ELENA SCOLARI | La regia di Renzo Martinelli riporta all’attualità Lotta di negro e cani, testo del 1979 di Bernard-Marie Koltès, in scena al Teatro i di Milano fino al 12 marzo 2012.

Più che in scena questo spettacolo è “in cantiere”. L’ottima, davvero ottima idea scenografica di Martinelli, padrone di casa del Teatro i di Milano, ha trasformato infatti il teatro in un cantiere. Niente più platea e palco: un vero e proprio ponteggio rettangolare è l’impalcatura sulla quale, ad altezza primo piano, sono collocate le file di poltrone sui quattro lati, gli spettatori vedono quindi la scena sotto di loro, o per meglio dire, la controllano dall’alto.

Siamo in Africa, in un cantiere edile francese, l’ingegnere bianco Cal ha appena ucciso in un dubbio incidente un operaio nero e ha fatto sparire il corpo gettandolo nelle fogne.  Il fratello Alboury viene a reclamarne il cadavere presso il capocantiere Horn, lo vuole restituire alla madre per rappacificare il suo dolore. Ma il morto non c’è e non ricomparirà più.

Questa la fosca ambientazione di un testo disperato, cupissimo, scritto da Koltès in una lingua (è stata scelta la traduzione di Valerio Magrelli, adattata da Francesca Garolla) teatralmente difficile perché insieme colloquiale e antinaturalistica.

L’impianto scenico è forte, il pubblico diventa realmente il guardiano del cantiere, dei fatti e delle parole che vi scorrono, sorveglia, quasi spia la soffocante atmosfera, rimanendo “sollevato” ma non distante. L’allestimento è indubbiamente elemento pregevole e imprescindibile di questa messinscena, aiuta molto un testo plumbeo e privo di speranza che, a nostro parere, è altalenante nella sua resa. Lo spettacolo dura due ore e nella prima metà si avvertono ridondanze e lungaggini che, se non inserite in uno spazio dinamico e originale come quello inventato dal regista, appesantirebbero non poco il lavoro.

Le voci degli attori sono raccolte da microfoni panoramici sparsi sul ponteggio, creando un interessante effetto di eco che dona una sacralità paradossale alla bassezza di ciò che viene detto e che vediamo accadere. Suoni sgraziati e neon lividi accompagnano i movimenti dei personaggi prigionieri di un luogo ostile.

Abbiamo nominato i primi tre personaggi che compaiono in scena: lo sgradevole Cal, il ruolo più difficile, è reso nevroticamente efficace da Rosario Lisma, Alberto Astorri è il duro capocantiere Horn, teso a risolvere razionalmente il “pasticcio”, Alboury è il fratello della vittima, interpretato da Alfie Nze, la cui rigidità è coerente con il tono fiero del suo personaggio. Horn non è però appiattito sulla sua reazione pratica all’incidente, ha anche un lato fragile, quasi tenero: si fa raggiungere in Africa da Léone (Valentina Picello, convincente nel suo stato di stralunata illusione), una delicata commessa parigina che ha mollato il lavoro per seguire e sposare quest’uomo appena conosciuto. L’azzardo non si rivela fortunato e il mazzolin di fiori che Horn, maldestro, cerca più volte di porgerle, finirà nel fango. Come i sentimenti, la giustizia e la pietà calpestati in questa storia cruda e buia.

Obiettiamo a chi ha definito datato il testo di Koltè dicendo che il punto di interesse di Lotta di negro e cani, scritto più di trent’anni fa, non è nel tema del razzismo, pur presente, bensì nel fallimento umano e privato di queste quattro persone, che non riescono a incontrarsi davvero, a capirsi, ad aiutarsi. Alboury il negro non entra in comunicazione con gli altri proprio come non si capiscono gli altri tra di loro, seppur uniti dalla stessa etnia e dalla stessa lingua. Il problema è nella lotta, nel rapporto di continua contrapposizione tra gli uomini, che ormai faticano a fidarsi l‘uno dell’altro.

Ecco perché il capocantiere Horn offre il whisky al fratello nero dicendogli: “Fidati, fidati dell’alcool”.