MARIA PIA MONTEDURO | La classe citata nel titolo dello spettacolo di cui vogliamo parlare è una V elementare, la V C, i cui alunni sono tra i 1910 morti nel disastro della frana del Monte Toc (contrazione del friulano “patoc”, che significa marcio). Quando, alle 22.39 di quel fatale mercoledì 9 ottobre 1963…
Continua l’interessante rassegna, giunta al XX anno, de “Le vie dei Festival”, che si svolge quasi interamente al Teatro Vascello di Roma. Maurizio Donadoni, in collaborazione con Associazione Culturale Tina Merlin di Belluno, il Teatro di Castalia e l’Associazione Samizdat & Company, porta in scena “Memoria di classe”, spettacolo di teatro civile, una ricostruzione dettagliata e precisa del disastro del Vajont, di cui, come noto, in ottobre, si è ricordato il cinquantenario (9 ottobre 1963). La classe citata nel titolo è una V elementare, la VC, i cui alunni sono tra i 1910 morti nel disastro della frana del Monte Toc (contrazione del friulano “patoc”, che significa marcio), evento luttuoso che per Donadoni sancisce una sorta di spartiacque (si perdoni il gioco di parole) nelle vicende dell’Italia Repubblicana.
Lo spettacolo è strutturato a mo’ di lettura scenica animata, con Donadoni che coordina e legge, insieme agli studenti dell’Istituto Galileo Galilei di Belluno, le parole realmente collegate alla vicenda. Non c’è nulla d’inventato, di artisticamente prodotto: ogni parola, ogni termine, ogni messaggio, ogni dato è tratto dai verbali degli infiniti processi, da testimonianze dei pochissimi sopravissuti alla sciagura del Vajont. Forse è macabro ricordare che Vajont è il nome del torrente che in lingua ladina significa “vien giù”…
La mise en scène, in una scenografia che utilizza solo banchi di scuola, evidenzia senza sconti, senza cortesie di sorta, senza timori reverenziali (perché è giusto che sia così!) come la sciagura potesse e dovesse essere evitata. Quando, alle 22.39 di quel fatale mercoledì 9 ottobre 1963, 260 milioni di metri cubi di montagna precipitano nel lago a 100 km l’ora, molti già sapevano che qualcosa di simile, forse di meno tragico, potesse accadere. Erano anni che gli abitanti della zona denunciavano frane, sommovimenti, lugubri boati provenienti dalla montagna e in questo erano spalleggiati e aiutati dagli scomodi articoli sull’Unità della giornalista Tina Merlin, che fu anche processata (e successivamente assolta) dal Tribunale di Milano per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. La stessa Merlin, il giorno dopo il disastro, dirà: “Oggi tuttavia non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa”. Lo spettacolo di Donadoni vuole far imparare qualcosa: che non si può creare sviluppo e progresso snaturando l’ambiente naturale, che i responsabili devono controllare ogni azione da loro dipendente, e che invece spesso delegano tale controllo a incompetenti. Una tragedia che è il risultato di troppe concause: oltre a quelle naturali (la struttura del terreno) si presenta un cocktail impressionante di totale superficialità, impressionante pressapochismo, pericoloso menefreghismo, delirio di onnipotenza, puro interesse economico, paurose connivenze, devastanti silenzi, squallide omissioni. Risultato 1910 morti, la metà delle vittime polverizzata, di loro non si troverà nulla. La potenza con cui l’acqua si riversa sui piccoli paesi della Valle del Piave – il doppio dell’esplosione della bomba di Hiroshima – spazza via anche illusioni, fiducia nelle istituzioni, voglia di vivere in una comunità corretta e solidale.
Il collettivo narrante espone perciò con forze e determinazione la propria condanna per l’operato della società idroelettrica Sade, proprietaria dell’impianto prima che venisse acquistata dall’ENEL – da “delitto privato” si passa quindi a “delitto pubblico” – criticando duramente e senza mezzi termini, ripristinando a pieno regime la funzione civile, etica e sociale del teatro. La piccola comunità di giovani attori (tutti al loro debutto sul palcoscenico) riflette su problematiche locali e generali, individuali e globali, ponendo alla comunità degli spettatori risposte a interrogativi forse inespressi, ma profondamente radicati nella coscienza di chiunque voglia sentirsi cittadino e non suddito. E se a volte i ragazzi leggono ed espongono qualche frase con la voce non perfettamente impostata poco importa: il rito civile del teatro è stato rispettato e celebrato.
Per saperne di più:
www.leviedeifestival.com
www.dentroilvajont.focus.it/
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