ENRICO PASTORE | L’avanguardia artistica irruppe sulla scena del Novecento non con il vestito buono della domenica ma en travesti. Gli artisti alla ricerca di nuovi fondamenti per le arti si mostravano in maschera al mondo ancora ottocentesco, e quindi vittoriano, puritano e benpensante. Se la verità come aletheia solo velando disvela, l’identità, non solo artistica, veniva scoprendosi nel travestimento.
A Parigi Colette e la marchesa Mathilde de Morny davano scandalo con la loro relazione saffica e monogama dissimulando il loro sesso biologico. Detrattori e ammiratori andavano letteralmente in ebollizione di fronte a queste dee ambigue. Perfino nella licenziosa e perversa Ville Lumière fece scalpore nel 1907 quel Rêve d’Égypte all’Olympia dove Colette, mummia in cerca d’un palpito d’amore che la risvegliasse alla vita, baciò appassionatamente la Marchesa Missy vestita come un archeologo.

Colette et Missy in Rêve d’Égypte (1907)

Ma non erano solo le donne a mischiare le carte dei generi sessuali, pensiamo a Rrose Sélavy, alter ego e readymade autorappresentativo di Marcel Duchamp. E questo mescolamento e mascheramento delle identità, è bene ricordarlo, non avveniva solo sui palcoscenici o nei salotti più alla moda ma anche nei locali frequentati dalla media e bassa borghesia. Durante la Belle Epoque tutti cercavano di immaginare e costruire una nuova umanità.
A Mosca e a San Pietroburgo i cubofuturisti russi davano il via al loro scalcinato e festante carnevale; Majakovskij, l’arcangelo carrettiere di Marina Cvetaeva, giallo-rosso vestito cantava: «vi mostreremo quotidianamente che sotto le gialle bluse di pagliacci erano corpi di atleti robusti»; Velimir Chlébnikov vagava per le Russie vestito di stracci con una federa di cuscino piena di versi immaginifici; Michail Larionov e Natal’ja Goncharova passeggiavano per Mosca con il viso scarabocchiato di strani simboli mentre Vasilij Kamenskij si aggirava sul Kuzneckij Most con mestoli di legno all’occhiello.
Dada a Zurigo, in esilio da un Europa in guerra, dava spettacolo con i costumi argentei e vescovili che imbozzolavano Hugo Ball nella recitazione di Gadji beri bimba, mentre a Berlino e a Weimar le casacche alla russa e i pantaloni svasati identificavano la divisa dei Bauhaus e gareggiavano in stravaganze geometriche con i costumi del balletto triadico di Oscar Schlemmer. A New York la baronessa Elsa Von Freytag-Loringhoven fu tra le prime a fare del proprio corpo un’opera d’arte ornandosi con posate ricurve, latte di tonno aperte, molle deformi e strani oggetti rotti e ammaccati trovati nelle immondizie di Manhattan.

Balletto triadico

In Italia tra Venezia e Capri la diva assoluta del travestimento era la Marchesa Luisa Casati Stampa, erede legittima delle stravaganze della contessa Virginia Oldoini di Castiglione, eroina espulsa dal nostro Risorgimento che non poteva certo essere ravvivato da avventure licenziose in costume e vestaglie di seta. Luisa Casati fu esaltata da Filippo Tomaso Marinetti e dai Futuristi tutti come simbolo della donna ardita, coraggiosa, futura. I suoi balli in maschera a Ca’ Venier dei Leoni (oggi sede della Fondazione Guggenheim) riportarono in laguna i fasti carnevaleschi della Serenissima, mentre i suoi costumi con piume di pavone o di struzzo nero a disegnarla maga oscura, insieme ai suoi comportamenti sessualmente anomali, scandalizzarono la pur permissiva Capri, che in quel tempo accoglieva stravaganti di tutta Europa. Perfino D’Annunzio rimase stregato dal fascino demoniaco della divina marchesa, ritraendola in Isabella Inghirami, versione nostrana della femme fatale, in Forse che sì, forse che no. Tra i molti ritratti che ci consegnano la sua immagine inimitabile, il più affascinante è quello di Giovanni Boldini, forse suo amante, sicuramente suo ammiratore, in cui Luisa è raffigurata su sfondo di color perso in una mise total black floreale, dove il levriero nero si confonde con le pieghe delle gonne. Lo sguardo è intenso, ammaliante, ipnotico.

Giovanni Boldini – La Marchesa Luisa Casati con un levriero (1908)

Ed ecco infine la triestina Leonor Fini, l’italiana a Parigi, che fin da bambina fu travestita da maschio per sfuggire ai tentativi di rapimento del padre. Leonor, artista d’avanguardia della seconda ondata, ebbe modo di imparare e mettere a frutto le esperienze bizzarre di chi l’aveva preceduta e affermare così le sue strategie di travestimento in una Parigi ora dominata da Josephine Baker, che dai palchi alle Follies Bergères, con il suo gonnellino fatto di sedici banane e ballando indiavolati charleston provava a mettere in crisi i pregiudizi misogini e razziali.
Le feste di Leonor a Parigi, come quelle di Casati prima di lei al Palais Rose, erano una sorta di rito sciamanico in cui chi partecipava nascondendo la propria identità andava alla ricerca del vero sé nascosto. Come notano Montesarchio e Varriale, la sua casa in rue Payenne al numero 11 diventava «un palcoscenico dove ogni attore può interpretare diversi personaggi, ognuno di essi però è fedele all’unica regista della rappresentazione, che fa leva sull’illuminazione usata ad arte per rendere più misteriosi gli ambienti e più semplice l’atto di “purificazione” di se stessi attraverso la recitazione di un ruolo ogni giorno diverso».
Leonor, quando le chiedevano di definire la sua attività artistica, negava l’appartenenza a un’arte o a un movimento e affermava semplicemente: «io sono». In questo non fu la prima e nemmeno l’unica. Far di se stessi un’opera d’arte era pratica già di fine Ottocento, così come confondere se stessi con i propri personaggi. Qualcosa stava però cambiando: la ricerca artistica diveniva ricerca di sé e, in quanto tale, abbatteva i confini entro i quali manifestarsi. Se Sperelli è l’alter ego di D’Annunzio, vita e arte restano ancora separate e distinte ma in Leonor la vita stessa diventa baroccamente teatro, una performance attraverso cui costruire la sua propria identità e manifestarla al mondo. Non vi è più quindi separazione tra un dipinto, una festa in maschera, una fotografia in posa o un romanzo scritto; non c’è differenza tra attore, maschera e personaggio. Ogni tassello è Leonor e per avere idea di lei bisogna ricomporre la sua identità come in un mosaico.

Leonor Fini – Autoritratto con scorpione (1938)

Lei stessa definì così il processo: «fra il teatro e me c’è un malinteso perché ho sempre amato e vissuto il mio teatro personale. Da bambina, fu come una rivelazione dell’attrattiva magica quando, per la prima volta, ebbi la possibilità di indossare maschere e costumi […]. Indossare un costume è come muoversi in un’altra dimensione, in un’altra specie e spazio nel quale chiunque può crescere gigante, scendere nel mondo delle piante, diventare qualunque sorta di animale, sentirsi invulnerabile e fuori dal tempo. Travestirsi è un atto di creatività […]. È una rappresentazione di sé e dei fantasmi che si portano con sé».
Non siamo solo nel campo della teatralizzazione della vita, ma entriamo nel regno ovidiano della metamorfosi, dell’eterna trasformazione di sé, un processo alchemico di raffinazione in cui l’anima brucia, abbandona dei pezzi, ne forgia altri, nella speranza di giungere a una perfezione, per quanto instabile e precaria.
I dipinti di Leonor, in questo senso, non sono semplici immagini ma rituali che a ogni sguardo si rinnovano e i cui esiti sono di volta in volta diversi sia per l’autrice che per l’osservatore. Sono testimonianza di una generatio aequivoca, una venuta al mondo di esseri e spiriti viventi da una materia inanimata. Sono imagines agentes, quelle amate dai rinascimentali maghi neoplatonici: rappresentazioni pittoriche capaci di aver effetto sul reale e modificarlo.

Leonor Fini – Comme tous les soirs (1977)

Il dipinto è qualcosa di vivo che crea materia organica ed effetti nel mondo e in questo si apparenta al teatro. Artaud aveva compreso il fenomeno quando parlava di Van Gogh e della capacità della sua pittura di far apparire la realtà e i suoi doppi.
E benché Artaud lodasse in Van Gogh l’assenza di mistica, ritualità o liturgia, fenomeni invece ben presenti in Leonor, in comune con la pittrice triestina vi era la capacità di scatenare forze che non paiono presenti in natura: «Sotto la rappresentazione, ha fatto scaturire un’aria e ha racchiuso in essa un nerbo, che non sono nella natura, che sono di una natura e di un’aria più vere dell’aria e del nerbo della natura vera». Inoltre Artaud non disegnava forse splendidi e terribili esorcismi i quali avrebbero dovuto proteggerlo dagli affatturamenti?
Quando Leonor si lascia ritrarre in fotografia a fianco del suo Mephisto dipinto su una porta o quando dipinge Comme tous les soirs (1977) rappresenta la propria lotta nel bilanciare l’attrazione della terra e la vertigine del cielo. Chiede insomma alle immagini, usando le parole di D’Annunzio, di porre «contro la mia maschera il tuo viso raggiante di musa o il tuo viso mortifero di Medusa».
Questa ambiguità è riscontrabile nelle sfingi che vegliano giovani uomini dormienti e inermi. In Sfinge nera che veglia sul sonno di un giovane (1946) l’uomo nudo dormiente è vegliato da una nera donna-leonessa con le fattezze di Leonor. Il cielo è scuro e il paesaggio pare abbandonato dalla vita: le foglie e le piante sono secche, la terra è arida. La sfinge guarda verso l’uomo ma dal suo volto non traspare alcun sentimento. Potrebbe proteggerlo come custodirlo in quanto preda.

Leonor Fini – Stryges Amouri (1947)

In Stryges Amaouri (1947) l’uomo è sempre beatamente dormiente ma questa volta avvolto da un’edera. Uno steccato di fragili bambù lo divide da due esseri: a sinistra una specie di gatto nero e peloso, a destra una fanciulla dai lunghi capelli ricci e neri, sulla testa un teschio di animale e una corona di rami d’alloro. La ragazza non guarda l’uomo ma direttamente l’osservatore. Anche qui gli esseri animali e femminili non sembrano minacciosi ma tutto può accadere, sotto quel cielo plumbeo.

Leonor Fini – Le bout du monde (1948)

L’evocazione di energie ctonie, potenze ambivalenti al di là di ogni morale come le forze della natura, pervadono i dipinti di Leonor Fini, quadri che hanno in comune con la scena teatrale la possibilità che sulla loro superficie tutto possa accadere, dalla più magnificente e gloriosa epifania al più turpe delitto. In Le bout du monde (1948) una fanciulla dai lunghi e voluminosi capelli bianchi sorge da uno stagno scuro, sullo sfondo un cielo che cattura l’ultima luce di un tramonto, niente ci assicura che quella luce possa riapparire. Nello stagno insieme alla ragazza galleggiano teschi di animali, animati da occhi vivissimi. La giovane donna si specchia sulla superficie lucida e immota color petrolio, non guarda la propria immagine riflessa, come Narciso, ma guarda verso di noi insieme al suo doppio ombra. È uno sguardo senza emozioni eppure non si può sfuggire alla sensazione che in quegli occhi azzurri vi sia una domanda a cui sia necessario rispondere.

Leonor Fini – La guardiana delle fenici (1954)

In La guardiana delle fenici (1954) una giovane donna sotto un cielo rosso come d’incendio è seduta di profilo e figge lo sguardo nel vuoto. Un lungo manto avorio con sfumature mandarino le copre le spalle, un morbido e voluminoso abito arancione le veste il corpo ma le lascia scoperti i seni. In mano la ragazza regge un candido uovo di struzzo. Attorno a lei le fenici. In primo piano i mitici uccelli hanno le piume bianche al contrario di quelle sullo sfondo, nere come la pece. La donna è bellissima, intangibile, e nella sua immota inviolabilità potrebbe generare la vita come scatenare un’apocalisse che potrebbe essere già avvenuta, a giudicare dalle rovine sullo sfondo.
La forza delle immagini di Leonor Fini risiede dunque in questa capacità di produrre in chi osserva emozioni discordanti e diversissime. Esse agiscono in base all’animo di chi guarda e lo cambiano. Non gli danno scelta. Una volta viste non possono essere dimenticate. In questo sono simili al grande teatro. La teatralità infatti è la cifra stilistica di Leonor, nella sua opera il teatro è ovunque e in tutti i suoi dipinti, i disegni, le immagini, le foto, i suoi romanzi, i suoi costumi sono maschere dietro cui scoprire il reale. Anche il teatro finge e nella finzione dice la verità, quella verità che in purezza sarebbe impossibile guardare negli occhi.

Leonor Fini – La tenebrosa (1978)

È come nel racconto del vecchio soldato nel romanzo di Murakami La città e le sue mura incerte: il militare in convalescenza vede apparire una donna di notte nella sua stanza, è bellissima ma ne vede solo il profilo. L’uomo a quel punto desidera vedere anche l’altra metà di questa donna incantevole e misteriosa, esce dalla sua stanza e la ammira dall’altro lato della finestra. Non sappiamo cosa vede, ma rimane sconvolto, per sempre segnato dalla visione. E questo che ci capita quando i nostri occhi si posano sui dipinti di Leonor, e per chi volesse provare l’ebbrezza dell’esperienza, a Palazzo Reale a Milano, la mostra curata da Tere Arcq e Carlos Martin è aperta fino al 22 giugno.
A volte per trovare il teatro, occorre uscire dal teatro.