori sono istituzionalizzati, in parte, ma comunque indipendenti. Io tento sempre di perseguire due percorsi in alternativa: con i teatri stabili e il teatro di giro. È un equilibrio complesso perché ti chiede di donargli il tuo sangue, ovvero lo spettacolo: poi di fatto, quando glielo concedi, non ti appartiene più; invece il percorso più etico che faccio è quello con i teatri indipendenti e con i circuiti off, che mi danno una grande indipendenza e gioia, a prescindere dal fatto artistico. Io comunque artisticamente cerco di trattare entrambi nel medesimo modo, con cura, ma è chiaro che questa distinzione è fondamentale per un percorso. E questo prossimo sarà un percorso indipendente.

Mi collego al tema del sabotaggio, perché leggevo nelle note d’autore di ‘A Cirimonia e in varie interviste, che hai un amore per il fallimento e l’autosabotaggio. In cosa pensi ti possa accrescere il rischio di un fallimento, o è solo mero masochismo?

Per fortuna, non ho problemi da “analisi” di quel tipo (ride, ndr), ne ho altri!
Credo che il concetto di fallimento sia il tentativo disperato, non a caso uso la parola disperato, che l’artista compie affinché smetta la ricerca e cominci a ricercarsi, non facendo cose che già sa fare, quelle di cui è capace e che ha già sperimentato.
Questo è un rischio: siamo in un ambiente lavorativo molto fragile, per cui tendiamo sempre, una volta guadagnatoci una certezza, a maturarla e portarla avanti il più possibile. È chiaro che, per quanto mi riguarda, è un problema annoso, però lo sforzo che faccio è di tentare di fare qualcosa che sposti sempre un pò in avanti il limite di questo precipizio, che può essere il fallimento. Essere portati al fallimento non significa essere masochisti, ma tentare di continuare questo percorso.

Intendi il rapporto con una coerenza, con il tentativo di rimanere “monolitici”?

Non è neanche un discorso di essere poco coerenti. Molto spesso la coerenza viene scambiata con la tua voce: sei coerente con te stesso, no?! Ma la coerenza ha proprio questa capacità di eventualmente essere e proporre la possibilità di una contestazione. La coerenza è lo spirito che poi ti muove a fare le cose, in questo caso a fare teatro. E lo spirito è quel tentativo di spostare l’obiettivo, il panorama, guardare oltre, per non cadere nel rischio di raccontare sempre la stessa cosa in maniera diversa. Io quindi cerco sempre di fallire, ma non il fallimento pratico, che mi fischino in sala o che mi aspettino fuori il teatro per picchiarmi, ma quello per cui finita l’opera mi domando ‘e beh, quindi che ho raccontato? qualcosa che è ho già detto?’. Fallimento inteso con me stesso, non con l’altro.

Chiudo con una domanda forse fuori tema. La tua tesi di laurea è stata su Eduardo De Filippo. Esiste ancora in te il legame con questa figura e se sì in quale modo influisce sulla tua scrittura e sul tuo teatro.

Un legame a doppissima mandata: più vicino al discorso della compagnia, di avere dei legami sulla scena e uno sguardo onnicomprensivo. Vivere continuamente il rapporto con la regia, la scrittura, le maestranze, la scenografia, le musiche, e gli elementi che mi fanno pensare ad un teatro antico, dove gli spettacoli non si compongono come piccole schedine. Parliamo di un teatro che faccia in modo che il discorso che stai costruendo possa essere accolto, compreso e migliorato da tutti quelli che ne fanno parte, per cui il legame che sento  è nell’atteggiamento che metto nel teatro. Poi sicuramente anche dal punto di vista drammaturgico c’è stata una mia appartenenza a Eduardo.

 

’A CIRIMONIA

testo e regia di Rosario Palazzolo
con Rosario Palazzolo e Anton Giulio Pandolfo
musiche di Gianluca Misiti
aiuto regia Angelo Grasso
voci registrate di Alberto Pandolfo e Viola Palazzolo

Teatro della Contraddizione, Milano | 12 aprile 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

La materia vibrante della danza svizzera contemporanea agli Swiss Dance Days

MARIA PAOLA ZEDDA | A Zurigo gli Swiss Dance Days hanno restituito singolari visioni della danza svizzera, rilanciando l’appuntamento biennale, quest’anno a marzo, con presenze di rilievo internazionale e lavori di grande interesse.
La piattaforma della danza svizzera promuove le creazioni coreografiche prodotte nell’area elvetica, offrendo una riflessione sul ruolo delle istituzioni nel sostegno della ricerca artistica. Una commissione composta da curatrici, artisti, programmer – Joanna Lesnierowska, Laurence Perez, Simone Truong, Laurence Wagner, Emanuel Rosenberg – ha operato una selezione transgenerazionale che guarda alla coreografia come specchio della complessità del mondo in cui viviamo.

Quindici i lavori presentati nel programma, cui si aggiungono i Salons d’Artistes, momenti di dialogo, confronto e pitching dove autori emergenti che necessitano di un sostegno produttivo vengono presentati agli operatori internazionali. L’attuale edizione ha visto presenti Ernestina Orlowska, Catol Teixeira, Juliette Uzor, Muhammed Kaltukd.

Tra le presenze emerge Alexandra Bachzetsis, coreografa di origini greco-turche, di base a Zurigo. La sua ricerca affonda in una sensualità torbida, in un linguaggio erotizzato ed erotizzante che guarda ai codici del BDSM, non solo come a elementi di seduzione, ma anche come a metafore di una violenza, meno esplicita ma non meno profonda, insita nelle relazioni sociali e personali quotidiane quanto nel linguaggio performativo e nel lavoro dei corpi della scena.

2020 Obscene, ph. Melanie Hofmann

In 2020: Obscene, lavoro presentato a Zurigo, Bachzetsis appare nel suo corpo scultoreo e seduttivo, assunto nella consunzione, dominatrix che non concede nulla all’abbandono e al passaggio del tempo, piuttosto lo esplicita, ci gioca, lo domina, lo piega. Disciplina del rigore, come lo sono la danza e la coreografia, atti di determinazione dello sguardo, del campo di azione, della durata. 2020: Obscene infatti indaga l’ambiguità semantica tra scena e osceno e, in particolare, con le parole dell’autrice “la relazione tra la messa in scena del corpo eccedente e il suo consumo da parte dello sguardo bramoso e della testualità opprimente”.

Da un lato, il lavoro esamina i problemi del teatro come macchina di manipolazione per quanto riguarda la seduzione, l’attrazione e i giochi di identità sessuale; dall’altro, esplora il corpo performativo stesso come luogo di alienazione e limitazione dell’essere umano. L’opera, quindi, non solo mette in discussione il sovversivo e il normativo nella performing art, ma si rivolge anche alla comunicazione attraverso l’eccesso come interruzione radicale di formati, gesti, modelli culturali e archetipi.

2020 Obscene, ph. Melanie Hofmann

Nella scena, costituita da accese superfici viniliche, entrano diversi piani di visione e di consumo mediatico: l’uso di set di moda e televisivi rimanda a un apparato brechtiano, alla spietatezza realista di John Cassavetes o ai paesaggi torbidi di Nicolas Windning Refn, ma anche ai dispositivi social dell’erotismo fatto in casa di OnlyFans. Le immagini proiettate in diretta sono confessioni mediatiche, giochi pericolosi a tre e a quattro, in un’architettura di ammiccamenti che si svolge su un catwalk rilucente, dalle tinte infuocate di rosso, giallo, fucsia, con costumi di lattex e pvc, che giocano con la scena, sfondando la parete, riverberandola in giochi di luci e assonanze, mimetizzandosi in essa.

Il corpo, il tempo, la seduzione sono esposti con una violenza chirurgica, fredda, crudele. La seduzione sadomasochista qui appare come invito a sostare nelle pieghe del perturbante, a sottrarsi alla banalizzazione del perbenismo, nella ricerca di un femminile che si autodetermina, attraverso il culto di un rigore che non concede spazio alla norma e che attiva – nel farsi e disfarsi di un corpo senza organi – una costruzione costante del sé, come esercizio e metro disciplinare di dominazione della genetica.

Altro lavoro a emergere nel programma è SACRE!, diretto di Teresa Vittucci e Annina Machaz, realizzato in collaborazione con Theater HORA, teatro di Zurigo riconosciuto a livello internazionale per il suo importante lavoro con persone con disabilità intellettive.

A La sagra della primavera (Le Sacre du Printemps), celebre balletto del 1913 con le coreografie di Vaslav Nijinskij e con le musiche di Igor Stravinskij, è dedicata la performance. Una bocca, una vagina, un ano solare, una grotta – un rimando al mito di Platone, forse – , un orifizio da cui entrano ed escono corpi, domina la scena. Denti come stalattiti pendono dai lati, una lingua rosa si allarga sul pavimento. L’origine del teatro e della coreografia convergono in una “danza alla rovescia” dove protagonisti sono i corpi e le partiture composte ed eseguite dai performer in scena. Corpi anarchici, fuori da ogni codice, come lo fu al tempo la grande rivoluzione che Nijinskij portò al corpo della danza classica in questa coreografia.

SACRE! ph Philip Frowein

Chi dovrebbe essere sacrificato? E soprattutto: chi non dovrebbe? Questa la domanda che sottende il “reenactment”, in una nuova scrittura scenica, disarmante, umoristica, vitale e perturbante, dove la storia del sacrificio di una giovane donna che danza drammaticamente fino alla morte viene stravolta. Sono ripresi alcuni cenni della coreografia originaria nelle scosse elettriche, nelle partiture gestuali delle mani, irriverente e sapiente atto di rimandi, che gioca con il repertorio senza celebrarlo. La primavera si rivela nel suo aspetto terrifico, violento, disarmante. Ci chiediamo se sia robot o dea e ci interroghiamo sulla natura di questo rituale, che tra artigli, canini, e organi fuori posto, riverbera una energia sorgente, punk, gioiosa e furiosa insieme, mentre un dito fantasma si aggira per il palcoscenico. L’intero è rotto, siamo fuori e oltre la pretesa di un possibile ritorno all’unità del corpo, dello spazio, del rito

SACRE! ph. Philip Frowein

.

Il tema della disabilità in scena e per la scena è affrontato anche dal coreografo Alessandro Schiattarella, seppur in uno spazio con alcune complicazioni, in Zer-Brech-Lich, traducibile con Fra-Gi-Le, un lavoro sui punti di rottura, dove tre interpreti con disabilità fisiche, a volte apparentemente impercettibili – Victoria Antonova, Alice Giuliani e Laila White – intraprendono un personale statement interrogandoci sulla normatività dello sguardo nei confronti dei corpi non conformi. Una performatività ad alta tensione dispone il pubblico sulle soglie del pericolo, sui crinali della percezione, avvicinandolo alla potenza non subordinata e non subordinabile delle performer nell’esposizione della loro fragilità, che qui innesta una relazione vibrante, erotica, politica, con la materia dei corpi.

Di altra temperatura la proiezione dello spettacolo di Cindy Van Acker Without References in collaborazione con il gruppo giapponese Goat, con il regista teatrale italiano Romeo Castellucci e undici danzatori. In un assetto algido, la coreografa svizzera mette in campo una riflessione sulla temporalità, indagando un assetto performativo e coreografico che incrina il tempo e l’unità dello spazio, attraverso una partitura di effrazioni, slittamenti, accenti e disallineamenti percettivi secondo una trama di tracce, echi, asincronie.

Without References, ph. Magali Dougados

La programmazione è stata puntellata da lavori di grande intensità che raccolgono la vividezza della scena svizzera contemporanea, grazie all’acutezza e alla sensibilità di una commissione che ha saputo restituire nel programma momenti di accensione, rigore, intensità, inclusione, con cura delicata e vitale. Tra questi non possono essere dimenticati l’esuberante e intenso lavoro Open/Closed di Pierre Piton, il vibrante e politico catwalk performativo Monkey off my back or the Cat’s Meow Dancers di Trajal Harrell composto per il Schauspielhaus Zürich, la grazia coreografica di Efeu di Thomas Hauert, e il brulicante Présage di Élie Autin.

Prospettiva di una città scritta: The city di Crimp per Jacopo Gassman

ELENA SCOLARI | Della città non si vede niente. La città di cui parla Martin Crimp in The city (testo del 2008) è soprattutto una città della mente, di cui si scopriranno la geografia e gli abitanti solo alla fine dello spettacolo. Effettivamente la coppia protagonista vive in un appartamento di città ma il punto del drammaturgo britannico è tutto nella dinamica interpersonale tra Clair (Lucrezia Guidone) e Christopher (Christian la Rosa). E nelle conseguenze delle loro insoddisfazioni esistenziali.
La regia di Jacopo Gassman asseconda l’autore ed evita allo spettatore qualunque distrazione collocando i personaggi in una scena (di Gregorio Zurla) spoglia, fredda, anche un po’ ospedaliera. Pochissimi mobili sono gli unici arredi a ricordare che ci troviamo in una casa e non in un laboratorio di analisi. Gli attori sono “incorniciati” dentro una scatola dai profili bianchi e, dentro questa scatola, ce n’è un’altra più in profondità, e poi un’altra ancora, come in una matrioska ottica che allunga la prospettiva e la allontana.
Un ambiente pulito e senza appigli, che abbacina lo sguardo – come le luci di Gianni Staropoli – di chi osserva e fa risaltare ogni espressione, ogni movimento e parola come al microscopio. Non c’è possibilità che qualcosa sfugga: i nervosismi e le tensioni sono lì da toccare.

ph. Luca Del Pia

Le coordinate: Christopher lavora in un’azienda informatica ma ne sarà licenziato e sua moglie Clair è una traduttrice di romanzi; hanno due figli, un maschio e una femmina, la maggiore. Lui subisce il “riordino” della ditta e da subito gli si legge nella postura la frustrazione che ne deriverà. A lei invece oggi è capitato un fatto strano: uno scrittore famoso la ha avvicinata in stazione per una confusa faccenda che riguarda la sua bambina scappata con la zia e poi si è intrattenuto lungamente con Clair al bar raccontandole molto di lui e del suo passato di torture in carcere. Alla fine dell’incontro le regala il diario (nuovo) che era destinato alla figlia.
C’è del mistero, è chiaro che quest’uomo segnerà una svolta, nessuno sa ancora in quali termini ma è l’elemento assente più importante della storia. Sicuramente più importante della sconclusionata infermiera che fa visita alla coppia (Olga Rossi), rivelandosi una vicina di casa infastidita dal rumore dei loro bambini che giocano strillando in giardino. Una tipa bizzarra, dura, intollerante; anche lei fa uno strano racconto sul marito che vive in zone di guerra, forse un reporter, chissà.
La scelta fatta per le scene e la regia che compone lo spettacolo in quadri con brusche fratture possono sembrare un ostacolo alla narrazione o addirittura una scorciatoia per non affaticarsi a tessere una tela drammaturgica, invece sono una costruzione estremamente coerente con il testo e che apparirà molto chiara in chiusura, quando la prospettiva sarà completa e i piani prenderanno un ordine.

La scrittura di Crimp è frammentata, i suoi personaggi lo sono, quelli secondari non sono disegnati a tutto tondo, sono abbozzati, buttano là brandelli di discorsi che devono suonare scombiccherati. È una tecnica perfetta per tenere desta l’attenzione anche perché così la concentrazione sui dialoghi tra i veri protagonisti è massima e a loro sì che crediamo, capiamo le loro liti e percepiamo lo sfarinarsi di una relazione proprio come succede nella realtà. Serve benissimo allo scopo la traduzione precisa e netta di Alessandra Serra. Quello su cui si può obiettare sono gli argomenti intorno a cui girano le scombinatezze dell’infermiera e dello scrittore fantasma: per lei una farraginosa concione contro la guerra e per lui la prigionia, non si sa dove ne’ per quale reato. Temi serissimi inseriti soltanto per ellissi, ma forse anche questo stratagemma drammaturgico serve a dirci con quanta dovizia possiamo osservare sotto un vetrino il matrimonio in decomposizione di Clair e Chris, ignorando ciò che sta fuori dalla cornice, molto più grande di questo spaccato familiare.


Gassman aveva già mostrato, per esempio ne Il ragazzo dell’ultimo banco di Juan Mayorga, la sua propensione al far ragionare i personaggi, al far accadere la comprensione delle cose mentre l’intreccio si svolge. Conferma qui l’attenzione per il gesto, per l’atteggiamento, sebbene affrontando un testo ambiguo e non memorabile per abbondanza di farraginosità.

La Rosa è perfettamente impacciato fin dall’inizio, ha con sè una valigetta 24ore e indossa una cravatta che dicono subito che procederà giocando di rimessa, è proprio così che si presenta uno che chiede alla moglie se può baciarla: quando i termini sono chiari sono cose che si fanno, non si chiedono. È lei a chiedergli di non essere così remissivo.
In questo senso la recitazione di La Rosa toglie un po’ di sorpresa, le sue carte di interpretazione sono scoperte senza rimedio fin dal primo ingresso, così come la Clair di Lucrezia Guidone si impone immediatamente: la sua è una presenza forte, più virile di quella del marito; lei è indipendente, scontenta ma attiva. È chiaramente molto più rapita dal suo lavoro che dal marito, infusa della carica agonistica che si scatena quando deve tradurre e ri-creare con le sue parole quello che l’autore ha immaginato nella sua lingua. Scrive, riscrive, a ogni stesura vede più chiaramente il risultato cui deve tendere. È una sfida che rende creatrice anche lei mentre entra dentro la testa di un altro. Può essere esaltante.
E per Clair lo è a tal punto che lei stessa diventerà autrice per sopravvivere, per provare a disegnare la sua città. Meglio lesinare in dettagli per chi vedrà lo spettacolo perché è proprio questa agnizione finale che permette la comprensione dell’enigma, una lettura a ritroso che mostra la vigorìa dell’invenzione, intesa anche come forza dell’atto creativo di ognuno, metaforico o meno.
La sospensione apparente che chiude The city è proprio la “luccicanza” di cui godono i migliori “artefatti” umani: la ricerca di una diversa dimensione, più ricca, in cui le proprie proiezioni non si distinguono dal vero, perché il vero è la storia che, tutti i giorni, impariamo a raccontarci.

 

THE CITY

di Martin Crimp
traduzione Alessandra Serra
regia Jacopo Gassman
con (in ordine alfabetico) Lucrezia Guidone, Christian La Rosa, Lea Lucioli, Olga Rossi
scene e costumi Gregorio Zurla
luci Gianni Staropoli
regista assistente Stefano Cordella
produzione LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Stabile del Veneto, Teatro dell’Elfo, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, TPE – Teatro Piemonte Europa

Teatro Elfo Puccini, Milano | 5 aprile 2024

Trittico contemporaneo al Teatro dell’Opera di Roma: dal classico al pop

CRISTINA SQUARTECCHIA | Dal 23 al 29 marzo al Teatro dell’Opera di Roma è andato in scena Trittico contemporaneo per la stagione di danza e balletto diretta dall’étoile Eleonora Abbagnato. Tre autori, tre firme della danza mondiale, due delle quali per la prima volta sul palco del Costanzi (fa eccezione William Forsythe) invitati a creare per il Corpo di ballo capitolino.
Windgames di Patrick De Bana, Women di Juliano Nunes, e dulcis in fundo Playlist (track 1 2) di William Forsythe hanno composto il trittico che ha condotto lo spettatore in un vero e proprio viaggio nella storia della danza accademica. Diversi i temi che hanno legato le tre creazioni, tre prime assolute, tra continuità e opposizione in un rapporto che, a seconda dell’autore, ha visto prevalere ora l’aspetto musicale ora quello storico, l’astrazione  in antitesi o continuità con la narrazione, il maschile e il femminile, per un’esplosione di fascino e leggerezza. Qualità che l’intero corpo di ballo ha sfoderato fino all’ultima replica del venerdì santo, in particolare nelle figure dei “principals” Alessandra Amato, Claudio Cocino, Federica Maine, Alessio Rezza e Michele Satriano.

In  apertura di serata l’ardito Windgames di Patrick De Bana, un lavoro sui giochi del vento che soffia creando movimento e lasciando dei momenti di sospensione sull’inconfondibile Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 35 di Čajkovskij.  Sui tre movimenti Allegro moderato (Re maggiore); Canzonetta Andante (Sol minore); e Finale allegro vivacissimo (Re maggiore), il coreografo De Bana lavora con un trasporto di assoluta sintonia, giocando sui colori e affidando diversamente le tre parti: più corali il primo e terzo movimento interpretati corpo di ballo, più lirico il pas de trois del secondo con Cocino, Bianchi e Rezza. Il tutto in  stretta continuità con l’allestimento: l’immagine di una nuvola vaporosa proiettata sul fondo in costante movimento, che ricorda quelle luminose foschie di tanta pittura di William Turner.
Una sensazione di sofficità resa anche dai lunghi degas delle quattro ballerine in blu e di Rebecca Bianchi in rosso realizzati dalla ex étoile parigina Agnès Letestu, che veste invece i ballerini del corpo di ballo in pantaloni neri e torso nudo in contrasto ai larghi e fluidi pantaloni a palazzo di Claudio Cocino e Alessandro Rezza in rosso.
Nella cura di ogni dettaglio Patrick De Bana costruisce una coreografia dalla spazialità decisa, file orizzontali di danze d’insieme maschili che, come plotoni, attraversano la scena da una quinta all’altra. Fluide concatenazioni di passi, salti e giri inanellati in eleganti combinazioni conferiscono vigore, in sintonia con i passaggi più intensi del noto violino. Il linguaggio è quello della danza accademica, sporcata elegantemente da disegni spigolosi e al contempo moribidi delle braccia che richiamano volutamente il passato, i Ballets russes di Diaghilev, riconoscibili nelle pose del cigno e del fauno, passando per alcune dei più iconici e rotondi passaggi alla Jiri Kylian e per qualche sospensione alla Mats Ek, di cui De Bana è stato interprete.
In 45 minuti circa si può cogliere una traccia narrativa, non troppo dichiarata, ma appena accennata, come ha voluto il coreografo per lasciare aperta l’interpretazione allo spettatore,  libero di sognare in tempi di percezione aumentata.

«Questo balletto è un a lettera a mia madre, una donna forte che mi ha spinto a connettermi con le mie debolezze e con le mie zone di energia», spiega Juliano Nunes, che ha composto esclusivamente per il corpo di ballo romano Women sulle musiche di Ezio Bosso. Un lavoro di sole donne, di cui il coreografo brasiliano classe 1990, celebra forza, bellezza e amore.
Interpretata da 24 ballerine, la coreografia è un dialogo continuo con il linguaggio classico della danza accademica, innervato da virtuosismi, velocità e soluzioni tecniche di poetica eleganza. Un lavoro che rapisce lo sguardo e conduce in un’atmosfera quasi celestiale.
I corpi delle ballerine, con accademici color sabbia nella parte superiore e poi grigi nella parte centrale, finendo al rosso filamentoso dal ginocchio alla scarpetta da punta, sembrano trasformarsi nello spazio in ninfe, uccelli, o alludere a tante cattedrali gotiche quando il movimento  dell’unisono intreccia le braccia, coralmente, in figure svettanti verso l’alto, in segno di reciprocità e autosostegno. Un inno di sorellanza, di solidarietà e coesione femminile arriva alla platea gremita, dalla quale si scorge Ivana Bosso, sorella del compositore Ezio: «Mio fratello componeva ispirandosi alla natura, osservando ogni sua forma vivente – spiega la sorella Ivana a caldo – Credo che il lavoro di Nunes sia in linea con questa poetica, i corpi delle ballerine sembravano un’emanazione di quel Creato che mio fratello ammirava sempre».

Altra energia invece invade la scena sui primi “bit” remixed di Peven Everett del brano Surely Shorty, mentre  si apre il sipario e dodici ballerini già in posa racchiusa si dondolano disposti in punti geometricamente perfetti nello spazio al ritmo di questo trascinante brano di jazz soul. Ed è subito festa, coinvolgimento di pubblico su Playlist (track 1 2)  di William Forsythe,  realizzato per la prima volta  nel 2018 per l’English National Ballet, e che il corpo di ballo romano, non profano allo spericolato stile Forsythe (si veda il recente Hermann Schermann rimontato nel 2022 e ancora indietro fino al 1986 con altri titoli del coreografo americano), esegue con  divertita vitalità grazie al supporto dell’assistente coreografo Josè Carlos Blanco.
Nata con l’intento di creare qualcosa che portasse la danza classica a un livello popolare, a cominciare da un contesto pop dove il codice e i suoi estremi virtuosismi potessero spingersi ancora oltre quelle sovrastrutture tradizionali per rigenerarsi di freschezza e leggerezza rispetto al passato, la coreografia celebra quella perfezione cristallina delle forme e dei suoi più audaci dinamismi, secondo le intenzioni del coreografo.

Dal ritmo incalzante di Peven Everett si passa all’R&B del gruppo Lion Babe sul quali i ballerini fanno esplodere una danza gloriosa e sofisticata. Sfoderano i più spericolati tecnicismi, quasi acrobatici, mescolati a passi e posture hip hop, entrando ed uscendo dalle forme classiche, dalle linee precise disegnate nello spazio con quell’aria disinvolta che si ha per strada, per riprendere poi i doppi e tripli tour al limite della velocità possibile, saturando la scena.

È quel senso del molteplice che riempie il nostro presente, che stressa le nostre vite, mentre corriamo da un luogo all’altro e la musica pop fa da sfondo alle corse quotidiane. Così sferzanti e rapidi développés e grand battement jetés fendono l’aria, mentre le braccia richiamano veloci le pose classiche per poi romperle e riprenderle all’occorrenza, quanto basta per spiccare un grande salto o una frenetica pirouettes. Non c’è storia, né trama, e nessuna forma di sentimentalismo in questa danza sfrenatamente elegante, dove tutto è costruito su una metrica perfetta che invece entusiasma lo spettatore riducendo quel senso di ansia che allarma il nostro presente.
Scrosci di applausi e pubblico in visibilio.

WINDGAMES
Coreografia: Patrick De Bana
Assistente coreografo: Aída Badía
Costumi: Agnès Letestu
Luci: James Angot
Musica: Pëtr Il’ič Čajkovskij, Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 35
WOMEN
Coreografia: Juliano Nunes
Costumi: Mikaela Kelly
Luci: Tanja Rühl
Musiche: Ezio Bosso
PLAYLIST (TRACK 1, 2)
Coreografia: William Forsythe
Assistente coreografo: José Carlos Blanco
Scene e costumi: William Forsythe
Luci: Tanja Rühl
Musiche: Peven Everett Surely Shorty; Lion Babe Impossible (Jax Jones Remix)
Foto di scena Fabrizio Sansoni
23- 29 marzo 2023
Teatro dell’Opera, Roma

Il cane di Goya e la surrealtà internazionale nella stagione del Metastasio

RENZO FRANCABANDERA | Uno degli artisti che seguo con maggiore assiduità su Instagram è un pittore colombiano di nome Nicolas Uribe. È un pittore di notevole tecnica che lavora su tonalità di colore poco distanti fra loro, in termini di maggiore o minore luminosità, ma che nel loro assemblarsi prossimo riescono a creare una specifica profondità della resa complessiva dell’opera d’arte.
Qualche tempo fa, parlando in un suo post dei suoi dipinti preferiti nella storia della pittura, Uribe ha riportato alla mia memoria un quadro di Francisco Goya che secondo lui è il più grande quadro di tutti i tempi: Cane interrato nella sabbia (Perro enterrado en arena) è un dipinto a olio su muro trasportato su tela (134×80 cm), realizzato nel 1820-1821 e conservato al museo del Prado di Madrid. Commentandolo, l’artista colombiano dice con una bonaria ingenuità che questo quadro non ha davvero nessuna spiegazione, che è illogico, che non aveva ragione di essere dipinto. E che proprio per questo lo trova straordinario, rivoluzionario. A ben guardare, Il cane di Goya ha davvero una modernità sconvolgente pensando a quanto, con tre secoli di anticipo, l’opera contenga già le campiture pittoriche di Rothko ma anche, dal punto di vista drammaturgico – se in questi termini si può parlare di un quadro – tutta la surrealtà della seconda metà del ‘900.
Quanto assomiglia quel cane interrato fino al collo alla Winnie di Giorni felici anche lei confitta nel terreno fino al collo! il testo di Samuel Beckett in questa stagione teatrale è stato scelto dal direttore artistico del teatro Metastasio di Prato, Massimiliano Civica, per affidarlo con la sua regia a due attori, ciascuno a proprio modo interprete di una specifica cifra surreale, Roberto Abbiati e Monica Demuru e di cui pure abbiamo parlato di recente.
Questa si unisce poi a una serie di altre scelte che riguardano la programmazione proposta da Civica nella stagione 23-24 del Metastasio, che compongono, cosa invero rara, un quadro significativo di come la cifra del fantastico, dell’onirico, del surreale abbiano da dire al nostro tempo, così schiacciato da visioni organizzate, pianificate, figlie di algoritmi e che devono stare nelle dimensioni rettangolari consentite dai post nei social media, dei quali siamo tutti dipendenti. Ecco quindi che questa scelta di allestimento, diversamente dalla quasi totalità delle programmazioni teatrali italiane, spicca, a mio parere, per una sua coerente originalità proponendo, come nelle mostre, un itinerario in cui lo spettatore affronta davvero un viaggio dentro un codice poetico, letto attraverso il medium teatrale.

Civica non si è limitato a portare nella sua stagione l’Aspettando Godot di Terzopoulos prodotto nella scorsa stagione teatrale da Emilia-Romagna teatro, ma, ha anche ospitato nei teatri del capoluogo pratese diverse altre creazioni, di compagnie internazionali, iscrivibili dentro questa poetica.
Particolarmente significativi a questo proposito sono stati due spettacoli di recente proposti al pubblico.
Il primo, acclamato dalla critica internazionale, sotto molti punti di vista sbalorditivo, poetico e sadicamente divertente, è stato lo spettacolo di burattini per adulti Famous Puppet Death Scenes del gruppo canadese Old Trout Puppet Workshop, una storica compagnia che in questa stagione, nei primi tre mesi dell’anno, ha avuto una tournée europea ricca di riscontri e successi. Questo ha permesso di portare questo capolavoro assoluto a Prato in prima nazionale.

Si tratta di un’opera ibrida che unisce teatro di figura e presenza attorale e il cui tema è la morte del burattino. La pensata già di suo ha qualcosa di geniale trattandosi del tentativo di portare in scena la morte di qualcosa di inanimato, ma effettivamente l’operazione ha un che di colossale dal punto di vista del segno artistico perché, come il cane di Goya, è davvero un segno irrazionale e illogico ma che ha dentro una potenza simbolica e di combinazioni frutto della fantasia dei suoi creatori, straordinaria. Lo spettacolo è in scena in Canada da diversi anni, è il capolavoro della compagnia e averlo portato in Italia è davvero stato un colpo da maestri.

È una rassegna di piccole brevi sequenze, ambientate dentro la tipica scatola per burattini, di episodi in cui alla fine il protagonista soccombe, una sequenza esilarante di scene in cui i pupazzi perdono la vita: fra incidenti, suicidi, sparatorie, burattini colpiti in incidenti di caccia, lanciati nello spazio siderale o divorati da mostri, o ancora ripetutamente schiacciati da un pugno gigante, mentre il proscenio si anima con la presenza di tre attrici, interpreti di un tono che assomiglia a quello delle sit-com britannico tipo Mr. Bean o dei film (successivi a questo capolavoro) di Wes Anderson. Lo spettatore passa dalla allegria iniziale a un sentimento di struggente e drammatica tenerezza fino alle lacrime, seguendo gli occhi di balene giganti che si chiudono per l’ultima volta e gli ultimi respiri di una burattina vecchina che si spegne.

Abbiamo intervistato la compagnia al termine dello spettacolo.

La seconda proposta internazionale che, come le altre ospitate a Prato è arrivata grazie alla collaborazione economica di Gruppo Colle, è stata a fine marzo Mazút. Fondata e diretta dal duo franco catalano Blaï Mateu Trias e Camille Decourtye, la compagnia Baro d’evel racchiude in Mazút la propria estetica surreale, fatta di acrobazie e teatro fisico, danza, suggestioni da teatro di strada e una grande apertura all’utilizzo dei materiali poveri in scena.
Due banchi che rimandano a Kantor, barattoli di metallo di quelli per i pomodori pelati di diverse dimensioni e poi grandi, grandissimi fogli di carta con i quali vengono composte di volta in volta le scene.
All’inizio i due protagonisti sembrano due impiegati del catasto, impegnati a districarsi fra cartine topografiche ma soprattutto a sbolognarsi l’un l’altro il lavoro fino a quando in scena dall’alto non inizia a cadere acqua. Comincia allora una corsa a mettere qui e lì i barattoli per raccogliere l’acqua che piove dall’immaginario soffitto, ma ben presto questa operazione si trasforma in un colossale concerto, molto ben orchestrato, di musica per acqua che può ricordare le composizioni fatte con i bicchieri di vetro riempiti di acqua a diversi livelli. La suggestione aumenta via via con l’andare dello spettacolo che prende una deriva sempre più immaginifica e colossale, nutrita da un bellissimo disegno luci e da capacità acrobatiche che i due riescono a realizzare fino alla scena più bella in cui, salendo l’una sulle spalle dell’altro coperta da un grandioso vestito fatto di fogli di carta, non si arriva a una installazione umana, una sorta di ode all’inimmaginabile, mentre una pioggia scura, sul finale, imbratta questa grande tela pittorica, un po’ umana è un po’ immateriale, Anche un ricordo dell’Amleto di Nekrosius il cui vestito di carta si bagnava con le gocce che cadevano dal lampadario di ghiaccio posto sopra di lui.
Anche in questo caso il pubblico riesce completamente a immergersi nella sequenza di pensieri slegati, collegati più che altro da sviluppi e sequenze emotive e di immaginazione, forse meno compatte dal punto di vista drammaturgico rispetto al lavoro precedentemente analizzato, ma non di minor impatto.
Unn percorso alla ricerca di sé stessi, un affondo nella realtà ma attraverso le lenti della magia, un mondo misterioso, lirico e profondamente poetico.

Questi attraversamenti di atmosfere magiche legate anche dai codici del teatro di strada, dal mimo al nuovo circo, dal rigore della danza contemporanea, al canto e dall’affanno inutile dell’umanità colta in tutta la sua mediocre fragilità hanno permesso davvero al pubblico che ha avuto la fortuna di assistere a questi due gioielli di confrontarsi con un pensiero della scena originale, diverso, scollegato dal rituale della parola ma profondamente coerente con la possibilità di emozionare ricorrendo allo spazio scenico e alle sue multiformi magie. Probabilmente si è trattato di due delle migliori proposte offerte al pubblico italiano in questa stagione teatrale.

FAMOUS PUPPET DEATH SCENES

creato e concepito dal gruppo The Old Trout Puppet Louisa Ashton, Peter Balkwill, Paul Bezaire, Don Brinsmead, Mitch Craib, Nicolas Di Gaetano, Jen Gareau, Pityu Kenderes, Bobby Hall, Sam Hindle, Teddy Ivanova, Viktor Lukawski, Sarah Malik, Cimmeron Meyer, Aya Nakamura, Amelia Marie Newbert, Nicole Olsen Grant-Suttie, Judd Palmer, Stephen Pearce, Mike Rinaldi, Tim Sutherland, Teele Uustani
con Louisa Ashton, Aya Nakamura, Teele Uustani
regia Peter Balkwill, Pityu Kenderes, Judd Palmer
palcoscenico Beatrice Galloway
costumi Jen Gareau
luci David Duffy
suono Mike Rinaldi
traduzione Giulia De Gasperi
produzione The Old Trout Puppet Workshop

PRIMA NAZIONALE

MAZÚT

autori e registi Camille Decourtye e Blai Mateu Trias
interpreti Julien Cassier e Valentina Cortese
collaboratori Benoît Bonnemaison-Fitte, Maria Muñoz e Pep Ramis
ideazione luci Adele Grépinet
ideazione suono Fanny Thollot
ideazione costumi Céline Sathal
consulente musicale Marc Miralta
ingegnere Thomas Pachoud
scene Laurent Jacquin
responsabile delle luci Louise Bouchicot o Marie Boethas
responsabile del suono Timothée Langlois o Naïma Delmond
direttore di scena Cédric Bréjoux o Mathieu Miorin
direzione produzioni Laurent Ballay
amministrazione Caroline Mazeaud
manager di produzione Pierre Compayré

produzione Baro d’evel
coproduttori ThéâtredelaCité – CDN Toulouse Occitanie; MC93 – Maison de la Culture di Seine-SaintDenis; Teatre Lliure di Barcellona; Parvis – scène nationale Tarbes-Pyrénées; Malakoff scène nationale – Theatre 71; Romaeuropa festival; L’Estive, scène nationale di Foix e Ariège
residenze ThéâtredelaCité – CDN Toulouse Occitanie; L’Estive, scène nationale di Foix e Ariège
con il sostegno di DGCA, Ministero della Cultura e della Comunicazione, il Consiglio Provinciale di Haute-Garonne e la città di Toulouse

la società è in convenzione finanziaria Ministero della Cultura e della Comunicazione – Direzione Regionale per gli Affari Culturali di Occitania / Pirenei – Mediterraneo e la Regione Occitania / Pirenei – Mediterraneo

PAC LAB | Unfolding an Archive – Zoë Demoustier e Ultima Vez incontrano il dolore degli altri

CHIARA AMATO* | Zona K, nel dinamico quartiere milanese Isola, è uno spazio e un’associazione culturale che dal 2013 ospita eventi di teatro, cinema, danza, musica e arte visiva, per adulti e per bambini. Il 4 e 5 aprile ha accolto l’assolo di danza Unfolding an Archive (Spiegare un archivio) di Zoë Demoustier, supportato dalla compagnia belga Ultima Vez (fondata dal coreografo Wim Vandekeybus), una casa di produzione di danza contemporanea con sede a Sint-Jans-Molenbeek, che collabora con partner a livello nazionale e internazionale.
Per il secondo lavoro che la performer e coreografa ha creato con loro, è partita da un elemento biografico: lo spettacolo inizia nel buio totale e con la proiezione del dialogo fra lei e il padre (Daniel Demoustier), che ascoltiamo registrato. Si evince da questo botta e risposta, quasi un’intervista, che per oltre venticinque anni il padre ha lavorato come giornalista di guerra e spiega come sia diverso essere inviati speciali per catastrofi ambientali rispetto a documentare le atrocità causate dall’umano e dalla politica.

Si può già notare una prima scelta drammaturgica che poi a fine spettacolo la performer spiegherà durante il dibattito: non vengono mostrate immagini di guerra ma solo un paesaggio in movimento. Durante questi viaggi e spostamenti Daniel e i suoi colleghi lasciavano una camera fissa in macchina a riprendere l’esterno: luoghi che potrebbero essere ovunque, campagne e chiacchiere tra di loro che fanno percepire il background sconosciuto di questo mestiere. In un’epoca come quella attuale in cui siamo saturi di immagini fotografiche, Zoë sceglie di fare sua la lezione di Susan Sontang in Davanti al dolore degli altri, sua fonte di ispirazione: decide di non usare il dolore degli altri, ma di rimandare a un piano emozionale collettivo, quello dell’immaginazione scaturita dai suoni (idea di Willem Lenaerts & Rint Mennes), elemento cardine, come vedremo nel resto della performance.

Foto di TomHerbots

Dall’altro canto nel dialogo iniziale emerge il lato familiare, i ricordi di una figlia abituata all’assenza della figura paterna, avvezza a seguire i notiziari, a conoscere perfettamente tanti luoghi perché sempre tesa con l’orecchio temendo di ricevere notizie infauste. Elenca i paesi visti in quel periodo e, anche se lo spettacolo è di alcuni anni fa, risulta essere totalmente attuale perché ci sono zone del mondo ‘calde’ ormai da così tanto tempo da non ricordare più l’origine di quei conflitti (e non vederne una fine). Infine lei ricorda, con la tenerezza dell’allora bambina, che ascoltava le Destiny’s Child con la loro Say my name.

Durante questa fase iniziale, sulla scena poco illuminata (Harry Cole), la performer vestita di nero (costumi di Annemie Boonen), traccia con un bastone in alluminio linee di sabbia bianca, che partono da un centro per diramarsi come saette zigzagando sulla pavimentazione nera dello spazio scenico. Inizia a muoversi tra questi spazi senza mai inizialmente toccare le linee con i piedi ma scavalcandole. Fondamentale l’utilizzo delle luci e dei suoni per la composizione drammaturgica della coreografia, in quanto veri e propri partner per la sua danza. I suoni sono eseguiti dal vivo e mixano interviste di guerra, grida di manifestanti, lo scalpiccío di piedi di bambini che scappano, i motori di un aereo e tanto altro, fino a comporre una sinfonia di venti mini-capsule coreografiche a sé stanti. A ogni rumore corrisponde un movimento scenico che la coreografa ha mixato, eseguito in slowmotion, velocizzato, tagliato e ricucito proprio come in un montaggio. Il riferimento al lavoro del padre è lapalissiano solo che al posto delle immagini ha utilizzato il suo corpo e la danza, in una esibizione molto coinvolgente.

In alcuni momenti il suo corpo sembra ipnotizzato e impossessato da un fremito che le parte dai piedi ma che coinvolge pienamente il suo volto e le espressioni, sempre cangianti. La rapidità con cui avvengono questi cambiamenti, via via più veloci, lascia esterrefatto il pubblico in sala che appare incantato: ognuno a fare i conti con il proprio bagaglio di immagini che balzano alla mente. Forse la mossa più riuscita di tutto lo spettacolo è proprio questa enorme libertà di immaginazione lasciata a chi assiste e guidata dai movimenti della performer che riesce a mantenere una forte intensità di interpretazione e a creare una profonda connessione emotiva.

Il cerchio si chiude quando questa sua visione di cosa potrebbe essere quel “dolore degli altri” si fonde con il nostro occidente e con quello che ognuno di noi ha vissuto nelle proprie case: il lusso della tranquillità di ascoltare, gioire e danzare su un brano pop come quello delle Destiny’s Child. Una mitragliata di suoni colpisce le note di Say my name, insieme alle luci bianche che si alternano ad altissima velocità fra calde e fredde su più punti della scena: tutto dà l’idea che la piccola Zoë sia al centro di questo tornado di emozioni perché nel suo cantuccio sicuro subisce la continua invasione di queste folate di guerra. Il centro di quella ragnatela è proprio lei e i venti punti tracciati intorno fanno eco al pari numero di coreografie, giochi di suoni e di luci.
In che senso Spiegare un archivio quindi? Il discorso portato in campo con la danza è non solo politico e militante ma in primo luogo umano e familiare. Il tentativo, riuscito, è di smontare i meccanismi che rendono statico un archivio per farlo diventare vivo, ricostruito e riconoscibile, attraverso la combinazione della danza contemporanea, del mimo e di un grande lavoro documentaristico. Quindi non una semplice presentazione di foto e video che vede il pubblico come elemento passivo ma l’interazione tra come Demoustier ‘sente’ le immagini e come le comunica con il suo corpo danzante. Si intrecciano così due linee temporali, la sua e quella del padre, incastrando le loro storie e penetrando nel movimento.


UNFOLDING AN ARCHIVE (SPIEGARE UN ARCHIVIO)

Coreografia e performance Zoë Demoustier
Musica dal vivo Willem Lenaerts
Sound concept Willem Lenaerts & Rint Mennes
Disegno luci Harry Cole
Luci e assistenza tecnica Pieter Kint
Intervista e montaggio Yelena Schmitz
Design e costumi Annemie Boonen
Ricerca Annemie Boonen & Willem Lenaerts
Drammaturgia Elowise Vandenbroecke
Coaching Danielle van Vree
Archivio video e audio Daniel Demoustier
Co-produzione STUK
Con il supporto della città di Leuven, 30CC, Platform In De Maak Residenze STUK, Ultima Vez, Vlaams Cultuurhuis de Brakke Grond, Voetvolk Atelier Rubigny Grazie a Shila Anaraki, Oihana Azpillaga, Jonas Beerts, Anna Bentivegna, Stijn De Cauwer, Elliot Dehaspe, Dirk De Lathauwer, Lahja Demoustier, Misha Demoustier, Hannes Dereere, Josine De Roover, Pieter Desmet, Klaas De Somer, Willem Malfliet, Hildegard De Vuyst, Silke Huysmans, Karen Joosten, Koen Theys, Maarten Van Cauwenberghe, Gerlinde Van Puymbroeck, Veerle Van Schoelant, Niek Vanoosterweyck, Bart Vanvoorden, Remo Verdickt, Cas-co Leuven, Dag van de Dans, Danstuin.

Zona K, Milano | 5 aprile 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Daria Deflorian e la Masterclass gratuita alla scuola Iolanda Gazzerro di ERT – scadenza bando 15 aprile

RENZO FRANCABANDERA | Sono poche, pochissime, le figure attorali che hanno avuto un potere trasformativo sul codice scenico. Nella storia del teatro contemporaneo a cavallo fra Novecento e nuovo secolo, un’importanza specifica hanno avuto i registi, i collettivi creativi, modificando e indirizzando lo statuto dell’attore diventato poi performer nell’ ibridazione dei codici fra prosa, danza, performance.
La figura di Daria Deflorian spicca invece a livello internazionale proprio perché fra le fautrici (per quanto riguarda il teatro italiano forse potremmo parlare di icona del codice postdrammatico) del superamento del canone dell’immedesimazione pura nel ruolo, a favore di una presenza scenica in cui identità personale ed esperienza attorale entrano in dialogo nello spazio scenico stesso.

Nel suo percorso artistico Deflorian ha partecipato per alcuni anni alle creazioni della compagnia degli Artefatti di Fabrizio Arcuri prima di intraprendere una collaborazione stabile con il performer Antonio Tagliarini dal 2008 al 2023, a partire dallo spettacolo Rewind, omaggio a Cafè Müller di Pina Bausch, avvio di un percorso ricco di riconoscimenti e culminato con il premio Ubu, ma anche con un riconoscimento internazionale del suo lavoro e del suo codice specifico, con tournée in diverse nazioni europee dei suoi lavori di maggior successo.
Ha collaborato con registi come Stephane Braunschweig, Massimiliano Civica, Lotte Van Den Berg, Valentino Villa, Lucia Calamaro, Marco Baliani, Fabrizio Arcuri, Mario Martone, Martha Clarke, Remondi e Caporossi, Fabrizio Crisafulli, Marcello Sambati e da ultimo anche al debutto a teatro di Nanni Moretti. Ha vinto il Premio Ubu 2012 come miglior attrice e nel 2013 le è stato assegnato il Premio Hystrio. È stata assistente alla regia per Mario Martone, Pippo Delbono e per Anna Karenina di Eimuntas Nekrosius.

Questo alla scuola di Ert è, sotto diversi aspetti un ritorno, visto che il suo percorso formativo era iniziato proprio a Bologna. L’attrice arriva in Emilia per la Masterclass Scrivere sulla scena, il nuovo corso di Alta Formazione gratuito della Scuola di Teatro Iolanda Gazzerro di Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale rivolto ad attrici e attori, che potranno partecipare al bando di selezione fino al 15 aprile.

Il percorso è realizzato nell’ambito dell’operazione “Masterclass per la Scena Contemporanea 2024” (Rif. PA 2023-20217/RER, finanziata con risorse del Programma Fondo sociale europeo Plus 2021-2027 della Regione Emilia-Romagna e approvata con Deliberazione di Giunta Regionale n. 2096 del 04/12/2023).

Il corso si articolerà in tre settimane non consecutive tra maggio e settembre 2024 e sarà dedicato all’affinamento delle tecniche attoriali e della più generale creazione scenica. Il punto di partenza del lavoro sarà La vegetariana, il romanzo della scrittrice coreana Hang Kang (Adelphi, 2016).

Le/i partecipanti saranno guidati da Daria Deflorian, che sarà affiancata da tre  attori di grande esperienza e dai codici espressivi diversi, come Paolo Musio, Monica Piseddu e Gabriele Portoghese e dall’assistente alla regia Andrea Pizzalis.

Progetto pedagogico e artistico

«Come dare forma alle figure del romanzo La Vegetariana, capolavoro della scrittrice sudcoreana Han Kang? Da una parte sembrano scritte già per la scena, sono tre voci ben distinte che raccontano quella che, invece, ha deciso di non parlare più, di farsi vegetale. Dall’altra la densità del racconto, i mille rivoli che scorrono sotto al fiume delle parole, le infinite possibilità di lettura dei comportamenti fanno sì che solo il corpo degli/delle interpreti potranno sciogliere col tempo, la difficoltà di “farle vedere”. La masterclass di tre settimane si snoderà prima e durante le prove dello spettacolo che debutterà ad ottobre nei teatri di ERT e sarà condivisa con i tre interpreti del progetto: Monica Piseddu, Gabriele Portoghese, Paolo Musio. I tre saranno a loro volta insegnanti del loro modo di procedere, in modo da permettere alle attrici e attori del corso di sperimentare modalità di ricerca e esperienza di palcoscenico diverse. Ogni settimana sarà condivisa con uno di loro e si incentrerà su una figura del romanzo: la Vegetariana, il marito, il cognato».

Il corso si svolgerà: Tra il 6 maggio e il 28 settembre 2024 con lezioni d’aula previste: dal 6 all’11 maggio; dal 24 al 29 giugno; dal 23 al 28 settembre.

Durata: 180 ore (con settimane di studio a frequenza obbligatoria e a tempo pieno di 40 ore, indicativamente dal lunedì al sabato), di cui 120 d’aula e 60 di project work, per permettere alle/agli allieve/i di confrontarsi in autonomia con quanto appreso durante le lezioni in aula.

Attestato rilasciato al termine del corso: Attestato di frequenza

Quota di iscrizione: il corso è gratuito.
I partecipanti dovranno frequentare, indipendentemente dalle singole modalità formative che compongono il corso, almeno il 70% delle ore complessive previste dal programma.

Al termine della Masterclass è previsto un momento restituzione pubblica del lavoro pedagogico in un contesto collegato a VIE Festival. La data della presentazione, attualmente in via di definizione, sarà comunicata ai partecipanti con congruo anticipo.

Numero massimo di partecipanti: 15; candidature entro il 15 aprile 2024.

Link per scaricare il bando: 

https://scuola.emiliaromagnateatro.com/wp-content/uploads/sites/7/2024/03/Bando_Scrivere-sulla-scena_Masterclass-con-Daria-Deflorian.pdf

Informazioni e contatti: 

Scuola di Teatro Iolanda Gazzerro – laboratorio permanente per l’attore

viale Buon Pastore 43 – Modena

tel. 059/214039 – 059/305738

scuola@emiliaromagnateatro.com

scuola.emiliaromagnateatro.com

www.emiliaromagnateatro.com