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BRUNA MONACO | L’ultimo spettacolo di Ascanio Celestini “Pro patria, senza prigioni, senza processi” vede la Repubblica Romana, la resistenza e la lotta armata a confronto. Ed è in scena al Teatro Palladium di Roma, dal 31 gennaio al 12 febbraio.
Ascanio Celestini è solo in scena, come sempre. Uno sgabello rosso al centro di una pedana di pochi metri quadrati, dei cartelloni chiudono lo spazio dietro di lui. Ma questa volta non interpreta se stesso (come in “Scemo di guerra”) né presta la propria voce a personaggi reali di cui narra la storia (come in “Fabbrica”). Questa volta sul palco c’è un autentico personaggio teatrale o almeno la proiezione di un autentico personaggio teatrale: Celestini è un terrorista, e i pochi metri in cui si muove non sono solo il luogo fisico deputato alla narrazione, ma un luogo teatrale: la cella di un carcere italiano dei nostri giorni.
Da teatro di narrazione a monologo teatrale, eppure l’approccio è pressoché immutato. Un monologo solo nella forma, poi, perché nella realtà scenica il carcerato Celestini dialoga con un fantasma, Giuseppe Mazzini, per mantenere la promessa fatta al padre anni addietro: non cominciare mai a parlare da solo.
Rivolgendosi a Mazzini, Celestini ripercorre la storia della Repubblica Romana dal suo particolare punto di vista, quello di un delinquentello che, a furia di leggere Pisacane, ha aderito alla lotta armata degli anni di piombo. Il filo conduttore di “pro patria, senza prigioni, senza processi”, è la messa a punto di un discorso che il carcerato Celestini vuole tenere ai giudici ma che ascolterà solo un secondino. Un discorso in cui espone la propria teoria sui tre risorgimenti italiani. Il primo è quello che conosciamo tutti, quello del 1848 che troverà nella Repubblica Romana il suo momento di maggiore forza. Dopo quasi un secolo il secondo, la resistenza partigiana al fascismo durante la seconda guerra mondiale. L’ultimo risorgimento italiano, per Celestini, l’hanno fatto i ragazzi degli anni di piombo. Tre risorgimenti, altrettante sconfitte.
Le digressioni sono tante e, come ricami, danno alla tessitura drammaturgica l’aspetto di una trina raffinatissima. Celestini parla di controvertigine, di matti-negri-africani, di Pio XI, Garibaldi, ex rivoluzionari che o muoiono o diventano parlamentari. Della galera come sequestro legalizzato e simbolo nefasto del potere. Dei ladri di mele e della lingua dei carcerati. A un ritmo come sempre incalzante, da mille informazioni al minuto.
Alla realtà storica certificata da nomi e date, si mischiano situazioni e personaggi inventati. Gli interlocutori immaginari aumentano: Wittgenstein, Mameli, il padre morto. E il racconto si adagia in una zona liminare, in cui la realtà si trasfigura in poesia. Il “realismo magico” di Celestini ricorda l’Elsa Morante de “Il mondo salvato dai ragazzini”. Come pure il suo romano poetico e popolare, paragonabile forse solo a quello di Antigone ne “La serata a Colono” il testo teatrale che la Morante ha inserito appunto ne “Il mondo salvato dai ragazzini”. Ma, debiti a parte, la lingua di Celestini è ormai un marchio di fabbrica, che subisce variazioni minime a ogni spettacolo.
Il pubblico invece, quello è cambiato, rinnovato, eterogeneo come di rado a teatro. Onore al merito: il pubblico di Celestini è sempre stato popolare, composto cioè da cittadini normali e non solo da teatrofili e addetti ai lavori. Prima (e forse ancora oggi) quella fetta di pubblico altrimenti estranea al teatro la rubava alle piazze, a suon di spettacoli gratuiti. Il pubblico di queste sere al Palladium è, invece, in gran parte rubato alla tv. E anche questo è un merito non da poco. Se poi gli si parla di abolizioni delle carceri, di bombe contro Napoleone III e di brigatisti come eroi risorgimentali, il merito aumenta. La provocazione è forte, l’operazione interessante: con “pro patria” Celestini inserisce un argomento imprevisto nell’agenda degli spettatori, di norma definita dalla tv.
E proprio in quest’ottica la provocazione diviene leggibile. Perché è chiaro che il paragone tra le bombe contro Luigi Napoleone e l’omicidio di Biagi, è quanto meno discutibile. Ed è vero anche che delle terrorismo rosso si può dire tutto il male del mondo. Però è anche vero che nel grande gioco teatrale che è la repubblica, con le sue dinamiche di rappresentazione-rappresentanza e anonimato, noi cittadini siamo il pubblico: invisibili stiamo a guardare e possiamo solo scegliere da chi farci rappresentare. Con chi immedesimarci. È sulla base di questo principio primordiale del teatro, che Berlusconi ha governato per vent’anni l’Italia. E allora se per giocare a questo gioco, con qualcuno che sta al potere o al contro-potere, bisogna immedesimarsi, ci sarà chi, mettendo da parte tutte le contraddizioni, sceglierà i terroristi. Quantomeno per difetto di personaggi sovversivi. Perché gli altri, quelli al potere, ci rappresentano davvero troppo poco, ci somigliano troppo poco. Hanno il potere, e tutti i giorni ci schiacciano, umiliano. Dicono che con la cultura non si mangia, o che il posto fisso è noioso. Forti dei loro venticinquemila euro al mese.
Insomma, se si eccettuano le elezioni, tutto il resto del tempo, per i cittadini, la repubblica è solo un gioco teatrale. E per gioco tutto è concesso, perfino immedesimarsi con i terroristi. E anche nel teatro, quello vero, tutto è concesso. Non è un saggio di storia “Pro patria”, e Celestini può paragonare il risorgimento alla resistenza e al terrorismo rosso, se riesce a scuoterci dal torpore a cui il potere vorrebbe costringerci.

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