BRUNA MONACO | La fondazione Inda (Istituto Nazionale del Dramma Antico), a un passo dal compiere un secolo di d’età, offre ancora all’accanito e fedele pubblico siracusano, ai turisti e agli amatori, due mesi di teatro classico. Lo scenario è quello splendido del Teatro Greco di Siracusa in cui due tragedie, il Prometeo Incatenato e le Baccanti si alternano tutti i giorni dall’11 maggio al 30 giugno. Tranne i lunedì, in cui è Uccelli, la commedia di Aristofane, ad andare in scena.
Anche la scenografia quest’anno è suggestiva: semplice e imponente, ideata dal vincitore del Pritzker Architecture Prize del 2000, l’inglese Rem Koolhaas. Un enorme disco di legno, a gradinate, uguale per forma e dimensioni all’orchestra, la lambisce obliquamente: i due dischi si guardano come i gusci di una conchiglia aperta che al suo interno, anziché una perla, custodisce lo spettacolo.
Per le Baccanti la scenografia è drammaturgicamente significativa: come in un gioco di specchi, i gradini antichi su cui siede il pubblico del teatro greco di Siracusa si riflettono in questi lignei e moderni pensati da Koolhaas. E fanno eco alle parole famose che Dioniso, fingendo di non essere un dio, pronuncerà nel dialogo con Penteo “io lo vedevo e lui vedeva me”, il momento più meta-teatrale del testo di Euripide, in cui l’autore evoca la relazione fra attore e spettatore, omaggiando il Dioniso cantato dalle baccanti, inventore dell’arte del teatro. Poi la gradinata si apre al centro e un carro carnevalesco che trasporta Dioniso e le sue seguaci esce su un tappeto musicale orientaleggiante che suggerisce il cammino fin qui compiuto dal dio: la Lidia, la Persia e l’Arabia Felice hanno conosciuto le danze e i misteri di Bacco giunto a Tebe, terra natia, per rivelarsi dio agli uomini. La Martha Graham Dance Company è il coro di baccanti. Sono vestite di nero, velate, a lutto un coro muto di prefiche. Dioniso (Maurizio Donadoni), pure coperto di nero da un velo, dà le spalle al pubblico, una maschera sulla nuca, e con voce profonda declama il prologo di Euripide e si presenta. E quando Dioniso (proprio come il dio cristiano) si fa uomo per diffondere il suo culto a Tebe che gli è ostile, Donadoni toglie maschera e velo e ne fa una marionetta che, come un fantasma, aleggia sulla testa del Dioniso-uomo e sulle sue baccanti. Interessante gioco dei contrari: l’uomo manipola il dio e di nuovo richiama simbolicamente al teatro. Calenda tiene fede al testo eppure non lo fa esplodere. La carica omo-erotica e l’effeminatezza che con potenza emergono nell’ultimo dialogo fra Penteo e il dio è qui schiacciata. Lo spettacolo è rispettoso, ma meno viscerale del testo.
Anche l’inizio del Prometeo diretto da Claudio Longhi è molto potente: in abiti irreali, militari oltre il tempo e lo spazio (i costumi sono di Gianluca Sbicca), avanzano Efesto, Kratos e Bia. Due sodati trascinano Prometeo. Gli attori sono bravi, il dialogo è serrato e le musiche, suonate dal vivo, danno un’andatura inquietante, sospesa: una campana scandisce il ritmo, lento, e preannuncia il suono del martello che si abbatterà sulle catene del dio amico degli uomini e odiato dagli dei. Massimo Popolizio, nelle vesti del protagonista, è all’altezza dell’impresa: nel testo eschileo (ma l’attribuzione è dibattuta) la narrazione del mito è preponderante rispetto al conflitto drammatico. Non c’è sangue, né la fanghiglia morale che, nelle altre opere eschilee, raccontano la violenza e la carnalità dell’epoca precedente alla civiltà greca più di questo Prometeo statico, simile a un Cristo che i fedeli vanno a adorare. Rispetto al Prometeo Incatenato è difficile posizionarsi perché è la seconda parte di una trilogia di cui ci mancano l’inizio e la fine. E poi perché è il manifesto di una società nascente, un mito di fondazione. E per questo, forse più di ogni altra opera antica, contestuale al periodo che lo ha generato e difficile da rendere oggi. Che con Prometeo nasca la civiltà anche Longhi lo sostiene, e si serve un’immagine che fa da prologo allo spettacolo: mentre il pubblico cerca posto sul palco c’è un vecchio tornio a pedali e un uomo sporco di terra, dai vestiti stracciati, modella un tocco d’argilla.
Uccelli di Roberta Torre con Mauro Avogadro e Sergio Mancinelli nei ruoli di Pisetero ed Evelpide, è un parziale adattamento della commedia composta nel 414 a.C. da Aristofane che da un lato critica la corruzione della democrazia ateniese, dall’altro mette in ridicolo (e in parte esalta) la volontà di potenza dell’uomo (maschio) che non teme di sfidare neppure il potere degli dei. Come spesso accade alle messe in scena contemporanee di commedie classiche, per attualizzare l’opera o sottolineare come nulla da allora sia cambiato, tanti i riferimenti espliciti alla politica di oggi. E questo, in genere, il pubblico lo gradisce, si sente coinvolto nella vita scenica. Ride, applaude. E, serenamente, dimentica.