pietrarsa treniALESSANDRO VOLTA | Quali caratteristiche ci aspettiamo da uno spettacolo di teatro contemporaneo? E come si può raccontarne uno che per la maggior parte si svolge in silenzio e con i viaggiatori (così vengono detti gli spettatori) bendati? Come si può scrivere adeguatamente, e in modo analitico, di un’esperienza squisitamente emozionale? Queste le prime domande che salgono alla mente dopo «Centoporte» della compagnia Teatro dei Sensi Rosa Pristina al Napoli Teatro Festival, ospitato nella Sala delle Carrozze, entro la bellissima cornice della stazione di Pietrarsa, quartiere di San Giovanni a Teduccio.
I viaggiatori vengono accompagnati fin dall’inizio attraverso un percorso sensoriale che parte scegliendo una destinazione: vicino, lontano, altrove.
Attraversato un deposito di carrozze di treni, il viaggio prosegue: a tratti con gli occhi bendati da un nastro intriso di profumo alla lavanda, a tratti sotto una luce soffusa dove gli attori (chiamati “abitanti” perché abitano lo spazio scenico) raccontano il loro viaggio cercando di rispondere ad una precisa domanda: «Se dovessi partire per un viaggio fino alla fine del mondo, cosa porteresti con te?». Ogni viaggiatore partecipa in prima persona, condotto delicatamente attraverso profumi, suoni, sensazioni tattili e gustative. In questo viaggio la parola non ha importanza, è un soffio gentile dietro all’orecchio.
Diversamente dalla precedente edizione del Festival – in cui la compagnia presentò il lavoro «Quando eravamo lupi», altrettanto bello spettacolo sensoriale ma per viaggiatori singoli – questa volta il percorso si sviluppa per un gruppo di ventiquattro persone, accomunate per un’ora dallo stesso destino, anche se l’esser divisi in sottogruppi all’interno della carrozza lascia il dubbio che altri possano aver esplorato un cammino differente. Anche per questo è apprezzabile lo spettacolo: ognuno vive la propria esperienza, che sia singolare o di gruppo, come unica. È in questa unicità, nella cura dei dettagli, nell’attenta accoglienza dei viaggiatori, nella delicatezza dei gesti, nella sincronia dei tempi, che lo spettacolo si fa interessante e conquista l’adesione dei viaggiatori.
centoporteI simboli archetipici del buio e del silenzio, connotati negativamente nella nostra coscienza, in questa occasione assumono la funzione di amplificare la percezione, di attivare una dimensione onirica; la metafora del viaggio ha la funzione di portarci lontano e di restituirci alla realtà cambiati, così come si conviene quando s’intraprende un cammino esperienziale.
Raccontata la bellezza di quest’esperienza, resta da chiedersi quali siano le ragioni per cui uno spettatore, al quale è stato raccomandato più volte di depositare ogni oggetto per avere le mani libere, decide di portare con sé il cellulare per scattare delle foto. Forse è solo maleducazione, figlia delle cattive abitudini promosse dalla peggiore televisione, che ammaestra alla legittimità indisponente dei propri capricci; o forse è il sintomo di quella pericolosa ipnosi da tecnologia che rischia di diseducare all’arte e che inibisce il piacere di lasciarsi trasportare in un altrove dove la quotidianità compulsiva smette di scandire la vita.
Riteniamo che il teatro contemporaneo debba rispondere almeno a due esigenze: quella di muovere lo stupore (cioè mostrare qualcosa – anche solo un lembo della rappresentazione – che lo spettatore ancora non conosce); e quella di provocare l’emozione (suscitare il senso di poeticità accessibile ad ognuno), come succede ai bambini di fronte alla sorpresa. Operazione ben riuscita alla regista Susanna Poole e alla compagnia che prende ispirazione per il proprio lavoro dall’incontro fecondo con il Teatro de Los Sentidos di Enrique Vargas.
Un’ultima domanda: come sarà stato il viaggio del bambino che era presente l’altra sera?

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