CRISTINA SQUARTECCHIA l Dal divino al sacro e dal sacro/divino all’umano. Sono queste le tre dimensioni chiave che tengono insieme il Trittico presentato al Teatro alla Scala nei giorni scorsi sotto la firma di Philippe Kratz, Angelin Preljocaj e Patrick de Bana, che propongono, rispettivamente, Solitude Sometimes, Announciation e Carmen, quest’ultima in prima assoluta. Tre stili, tre desideri, tre racconti diversi sull’umanità in relazione al cosmo, al segno corporeo, alla fede e al dramma psicologico per un viaggio capace di spingersi negli abissi misteriosi dell’Io come del mondo.

E proprio dalla fine, dal dramma psicologico e passionale che si consuma in Carmen, che si è scelto di cominciare. Non tanto per la vicinanza della festa nazionale dedicata alla donne, e neanche per i 150 anni di vita sui palchi del mondo per l’opera lirica di Georges Bizet, (3 marzo 1875) dalla novella di Prosper Mérimée, ma per la verità drammaturgica con la quale si compie il femminicidio, al punto da zittire una platea di scolaresche nella recita pomeridiana. Impetuosi e viscerali gli ultimi dieci minuti di una Carmen flamenca e classica insieme, che scuotono così nel profondo da lasciare addosso quelle vibrazioni che risuonano anche dopo essere usciti dal teatro e tuffati nel traffico cittadino. E se Patrick de Bana ha premesso, come dichiarato nella bella intervista a Valentina Bonelli nel Libretto di sala che voleva “capire cosa sente Don Josè, seguire la trasformazione di un soldato che impazzisce fino a compiere il femminicidio”, si può dire che tira dritto e riesce in questo obiettivo.
Il suo è un lavoro coreografico dove parlano più i sentimenti che i personaggi, operando una sintesi scenica delle tante Carmen che il Novecento ci ha lasciato, a partire da quella di Antonio Gades, Roland Petit, Mats Ek e Alberto Alonso, sulla suite musicale di Rodion Ščedrin con evidenti aggiunte di brani provenienti dal folklore iberico, posizionati all’inizio e verso la fine della pièce.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Non è infatti quell’inconfondibile suono delle campane e poi della lunga sirena dell’Habanera ad accogliere la prima scena, ma la voce di El Pele&Vicente Amigo​​​​​​​ (Aconteció), un lamento ritmato e funzionale a preparare l’atmosfera. Si individuano subito le due figure chiave di tutto lo spettacolo, il toro e la morte, impersonati da due danzatori che non usciranno mai di scena, pur restando ai margini o sul boccascena, a ricordare quell’ineludibile destino da cui è impossibile sottrarsi. Oltre questo ci salvano la danza, i colori e la vivacità sensuale di quest’opera con la quale de Bana costruisce una Carmen che piace e seduce lo spettatore per la varia campitura cromatica di toni decisi e caldi nelle luci e nei costumi. Per il coreografo, infatti, la forza di quest’opera è da ricercare nella sua terra iberica, in quel caleidoscopico mondo passionale dello zapateado delle processioni religiose, delle donne dolenti e ardenti di passione, che dominano in questa versione. Sono loro a emergere in coreografie di ampio respiro e in elegante sintonia musicale con le composizioni di Ščedrin per gli ensemble corali, dotati di effettistica virtuosa.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Le gonne, quelle d’ispirazione flamenca, riempiono lo spazio e conferiscono continuità di movimento e stile nelle coreografie femminili, specie quando il corpo di ballo scaligero disegna virtuosismi saltati in cerchio. Quello di de Bana, coreografo cresciuto sotto l’ala di John Neumeier e Nacho Duato, è uno stile ancorato al passato, tradizionale e decisamente neoclassico, ma che sa fare appello a soluzioni dinamiche e fluide, quanto basta per disegnare pas de deux, intrecci e passaggi utili a dispiegare la trama e il dramma dei personaggi. Punto di forza del suo discorso è l’uso dello spazio, compresso, esteso o tagliato, appositamente scelto per mettere in evidenza l’evoluzione dei personaggi. Lo vediamo dall’inizio nel pas de deux tra Carmen – una sensuale e vibrante Alice Mariani, con Don Josè  Nicola Del Freo, pieno di pathos ma confinato dentro una cella, quella della galera, come a sottolineare l’impossibilità di questo amore. O nell’uso della diagonale sulla quale de Bana posiziona in maniera equidistante Carmen in atteggiamenti amorosi con il Torero, Don Josè e la sua fidanzata Micaela e le figure della morte e del toro.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Sono allineati sullo stesso fascio di luce ma impossibilitati a comunicare pur essendo vicini, poiché avviluppati ognuno nelle proprie solitudini, quelle della gelosia, della passione e dell’abbandono che li risucchiano dentro la propria spirale emotiva. Ne è un ulteriore esempio il momento in cui Don Josè, in preda alla disperazione gelosa, danza e, barcollando su di un disegno circolare, viene progressivamente inghiottito dentro un vortice emotivo che lo conduce, poi, a compiere l’atto tragico e finale su Carmen. Una versione che supera il dramma del personaggio per sprofondare nell’abisso della solitudine, quella senza vie di fuga dalle brucianti passioni.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Procedendo a ritroso nel trittico scaligero, ad anticipare la passionale Carmen è l’eterno Annouciation di Angelin Preljocaj, il coreografo franco/albanese molto richiesto dall’establishment scaligero sin dal 2002. Announciation è uno dei cavalli di battaglia di Preljocaj, realizzato nel 1997 è ancora colmo di quella carica emozionale che suscita il tema del materno e della sacralità del concepimento avvenuto nella Vergine Maria. Costruito su ispirazione dell’iconografia pittorica e rinascimentale, Preljocaj, si spinge nell’atto dell’annuncio rivedendo le due figure centrali, lo spazio e i costumi senza alcuna connotazione storica, optando per una panca angolare. La sua Maria è una fanciulla in attesa, come si coglie sin dall’inizio mentre è seduta con indosso una sottana bianca, in ascolto di un vociare di bimbi che cogliamo dal tappeto sonoro di Stéphane Roy (Crystal Music).

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Agnese Di Clemente ci restituisce tutta la freschezza di un corpo acerbo ma pronto alla vita, la delicatezza del gesto e la dinamicità del flusso del movimento. Si oppone alla sua fisicità il corpo androgino dell’Arcangelo Gabriele impersonato da una donna – Caterina Bianchi – in abitino blu. Al suo ingresso irrompono i suoni elettronici mescolati da Stéphane Roy che si fanno più caotici e stridenti nella danza, carica di quella forza che sconvolge la pace dell’attesa in cui si trova Maria. Scorrono qui intensi alcuni passaggi prima del pas de deux sul Magnificat di Antonio Vivaldi, dove tutto rallenta e si sublima tra i due corpi. La danza che Preljocaj confeziona sul Magnificat prima e sul silenzio poi è un distillato di assoluta bellezza nel fraseggio, un poetare nei passi inanellati tra loro, tra cadute, sospensioni, tilt off balance, alternati a pause e ralenti. C’è una varietà di gesti e sguardi, semplici e lineari, capaci di raccontare tutto con poco, ed esprimere una certa sorellanza e complicità che unisce questi due corpi femminili, dalla carezza sul ventre da parte dell’Arcangelo Gabriele, al bacio e al pollice infilato nella bocca di Maria. Sono queste le vie attraverso le quali il Divino entra nel corpo materico per avviare quel processo di fecondazione spirituale. Una scelta registica che apre riflessioni sul sacro e sulla simbologia cristiana senza incrinare la fede religiosa verso quel miracolo quotidiano della vita che si rinnova ogni giorno nel corpo di una donna.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Ma ad aprire il trittico è Solitude Sometimes di Philippe Kratz, un coreografo dal segno raffinato, con un legame storico con il corpo di ballo scaligero iniziato nel 2014 con SENTieri e proseguito felicemente sino ad oggi. Ex danzatore di punta dell’Aterballetto e coreografo free lance, Philippe Kratz è divenuto da poco direttore artistico del Nuovo Balletto di Toscana, e riprende questo lavoro realizzato sulle musiche di Thome Yorke e dei Radiohead, composto appositamente per i ballerini del Piermarini nel 2023.
La scena si apre su un uomo solo al centro che simula una camminata ma senza avanzare. Il suo è un incedere che non porta da nessuna parte ma proietta la figura oltre lo spazio scenico, mentre sul fondo, da un pannello, si scorgono lembi terrestri o stalattiti in espansione. Entrano via via altre figure, con la stessa qualità di movimento che richiama la camminata fluida e allude al passare del tempo. Movimenti nitidi, passaggi sciolti ma sinuosi permettono il fluire di un discorso coreografico dal profumo ancestrale mentre la musica elettronica di Thome Yorke e dei Radiohead dall’album Pyramid song frigge acusticamente ovattando la scena. Nonostante alcuni pas de dex, terzetti e contatti, si respira un rapporto di prossimità tra i danzatori, di vicinanza ma non di coesione, come se la coralità fosse più una condizione di uguaglianza che non di unione.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Sembrano infatti monadi, in senso leibniziano del termine, perchè appaiono come entità autonome che costituiscono singolarmente l’universo, in panta e t-shirt quasi dorate, occupando lo spazio in punti precisi, su file e diagonali. Scorrono ed entrando sempre dalla destra verso la sinistra dello spettatore, in maniera fluida e mai al contrario. Un’allusione al tempo che scorre, che avanza incessantemente senza mai retrocedere, al cosmo e all’ecosistema tutto che guarda sempre avanti, mentre l’uomo necessita di richiamare gli archetipi del passato per ritrovare sé stesso. E Kratz lo fa andando molto lontano nel tempo quando sviluppa il suo discorso coreografico sulla bidimensionalità di antiche figure egizie.

Ph. Brescia – Amisano © Teatro alla Scala

Una ricerca stilistica che ha condotto il coreografo ad ispirarsi al testo antico di Amduat, che significa colui che è nell’ aldilà, e che racconta del lungo viaggio e della lotta contro le forze ostili che compie il Dio del Sole Ra. Un viaggio solitario negli abissi della notte dove trovare forze rigenerative verso la vita. Dal sapore malinconico e cosmico, sulla voce di Thome Yorke dalle estensioni quasi rotte, più parlate che cantate, Solitude sometimes guarda all’uomo e alla sua caducità, alla solitudine come condizione necessaria per poter rinascere di nuova luce dal profondo della propria anima.

CARMEN

Patrick de Bana, coreografia
Aida Badia, assistente coreografo
José Andrade, libretto
Rodion Ščedrin (Carmen SuiteEl Pele&Vicente Amigo​​​​​​​ (AcontecióMontse Cortés con Juana la del Pipa (Ayer en Hoy), musica
Ricardo Sánchez Cuerda, scene
Stephanie Bäuerle, costumi
Ivan Vinogradov, luci

ANNOUNCIATION

Angelin Preljocaj, coreografia e scene
Claudia De Smet, supervisione coreografica
Stéphane Roy (Crystal Music) e Antonio Vivaldi (Magnificat), musica
Nathalie Sanson, costumi
Jacques Châtelet, luci

SOLITUDE SOMETIMES

Philippe Kratz, coreografia
Casia Vengoechea, assistente coreografo
Thom Yorke e Radiohead, musica
Carlo Cerri e Philippe Kratz, scene
Francesco Casarotto, costumi
Carlo Cerri, luci
Carlo Cerri e OOOPStudio, video designer

4 marzo 2025 | Teatro alla Scala, Milano