GIULIA MURONI | Non è forse il buio un’esperienza anonima e per definizione impenetrabile, qualcosa che non è diretto a noi e non può, perciò, riguardarci? Al contrario, il contemporaneo, è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo, qualcosa che, più di ogni luce, si rivolge direttamente e singolarmente a lui. Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo. (AGAMBEN, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo)
Così Agamben, in una lezione introduttiva a Venezia, descrive l’atteggiamento di colui che, nel rapporto conflittuale e quindi vivo con la contemporaneità, è in grado di vedere il buio. L’oscurità cessa di esistere come mero spazio inerte di non-visione per manifestarsi come attività e al contempo capacità di vanificare le luci che lo insidiano. Su questa impronta si situa l’esperienza totale di buio (nonché esperienza di buio totale) architettata da Anna Teresa De Keersmaeker, che abbiamo visto nel suo “Partita 2-sei solo”, in scena al Carignano la scorsa domenica, in occasione del festival Torinodanza.
Il teatro è rimasto immerso per oltre venti minuti nel buio, privato in via del tutto eccezionale della fioca luce dei segnali di emergenza e riempito dal suono della Partita n.2 per violino di Bach e della febbrile attenzione di quasi mille persone. Come per gli scandalosi 4.33 di silenzio di Cage, la radicalità di una tale azione teatrale sembra motivata dalla scelta etica di scandagliare e dissezionare le componenti dell’opera d’arte, così che emerga con semplicità e chiarezza il valore intrinseco di ciascuna di esse. Per questo Gigi Cristoforetti, direttore del Torinodanza, invita il pubblico dapprima a limitarsi ad ascoltare, per poi guardare e soltanto infine fare entrambe le cose. Come per isolare le singole azioni percettive, setacciarle e campionarle in uno stato di bramosa concentrazione. La partita n.2 in re minore eseguita da George Alexander Van Dam sulla scena tetra avvolge lo spazio con un suono maestoso, ricco, drammatico.
Sembra il ritorno ad una scansione matematica, interiore, ripetitiva del tempo musicale, trent’anni dopo la prima pièce della coreografa fiamminga, Violin Phase, sulle note di Steve Reich. D’altronde De Keersmaeker non è nuova allo studio dell’infinito ventaglio di combinazioni danza-musica. Se En atendant osava un ardito confronto con una complessa polifonia del XIV secolo, Ars Subtilior, il successivo Cesena ha lavorato sull’abbattimento del confine tra danzatori e musicisti, costruendo una musica con le sole voci dei performer. Quella stessa atmosfera rarefatta, dilatata, interrotta da lunghi momenti di fermo immagine si ritrova anche in “Partita 2”, laddove erano i 19 performers ad arrestarsi in un attimo sospeso, qui è il flusso immaginifico del violino nel buio, sono i passi modulati dal gioco di riflessi distorti del duo, il denso effetto dello spostamento reciproco, fra peso e contrappeso.
La regia misura geometricamente lo spazio scenico in ordinate e ascisse, dalle quali scaturiscono gli incontri dei due vettori De Keersmaeker e Charmatz. Il centro dello spettacolo, in totale silenzio, è intessuto dalle trame dei loro incontri dinamici, di una danza come gioco serioso, serio ludere, fatta di corse e rincorse, salti e gesti. L’intensità gestuale e la presenza esperta della coreografa accompagnano e talvolta guidano il giovane partner fino all’atto finale in cui si ricompongono tutti gli elementi. È una ricostruzione perché il movimento si mostra perfettamente cadenzato sui contrappunti e sulla corposa armonia di Bach, il suono e il movimento si combinano in un quadro rigorosissimo e essenziale. Qui trova l’apice emotivo uno spettacolo che, senza sbavature, ha la sua forza nell’aver orchestrato senza alcun timore reverenziale la celebre musica di Bach con una danza affascinante, benché priva di enfasi espressionistiche.
In quel magico momento di condivisione di senso, elevato al quadrato dalla forza di un’oscurità fuori dall’ordinario, l’esperienza sensoriale ha acuito i sensi, li ha resi affamati di cogliere la sottile vibrazione presente, in modo sempre diverso, in ciascun momento dello spettacolo. Anna De Keersmaker voleva questo? Scalfire la razionalità analitica, giudicante, verso un ascolto profondo, libero, in tensione verso la misteriosa complessità degli elementi semplici? Il paradosso si trasforma in quesito insolubile. Può il buio rischiarare l’abisso?
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