MaestroMARAT | “Attenda in linea, le passo il maestro”. Mi domando se non ho sbagliato numero per l’intervista. Ma è solo un (non) raro caso di autocertificazione. Altro che cattedre e concorsi sovraffollati. Mi viene in mente Arbasino. Di come a questo mondo si passi da giovane promessa a solito stronzo, per finire venerando maestro. Parabole. Ci vuole niente a teatro. Diciamo che hai più di 60 anni (prima sei adolescente), fai soprattutto cinema ma ti concedi al palcoscenico con un paio di letture estive, tieni il capello un po’ lungo, stringi mani, fai un giro in Rai in dolcevita nero: sei un maestro.
E mo’ che te lo sei guadagnato, te lo tieni stretto. Che il problema di chi si autodefinisce maestro, è che maestro vuol sentirsi chiamare. E la cosa crea qualche imbarazzo. Nel senso: non lo chiamo maestro, gli faccio girare le balle e mi sciorina le due solite banalità su quanto il teatro sia unico ogni sera; o lo chiamo maestro, fingo astuzia e faccio conversazione, con il rischio che il suddetto maestro mi propini insegnamenti? Lascio correre, mugugno, mi attorciglio sugli impersonali per evitare perfino il “lei”.
E poi finisce. In archivio. Che se lo smazzi l’assistente. Tanto a teatro lo si incrocia poco. E quando succede, spesso fa pure rissa. Ma me lo ritrovo davanti per caso in un film di Moretti. Scelta dettata dal bisogno di consolazione di questi giorni. Ascoltare qualcosa di sinistra. O di sinistro. Lo osservo e penso che probabilmente nella vita reale è anche peggio del personaggio che interpreta. Probabile, il maestro.
Che poi è un concetto tutto al maschile, visto che al femminile ti viene subito in mente di quando imparavi l’alfabeto. Anche questo vorrà pur dire qualcosa. Comunque una sola volta mi è venuto da chiamare qualcuno maestro. Quel giorno avevo le mani fredde fredde e la voglia di raccontarlo a tutti. “Buongiorno Monicelli”, riuscii a dire. E meno male. Che altrimenti mi sarei beccato un “Ma va caà, grullo…”.