CHIARA AMATO / PAC LAB* | “Avevo concepito i miei film dal profondo della mia anima, del mio cuore, del mio cervello, dai miei nervi, dal mio sesso e – non da ultimo – con le mie viscere”. Così Ingmar Bergman aveva sintetizzato il suo modo di fare cinema nel libro Images: My Life in Cinema, scritto nel 1990. Sarabanda è il suo ultimo film, girato nel 2003 per un’emittente televisiva svedese, e recuperava i personaggi principali di Scene da un matrimonio (1973). Quest’ultimo aveva come tema centrale la relazione della coppia Marianne/Johan e le loro vicissitudini, anche dopo la separazione.
Nel sequel, invece l’attenzione è sulla relazione fortemente conflittuale genitore-figlio, che si instaura tra l’autodistruttivo Henrik (figlio di Johan da un altro matrimonio) e sua figlia adolescente Karin, una violoncellista che aspira al conservatorio, ma emotivamente vampirizzata da suo padre, in seguito alla morte della madre Anna. Sia nel film che nella realtà sono passati trent’anni e il regista immagina proprio l’incontro di questa coppia ormai in là negli anni, dopo lo scorrere del tempo.
Sarabanda, in scena al Piccolo di Milano, è l’ultimo spettacolo con la regia di Roberto Andò che per l’occasione dirige un cast d’eccezione (Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi). L’opera ha debuttato a gennaio al Teatro Mercadante di Napoli, del quale Andò è direttore artistico. La carriera del regista palermitano è arcinota e continua molto prolifica, sia a teatro che al cinema.
Il titolo dell’opera allude alla zarabanda, un ballo popolare per coppie che fu bandito in Spagna alla fine del XVI secolo, per i suoi caratteri lascivi. Un secolo dopo, in Francia, acquisì un ritmo più lento e fu ulteriormente temperato poi grazie a Bach. In questo caso a essere protagonista è la sarabanda Suite n. 5 di Bach per l’appunto, decisamente drammatica e dai toni evocativi, profondi e cupi: sonorità che si sposano perfettamente con le tematiche trattate nella trama.
La costruzione scenica è pensata e fatta in modo tale che ad ogni sequenza, l’ambientazione, i costumi e le luci cambino, motivo per il quale è difficile fornire una unità di narrazione.
La scena (Gianni Carluccio) si apre su una donna seduta a un tavolo, vestita con un completo turchese e immersa in una luce di forma quadrata che la incornicia a mezzo busto. Qui Marianne (Alvia Reale) introduce i personaggi e i loro tortuosi legami.
Questo artificio, utilizzato anche nel film, serviva a Bergman per non iniziare in medias res la storia e, per chi non avesse visto il prequel, fornisce una serie di indicazioni sulla vicenda e sui caratteri.

Nel saggio La última palabra de Bergman: Sarabande, Miguel Ángel Lomillos giustamente evidenzia che da questo momento in poi i personaggi, come nella struttura delle sarabande, interagiscono in dieci scene (o movimenti), sempre in coppia, e man mano che la storia procede, il partner cambia.
Le sequenze sono brevi e vengono segnalate da bruschi stacchi che riproducono l’iris o la dissolvenza cinematografica. Questo effetto in scena viene ottenuto con il restringimento della visuale del palcoscenico, sia grazie a un tendaggio che bascula dall’alto, che con due fasce orizzontali che coprono parte della scena. La soluzione è molto complessa e studiata insieme al gioco luci (sempre a cura di Carluccio): uno degli indubbi valori aggiunti di questo spettacolo.
Lo schema è ripetuto a ogni cambio di scena, sempre in maniera diversa (dividendo la visuale in verticale o in orizzontale; coprendo parte del palco; restringendo fino al buio totale il campo visivo dello spettatore) e viene creata una notevole varietà di geometrie dello sguardo.
Successivamente, assistiamo all’incontro tra i due vecchi coniugi: in scena Johan, interpretato da Carpentieri, è seduto su un sofà in velluto e la ex moglie inizia a dialogare con lui in maniera scherzosa sulla vecchiaia. Si confrontano sulla scelta misantropa di Johan di vivere in un bosco e sullo stato di salute dei figli, comuni e non. Ridono e si tengono per mano come due innamorati, “perché l’amore cosa altro è se non una salda amicizia e del tenace erotismo?” conclude lui, prima che la scena diventi nuovamente buia.
Poi c’è la conoscenza tra Karin (Caterina Tieghi) e Marianne: con pantaloncini e t-shirt bianchi, dall’aspetto quasi virginale, e con una lunga treccia bionda appare questa candida ragazza, disperata per i comportamenti del padre Henrik, ossessivo nel soffocarla con il suo amore e la sua depressione.
La recitazione cambia totalmente il ritmo e i toni: Tieghi mostra il lato animalesco che solo le malsane dinamiche familiari sanno tirar fuori. È nevrotica ed esaurita dalla tragicità della sua situazione, urla: teme per suo padre, ma anche per sé stessa. Intorno a loro ci sono quattro finestre dalle quali entra la luce, lasciando in ombra il resto del palco.
A partire da questo momento, l’intero spettacolo comincia a farsi sempre più cupo e asfissiante, anche per la presenza in absentia di un quinto personaggio: Anna, la madre morta di Karin e rimpianta da tutti come una donna dai saldi principi e dalla bontà smisurata. Le due donne (più una) sono i personaggi “sani” e cercano consolazione e supporto l’una nell’altra, ma sono circondate da odio. Gli uomini, invece, seguono pedissequamente il modello bergmaniano maschile: immaturi, egoisti, irascibili e con traumi infantili.

Conosciamo finalmente Henrik (Schilton), che fino ad ora è stato solo descritto ed effettivamente ne cogliamo tutta la drammaticità: ossessiona la figlia con le sarabande di Bach, dorme con lei, è violento, per poi assumere atteggiamenti da vittima.
Continuano i confronti a due: Marianne e Johan, Johan e Herik, Herik e Marianne, Marianne e Karin, Karin e Herik, etc. In un alternarsi di angosce e risentimenti, i personaggi si sbranano a vicenda per poi occuparsi l’uno dell’altro, tra ferocia e morboso accudimento. La questione principale, intorno a cui ruotano i dialoghi, è il futuro della giovane nipote: ognuno cerca di portarla dalla propria parte, più per un senso di vittoria personale che non nell’interesse della ragazza.
Fortissime le interpretazioni di Carpentieri e Schilton durante il loro scontro: senza mai usare toni carichi, si feriscono con il sarcasmo, che sfocia in brutale cattiveria. La sceneggiatura è qui tagliente, e viene enfatizzata dalla loro bravura: rendono tristemente comica questa scena terribile. Tutti ci domandiamo, compreso Herik, da dove un padre possa far sgorgare tanta rabbia, nodo che non viene sciolto nella pièce.
Il nonno riesce però a smuovere l’istinto di fuga nella nipote, unica figura per cui sembra provare un affetto sincero. Infatti lo spettacolo mostra un Carpentieri ironicamente dissacrante su tutto, tranne che sul sentimento per Karin e che provava per Anna. La sua ex moglie – di nuovo al suo fianco – non sembra essergli troppo gradita, fino allo svelamento finale. L’angoscia.
L’angoscia è quel personaggio che serpeggia per tutto lo spettacolo (anche grazie alle musiche di Pasquale Scialò e i suoni di Hubert Westkemper): la sentiamo nei costumi (Daniela Cernigliaro), nella staticità dei personaggi all’interno delle singole sequenze e nelle loro vite. Durante la notte, l’angoscia divora il protagonista maschile che, come un bambino inconsolabile, si reca al capezzale del suo vecchio amore e le chiede di poter stare nudi nel letto insieme. La tenerezza e la disperazione di questa immagine, racchiuse in un abbraccio, farebbe immaginare una consolazione e a un sollievo per il cuore, ma invece Andò non ci dà tregua. Subito dopo, in un ritaglio rettangolare, vediamo i nostri quattro protagonisti a mezzo busto, ognuno nel proprio urlo silenzioso. Richiamano Munch, anche lui interprete delle solitudini scandinave, e lasciano il pubblico gelato da questo grido di dolore senza parole, senza dialogo, senza conforto. Sono soli.
La regia è molto fedele al ritmo che Bergman diede al suo ultimo capolavoro e gli interpreti riescono a tenere la platea stregata nonostante la pesantezza delle tematiche. Più acerba la recitazione di Tieghi per la sua età e minore esperienza, ma non è semplice essere al passo del trio Carpentieri/Reale/Schilton.
Un lavoro che sicuramente ha come fiore all’occhiello un placido Carpentieri: ogni sua parola pesa ed ogni suo sguardo è carico di sentimento. Pur nei pochi movimenti in scena, riesce a essere denso, corposo e ad esprimere la profondità psicologica cara all’artista svedese. Sembra che quello che Andò avesse in mente di fare – e che gli è riuscito decisamente – fosse un omaggio: sincero, sentito e innamorato nei confronti di un’artista caro del passato.
SARABANDA
di Ingmar Bergman
traduzione Renato Zatti
regia Roberto Andò
con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
musiche Pasquale Scialò
suono Hubert Westkemper
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd, per gentile concessione di Joseph Weinberger Limited, Londra, per conto della Ingmar Bergman Foundation
18 febbraio 2025 | Teatro Piccolo, Milano
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.