brieVINCENZO SARDELLI | Non si smentisce, César Brie. Che presenta, attraverso la metafora del teatro, aspetti drammatici della vita in termini sfumati. Brie sospende il giudizio. Non impone un punto di vista. Piuttosto interroga lo spettatore, in uno scandaglio psicologico e spirituale.

È l’oggettività dei sentimenti. È un teatro dove si rimarca il potere dell’emozione sull’ideologia. Attori e spettatori partecipano a un rito. Esaminano se stessi, alla ricerca di una verità che riconosca le ragioni altrui, senza dogmatismo.

Sarà per questo che Brie tende ad affidarsi ad attori giovani, quelli della compagnia Teatro Presente, con cui ha proposto in successione, al Campo Teatrale di Milano, Orfeo ed Euridice e La Mite. Come se cercasse un codice comunicativo primordiale, oltre ogni sovrastruttura.

In entrambe le opere il tema è la morte, correlata a libertà e amore.

Orfeo ed Euridice intreccia mito e attualità, con riferimento all’eutanasia. Sono passati cinque anni dalla scomparsa di Eluana Englaro, e in Italia manca ancora una legge sul testamento biologico. Anche il cinema si è occupato della questione, prima con Bella addormentata di Bellocchio, poi con Miele di Valeria Golino.

Come Orfeo con la forza del canto prova a liberare Euridice dal Regno dei Morti, così in questa storia Giacomo (Giacomo Ferraù) prova a proteggere Giulia (Giulia Viana) dall’inferno di un incidente stradale che la inchioda a una vita senza nerbo.

Lo stile cinematografico della pièce introdotta da un Caronte siciliano, con la scena tagliata da un fascio di luce, si dispiega attraverso un flashback iniziale. Ecco l’incontro tra un ragazzo e una ragazza, il corteggiamento, le paure. Sogni, flashforward, il riconoscersi. L’amore, cresciuto al ralenti. Le promesse. I dialoghi al buio, delicati e dosati. La naturalezza dei piccoli gesti. Gli abbracci, i respiri. La luce, che blocca a più riprese il racconto in un fermo fotografico surreale, a immortalare una gioia effimera di fronte alla tragedia che incombe, di cui non perdiamo mai il senso. Fantasie e incubi, fino all’incrocio con la morte.

Il montaggio in parallelo enuclea varie situazioni. Confonde passato, presente e futuro. Contamina ricordi e speranze, timori, rimpianti e angosce. L’accudimento, la casa dei risvegli. L’attenzione a piccoli segni di ripresa, un alluce che si muove, un occhio che si apre. Il parere del medico, la routine del fisioterapista, la sentenza del giudice. Le crisi di coscienza, tra miraggi e delusioni. La meraviglia. La stanchezza. E il dubbio. Se porre fine a un’esistenza dimezzata. Se restare inerti di fronte a una vita-non vita che illanguidisce, illanguidendo a propria volta.

Qui la malattia è dramma, non bandiera. Su tutto c’è l’amore: oltre le illusioni e i crolli, i capelli che imbiancano, le decisioni laceranti. Regia essenziale, recitazione leggera e toccante. Nessun eccesso: basta la drammaturgia degli sguardi a inumidire gli occhi del pubblico.

Meno evocativa La Mite, tratta da Dostoevskij. Qui, a scanso di equivoci, la morte ci è sbattuta davanti, attraverso una bambola-mummia (di Tiziano Fario) che aleggia tra i due protagonisti. La Mite (in scena, intensissimi, Clelia Cicero e Daniele Cavone Felicioni) è la vicenda di un usuraio quarantenne che cerca di spiegarsi il suicidio della giovane moglie.

Anche qui, in flashback, un legame sentimentale che si sfilaccia inesorabile. L’originale di Dostoevskij marcava la freddezza e grettezza di lui, la fragilità e i tormenti di lei. Qui tutto è rarefatto, meno plateale.

Il racconto del protagonista, tra senso di colpa e desiderio di assolversi, diventa dialogo interiore a due voci. Lui cerca di razionalizzare. Anche qui c’è il rewind di un amore mancato. Ma non c’è nostalgia di momenti piacevoli in lui, solo l’angosciante discernimento della propria inadeguatezza, che ha scatenato la tragedia. Lei, timida e introversa, aiuta lui a riorganizzare pensieri e memorie. Ogni tanto rettifica. Quando tace, quel silenzio incrudelisce sulle ferite di lui.

Uno spettacolo più fisico: contrasti, teste che si strofinano, braccia che si serrano, s’aggrappano, si lasciano cadere. Come in Indolore o Viva l’Italia (stesse musiche soffuse – di Pietro Traldi – capaci di contrappunto drammaturgico, stesse luci venate) pochi oggetti scenici (di Roberto Spinacci, costumi di Elisa Alberghi) creano gli spazi dell’azione. Un tavolo è mensa, ma in verticale diventa porta, davanzale. Capovolto, diventa casa.

Nella Mite c’è il rimpianto di un uomo per un paradiso che era nell’anima. C’è l’amarezza di una donna per l’incapacità di superare il disprezzo, di dissipare l’inverno esistenziale.

Uno spettacolo in bilico tra male e bene, colpa e pietà, con l’insostenibile incapacità d’amare. E però qui la scelta di non schierarsi lascia allo spettatore un vuoto irrisolto, uno smarrimento troppo forte per soluzioni persuasive.

Non resta che naufragare nei pensieri. E, nel dubbio, sospendere il giudizio su quest’opera. Anche noi, alla maniera di Brie.

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