RENZO FRANCABANDERA | Da Claudio Morganti a Monica Conti, passando per Michele Bia e Teatro Scalo: parliamo in questo contributo di tre spettacoli diversi ma improntati al lavoro sull’attore e dell’attore. Ma anche e soprattutto lavori di regia

E’ una bella, profonda regia quella che Monica Conti regala in questi giorni al Franco Parenti portando in scena il Dostojevskij de La Mite. L’allestimento toglie subito il respiro allo spettatore, che entra nel piccolo spazio dedicato alla messa in scena passando davanti alla salma caravaggesca di una giovane ragazza, la protagonista Federica Rosellini, che insieme a Roberto Trifirò, che ha anche lavorato all’adattamento per la scena, racconta questa storia di insubordinazione all’inettitudine.
La vicenda è quella del gestore di un monte dei pegni che sposa una giovane cliente. Un matrimonio non d’amore, in cui la pusillanimità dell’uomo pian piano emerge, nell’incapacità dell’uomo di riflessioni che vadano oltre il contingente, nell’incapacità di spiccare voli verso un universo di sogni, di slanci, di coraggio che la ragazza invece desidera. Così la giovane, a sua volta incapace di dare la morte al suo carnefice, punta l’arma contro se stessa e chiude la vicenda, puntellata dalla regia di pochissimi, puliti segni, un’icona, un pianoforte su cui a più riprese risuonano le prime, gravi battute del magnifico preludio in do diesis minore opera 3 n. 2 per pianoforte di Rachmaninov. E’ questa la colonna sonora scelta dalla regia come piccolo addobbo sensoriale di un allestimento che per il resto gioca, con grandissima abilità, sulle luci che riescono a moltiplicare gli spazi e ad evocare luoghi e dimensioni ulteriori.
E’ con pochissimi elementi che viene ricreato, senza che mai appaia, un’oltremondo fra memoria e dimensione spiritica, da cui la pallida ed esile figura della Rosellini emerge di tanto in tanto con ectoplasmatica leggerezza. In questo Monica Conti conferma la sua capacità di raccontare con lucida oscurità i paesaggi psicologici di scrittori e drammaturghi certamente non facili, come in passato Ibsen, o, in questo caso, Dostojevskij. Trifirò snocciola con raggelante abilità un testo di cui riesce a rendere l’anogoscia. L’attore in questa stagione ha già affrontato Dostojevskij con un allestimento di Memorie dal sottosuolo, ma è innegabile che, nel confronto con l’autore russo, la regia esterna della Conti giovi maggiormente all’esito scenico. La calligrafia della regista, d’altronde, è sempre lucida, non indugia in orpelli e segni scenici ridontanti: è di pochi, forti simboli e soprattutto di lavoro sugli attori. Pochi in Italia lavorano sul classico come lei e ancora meno sono le donne. Vederla alla direzione in produzioni dei grandi stabili non dovrebbe essere così difficile, come invece è capitato in questi anni, perché è professionista capace di leggere il teatro con rigore e profondità assai particolari. E questo spettacolo ne è conferma.

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A Palazzolo sull’Oglio il Teatro Flauto Magico ospita una rassegna il cui nome spiega la cadenza atemporale degli incontri: Saltuaria è il classico esempio di ottima gestione del poco. Con risorse minimali, Modesto Messali e il gruppo di lavoro del TFM riesce a mettere la comunità locale in collegamento con grandi nomi del teatro italiano. L’ultimo in ordine temporale a passare per il paese al confine fra le province di Bergamo e Brescia è stato il grande Claudio Morganti.
Morganti è uno dei pochi teorici di valore assoluto del teatro italiano, oltre che interprete di raffinato calibro. Mentre ancora un suo Woyzeck attende di veder la luce nella prossima stagione del Crt, sostenuto oltre che dal teatro meneghino anche da Armunia e speriamo anche da altri, l’interprete continua a girare l’Italia con laboratori e ricerche sulla parola. A Palazzolo è stata presentata l’evocativa Lectura Dantis, un cammino fra i versi della Comedia, e dell’Inferno in particolare. Un lavoro quasi esclusivamente vocale, che ricorda i grandi del teatro che con i versi danteschi si sono confrontati. Cinquanta minuti di altissimo livello, che danno vita, rendono palpabile e palpitante la parola del poeta, la tenebra, la paura, ma anche l’amore, l’assoluto lirico. Niente da dire, esistono artisti che non scendono mai sotto l’asticella del bello, dell’intenso, e Morganti è fra loro. Bello vedere il suo lavoro in uno di quei tenaci episodi, come il Flauto Magico appunto, che resistono in Italia: il palco di una scuola di periferia, con gli spettatori affezionati che portano qualcosa da mangiare da casa per il dopo-spettacolo, che vivono il teatro come momento di crescita collettivo. L’Italia o rinasce da questo connubio, qualità e impegno sul territorio, o non rinasce. Il prossimo appuntamento con la rassegna è per sabato 17 dicembre con Estraneo (lettura tragica per voce e percussioni), che vedrà in scena Modesto Messali e Carlo Dodesini sempre a Palazzolo sull’Oglio.

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Nell’ambito della rassegna ospitata in queste settimane dal Teatro dell’Elfo di Milano e rivolta alle compagnie pugliesi che in questi ultimi anni si sono distinte per originalità e impegno, la compagnia Teatro Scalo ha proposto Muccia, un monologo scritto da Michele Bia, acuto e interessante drammaturgo e regista, e interpretato da Franco Ferrante. I due da alcuni anni costituiscono uno dei più interessanti binomi del teatro pugliese, con Bia a scrivere testi cui l’attore riesce a donare tinte personali e intense. E’ il caso anche di questo spettacolo, che racconta la storia di un borderline di paese, figura a metà fra lo scemo del villaggio e il sottoproletario di un meridione che continua a vivere di espedienti: un disperato senza speranza, che anche quando emigra sbaglia a scendere dal treno, incapace di ogni riscatto credibile e di donarsi un destino possibile.
Lo spettacolo funziona, racconta tutto con pochissimo, una bicicletta, una bottiglia e una sedia, e conferma l’abilità di Ferrante nell’indossare, nello stesso spettacolo, i panni di diversi personaggi, riuscendo a mantenere una credibilità unitaria della texture drammaturgica. Questa drammaturgia di Bia, peraltro, è un’ulteriore crescita rispetto alla sua scrittura per il teatro. Sarebbe bello poter raccontare questi universi di periferia a più voci ed è un peccato che le ristrettezze economiche costringano a messe in scena con sempre meno interpreti, perché Bia è de-scrittore di mondi plurali, di una coralità perduta, tragicomici cori della Magna Grecia, capaci di giocare al limitare fra sorriso e pianto.