OLINDO RAMPIN | Wit, il testo di Margaret Edson messo in scena e ripreso a un anno dal debutto dal Teatro Due di Parma con la cura di Paola Donati, nel breve volgere di qualche settimana ci ha messo di fronte per la terza volta a quella forma particolare di intelligenza che ha il suo equivalente possibile, ma non perfetto, nei termini italiani arguzia, acutezza. In tutte e tre le occasioni, oltre che una espressione dell’ingegno e della capacità argomentativa, esso ci è parso soprattutto un mezzo per smussare e superare le asperità della vita e, dietro la superficie smaltata, uno strumento di distinzione e di potere nelle relazioni umane. Nei primi due spettacoli, L’avventuriero dell’autrice inglese seicentesca Aphra Behn diretto da Giacomo Giuntini e Boston Marriage di David Mamet con la regia di Giorgio Sangati, attraverso il potere della parola e dell’arguzia il protagonista risulta vittorioso. Nel terzo, che al wit – il pensiero – dedica il titolo stesso, la protagonista è destinata a soccombere.

Tanto esperta di acutezza d’ingegno, di sottili metafore e di argute connessioni da farne la specializzazione della sua vita di infaticabile studiosa delle liriche sacre del poeta metafisico inglese John Donne, la professoressa universitaria Vivian Bearing, a cui Valentina Banci ha saputo comunicare forza e dolcezza, incontra sulla sua strada un avversario contro cui la sagacia mentale e il prestigio sociale non possono nulla. Wit è, infatti, una riflessione sulla malattia e sulla morte come esperienze rivelatrici, ma amaramente tardive, della mancanza di significato e di autenticità della vita.
Nel 1886 questa riflessione aveva trovato la sua massima espressione letteraria in un racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič. In quegli stessi anni un altro grande russo, Anton Čechov, aveva scritto pagine mirabili su questo argomento nel racconto Una storia noiosa, il cui protagonista è anch’egli un intellettuale, un professore universitario, proprio come la protagonista di Wit.

Margaret Edson ha avuto presenti questi due grandi modelli? Probabile, anche se quel che emerge nel suo lavoro è la scoperta della propria fragilità e di un nuovo senso di sé non solo al cospetto della malattia e della morte, ma anche dello sguardo che su di esse getta la medicina. La studiosa di Donne, la severa filologa che con lo studio e la carriera accademica si era costruita una forte immagine di sé per difendersi dalla vita e dalla sua imprevedibile mutevolezza, si trova improvvisamente inghiottita da quell’istituzione totale che è l’ospedale, dalla fredda implacabilità dello “sguardo clinico” di cui parlava Michel Foucault.
Quello sguardo oggettivante, che punta a misurare e classificare, trasferisce la protagonista dalle aule universitarie dove si era corazzata con l’autorità del sapere nelle raggelanti corsie di un’ospedale, in cui il denudamento e la vestizione sono fin dal ricovero i simboli di un processo di decostruzione dell’identità. Lo sguardo reificante, che disumanizza il rapporto tra medico e malato, è indagato e incarnato con persuasiva prensilità da Massimiliano Sbarsi e da Davide Gagliardini.

Se i due personaggi maschili rappresentano l’aridità nomenclatoria dello “sguardo clinico”, le due figure femminili sono il tramite che aiutano la professoressa Bearing a vincere, troppo tardi, la sua riluttanza alle relazioni e alle emozioni. Laura Cleri dona all’infermiera Susie la sorridente umanità, la immediata solidarietà che sanno far breccia nella solitudine di Vivian. Cristina Cattellani conferisce credibilità di toni accorati alla professoressa Ashford, suo nume tutelare, l’unica persona a farle visita. E non era mancato un valore di ammonimento, vero nella sua semplicità, nello scambio con uno studente, il persuasivo Salvo Pappalardo.
La vita della professoressa Bearing, come quella di Ivan Il’ič, acquista dunque rilievo e consistenza attraverso la malattia. Con essa prende coscienza delle illusioni di cui si era nutrita: la professione e il prestigio sociale. Il pensiero della morte dà autenticità alla sua esistenza. Ma non è proprio dalla lirica amorosa del suo idolatrato Donne che avrebbe potuto apprendere già prima il ruolo delle emozioni, dell’eros contrapposto a thanatos? Non avrebbe dovuto trovare in quelle poesie d’amore una delle sue maggiori novità, l’espressione dell’intera gamma del sentimento amoroso, quindi anche del desiderio fisico?
Forse, la professoressa Bearing aveva rinunciato all’amore perché esso, non certo quello regolarizzato nel matrimonio o istituzionalizzato nella famiglia, è spesso un’esperienza rischiosa, di “declassamento”, che comporta perdita di potere, di autocontrollo, di equilibrio. Per questo la professoressa Bearing si è indurita, si è immunizzata con il wit dal dolore che inevitabilmente l’eros porta con sé. Ma nulla ha potuto contro la morte, contro thanatos, l’avversario di eros, né contro la malattia, tramite di una breve, lucida, dolorosa consapevolezza.
WIT
di Margaret Edson
traduzione Valentina Martino Ghiglia
con (in o. a.) Valentina Banci, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Davide Gagliardini, Salvo Pappalardo, Massimiliano Sbarsi
musiche Alessandro Nidi
costumi Elisabetta Zinelli
luci Luca Bronzo
a cura di Paola Donati
produzione Fondazione Teatro Due
Teatro Due, Parma | 15 aprile 2025