GIORGIA VALERI* | Nello sfarzo della sala all’italiana del Teatro Gerolamo, si consuma nella penombra blu il processo alle intenzioni, o a una qualsivoglia coscienza, di Jean-Claude Romand. L’Avversario di Emanuele Carrère è il grande assente della messinscena: Mattia Fabris e Arianna Scommegna, rigorosamente in nero e dietro due leggii, ne declamano la vita attraverso le parole dello scrittore e sceneggiatore francese. La raccontano al pubblico, che dalla platea e dagli spalti pone silenziosamente domande cui prontamente gli attori prestano voce. «Come non ce ne siamo mai accorti?» è il leitmotiv dell’intero reading, che Fabris e Scommegna conducono concitati, leggendo e interpretando, entrando e uscendo dai ruoli di parenti, amici, conoscenti, da Romand stesso.

ph. Chiara Scordamaglia

La narrazione degli eventi si srotola lenta: Fabris e Scommegna tessono una tela tenendo i due capi di un bandolo intricato, prestando attento orecchio alle parole del testo di Carrère. Commentano con il corpo, la gestualità, lo sguardo, la quotidianità dell’adolescente in erba, ancora lontano dal personaggio che sconvolgerà la cronaca mondiale a fine anni Novanta. Jean-Claude Romand era infatti un uomo che «non lasciava intendere il male»: figlio di una qualunque famiglia borghese, condusse un’infanzia dedita al nascondimento delle emozioni e alla preservazione delle apparenze. Un solo e unico insegnamento: non dire bugie. Ed effettivamente Jean-Claude di bugie non ne disse mai, almeno fino alla fine del secondo anno di medicina, quando per comodità raccontò di aver sostenuto degli esami per accedere al terzo anno. Da quella bugia, diciotto anni di vita inventata. Dalla carriera come medico e come ricercatore dell’OMS a Ginevra, alle conferenze, le riunioni di lavoro, lo stipendio. Finché le menzogne non reggono più, i soldi finiscono, l’impalcatura fatiscente cede alle sferzate del tempo: non potendo sopportare il peso della delusione negli occhi dei suoi cari, Romand decide di uccidere genitori, moglie, figli e persino l’amante in un raptus omicida, tentando infine il suicidio. Dal 2019, dopo 26 anni in massima sicurezza, è in libertà vigilata.

Fabris e Scommegna leggono il testo attoniti, si fermano ogni tanto, si guardano perplessi come farebbe chiunque, in cerca di storie dark crime, capiti per la prima volta sul trafiletto Wikipedia che racconta la vicenda. Si incontrano tra i due amboni: Fabris entra in Romand e Scommegna nella moglie, si cercano con le mani, senza mai toccarsi. L’amore è tangibile, non c’è traccia di menzogna tra i due. Il riff della chitarra di Massimo Betti scandisce il ritmo delle loro parole: non produce melodia, racconta con la frase musicale l’assurdità di un’esistenza non vissuta, riempie il vuoto che lasciano le parole.
I tre interpreti hanno una coordinazione magnetica: tra musica, voce e narrazione non c’è confine, è una partitura di più strumenti il cui direttore d’orchestra è Romand stesso. Sembra di assistere a una partita di tennis dove la pallina viene raccolta da una racchetta e accolta dall’altro lato del campo con una morbidezza naturale, finché non viene stoppata al volo, tra le mani: Fabris e Scommegna, alternatamente, prendono l’intera scena. Il controluce blu si fa intenso, asettico, sottolinea la drammaticità della declamazione, i due interpreti escono dai personaggi che raccontano per rientrare nell’universalità della vicenda: guardano il pubblico, si soffermano su ciascuno spettatore, chiedendo di compartecipare a un dolore ancestrale, all’empatia verso una condizione che potrebbe appartenere a chiunque ma che non viene scelta da nessuno. 

ph. Chiara Scordamaglia

L’inginocchiatoio che è anteposto ai leggi, rivolto verso il palcoscenico, diventa quindi sede di una confessione intima, il banco del tribunale sul quale lo stesso Romand si è seduto per rimettersi davanti a se stesso e al mondo intero. Davanti all’”avversario”, Satana, come l’aveva inteso Carrère. Sulle ultime, stringatissime note di chitarra, Fabris e Scommegna si siedono sul ciglio del palcoscenico, per godersi il silenzio chiamato dalla morte. Fabris tira quindi fuori una candela dall’inginocchiatoio, versa la cera su una lastra di ferro e ci riappoggia la candela sopra. Giunte le mani, i due soffiano sul mozzicone di cera: 

Per i credenti l’ora della morte è l’ora in cui si vede Dio, non più in modo oscuro, come dentro uno specchio, ma faccia a faccia. Perfino i non credenti credono in qualcosa di simile: che nel momento del trapasso si veda scorrere in un lampo la pellicola della propria vita, finalmente intelligibile. Per i vecchi Romand, questa visione, anziché rappresentare il pieno coronamento, aveva segnato il trionfo della menzogna e del male. Avrebbero dovuto vedere Dio e al suo posto avevano visto, sotto le sembianze dell’amato figlio, colui che la Bibbia chiama Satana: l’Avversario.

 

L’AVVERSARIO

dal romanzo di Emanuel Carrère
con Mattia Fabris, Arianna Scommegna
alla chitarra Massimo Betti
produzione ATIR

Teatro Gerolamo, Milano | 06 aprile 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.