UID52A9C4935B319_1ELENA SCOLARI | Una badante albanese può aver capito come muoversi nella crisi economica meglio di un industriale e della sua ricca e vacua moglie? Stando a quanto vediamo in “Italia anni dieci” – nuova produzione di Atir, testo di Edoardo Erba e regia di Serena Sinigaglia – parrebbe di sì.

Illustriamo la compagine in scena: sette personaggi (troppi) si agitano in vite piuttosto insulse pesantemente influenzate dalla crisi. Una madre proletaria, apprensiva e intontita dalla TV (la sempre brava Beatrice Schiros) litiga con la figlia malvestita (Sandra Zoccolan, che insiste troppo in un registro recitativo “gggiovane”) che osa licenziarsi da un impiego-schiavitù – probabilmente in un call center, toh! – la madre si fa sfruttare da un alquanto improbabile e giovane fidanzato artista, il quale finirà poi per mettersi con la ragazza passando il tempo ad okkupare luoghi; un insegnante di salsa tamarro se la fa con la badante albanese sua allieva che pretende però di essere pagata per la prestazione; un imprenditore che non ha il coraggio di dichiarare il fallimento alla moglie Titti – troppo chic per reggere lo choc – e  che scapperà ai Caraibi dopo una sbornia scopereccia (consumata con la madre di cui sopra) e farà pure una brutta fine per via di un uragano.

Ci sono eccessi poco credibili che risultano “overcoming” e invece di sostenere il dramma lo indeboliscono. Citiamo la madre-Schiros che addirittura sacrifica gli ultimi 50.000€ dell’eredità paterna per pagare il debito della ditta (quella in fallimento, of course) che ha assunto la figlia grazie alla raccomandazione di Titti. A metà tra Cuore e Père Goriot.

Mentre avvengono questi fatti lo spettacolo comincia a fare, solo letteralmente, acqua da tutte la parti: piove dal graticcio e gli attori piazzano secchi a raccogliere il disfacimento sempre più dirotto. Non male questa idea registica, così come altre soluzioni ben pensate da Sinigaglia, che si trova a suo agio con i gruppi numerosi e li muove sempre bene, sebbene senza rinnovare uno stile che le è ormai congeniale (le panche ai lati della scena dove restano visibili gli attori inoperosi si sono viste spesso). Il testo però la supporta solo a tratti: questi sette personaggi sono in cerca d’identità e non la trovano, ma non solo perché l’autore li vuole deliberatamente persi in esistenze scardinate ma perché, con le belle eccezioni della donna supergriffata (una Maria Pilar Pérez Aspa molto maturata) e della badante, sono superficiali, dicono cose irrimediabilmente banali. Nella parte centrale ci si annoia anche un po’ perché le fila narrative tendono ad allentarsi.

Mentre l’acqua si accumula si comincia a temere l’effetto Caos – Quelli di Grock, ché l’acqua a teatro fa sempre il suo marcio effetto. Stefano Orlandi è l’imprenditore al collasso, e sarebbe stato bello avvertirne davvero la profonda disperazione, invece rimane smarrito dall’inizio ma non ci viene spiegato altro, il personaggio ha però la fine scenicamente più bella e più significativa: con la sua 24ore-zavorra soccombe all’uragano caraibico che arriva a secchiate violente gettate dal maestro di salsa.

La fine più accorta è invece della badante albanese, spiccia e disinvolta, che con sana umiltà e pratico buon senso avrà messo via abbastanza soldi per aprire un banco di frutta in società con altri immigrati.

Una menzione speciale va allo splendido monologo della moglie abituata al lusso e travolta dal disastro finanziario, Pérez Aspa fa davvero brillare il dolore ridicolo di una donna che vive di trastulli deluxe ed è confortata dal rossetto Chanel con quelle due bellissime C lucide che si incontrano e che cade in depressione al pensiero di una tuta Tezenis.

La scenografia intorno a queste persone dalle vite incrinate è quella della palestra di danza, specchi compresi, l’effetto complessivo è sdrucito e un po’ povero, stesso ambiente per personaggi con caratteristiche molto diverse, anche per i costumi l’unica che si distingue è la moglie dell’industriale. Il piano luci è neutro, illumina una situazione, senza sottolineare nulla in particolare.

Una scelta più evidente e ammiccante è invece quella delle musiche: dai successoni di Baglioni e Modugno che accolgono il pubblico in sala fino al Mambo italiano finale di tutti i magnifici sette dancing in the rain.  Ḕ il coronamento di uno spettacolo pieno di buoni spunti, che conferma la capacità indubbia della regista di incastrare gli intrecci narrativi con intelligenza ma che soffre di bulimia tematica: sette portate a cena sono davvero troppe.

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