GIORGIA VALERI / PAC Lab* | Per dogma si intendono tutte quelle verità definite, indiscutibili e universali, accettate come vere senza bisogno di dimostrazioni o ulteriori prove perché autoevidenti. Si tratta in sostanza di qualcosa di rivelato o comunque imposto dall’alto, che come tale viene accettato: “Maria è sempre vergine, prima, durante e dopo il parto di Gesù Cristo”.
Per assioma si intende invece un enunciato che, sebbene non dimostrabile, è posto alla base di sistemi formalizzati, garantendone la coerenza. Sono quindi proposizioni primitive, evidenze vere fino a prova contraria, né immutabili né assolute, come quelli della geometria euclidea. “Tra due punti distinti del piano passa una e una sola retta”, per intenderci.
Un cavillo linguistico che per svariati secoli la Chiesa usò a suo favore come spauracchio contro tutti gli oppositori, ponendo gli assiomi della fede come dogmi. Uno su tutti: Giordano Bruno, il filosofo napoletano che osò sfidare i teologi cinquecenteschi asserendo l’esistenza di infiniti mondi e l’immanenza di Dio. Eresia assoluta che comportò il suo immediato rogo.
I dogmi, a differenza degli assiomi, non prevedono il principio di provvisorietà: non sono ammesse riformulazioni o revisioni. Vanno ripetuti a menadito per incastonarsi nel bagaglio della memoria a lungo termine.

Ma.

Ma se, da adulti, si accumulano strutture proteiche anormali nel cervello tali da interferire con la comunicazione tra i neuroni, questi ultimi perdono la loro funzione e alla fine muoiono; se la rete neuronale si disgrega tutte le informazioni accumulate si disperdono e spariscono.
Cosa succede quindi alla fede, ai dogmi religiosi, e infine, all’identità personale, se si viene colpiti da una malattia degenerativa come l’Alzheimer?
Si può divorare un’intera ciotola di ostie benedette, anziché distribuirle tra i presenti. Oppure spostare tutte le statue di una parrocchia per paura che scappino via. O chiedersi perché un ragazzo innocente è appeso tutto nudo a una croce di legno.
Dario De Luca poteva scegliere un grosso politico, uno di quelli ingombranti e che gravita nei piani più alti del Senato, per capire come la demenza modifichi radicalmente la struttura della realtà. Eppure il regista, attore, drammaturgo calabrese, fondatore, insieme a Salvatore La Ruina, della compagnia Scena Verticale ha capito che la politica genera divisione, non produce empatia.
Avrebbe posto gli accenti sbagliati su vicende che evocano invece un
mondo di delicatezza, dolcezza, poesia e dolore. Così il regista ha affidato il binomio antinomico di memoria e fede alle vicende di un parroco delle periferie italiane, vicario del Vescovo e impegnato nella lotta umanitaria per la salvaguardia dei migranti sbarcati sulle coste calabresi.

Il Vangelo secondo Antonio
Ph. Manuela Giusto

Il Vangelo secondo Antonio, uno spettacolo in scena dal 2016 e che da allora ha vinto numerosi premi, tra cui il Premio per la migliore regia e drammaturgia Tragos, nasce proprio dalla ricerca intorno alla demenza, a tutte quelle malattie della mente che intaccano la struttura cerebrale e la disintegrano. Con tutte le conseguenze del caso. Il successo che accompagna lo spettacolo da oltre nove anni è dato da un sapiente dosaggio di elementi performativi e drammaturgici che si avvalgono innanzitutto di una struttura classica, tradizionale, per scandagliare un argomento considerato tutt’oggi un tabù inaffrontabile, anche dal teatro contemporaneo. Se di sociale si parla, è giusto che il teatro vada a fondo anche nelle esperienze più dolorose dell’uomo, anche quelle intimistiche e che non hanno un impatto politico. Almeno apparentemente.

E così De Luca, interprete del protagonista Antonio, mescola ricerche sul campo, denuncia sociale e una buona dose d’ironia per raccontare tragedie quotidiane, che si consumano nell’intimità delle case. Si serve di una scenografia scarna, essenziale: una grande struttura di ferro, stilizzazione di una sagrestia, che si illumina a seconda della stanza di riferimento delle varie scene. Dietro, un altare in penombra, sormontato da un pesante crocifisso di legno, novità di produzione, dal momento che inizialmente De Luca aveva optato per la costruzione di una scenografia realistica, presto sfrondata per dare maggiore ariosità al complesso scenografico e testuale.
E come intuizione è giusta: lo spettacolo si muove in direzione della perdita, della decostruzione del linguaggio e delle idee. È una sottrazione del pensiero non operata solo dal protagonista Antonio, che da parroco di provincia attivo fino all’esasperazione per la comunità arriva ad essere completamente non autosufficiente, ma anche degli altri due personaggi che gli gravitano attorno: la sorella e perpetua Dina, che è costretta ad abbandonare le resistenze nei confronti della malattia, ma anche del dolce e giovane diacono Fiore, che da braccio destro e instancabile aiutante di Antonio coglie l’occasione per accaparrarsi il suo posto.

Ph. Manuela Giusto

I dialoghi tra i tre sono asciutti, concisi, ben ritmati e sostenuti da azioni sceniche ragionate: se nelle prime scene Antonio cerca le scarpe per donarle ai bisognosi, nelle ultime non sa neanche più di che oggetto si tratti né tantomeno che scopo abbiano. Non c’è mai infatti una vera e propria diagnosi di demenza, ma uno snodarsi di gesti, che da quotidiani diventano straordinari, in un’operazione di destrutturazione del gesto abituale. Se quindi la prima avvisaglia della malattia è data da Antonio che mette i calzini nelle mani anziché ai piedi, in ultima battuta, diventano i guanti per proteggere le braccia del crocifisso dal freddo. La potenza espressiva di De Luca, insieme a quella di Matilde Piana e, seppur meno incisiva, di Davide Fasano, racconta tutto il non detto, il sottotesto omesso che arriva allo spettatore in modo diretto. 

È uno spettacolo, quello di De Luca, che si rivolge a un pubblico vasto ed eterogeneo, con qualche ammiccamento anche se misurato, che non ricorre a grossi espedienti stilistici, testuali o avanguardistici per farsi portavoce di una sofferenza universale, indirizzata più ai parenti dei malati di Alzheimer che ai malati stessi.
Sebbene la spiritualità, cattolica in questo caso, poteva essere bersaglio di feroce critica o strumento di facile “proselitismo”, De Luca è  abile nell’utilizzarla come espediente per raccontare visivamente una malattie invisibile, silenziosa, svincolandosi da ogni tipo di etichetta e giudizio. L’assioma finale è quello dell’affetto, universale e condiviso, privo di margini e confini, pure nell’orizzonte limitato della malattia mentale e dello spazio conciso di un sagrato di periferia calabrese. 

 

IL VANGELO SECONDO ANTONIO

scritto e diretto da Dario De Luca
con Matilde Piana, Dario De Luca, Davide Fasano
musiche originali Gianfranco De Franco
scena e disegno luci Dario De Luca
audio e luci Vincenzo Parisi
assistente alla messinscena Maria Irene Fulco
costumi e assistenza all’allestimento Rita Zangari
realizzazione scultura Cristo Sergio Gambino
organizzazione generale Settimio Pisano

Teatro Oscar DeSidera, Milano | 1 febbraio 2025

 

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.