Solness trifiroRENZO FRANCABANDERA | Raccontiamo qui dell’allestimento con cui Roberto Trifirò fa il suo debutto sul palco del Teatro Filodrammatici di Milano. L’interprete e regista, attivo nel capoluogo lombardo più di frequente nei circuiti dell’Out Off, Franco Parenti e Sala Fontana, presenta in questi giorni una riscrittura drammaturgica originale dal testo Il Costruttore Solness di Henrik Ibsen, un testo dal tratto onirico, che parte da una vicenda di impianto tradizionale per poi aprire uno squarcio interessante e che a ben vedere anticipa moltissimo teatro più recente. La vicenda è quella di Halvard Solness (interpretato dallo stesso Trifirò), architetto arrivato alla fama in età matura ma determinato a mantenerla utilizzando senza scrupolo la creatività dei migliori giovani di bottega, cui nega senza esitazione ogni possiiblità di crescita autonoma. Personalità devastata dalla tragedia della perdita dei piccoli figli, e dalla libido particolarmente accesa, mantiene in piedi, oltre al rapporto coniugale con una moglie che tuttavia mai apparirà, una serie di altre relazioni. Ma una di queste, che riemerge dal passato, arriva a sconvolgere un’esistenza segnata appunto da un’incattivita monotonia.

In realtà la figura della giovane Hilde (Elisabetta Scarano) si presenta come un amore giovanissimo, di dieci anni precedente. La ragazza vive in una sorta di rappresentazione leggendaria dell’uomo, lo spingerà quindi a scelte estreme totalmente distanti da quelle fino ad allora poste in essere, rimettendo in gioco tutto, in una dimensione del narrato che oscilla fra sogno e realtà. La gioventù che scompensa le arroccate certezze della maturità è un topos letterario e teatrale certamente non nuovo neanche ai tempi di Ibsen.

La pièce, interpretata con misura ed elegante compostezza anche da Sonia Burgarello, Angelo De Maco e Luigi Maria Rausa, si ambienta nella casa studio del costruttore. Ritornano qui alcune trovate sceniche già adottate da Trifirò per La confessione di Adamov, testo interpretato alcuni anni fa all’Out Off di Milano, con teli di plastica trasparenti a separare gli ambienti e un gioco luci di finestre affacciate sul nulla che appaiono e scompaiono, e qui riproposte nell’impianto logico (probabilmente in modo del tutto involontario) da Paola Danesi. Sulle luci, Andrea Diana e Tony Zappalà regalano agli ambienti della Danesi, che firma oltre alla scena anche i costumi, particolare efficacia, perché riescono a creare un’atmosfera crepuscolare e opportunamente decadente nella prima parte, e di caldo ritorno alla vita poi. Anche le scelte sui costumi non sono neutre e paiono regalare, soprattutto ai personaggi femminili, una descrizione caratteriale precisa e interessante.

Se in ogni dipinto il pittore si ritrae in qualche modo, anche nella scelta di un’opera teatrale da rappresentare sicuramente esiste una connotazione autobiografica o che descrive un momento della vita. La decisione di Trifirò di portare in scena quest’opera è tutt’altro che banale e con una doppia lettura possibile: una che guarda al nostro tempo, al Paese, e l’altra probabilmente anche alla persona.
Quanto alla vicenda nazionale, al professionista infingardo che soffoca le nuove generazioni sfruttandole per trarne profitto, l’accostamento è talmente lampante da risultare crudamente concreto. Sulla vicenda personale, lungi dal ritenere le possibilità dell’artista arrivate alla decrepita maturità, pensiamo che Trifirò abbia comunque voluto riflettere sull’equità intergenerazionale anche nel mondo dello spettacolo, lanciando un messaggio sulla necessità che nessuno si arrocchi sulle proprie certezze e sui propri possedimenti materiali e immateriali, se non vuole iniziare a puzzare di cadavere prima ancora di esser morto. Ecco dunque che la ribalta dei tre giovani che con lui e De Maco interpretano il Solness, che la regiaguida ad un esito preciso, è una traduzione giusta del pensiero ibseniano.

Non ci sono trovate ad effetto e strani giochi scenici rivoluzionari in questo allestimento. C’è solo teatro d’attore. Onesto artigianato di scena. Nel complesso ben fatto.

 

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