martaVINCENZO SARDELLI | Fa piacere vedere il tradizionale un po’ obsoleto teatro di narrazione rigenerato da una fluida crema antigeriatrica. L’operazione di restyling è riuscita alla pisana Marta Paganelli, che ha portato in scena al teatro I di Milano “Mi chiamo Rachel Corrie”, monologo tratto dagli scritti di Rachel Corrie, volontaria 24enne uccisa il 16 marzo 2003 da un bulldozer israeliano a Gaza. Lo spettacolo ha vinto lo scorso anno, ex aequo con “Il protagonista” di Tec Teatro, la Borsa Teatrale Anna Pancirolli.
Anna Pancirolli, scomparsa nel 2000 a 24 anni, credeva nel teatro come antidoto vitale. Combatteva la propria malattia partecipando a un laboratorio al Crt. L’associazione che porta il suo nome (www.amicidianna.it) è nata per «far diventar realtà i sogni di altri giovani che credono nel teatro come medicina dello spirito».
Anna e Rachel condividevano una forte carica idealista. Credevano nell’arte, nella bellezza, nella possibilità per ciascuno di noi di incidere un poco nel mondo rendendolo un posto migliore. Anna amava il teatro come forma espressiva identificante, come scavo alla ricerca della felicità. Rachel credeva nei diritti civili, nella politica come lotta per bucare il silenzio che ci circonda.
“Mi chiamo Rachel Corrie”, coniuga anima artistica e giudizio civile. Tratto dai diari della giovane pacifista americana, curati nella versione teatrale da Alan Rickman e Katharine Viner, con la traduzione di Monica Capuani e Marta Gilmore, lo spettacolo si serve di simboli cari a Rachel. Felpa e jeans, Marta Paganelli, attrice e regista in scena, si muove con semplicità tra due sedie, una poltrona, uno zaino da viaggio, pagine di diario, una kefiah, davanti a un pannello rosso con appese delle foto. Dalle estemporanee vibrazioni di chitarra eseguite dal vivo da Adriano Russo si materializzano le note, a sprazzi incalzanti, dei Magnetic Fields, gruppo Indie-rock amato da Rachel.
Il monologo si articola in due parti. Nella prima una Paganelli descrittiva, con la sua tagliente dizione “sporcata “di toscano, rievoca la fanciullezza geniale, divorante, schizzata, istericamente disordinata di Rachel. È una giostra psicotica da cui emerge il guazzabuglio d’idee del personaggio che si racconta, il fuoco che le ardeva in pancia, ben reso dagli occhi sgranati e dal ghigno dell’attrice, capace anche di cocenti acuti canori.
Entriamo nel mondo sognante di un’adolescente denti-aguzzi, occhi-a-spillo e speranze; ne esploriamo gli amori, le utopie, con quel po’ d’autoironia che l’attraversava costantemente.
Seconda parte. Lo zaino si riempie di tutto quanto era sparpagliato sul palco, la kefiah viene indossata, il pannello rosso ruota di 180 gradi e diventa una lavagna. Marta-Rachel vi segna con un gessetto a una a una le date cruciali delle ultime settimane di vita: da quel 25 gennaio 2003 quando si unì all’International Solidarity Movement (l’organizzazione finalizzata a “sostenere la resistenza non violenta del popolo palestinese all’occupazione militare israeliana”) al 16 marzo 2003, quando morì schiacciata da un bulldozer israeliano mentre cercava d’impedire la demolizione di abitazioni palestinesi.
Le atmosfere si fanno grigie. È l’incolore della guerra, dei profughi, delle torrette, dell’Intifada contro i carri armati. Sono le sfumature livide dei morti, dei bambini di otto anni così consapevoli degli orrori della vita, degli uomini che vivono l’angoscia costante della distruzione. È il silenzio della voce di Rachel.
Percepiamo in questo spettacolo il senso di una giovane vita e di un benessere strangolati.
Le lacrime di Marta sulla scena sono le lacrime di Rachel, ferita di quanto orrore si riesce a sopportare nel mondo. Rachel sognatrice come Che Guevara. Rachel realista più di Anna Frank nella disincantata riflessione pre-mortem: “Sto mettendo in dubbio la mia fiducia nella natura umana”.
Marta Paganelli si immedesima. Si appropria del testo. Si avvicina fortemente a una credibilità complessiva da autorizzare a pensare che ciò che porta in scena faccia parte del suo mondo interiore.

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