damiano michielettoNICOLA ARRIGONI | Ha trionfato a Salisburgo dove tornerà per dirigere Falstaff di Giuseppe Verdi, è impegnato a Copenaghen nella regia della trilogia pucciniana e a luglio sarà alla Scala con Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi. Damiano Michieletto è uno dei registi teatrali più corteggiati dal mondo della lirica e dai grandi teatri europei eppure rivendica la sua origine teatrale: «Sono impegnato sul fronte lirico, ma nasco come regista di prosa, mi sono formato alla Paolo Grassi e all’inizio della mia carriera ho fatto teatro ragazzi».

Non vuole prendere la buona abitudine del teatro di prosa?

«Se mi è possibile almeno una regia all’anno me la concedo, come è accaduto con Il ventaglio di Goldoni per lo stabile del veneto e il circuito Arteven».

E perché Il ventaglio?

«Perché è una commedia divertente, frizzante, giovane e simbolica».

Simbolica?

«Il protagonista è il ventaglio del titolo, è un oggetto simbolo che ho trasformato in personaggio. E’ l’unica commedia di Goldoni che ha per titolo un oggetto e non un personaggio o un luogo. Vorrà dire pure qualcosa?».

Da qui la sua idea di trasformare il ventaglio del titolo in personaggio?

«Sì, il ventaglio è nel mio allestimento un personaggio in carne ed ossa, che dà voce ai personaggi, all’amore e alla loro cognizione dell’amore. E’ a metà strada fra Eros e Puck del Sogno di una notte di mezza estate. Per dare voce a questo ‘personaggio’ ho usato i sonetti di Shakespeare. Come il ventaglio passa di mano in mano ai vari personaggi nella commedia di Goldoni, così nel mio Ventaglio il personaggio dà la parola ai vari innamorati porgendo loro il microfono, dando loro l’opportunità di raccontarsi, di svelarsi al di là del testo».

Non si rischia di perdere l’unità, il meccanismo del testo goldoniano?

«Questo lo devono dire gli spettatori. La storia raccontata da Goldoni c’è tutta».

Portata in un contesto di forte contemporaneità?

«E dopotutto Il ventaglio per ciò che racconta è una commedia senza tempo, che può essere ambientata nel XVIII secolo come ai giorni nostri».

La sua scelta è per i nostri giorni?

«Il teatro si svolge sempre e comunque nel presente. Ho messo in scena ragazzi di oggi, alle loro spalle c’è un foglio/lavagna in cui Cupido/Puck o il ventaglio scrive, spiega gli intrecci della commedia. Alla fine quel foglio in cui campeggia la parola Amore sarà tutto scritto, mentre i personaggi si presenteranno quasi nudi, come dire svelati nel loro spirito, ma anche resi inermi di fronte al potere d’amore che non guarda in faccia nessuno».

Il suo intervento non è stato solo registico, ma drammaturgico. Quanto influenza il suo modo di fare regia il fatto che per gran parte del tempo lavori nei paesi di lingua tedesca in cui il dramaturg è figura costante in ogni produzione?

«All’estero gli interventi sui testi, anche quelli consacrati dalla tradizione sono all’ordine del giorno. Ma non sempre sono apportatori di chiarezza, o meglio non sempre l’attualizzazione si giustifica».

C’è una prassi che rischia di divenire pretestuosa?

«Non è detto che ciò che accade all’estero sia migliore di quanto accade da noi. Certo c’è la voglia di leggere i linguaggi in una chiave che possa dire del nostro contemporaneo è più forte all’estero che da noi».

Ed è quello che lei ha fatto con Il ventaglio?

«Ho iniziato a fare teatro facendo spettacoli per ragazzi. Il mio obiettivo è fare spettacoli che possano essere fruibili per ragazzi di quindici anni, che attraverso l’uso della musica e dei microfoni, attraverso un approccio contemporaneo aiuti i più giovani a sentire proprio il linguaggio dello spettacolo dal vivo».

E questo vale anche per la lirica?

«Cambiano i tempi produttivi, cambia il linguaggio ma non il mio obiettivo: tenere una narrazione, una storia».

Ed è questo che le chiedono all’estero? Come si spiega il suo successo?

«Non lo considero un successo. La lirica è venuta quasi per caso. Mi hanno proposto un lavoro, è piaciuto e da cosa è nata cosa. Molto semplicemente, mi direi molto naturalmente».

Ma cosa piace delle sue regie?

«Diciamo che all’estero hanno molta considerazione del nostro modo di fare teatro, soprattutto nell’ambito della lirica. Siamo pur sempre il paese che ha dato i natali al melodramma. Credo che ciò che piece delle mie regie è che alla fin fine, per quanto l’allestimento sia lontano da quelli che noi consideriamo i canoni tradizionali, ciò che arriva è la storia, una vicenda che voglio lo spettatore possa vivere e godere dall’aprirsi del sipario agli applausi finali.  Il pubblico, quando si apre il sipario, deve entrare in quella storia, essere partecipe di ciò che accade».

Inutile dire che la lirica è tutto un altro mondo rispetto al teatro di prosa?

«Cambiano i meccanismi e i tempi di produzione. Hai maggiori paletti e soprattutto c’è una complessità che nel teatro drammatico non è sempre possibile incontrare. Si tratta di aspetti importanti ma di caratteristiche organizzative con cui ti scontri all’inizio ma che poi riesci a metabolizzare. Ciò che è importante e avere un’idea, una storia da raccontare, se hai in mente quello non c’è ostacolo, organizzazione, complessità che tengano».

C’è differenza fra il pubblico italiano e quello che trova in Austria o in Germania?

«Il pubblico è la relazione che il teatro, gli attori, il regista riescono a realizzare con la città in cui operano. Per questo in Italia non c’è un pubblico, o meglio ci sono appassionati di teatro, lirica e musica che per una loro predisposizione vengono a teatro. In Germania, come in Austria si lavora in teatri con compagnie stabili che sanno costruire un’estetica, un dialogo con la città. Da noi tutto ciò non esiste».

Insomma da noi è una sorta di miracolo che si vada in scena?

«Il miracolo da noi è il pubblico. Il sistema dello spettacolo dal vivo non fa nulla per il pubblico, se non blandirlo. Chi viene a teatro a vedere la lirica, uno spettacolo di prosa o ad ascoltare un concerto, viene forte dei suoi interessi, è una sua scelta autonoma, libera. Nessuno lo interroga, lo convoca. E’ come un ospite inatteso il pubblico nei teatri italiani».

Non è così all’estero?

«Direi di no. Il teatro è una parte centrale nella vita delle città, la stabilità della compagnia, la possibilità di progettare a lungo termine rendono tutto meno effimero. Non da ultimo i teatri – in Germania soprattutto – sono vere e proprie imprese che danno lavoro a centinaia di persone, sono un tassello non secondario dell’economia della città. Ma soprattutto l’attività teatrale è monto spesso in dialogo con la città, mentre in Italia ciò che fanno gli stabili o le fondazioni liriche coinvolge solo marginalmente la vita dei cittadini se non come proposta di svago».

E il pubblico in tutto ciò?

«Cambia, partecipa, sente il teatro e lo spettacolo non più come un lusso del tempo libero, ma come qualcosa che gli appartiene, sente che ciò che accade in scena lo riguarda da vicino, ha uno stretto legame col suo vivere quotidiano. Da noi non è così. Il pubblico si costruisce solo se il teatro riesce a intessere relazioni con la comunità in cui è inserito».

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